“Io
sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;
chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?” (Gv 11,1-45).
Oggi,
ultima tappa del nostro percorso di conversione quaresimale (tra 15 giorni
saremo insieme al Cristo risorto, vincitore della morte), il vangelo ci
parla di morte, di vita, di amicizia, di commozione, di tristezza, di dolore,
di “silenzio di Dio” di fronte alle nostre tragedie.
Giovanni
descrive, come al solito con grande ricchezza di particolari, quanto è successo
in Betania, a Marta, Maria, Lazzaro, amici di Gesù. Un testo chiaro,
comprensibile, che offre via via anche la spiegazione di quello che Gesù fa e
dice.
Accennavo
alla “conversione”. Non possiamo parlare di autentica conversione se non andiamo
alla radice, se non rivediamo il nostro modo di pensare, le nostre convinzioni,
il nostro modo di porci di fronte alle realtà ultime dell’umana esistenza.
C’è
un’altra morte, decisamente meno esteriore, meno visivamente percepibile, meno concretamente
rilevabile, rispetto a quella corporale, ma altrettanto, e forse più,
traumatica: una morte che paralizza l’anima, che la debilita, che vanifica in
noi ogni slancio di vita; una grande ubriacatura di mondo, di “attuale”, di
falsa libertà, di egoismo, di divertimento, che ci allontana sempre più da Dio;
una disaffezione nei suoi confronti, che ci porta a disertare le chiese, a
perdere ogni desiderio di “stare” con Lui, a preferirgli il piacere compulsivo dei
sensi, del possedere sempre più ricchezze, onori, fama, dell’ottenere ogni cosa
“ora e subito”.
Quando
poi rientriamo in noi stessi, più che pentirci dei nostri tradimenti, ci
sentiamo offesi, dimenticati da Dio; e con lo stesso tono del rimprovero di
Marta gli gridiamo: “se tu fossi stato qui con me, la mia anima non sarebbe
morta!”: un’espressione di rabbia per un Dio ritenuto assente, per un Cristo che
non ci ha soccorso in tempo debito.
Quanta
prosopopea, quanta ignoranza mettiamo nelle nostre insulse recriminazioni! A quale
cecità ci spinge la nostra ingratitudine! Abbiamo calpestato il suo Vangelo,
abbiamo ignorato il suo amore, non abbiamo ascoltato la sua Parola, con cui continuava
a ripeterci: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me non morirà
in eterno”. Nel nostro delirio di onnipotenza, di perdizione, di
superficialità, accusiamo Dio di averci abbandonato; gli lanciamo quasi una
sfida assurda, condizionando il nostro ritorno a Lui, la nostra “conversione”
ad un suo incondizionato e “tangibile” intervento: vogliamo, come davanti al
sepolcro di Lazzaro, vederlo piangere per noi, vogliamo sentirlo dire: “togliete
quella pietra che lo rinchiude”, vogliamo sentirlo gridare: “vieni fuori
dal tuo sepolcro!”.
È vero: Gesù davanti alla morte di Lazzaro si commuove,
piange, si unisce al dolore e al lutto delle sorelle. Egli non può accettare
tanto dolore e disperazione per la scomparsa dell’amico e compie il miracolo
della risurrezione. Poteva dire a Marta ed a Maria: “Non piangete. Ritroverete
vostro fratello nella vita eterna”. Invece no. Lui che aveva il potere di
farlo, lo risuscita.
Certo,
con lui al nostro fianco che agisce per noi, sarebbe tutto troppo facile. Ma anche
in questo caso sarebbe “più facile” solo nella misura in cui noi rispondiamo
alla sua domanda iniziale: “Credi questo?”. Quindi nessun diritto, come
vorremmo, nessuna pretesa, nessun merito vantato; ma solo fede, tanta fede.
Tutto il resto è stupida ebbrezza di personalismo.
La
risurrezione di Lazzaro è un segnale forte per la nostra fede e per la nostra
speranza. È un segnale programmatico. Anche noi risorgeremo, sicuramente. La
vita che viviamo è un rapido passaggio, la nostra stessa morte non è
definitiva, essendo tutti destinati ad una vita intramontabile, ad una vita
eterna. Nella Pasqua ormai imminente celebriamo Gesù che risorge dalla morte e
ci apre il passaggio a questa visione di eternità. Anche noi risorgeremo e
saremo immortali, in seno al Padre, nel tripudio dell’amore.
Ecco
perché non dobbiamo guardare alla morte, in tutta la sua tragicità, come
all’unico motivo della nostra angoscia, del nostro pianto, delle nostre
preoccupazioni, della nostra commozione. Gesù non si è commosso soltanto di
fronte alla morte di un amico. Si è commosso anche per le folle che non avevano
da mangiare: ed ha moltiplicato i pani ed i pesci. Si è commosso di fronte ai
lebbrosi, ai paralitici, ai ciechi, ai sordi, agli zoppi, agli indemoniati: e
li ha guariti. Si è commosso davanti alla donna adultera che stava per essere
lapidata: e l’ha salvata. La morte fisica è pertanto soltanto il simbolo di
numerose altre morti altrettanto dolorose che incombono anche oggi sull’uomo.
Il vangelo
di oggi oltre che riproporci una situazione di morte, ci spalanca una visione
di vita: è un inno alla vita, perché la vita è più forte di tutto, anche della
morte, perché la vita vuol vivere, vuole esprimersi, vuole espandersi, non si
rassegna mai, non si dà mai per vinta. Quando tutto sembra finito, la vita ci
crede ancora; quando tutto sembra esaurito o morto, la vita è capace di rinascere
e di sbocciare nei modi più incredibili e inaspettati.
Ecco perché a tutti i “Lazzari”, a
tutte le vittime dell’ignoranza, della violenza, dell’odio, del peccato, dell’egoismo,
Gesù dice: “Uscite fuori”. Cioè: “Non siate passivi, indifferenti, non
permettete a nessuno di farvi morire dentro, di costringervi a vivere in un sepolcro,
in cui la vostra anima e la vostra vita finiscono per marcire. Non vi
accartocciate in voi stessi, nelle vostre insicurezze, nei vostri fallimenti
umani. Liberatevene, Venite fuori. Abbiate il coraggio e la forza di sottrarvi
al vostro lento morire quotidiano, alla vostra rinuncia graduale ma
inarrestabile che porta alla morte. Venite fuori... seguite me, perché io sono
la Vita!”.
Di fronte a tanto amore, a tanta
sollecitudine, dobbiamo avere il coraggio di non nasconderci dietro ad una “pietra”: se abbiamo sbagliato, riconosciamolo francamente, cambiamo
rotta, modifichiamo i nostri atteggiamenti; se c’è qualcosa da portare a galla,
facciamolo, con fiducia, senza paura, senza sentirci delle schifezze o essere
distrutti dalla vergogna. Amare non è non sbagliare mai, essere sempre al massimo,
sempre irreprensibili, senza ombre di morte nei nostri cuori; amare è
accorgersi, riconoscere che certe nostre soluzioni, che certe nostre scelte non
portano vita, ma solo morte. E
“venirne fuori”. Amen.
Gesù rispose loro: «Se
foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il
vostro peccato rimane» (Gv 9,1-41).
Un
vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo di Giovanni che, con la figura
di Gesù, pone in primo piano molti personaggi: i discepoli, i farisei, i
genitori del cieco, gli amici che lo conoscevano; un vangelo di luce e di tenebre,
di chi vede e di chi non vede perché non vuol vedere; un vangelo in cui
Giovanni si diverte a dipingere con grande ricchezza di particolari, tra cui l’ottusità
dei farisei e soprattutto la loro disonestà mentale.
Tutto
ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un
tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai
farisei, i sapientoni interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i
protagonisti sono molto attenti, si interessano di ogni cosa, di ogni
particolare, tutti vogliono dire la loro sull’accaduto; ma nessuno, tranne
Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue difficoltà, della sua vita, dei suoi
problemi, delle sue esigenze: a nessuno insomma interessa la persona del cieco:
tutti lo guardavano da sempre, ma nessuno lo ha mai “visto”, nessuno si è mai “accorto”
di lui; sono tutti preoccupati di loro stessi, di difendere le loro
convinzioni, i loro pregiudizi.
Prendiamo
per primi i discepoli: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Ecco, questo è
il problema dei discepoli: stabilire chi è il colpevole della cecità dell’uomo,
individuare l’errore, chi ha sbagliato. Vogliono un colpevole, una causa prima,
un responsabile: e in ogni caso non vogliono essere coinvolti personalmente
nelle sue vicissitudini: “È colpa sua, noi non c’entriamo, non ci riguarda, non
dobbiamo fare niente per lui”.
È una
mentalità molto diffusa; anche oggi, è sufficiente vedere come ci poniamo di
fronte ai fatti di cronaca quotidiana, come corruzioni, truffe, sporcizia,
delinquenza; genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori,
criminalità minorile in aumento esponenziale; l’unica nostra preoccupazione è
quella di scaricare la colpa su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo.
Trovatolo, ci buttiamo tutto alle spalle, ci sentiamo più tranquilli, con la
coscienza a posto. Individuare invece i motivi, le ragioni scatenanti di questi
mali della società, cercare di porvi rimedio con i mezzi a nostra disposizione,
non ci riguarda, sono cose che non ci competono. Ma, è giusto comportarci così?
Passiamo
poi agli amici, ai conoscenti del cieco che, di fronte alla sua guarigione, alcuni
dicono: “Sì, è lui, è proprio quello che era cieco”; altri: “no, non può essere
lui, semplicemente gli assomiglia”. Rappresentano un po' quelle persone per le
quali nessuno può cambiare: magari dicono di amarci, ma in realtà non accettano
la possibilità che noi miglioriamo, che diventiamo “altri”, soprattutto se il
nostro cambiamento altera in qualche modo il rapporto esistente con loro. “Era
cieco ed ora ci vede? Non può essere!” Per loro nessun cambiamento è possibile:
ci hanno etichettato in un certo modo; sono loro che hanno stabilito chi siamo
o non siamo, cosa possiamo fare o non fare, cosa possiamo dire, cosa tacere.
Prendiamo
poi i genitori: chiamati a testimoniare, hanno paura, cercano di non
compromettersi, di non sbilanciarsi: finire “scomunicati” dalla sinagoga, a
quel tempo, significava morire socialmente; e allora: “È abbastanza grande, chiedetelo
a lui; è lui che può raccontarvi ciò che gli è successo, che c’entriamo noi? È
un problema suo!”.
Per un
figlio non c’è peggior tradimento che constatare questo disinteresse, questo
abbandono, per paura del giudizio della gente, da parte dei genitori, da parte
delle persone più care, di coloro dei quali si fidava ciecamente. Oppure,
peggio ancora, sentirsi calunniato, svergognato, rifiutato, da chi invece doveva
difenderlo, proteggerlo.
È una situazione
fin troppo comune: il figlio, sentendosi solo, abbandonato, tradito da genitori
che pensano più a loro stessi, al loro tornaconto che a lui, talvolta può
ricorrere a comportamenti estremi, tragici.
Prendiamo
ancora i farisei: che in questo caso fanno una ben misera figura, dimostrano
tutta la loro ridicolaggine. Di fronte all’evidenza di una guarigione, negano: “Non
può essere, noi sappiamo come stanno le cose, siamo figli di Mosè: quell’uomo,
che di sabato ha sputato per terra ed ha impastato la polvere con la saliva, andando
contro la legge, non può operare miracoli in nome di Dio, è soltanto un
peccatore: come può pretendere di imbrogliare anche noi?”. I farisei si
barricano dietro alla legge, alle regole, perché hanno paura di ammettere che
le cose sono diverse da come essi le vedono: sono cambiate. Sono terrorizzati
dalla prospettiva di dover anch’essi cambiare atteggiamento, di cambiare il
loro cuore. Sono maturati altri tempi, ma per essi è impossibile: piuttosto che
cambiare idea, preferiscono negare la realtà. Sono troppo preoccupati per la
loro figura di autentici discepoli di Mosè; piuttosto che ammettere l’evidenza,
preferiscono difendere la loro posizione, la loro fama, il loro apparire.
Esattamente
come loro, sono tutti quelli che negano l’evidenza: è sufficiente che la verità
si discosti dalle loro convinzioni, che essi, per principio, non la vogliono ammettere,
non l’accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza
del lato negativo che c’è in loro, dovrebbero essere disponibili a rivedere i
loro giudizi, le loro rabbie, le loro paure, i loro attaccamenti; ma
preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere tutto. Anche per loro, come per
i farisei, “ammettere” significa dover “cambiare” la loro mentalità: meglio
quindi non vedere, ignorare volutamente qualsiasi novità.
Infine,
prendiamo la persona di Gesù. Egli non deve difendere il suo operato di fronte
a nessuno: egli è libero. Libero come Colui che accetta di passare per incapace,
di essere deriso, rifiutato, umiliato, percosso, pur di difendere la Verità, il
Suo essere. Gesù non deve salvarsi la faccia, non deve preoccuparsi di cosa
pensano gli altri, di cosa diranno. Anche in questo caso è Lui che si preoccupa
dell’altro. Lui soltanto lo “vede”, lo scorge, capisce il suo problema. Tutti
gli altri, preoccupati dei loro problemi, non possono occuparsi di nessun altro.
Solo
imitando Gesù, anche noi potremo essere veramente liberi; solo allora potremo guardare
positivamente il nostro prossimo, riservargli la nostra attenzione. È infatti la
fiducia che riponiamo nelle persone, è il nostro amore, che le fa cambiare; non
il giudizio, non le accuse, non il disprezzo per le loro debolezze, per i loro
lati negativi.
C’è una
frase che in particolare ci deve far riflettere: “Se foste ciechi, non
avreste alcun peccato; siccome però voi dite: Noi ci vediamo, il vostro peccato
rimane”.
Cosa
significa? Il Signore in pratica ci dice che quanti si trovano nella
impossibilità di “vedere”, di giudicare ciò che è bene e ciò che è male, non
commettono peccato: il vero peccato, al contrario, lo commette chi “non vuol
vedere”, chi rifiuta per principio ogni correzione, ogni messaggio di salvezza.
Significa quindi che il peccato comune a tante persone è quello di essere “convinte
di vedere”, di sentirsi cioè le uniche titolari della Verità; persone che si propongono come esempio da seguire, persone
che credono di conoscere Dio, di sapere cosa gli altri devono fare per
seguirlo; gente che è convinta di essere ottime persone, bravi genitori, bravi
cristiani, bravi preti, bravi cittadini. Persone convinte di non aver alcun
bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione, ritenendosi
giuste, in regola, uniche depositarie della verità.
Una gran
brutta cosa! Gesù a quelli che si ostinano a rimanere ad
ogni costo nella loro cecità, continua a ripetere: “Il vostro dramma è che siete
voi a voler vivere nell’oscurità, nel buio più totale; ciò nonostante, non
esitate a proporvi come guide esperte per gli altri”. Ma ciò è impossibile:
“può forse un cieco guidare un altro cieco?”. Troppi uomini, purtroppo, pur con
una grossa trave nei loro occhi, si sentono autorizzati a criticare “la
pagliuzza” nell’occhio del prossimo.
Chiariamoci bene le idee: vedere
la luce, avere occhi aperti, che vedono bene, significa una sola cosa:
“conversione”; significa cioè diventare “figli della luce”, quelli che “vedono”
dove camminano, che si rendono conto di avere dei doveri, che non dormono sulle
proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i “figli delle
tenebre”, sono quelli che preferiscono vivere nell’oscurità, nel rifiuto di
Dio, nel peccato, nella notte dell’ignoranza. Il grande peccato, l’unico, è pertanto
rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi” per principio, ad ogni costo,
per paura.
La grande domanda che Gesù ci
rivolge, quella più impegnativa, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei disposto
ad accettare ciò che vedrai”? In altre parole: “Vuoi conoscermi
veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità di seguirmi? Sei
disposto a cambiare l’idea falsa che ti sei fatto di Dio, di me, della mia
Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee, alle tue errate
convinzioni, alla tua fede personalizzata, alla tua vita ottenebrata?”. Se
amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, l’amore, non possiamo che
rispondere “si”.
Accogliamo allora la sfida del
mondo, di quelli che ignorano Dio, di quelli che non lo “vedono” perché non lo
vogliono vedere: indichiamo loro, coraggiosamente, la strada della Luce;
mettiamoli di fronte alla misericordia di Dio, al Suo amore; e preghiamo.
Preghiamo umilmente perché, come
ha fatto con noi, Gesù tocchi anche i loro occhi e i loro cuori, e li guarisca,
come solo Lui sa fare.
“Dio”, in sanscrito, vuol dire
“luce”: solo chi vive in Lui, potrà sperimentare la calda luminosità della sua
Luce, la gioia infinita del suo Amore. E sarà eternamente felice. Amen.
“Se
tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: «Dammi da bere» tu
avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”
(Gv 4,5-42).
È
l’evangelista Giovanni, scelto dalla liturgia in sostituzione di Matteo per
oggi e per le prossime due domeniche, che ci descrive in maniera stupenda
l’incontro e il colloquio di Gesù con una donna samaritana, avvenuto presso il
pozzo di Sichem.
I
particolari sono noti: siamo nel periodo dell’anno che precede la mietitura,
quindi già in estate avanzata. Gesù, stanco per il lungo camminare, si ferma a
riposare in prossimità di Sicar, ai bordi di quel pozzo che fu di Giacobbe.
Gesù è solo, poiché i suoi discepoli sono andati a cercare qualcosa per il
pranzo; il caldo è insopportabile, ha una gran sete, ma il pozzo, troppo
profondo, gli impedisce di attingere acqua senza un adeguato recipiente. Improvvisamente,
caso veramente fortunato data l’ora, si presenta una donna che ha con sé una
brocca: una donna piuttosto singolare, se ha scelto di andare al pozzo nell’ora
meno indicata, sotto il solleone; una donna che lo fa sicuramente per evitare
incontri imbarazzanti o per sottrarsi all’ascolto delle maldicenze sussurrate
dalle altre donne nei suoi confronti. La sua reputazione, per motivi
sentimentali, è in realtà molto compromessa: è una donna leggera, una poco di
buono, giudicata e condannata dai benpensanti di ieri e di oggi. Per questo il
giudizio su di lei è molto pesante, come molto pesante ed arido è il suo cuore,
per essersi dissetata fino ad allora soltanto con acqua “inquinata”.
Ed è lì,
al pozzo, che incrocia quell’ebreo stanco e assetato, che attacca bottone, e le
chiede da bere.
Lei è
guardinga: è stufa di farsi sedurre, è stufa di essere illusa, e pensa subito
che quel tale che le chiede da bere, voglia corteggiarla. Non sa ancora che
quell’incontro è unico, irripetibile, determinante, profondo e miracoloso
proprio per entrambi: si, perché Gesù trova la fede in una persona che, a
giudizio di tutti, non l’aveva mai avuta o non l’aveva più; la donna invece
incontra l’Amore: l’Amore quello vero, quello totale e coinvolgente, quell’Amore
che tutti aspettavano da secoli.
Un
incontro, quello tra i due, che sconvolge ogni regola, va contro il buon senso,
è contrario ad ogni norma religiosa. Gesù, il maestro, scavalca impassibile
tutte le barriere di quel tempo: la barriera del sesso (un rabbino, un maestro,
non doveva mai rivolgere la parola ad una donna fuori di casa, fosse pure la
moglie!); la barriera di razza (i samaritani erano considerati dei bastardi,
nemici tradizionali degli israeliti in quanto erano una mescolanza con gli
assiri); la barriera di nazionalità (i samaritani erano considerati
forestieri); la barriera di religione (erano considerati scismatici e impuri);
la barriera del buon comportamento (parlare al pozzo ad una donna era
corteggiarla, farle delle avances, “provarci” insomma, e la cosa sarebbe andata
sulla bocca di tutti; gli stessi discepoli ne rimangono scandalizzati!).
A Gesù
tutto questo non interessa, egli rompe ogni schema e le parla. Egli è un uomo
al di sopra di qualunque pregiudizio, ed è per questo che nella sua vita ha
sempre fatto incontri meravigliosi. Gesù non si ferma a ciò che si dice in
giro; è completamente indifferente a ciò che gli uni pensano e dicono degli
altri. Gesù non dice: “Questo è ricco (Zaccheo), questa è una donna di
malaffare (adultera, samaritana), questo è un ladro (Matteo Levi), questo la
legge non lo permette (guarire di sabato), questo non sta bene (la donna che
lavò con le lacrime i suoi piedi e con i capelli glieli asciugò), questi sono
pagani, eretici (samaritani), questi sono peccatori (pubblicani, prostitute)!”
Gesù è al di fuori di ogni schema umano: per questo risulta scomodo e
fastidioso a tutte quelle persone che sono piene di regole, persone rigide, con
una mentalità bacchettona e ristretta.
Il
dialogo che Gesù intavola con la Samaritana è dunque un capolavoro di finezza
psicologica e di delicatezza divina.
Allo
straniero che gli chiede umilmente un po' d’acqua da bere, la Samaritana gli
risponde in maniera secca, indisponente: “Come mai un Giudeo si abbassa a
chiedere da bere a me che sono samaritana?”; una risposta che a Gesù è
comunque sufficiente per portare il discorso là dove Egli vuole: far nascere in
lei la sete per “un’altra acqua”, quella soprannaturale: tant’è che egli dimentica
immediatamente la sua “arsura”, e rivolge tutta la sua attenzione su di lei: sulla
sua persona, sul suo credo, sul suo cuore.
Ebbene,
quella samaritana ci rappresenta: siamo tutti noi, con le nostre necessità, i
nostri problemi, le nostre difficoltà. Succede sempre così: se da un lato il
Signore ci chiede qualche piccola cosa, dall’altro è sempre pronto ad offrirci
il massimo. La samaritana è proprio come noi: in apparenza molto disinvolta e
sicura di sé, ma in realtà, nell’intimo, molto angosciata e insoddisfatta,
assetata di novità: anche noi siamo sullo stesso piano, sentiamo che qualcosa
ci manca, qualcosa di veramente importante; percepiamo anche noi quella sete,
quel bisogno profondo di bene, di amore, di luce, di pace, di un segno
soprannaturale che tranquillizzi la nostra esistenza.
È una
sete profonda, misteriosa, che rischiamo di sottovalutare o, peggio, di saziare
con acqua inquinata e “salata” che, dopo una prima apparente soddisfazione,
amplifica a dismisura l’arsura e il desiderio di bere ancora. Lei ne sa
qualcosa. E anche noi. Perché entrambi siamo fragili, non abbiamo ancora trovato
in questo mondo qualcosa o qualcuno che ci disseti sul serio. Abbiamo ancora
sete, sete di quell’Amore che ci donato la vita.
Gesù ci
ha aspettato la prima volta al nostro pozzo battesimale: ed ora continua ad
aspettarci alle sorgenti di acqua viva dei suoi sacramenti: ha una sete
incontenibile di ciascuno di noi, non per giudicarci, ma per dissetarci, per
insegnarci a credere e ad amare; è stanco di aspettare, è stanco di correre
dietro alle sue pecore infedeli, che insistono a dissetarsi in cisterne
fatiscenti, piene di acqua putrida, ignorando volutamente le fresche e vive
sorgenti di acqua limpida che sgorgano dal suo cuore.
“Se vuoi
essere dissetata - fa capire Gesù alla donna - devi essere onesta con te
stessa. Dio non ti giudica, Dio non ti condanna, gli altri sì, sempre,
sistematicamente, tutti, anche quelli che si dicono uomini di Dio: più si
sentono di chiesa, peggio ti giudicano; no, stai serena: con me non hai nessun
esame da superare, devi solo renderti conto dei tuoi limiti, nella preghiera”.
La donna
però svicola, non capisce e la butta sul religioso: “Ma Dio non bisogna
pregarlo nel suo tempio a Gerusalemme, o qui in Samaria sul Garizim?”. Domanda
pretestuosa, fatta per prendere tempo: lei sa perfettamente infatti che,
pubblica peccatrice, non può entrare in alcun Tempio, né in quello di
Gerusalemme, né tantomeno in quello dei Samaritani già distrutto. La religione
esteriore ha le proprie regole, e lei è decisamente fuori. “E invece no”, dice
Gesù: “il tuo cuore è già un tempio; la tua verità, il tuo spirito, il tuo
cuore ti permettono di entrare nella gloria. Tu sei un tempio e lì puoi
incontrare Dio”.
La donna
tace. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere amata. Mai
nessuno l’aveva amata: il mondo era diviso in chi l’aveva usata e in chi l’aveva
condannata. Nessuno, mai, le aveva detto di essere amata senza condizioni. E
beve ora, la samaritana: beve avidamente, come se non avesse mai provato il
gusto dell’acqua, come sei mai avesse assaggiato l’acqua fresca di sorgente.
Beve, e sente dentro di lei una forza impetuosa, sente il suo cuore, costretto
e inaridito dal dolore, spalancarsi con l’impeto di un fiume in piena, sente la
roccia del suo cuore frantumarsi in un Amore nuovo, sconosciuto, senza limiti,
un Amore che la travolge. E corre. Abbandona la brocca (che le importa, ora?),
corre dai suoi vicini, dai suoi concittadini e grida: è arrivato il Messia! La
peccatrice diventa discepola, la donnaccia, si trasforma in missionaria. Il suo
limite diventa il trono della gloria di Dio, la sua vita disordinata l’epifania
del volto di Dio.
Scriveva
il filosofo Søren Kierkegaard che ogni uomo, ogni donna, si porta nel cuore “un
crepaccio assetato di Infinito”. È la sete dell’Amore infinito di Dio,
quella sete congenita del divino che ogni uomo si porta inconsciamente nel
cuore, e che spesso nella vita emerge imperiosa per essere finalmente saziata.
L’uomo
però, creatura inaffidabile, preferisce vagabondare da un pozzo all’altro,
illudendosi di saziare questa sua sete con cento, mille sorsi di un’acqua
torbida e imbevibile: solo che così facendo la sete aumenta: la sua ricerca
spasmodica di felicità, di bellezza, di consensi umani, diventa una corsa
ossessiva, disperante e disperata: la vita si riduce ad un convulso correre,
comprare, consumare, fare esperienze sempre nuove, provare emozioni sempre più
forti, guadagnare sempre di più, godere più che si può, ottenendo soltanto una
crescente insoddisfazione, una nausea dominante, un precipitare nel baratro
della noia, della depressione, della disperazione.
È questo
il deserto che l’umanità moderna deve attraversare: e, divorata dalla sete,
continua a gridare come gli Ebrei a Mosè: “Dacci da bere! Stiamo morendo di
sete...”.
Lo
stesso grido accorato che oggi viene rivolto alla Chiesa di Cristo: “Dacci
da bere!” Un grido che, volenti o nolenti, raggiunge anche noi, popolo di
Dio: che fine ha fatto l’acqua viva che dovremmo offrire ai nostri fratelli
assetati? Cosa possiamo offrire di nostro alle vitali attese dell’uomo
contemporaneo? Che ne abbiamo fatto del nostro Battesimo? Dove abbiamo messo
l’acqua viva che ci è stata donata nei Sacramenti? Dove sono i nostri pozzi, le
nostre riserve, di cristiani? È una tremenda richiesta di aiuto: ed è una
nostra precisa responsabilità se, per negligenza, abbiamo lasciato ostruire in
noi i canali di trasmissione della Grazia divina!
Certo, è
inquietante pensare che Dio raccoglie per strada gli emarginati come la
samaritana e i nullafacenti come noi, per innalzarli alla dignità di discepoli!
È inquietante, ma ci deve far coraggio, ci deve dare la spinta per
riallacciarci immediatamente alla Sorgente divina, e diventare torrenti,
canali, fiumi impetuosi di Grazia e di Amore: di quell’Acqua Viva che è l’unica
che può mitigare la sete ardente e implacabile del mondo. Affrettiamoci, perché
il tempo è breve: il sole della nostra vita ha già superato lo zenit, e il
tramonto della sera si avvicina inesorabilmente! Amen.
“E fu
trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…” (Mt 17,1-9).
Oggi il
Vangelo cambia radicalmente ambientazione, la sua “location”. Domenica scorsa
eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella
possibilità di fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili,
ma ingannevoli. Oggi siamo invece agli antipodi; la scena è dominata dalla
luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza, dal “toccare il cielo, Dio,
con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un gruppo di persone (Pietro,
Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la
visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la festa. Lì il buio e le
tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. Ad un Gesù troppo umano,
che “vive” le tentazioni, si contrappone un Gesù troppo divino che si
trasfigura.
Che
senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi ancora
interpretiamo come triste, funerea, votata al sacrificio e alla preghiera
continua? Dov’è il giusto? Ovviamente nell’insegnamento che Gesù vuol darci.
Oggi, in particolare, Egli cerca di dare una risposta su ciò che può rendere
felice l’uomo su questa terra; ci dà cioè un piccolo assaggio di cielo, di quella
che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di luce, di amore, di
contemplazione divina. Ci vuol dire che la quaresima non deve essere tristezza,
ma gioia, entusiasmo, un cammino di “conversione” fatto con il sorriso e la
fiducia. Gesù ci dice insomma, che la vita, attraverso l’amore, può diventare
radiosa; ci dice che possiamo gustare il nostro Tabor quotidiano, vivendo un
anticipo paradisiaco di quello che è l’immenso amore di Dio per ciascuno di noi.
In
questo sta dunque la nostra “trasfigurazione”: vedere e sperimentare con gli
occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano
potrà mai vedere. Questo ci dice il vangelo di oggi. Ma per capirlo, dobbiamo prima
capire bene cos’è l’amore, perché, come ci conferma Giovanni, solo chi sa
aprirsi all’amore e viverlo, può capire Dio. Tutti quelli che tengono chiuso il
loro cuore, potranno si e no farsi un concetto di Dio, ma non potranno mai “sentirlo,
conoscerlo”; tutti quelli che sono freddi e incapaci di commuoversi, non
potranno mai sentire quanto Lui sia grande; tutti quelli che non sanno
abbandonarsi, che non sanno permettersi sentimenti d’amore, continueranno a
cercarlo invano.
Trasfigurarsi:
ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati veri, quelli che sono
persi d’amore, possono apprezzare il sole specchiarsi sul volto della persona
amata, ammirare la luce ridente negli occhi di un bambino, l’universo intero
che si riflette sul volto rugoso di un vecchio, le stelle, l’universo e tutti i
soli che brillano negli occhi di chi ci vuole veramente bene.
Penso
che tutti avremo avuto l’occasione di piangere davanti ad un volto disperato,
al dolore di una perdita, a scene di altruismo e di amore eroico, come pure
davanti ad un semplice tramonto, ad un’alba silenziosa: di esserci sentiti così
pieni di gioia, di sensazioni profonde, di una commozione così intensa, da non
aver potuto trattenere le lacrime. Una volta pensavo che commuoversi fosse un
segno di debolezza, di mancanza di carattere, di virilità. Oggi so che vuol
dire invece essere vivi, percepire ciò che proviamo dentro, ciò che gli “altri”
vivono dentro; vuol dire lasciarsi toccare il cuore, vuol dire lasciarsi
colpire, coinvolgere da ciò che succede intorno a noi, non essere di ghiaccio,
impenetrabili come il marmo, gelidi, indifferenti, impassibili: in altre parole
significa lasciarsi coinvolgere nel cuore, “trasfigurarsi” dentro. Sono questi
i momenti della nostra “trasfigurazione”: momenti in cui sentiamo con assoluta
certezza che vale la pena di vivere, anche solo per pochi istanti; momenti in
cui ci sentiamo gratificati per essere al mondo, per aver avuto la possibilità
di esistere, di amare, di credere; momenti che ci danno l’energia, la forza e
il coraggio di andare avanti e di affrontare le “discese dal monte”, le croci,
le crocifissioni di ogni giorno. Senza questi sprazzi di felicità, di vita, di
infinito, di “Dio”, tutto diventerebbe drammatico, angoscioso, “nero”, inutile
di essere vissuto. Dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro;
dobbiamo lasciare che la vita ci invada, dobbiamo lasciare che la Vita viva in
noi, che sussulti, che si muova (e-mozione), che si rinnovi continuamente. E se
questo non succede, dobbiamo preoccuparci seriamente, perché vuol dire che il nostro
cuore, insensibile ad ogni emozione, è già morto.
“Tabor”,
il monte della trasfigurazione, in ebraico significa “ombelico”.
La
trasfigurazione, allora, per essere veramente tale, richiede un taglio netto di
tutti i nostri “cordoni ombelicali”, dei nostri legami col male, delle nostre concessioni
al peccato. Uno solo è il cordone ombelicale che non dobbiamo mai recidere: è
quello che ci lega a Dio; un cordone che deve sempre rimanere collegato, perché
è il canale attraverso cui Dio trasmette alla nostra anima la sua linfa vitale,
al nostro cuore il suo infinito amore.
Soltanto con questo incessante
nutrimento, con questo “Tabor” del Dio in noi, potremo affrontare serenamente qualunque
“Golgota”, qualunque nostra “passione e crocifissione”.
Viviamola allora ogni giorno questa
nostra “trasfigurazione”, e gridiamo anche noi a Gesù, con l’umile sincerità di
un Pietro completamente estasiato: “Signore, è bello per noi stare qui!”.
Scrolliamoci di dosso le inevitabili
brutture di una realtà con cui dobbiamo ogni giorno confrontarci: le orribili e
sguaiate trasmissioni televisive, le martellanti proposte di una idiota pubblicità,
gli ottusi e vanesi messaggi di una classe politica dimentica di Dio, di una faziosa
informazione, asservita all’egoismo e alla insaziabile fame di profitto delle
grandi potenze finanziarie.
Ritagliamoci in questa quaresima più
spazi di silenzio, per entrare in sintonia con Dio. Apriamo completamente cuore
e orecchi della nostra anima, e nel silenzio profondo “trasfiguriamoci”, ascoltiamo
il Figlio che ci parla, ascoltiamo la sua Parola, ascoltiamo noi stessi, il
nostro cuore, ascoltiamo ciò che di bello ha da dire il mondo, il creato, l’umanità
intera, ogni uomo, ogni nostro fratello. Viviamo, in concreto, l’esperienza sublime
del nostro Tabor.
Il mondo ci dirà che siamo matti, degli
esaltati: non ci capirà mai! Ma mentre i suoi schiavi continueranno ad agitarsi
nell’infelicità, nell’ansia, nell’invidia, nell’odio, noi ci sentiremo felici,
pieni di entusiasmo, di tanta serenità, di tanto amore. Amen.
“Dopo
aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse…”
(Mt 4,1-11).
Finalmente
il carnevale è finito, siamo in quaresima: che non è un punto di arrivo, non è
il tempo dell’adagiarsi, del riposare sugli allori, del tirare finalmente il
fiato: nossignori. Quaresima è il punto di una nuova partenza: vuol dire
“convertirsi”, da “convertere”, ossia fare una inversione ad “u” rispetto alla
direzione precedente; significa tornare indietro, tornare sui propri passi, sui
valori autentici del vangelo, per ripartire, questa volta, col piede giusto. Quaresima è il tempo della prova,
il tempo del rodaggio su strada dei nostri buoni propositi, di quelli cioè che
di fronte a Dio abbiamo deciso di portare avanti: “Sì, Signore, hai ragione; è
come dici tu: se mi misuro col Vangelo, sono proprio zero, una nullità. Non ho
ancora capito nulla di te; debbo proprio rimboccarmi le maniche: e questa volta
ti farò finalmente vedere…”. Ecco, è quel “ti farò vedere”, quella
decisione presa in un istante di vergognosa sincerità, sgorgata giù,
nell’intimo del nostro cuore, che automaticamente spazza via ogni velleità di
“riposo”.
Perché non
c’è riposo nel cammino che ci porta a seguire Cristo. Illusi noi, se pensassimo
ad una tale possibilità. Siamo in Quaresima: tempo dunque di bilanci, di
verifiche, di analisi sulla nostra salute spirituale; tempo per pianificare
concretamente la nostra “conversione”, la nostra ripartenza, ma soprattutto
tempo di far vedere a Dio che siamo persone serie e non i soliti spacconi.
È
arrivato il momento in cui dobbiamo finalmente gettare le nostre maschere,
quelle maschere che da anni, troppi, ci portiamo incollate addosso, quelle che
ci fanno illudere di essere diversi, quelle che ci piace tanto ostentare
davanti agli altri, per essere considerati migliori di quello che siamo! Quelle
che a volte non ci vergogniamo di indossare neppure quando siamo soli, a tu per
tu con Dio! Quanto siamo meschini! Eppure “ricordati che sei polvere e in
polvere ritornerai!”. Lo abbiamo sentito mercoledì scorso dal sacerdote che
ci imponeva le sacre ceneri. Polvere, siamo solo polvere; insignificante e
arida polvere del deserto primordiale. Senza il soffio di Dio, siamo polvere
senza vita. Senza di Lui, siamo polvere inutile: perché è Dio che ci riempie di
immortalità, di speranza, di sogni.
Purtroppo viviamo in un mondo
carico di odio, di lotte e di continue contrapposizioni a tutti i livelli:
politico, religioso, culturale, sociale, economico. L’unico scopo della nostra
vita sembra essere quello di vincere battaglie, tutte le battaglie, e di
assicurarci un posto dalla parte “ricca” del vincitore. Eppure Gesù, con la sua
vita, ci ha insegnato il contrario. Egli non è venuto per dimostrarsi potente e
senza problemi. Non è venuto per vincere battaglie; si è calato nei nostri
deserti quotidiani, nelle nostre fragilità umane fatte di fame, di debolezza e
di peccato, per dimostrarci che non siamo soli e soprattutto che non dobbiamo
essere senza speranza. Gesù è entrato in questo nostro deserto, altrimenti
invivibile: è entrato, e resta con noi, come uno di noi.
E
nel vangelo di oggi, con il suo ritirarsi nella preghiera e nel silenzio, ci
insegna come fare la nostra “con-versione, ci indica la nuova strada, quella,
sicura, di seguire le sue orme, la strada dell’amore e della felicità; e per
prima cosa ci insegna a liberarci dalle striscianti e ambigue illusioni del
nemico tentatore.
Sì, Gesù ci dice di combattere le
tentazioni: ma che sono le tentazioni? Qualcuno oggi parla ancora di
tentazioni? In una società in cui tutto è permesso, tutto abbordabile e tutto
attuabile (“desidero qualcosa? Me la prendo!”), che senso ha parlare di
tentazioni? Eppure il cammino verso la Pasqua, passa proprio di qui: quelle che
Gesù vive e combatte in prima persona, sono le nostre grandi illusioni, i
grandi inganni della nostra vita, quelli che non conosciamo ancora abbastanza,
quelli che addirittura non vogliamo conoscere e che inesorabilmente ci ostacolano
il cammino, o addirittura ci sviano.
Gesù ce
ne indica tre: il primo consiste nel voler sostituire Dio con le “cose”,
assolutizzandole: “dì che queste pietre diventino pane”; è l’inganno di
pensare che tutta la nostra vita consista e si realizzi qui, nel presente, che
serva soltanto a saziare le nostre voglie. Il secondo inganno è quello che
costruiamo pretendendo un sistematico intervento di Dio, teso a sanare i nostri
egoismi, a rimediare ai nostri errori: «i suoi angeli ti porteranno sulle
loro mani…». Infine, l’inganno più ambito, quello di rincorrere ricchezze,
successo e potere, esigendoli ad ogni costo e con ogni mezzo, anche calpestando
il prossimo e vendendo al diavolo la nostra anima: «tutte queste cose io ti
darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Sono queste le tentazioni
che Gesù ha sconfitto, e da qui la sua lezione, chiara come al solito. Nella
vita si impone una costante scelta; come diceva Sartre, l’uomo è condannato a
scegliere, è condannato ad esercitare la sua libertà. E la libertà, lo sappiamo
bene, la vera libertà, è un bene molto difficile da gestire.
Nei
vangeli il peccato è superato, perdonato, scomparso, a causa dell'immensa
misericordia di Dio. È considerato solo indirettamente, di riflesso, come
cartina di tornasole per dimostrare la bontà e l'amore senza limiti di Dio. Ma
il peccato, con le sue suadenti e irresistibili tentazioni, il grande assente
dalla nostra moderna mentalità, esiste, eccome se esiste! È il segno, la
dimostrazione del DNA dell’uomo, della sua libertà di scegliere e di
sbagliare.
In
questo deserto della quaresima, è necessario allora che torniamo
all'essenziale; che impariamo a capire chi, o che cosa, guidi la nostra vita, e
verso dove; che ci rendiamo conto degli errori che facciamo, soprattutto quando
insistiamo sempre negli stessi, quando ci incaponiamo in scelte sbagliate continuando a considerarci altrettanti Dio, a sentirci suoi pari. Questa
quaresima ci metta in guardia su questa realtà; sia un invito a tener sempre
presente la nostra innata fragilità, a guardare questa nostra nudità; sia insomma
occasione per riconoscere i nostri peccati, per gettarli tutti nel cuore
incandescente di Dio. Perché solo lì ci sentiremo veramente beati, non perché
perfetti, ma perché tanto amati. Amen.
“Ma io
vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”. (Mt
5,38-48).
Gesù
continua anche oggi la sua catechesi sul comportamento che dobbiamo tenere.
Domenica
scorsa ci aveva detto che Lui non era venuto per abrogare l’antica legge, ma
solo per “completarla”; come? Insistendo sullo spirito con cui dobbiamo
porci di fronte alla legge: perché è questo che dobbiamo cambiare; quindi
niente più esibizionismi, esteriorità, tornaconto, ma solo cuore, amore,
altruismo.
Nel
vangelo di oggi va oltre, entra nello specifico: ci insegna cioè fino a che
punto dobbiamo arrivare per essere coerenti con la sua nuova legge dell’amore.
Come al
solito Egli è molto chiaro ed esplicito: “Avete inteso che fu detto agli
antichi: occhio per occhio e dente per dente”. Certo, era la legge del “taglione”;
una legge brutale, primitiva; una legge discutibile quanto si vuole, ma che
almeno riusciva in qualche modo a limitare la vendetta e la selvaggia
sopraffazione del più forte, ristabilendo una certa parità.
È
chiaro che una legge che cercava di fermare il male, ricorrendo ad altro male,
non offriva una soluzione valida del problema: non riusciva certamente a
limitare il male, semmai lo raddoppiava.
Per
questo Gesù, a tale prospettiva, contrappone immediatamente (io però vi dico)
una nuova economia, la sua economia, quella dell’amore: in un clima arroventato
dalla vendetta, dall’odio, dalla legge del più forte, dall’egoismo, Egli
introduce la legge del perdono, della generosità, della comprensione,
dell’amore sincero.
1. “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano”. Dobbiamo riconoscere che sono parole pesanti, incomprensibili per la mentalità di allora,
ma anche per quella dei nostri giorni.
Del
resto è una esortazione rivoluzionaria, che non si trova in tutto l'Antico
Testamento: una esortazione presente solo in Marco e Giovanni, assente in Luca
e Matteo; che non si trova in tutto il rimanente Nuovo Testamento, e neppure
nella letteratura ebraica o cristiana. È decisamente un comandamento nuovo,
unico, è un fulmine a ciel sereno.
Gesù
con queste parole intende stravolgere completamente la precedente idea religiosa:
il Dio che lui rivela, è un Dio completamente diverso: non è violento, non
nutre odio, non è vendicativo. Fino ad allora si diceva: Dio è potente perché
si fa giustizia, perché punisce, castiga; è “severo” intransigente, e si
vendica. Ma Gesù mette un punto fermo a questa ideologia. In pratica dice:
nossignori! Dio non è affatto così. “Il Padre celeste fa sorgere il suo sole
sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti”.
Una nuova mentalità viene introdotta: uno stile nuovo, intimo,
umile. La sua è una prospettiva pacifica, non violenta, ma altrettanto ferma, efficace
e valida sia sul piano sociale che personale.
Contro il dramma della tirannia del
male, contro chi ci fa un affronto, invece di lasciarci coinvolgere, di
lasciarci dominare dalla cattiveria subita, Gesù ci detta un nuovo
comportamento: “Non lasciatevi sottomettere dal male; reagite, fatelo in modo
clamoroso, andate contro oltre ogni regola vendicativa, contro ogni aspettativa
di rivincita umana, rispondete forte e solo con l’amore. Amate! Amate
sinceramente, intimamente, spassionatamente. Nessuna dittatura umana può
imporre dei limiti al vostro cuore, alla vostra coscienza, al vostro amore;
nessuna dittatura può privarvi della vostra dignità di creature di Dio, della
vostra libertà interiore. Possono rendervi schiavi nel corpo, ma niente e
nessuno potrà mai sottomettere l’anima, costringervi dentro, nel vostro intimo,
a meno che non siate voi stessi a volerlo”.
2. “Non
opporti al malvagio”, che in pratica vuol dire: “per vincere il male
combatti il male, non la persona che lo compie”. Per cui non dobbiamo per
principio infierire, disprezzare, condannare il fratello che, sventuratamente,
si comporta male: è già sufficientemente punito dalle sue stesse opere cattive,
che lo tengono lontano dall’amore di Dio. Odiarlo significherebbe abbassarsi al
suo stesso livello, entrare nella medesima spirale di violenza che allontana da
Dio e rende infelici. Gesù odia il peccato, ma ama i peccatori; dobbiamo fare
altrettanto; se odiamo i nostri fratelli peccatori, dimostriamo tutta la nostra
fragilità, la nostra dipendenza dal male; dimostriamo cioè di avere anche noi
la loro stessa mentalità di peccato. Solo se il nostro cuore è puro, solo se
viviamo nell’amore di Dio, possiamo amare con tenerezza il peccatore, possiamo
cioè compatirlo (patire-con-lui), condividere il suo dolore, caricandoci
sulle spalle il peso del suo fardello, sull’esempio di Cristo.
2. “A
chi ti schiaffeggia, offri l’altra guancia”. Colpire con uno schiaffo era una
cosa normale a quel tempo: era il modo con cui chi stava sopra, umiliava chi
stava sotto. Era normale per i padroni colpire gli schiavi e i servi; era
normale per i mariti colpire le mogli. Come altrettanto normale e umano, per
chi subiva questi affronti, era provare odio, ribellione, vendetta. La vita
purtroppo è così: ci ferisce, e ogni ferita provoca in noi due sentimenti
tremendi: dolore e collera. Tanto dolore, tanta collera; tanta sofferenza,
tanto odio.
3. “Se
uno ti vuol portare via la tunica, lasciagli anche il mantello”.
La
tunica era il capo d'abbigliamento intimo, che si portava direttamente a
contatto col corpo; il mantello, invece, era il capo pesante che si portava al
di sopra. La tunica rappresenta quindi l'intimità: “vuoi ferirmi nell'intimità?
Ok, puoi farlo; puoi anche prendermi tutto, lasciarmi nudo come un verme, ma
non potrai mai privarmi della mia dignità. Sono fiero di praticare i valori in
cui credo. Non ho nulla da nascondere”. Al contrario, quando commettiamo un
errore, siamo sempre pronti a nasconderci sotto qualunque maschera, anche la
più fasulla, pur di “coprire” la nostra “nudità” interiore, pur di
salvaguardare in qualche modo la nostra immagine, la nostra rispettabilità di
fronte agli uomini; pensiamo di ingannare gli altri ricorrendo a falsi
travestimenti: e non ci rendiamo conto che, così facendo, inganniamo la nostra
coscienza, perdiamo completamente la dignità nei nostri confronti.
4. “Dà
a chi ti chiede”: è la regola aurea per mantenere sempre la nostra
integrità morale: poiché “dare” sta esattamente agli antipodi rispetto a
“prendere”. Prendere, possedere, è infatti il principio di ogni male.
Dare, al contrario, comporta sempre una condivisione. Quando “diamo”,
entriamo “in comunione”, stabiliamo cioè con l’altro un intimo rapporto
di amore e carità.
5. “Se
uno ti costringe a fare un miglio, tu fanne due”.
Significa
che non dobbiamo adattarci passivamente alle provocazioni della vita (fare un
miglio); ma dobbiamo reagire, dobbiamo mantenere sempre il potere della nostra
libertà. Dimostriamo al mondo che siamo sempre liberi su come fare o non fare
qualcosa: anche quando siamo obbligati.
In pratica,
per la vita di tutti i giorni, cosa vuol dirci Gesù con il suo “amate i
vostri nemici”? Per capirlo bene dobbiamo, prima di tutto, fare una netta
distinzione tra l'amore e i sentimenti di amore. Mi spiego: Gesù
non dice: “Devi sorridere ai tuoi nemici” oppure “devi provare simpatia,
considerazione, ammirazione per chi ti odia”. Egli sa che le emozioni, i
sentimenti, non si possono comandare, sa bene che non si possono provare
sentimenti di amore per i nemici.
Lui infatti
dice un'altra cosa: “Tu amali anche se sai che sono tuoi nemici”. Cioè:
“Continua a fare loro del bene, continua a fare ciò che è bene
per la loro salvezza, quello che è il meglio per loro, anche se sono i
tuoi nemici, anche se d’impulso reagiresti al male con altro male”.
Nella
nostra “civiltà” moderna tira un’aria così cupa, falsa, caotica, che a volte il
più forte pretende di stabilire per tutti ciò che è bene e ciò che è male, condizionandoci
al loro tornaconto personale. Ebbene: in questo clima di sfacelo, di odio
dominante, cerchiamo almeno noi di fare sempre e comunque del bene a tutti;
anche a chi ci fa del male: perché il bene che facciamo, prima o poi, ci
tornerà indietro e ci verrà accreditato come premio. Amen.
«Non
pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per
abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17-37).
Un
vangelo all’apparenza contraddittorio quello di oggi. Dapprima sentiamo Gesù
che conferma in pieno la validità della Legge antica, e subito dopo lo sentiamo
puntualizzare, mettere dei paletti, introdurre delle vere e proprie rettifiche.
Ma nessuna
contraddizione in ciò: lo dice Lui stesso: “sono venuto per dare compimento”,
sono venuto cioè a dare alla Legge il suo autentico significato.
Gesù va
ben oltre l’osservanza formale della legge. Ad un certo punto sembra spazientirsi
e dire: “Basta, così non si può più andare avanti. Il vostro rapporto con Dio
non può continuare a basarsi soltanto sull’osservanza esteriore e materiale
della Legge; non potete riempirvi la bocca dicendo: Noi siamo ebrei, noi
siamo figli di Abramo, noi siamo il popolo dell’Alleanza, e poi fate come
vi pare. Non potete più giustificarvi dicendo che ciò che fate è volontà di
Dio, parola di Dio, quando Dio in realtà non c'entra proprio per nulla”.
Per
questo precisa: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e
dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”; era noto infatti che la
maniacale osservanza della legge da parte degli scribi e dei farisei, la loro giustizia,
il loro modo di intendere Dio, era tutta una costruzione fittizia, un comportamento
puramente legalista, apparente.
A quel
tempo tutti pensavano che ogni cosa prevista dalla Bibbia, dovesse essere eseguita
a tutti i costi: “se la Legge dice così, si deve fare così!”. Gesù invece dice:
“No, neanche per sogno! Non dovete essere “ottusi”, non dovete preoccuparvi
solo di quello che è scritto, ma del perché è scritto; dovete capire cosa
Dio vuole da voi, e lo capirete soltanto se è l’amore che vi guida, se le
vostre azioni sono mosse dalla carità, dalla retta intenzione, dal totale
coinvolgimento della vostra anima, non certo obbedendo meccanicamente a degli
ordini, senza sapere perché, senza alcuna convinzione, senza alcun
coinvolgimento.
Anche i
cristiani, purtroppo, ragionano talvolta con la stessa mentalità antica. Quante
volte ci nascondiamo anche noi dietro le “regole”! “Io vado in chiesa tutte le
domeniche, osservo i precetti, mi comporto da bravo cristiano, rispetto il
prossimo, trovo simpatia per il Papa, per la Chiesa ecc.; insomma sono un
cristiano in regola!”. E quando diciamo così, ci aspettiamo ovviamente che ci
dicano: “Ma che bravo!”.
Solo che
non siamo “bravi” per niente! Ci comportiamo così solo per nostra
soddisfazione, per sentirci superiori, rispettabili, additati come esempio;
facciamo le cose solo superficialmente, meccanicamente, “per sentirci a posto”,
a scanso di eventuali “sorprese” (non si sa mai!).
Siamo
dei bravi “osservanti del catechismo”, ma non siamo dei bravi cristiani. Perché
nel nostro “fare”, nel nostro “rispettare” la legge di Dio, non c’è Amore, non
c’è Dio, ma ci siamo soltanto noi stessi.
Amare
gli altri a comando, significa non amare, essere vuoti, sterili; significa non
aver nulla di speciale da donare; significa avere un cuore gelido, arido.
Significa insomma rinunciare alla Vita.
Questa è
dunque la “legge nuova” di Gesù: Egli non abolisce l'Antica Alleanza, ma la
porta al suo autentico e profondo significato. La fa passare cioè
dall'esteriorità (sono fedele a Dio perché osservo i suoi precetti)
all'interiorità (sono fedele a Dio perché lo seguo per amore, vivo nell'amore).
Non cancella la legge dei padri antichi, ma rompe definitivamente con quella
loro mentalità che si fermava al “fare”, all’obbedire passivamente, al
considerare obbligatorie certe usanze assurde, improponibili già ai suoi tempi;
insomma egli condanna non la legge, ma una sua interpretazione falsa, stupida,
artificiosa, senza senso.
Del
resto le leggi, come tutte le cose, possono evolvere nel tempo. Gesù non dice:
“Abramo, Mosè e gli antichi, hanno sbagliato”. Anzi loro sono stati molto
importanti per il loro tempo; ma oggi noi conosciamo cose che una volta essi non
conoscevano; oggi noi abbiamo capito che Dio non è un giudice inflessibile che ogni
qualvolta sbagliamo immancabilmente ci punisce; abbiamo capito che Dio non è una
esclusiva di pochi, di un popolo, ma è il Dio di tutti, del mondo intero;
abbiamo capito che Dio è amore, misericordia, compassione, tenerezza per tutti,
anche per le donne, per i bambini, per gli esclusi, i lebbrosi, i peccatori. Tutto
questo loro non lo sapevano, e quindi non possiamo giudicarli per questo.
Teniamo il buono e lasciamo ciò che non è più buono. Non rimaniamo attaccati
alle regole: le regole sono fatte per l'uomo e non l'uomo per le regole (Mc
2,27). Le regole servono per vivere, ma quando diventano contrarie alla
vita, non servono più e devono essere rinnovate, corrette, sostituite.
Sono i valori
che durano per sempre; al contrario le regole, che servono solo a realizzare, a
mettere in pratica i valori, possono sempre cambiare.
Noi
insomma non dobbiamo lasciarci condizionare dalle apparenze, dal lato esteriore
che è sempre mutevole, o dai “si è fatto sempre così”. Dobbiamo andare in
profondità, dobbiamo agire sempre coerentemente con la nostra coscienza.
Dobbiamo, come dice Gesù, essere uomini liberi, uomini franchi e veri. Non
dobbiamo lasciarci vivere nei compromessi, nei doppi sensi, nella ricerca egoistica
del nostro “star bene”, costi quel che costi; dobbiamo avere il coraggio di
difendere i nostri ideali, i nostri programmi, le nostre azioni; non
nascondiamoci dietro a fantasie passeggere e inutili.
Anche a
costo di andare controcorrente. Quante volte invece abbiamo il terrore di
esporci! Quante volte cerchiamo di eludere le nostre vere responsabilità!
Ebbene, dobbiamo avere il coraggio di uscire allo scoperto, di parlare
francamente, di comportarci da “cristiani”, da uomini e donne di fede: il nostro
parlare, come ci insegna Gesù, deve essere “sì, sì; no, no”. Il “politichese”
non è il linguaggio di Cristo. Amen.