Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,1-41).
Un vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo di Giovanni che, con la figura di Gesù, pone in primo piano molti personaggi: i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, gli amici che lo conoscevano; un vangelo di luce e di tenebre, di chi vede e di chi non vede perché non vuol vedere; un vangelo in cui Giovanni si diverte a dipingere con grande ricchezza di particolari, tra cui l’ottusità dei farisei e soprattutto la loro disonestà mentale.
Tutto ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai farisei, i sapientoni interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i protagonisti sono molto attenti, si interessano di ogni cosa, di ogni particolare, tutti vogliono dire la loro sull’accaduto; ma nessuno, tranne Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue difficoltà, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue esigenze: a nessuno insomma interessa la persona del cieco: tutti lo guardavano da sempre, ma nessuno lo ha mai “visto”, nessuno si è mai “accorto” di lui; sono tutti preoccupati di loro stessi, di difendere le loro convinzioni, i loro pregiudizi.
Prendiamo per primi i discepoli: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Ecco, questo è il problema dei discepoli: stabilire chi è il colpevole della cecità dell’uomo, individuare l’errore, chi ha sbagliato. Vogliono un colpevole, una causa prima, un responsabile: e in ogni caso non vogliono essere coinvolti personalmente nelle sue vicissitudini: “È colpa sua, noi non c’entriamo, non ci riguarda, non dobbiamo fare niente per lui”.
È una mentalità molto diffusa; anche oggi, è sufficiente vedere come ci poniamo di fronte ai fatti di cronaca quotidiana, come corruzioni, truffe, sporcizia, delinquenza; genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, criminalità minorile in aumento esponenziale; l’unica nostra preoccupazione è quella di scaricare la colpa su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo. Trovatolo, ci buttiamo tutto alle spalle, ci sentiamo più tranquilli, con la coscienza a posto. Individuare invece i motivi, le ragioni scatenanti di questi mali della società, cercare di porvi rimedio con i mezzi a nostra disposizione, non ci riguarda, sono cose che non ci competono. Ma, è giusto comportarci così?
Passiamo poi agli amici, ai conoscenti del cieco che, di fronte alla sua guarigione, alcuni dicono: “Sì, è lui, è proprio quello che era cieco”; altri: “no, non può essere lui, semplicemente gli assomiglia”. Rappresentano un po' quelle persone per le quali nessuno può cambiare: magari dicono di amarci, ma in realtà non accettano la possibilità che noi miglioriamo, che diventiamo “altri”, soprattutto se il nostro cambiamento altera in qualche modo il rapporto esistente con loro. “Era cieco ed ora ci vede? Non può essere!” Per loro nessun cambiamento è possibile: ci hanno etichettato in un certo modo; sono loro che hanno stabilito chi siamo o non siamo, cosa possiamo fare o non fare, cosa possiamo dire, cosa tacere.
Prendiamo poi i genitori: chiamati a testimoniare, hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: finire “scomunicati” dalla sinagoga, a quel tempo, significava morire socialmente; e allora: “È abbastanza grande, chiedetelo a lui; è lui che può raccontarvi ciò che gli è successo, che c’entriamo noi? È un problema suo!”.
Per un figlio non c’è peggior tradimento che constatare questo disinteresse, questo abbandono, per paura del giudizio della gente, da parte dei genitori, da parte delle persone più care, di coloro dei quali si fidava ciecamente. Oppure, peggio ancora, sentirsi calunniato, svergognato, rifiutato, da chi invece doveva difenderlo, proteggerlo.
È una situazione fin troppo comune: il figlio, sentendosi solo, abbandonato, tradito da genitori che pensano più a loro stessi, al loro tornaconto che a lui, talvolta può ricorrere a comportamenti estremi, tragici.
Prendiamo ancora i farisei: che in questo caso fanno una ben misera figura, dimostrano tutta la loro ridicolaggine. Di fronte all’evidenza di una guarigione, negano: “Non può essere, noi sappiamo come stanno le cose, siamo figli di Mosè: quell’uomo, che di sabato ha sputato per terra ed ha impastato la polvere con la saliva, andando contro la legge, non può operare miracoli in nome di Dio, è soltanto un peccatore: come può pretendere di imbrogliare anche noi?”. I farisei si barricano dietro alla legge, alle regole, perché hanno paura di ammettere che le cose sono diverse da come essi le vedono: sono cambiate. Sono terrorizzati dalla prospettiva di dover anch’essi cambiare atteggiamento, di cambiare il loro cuore. Sono maturati altri tempi, ma per essi è impossibile: piuttosto che cambiare idea, preferiscono negare la realtà. Sono troppo preoccupati per la loro figura di autentici discepoli di Mosè; piuttosto che ammettere l’evidenza, preferiscono difendere la loro posizione, la loro fama, il loro apparire.
Esattamente come loro, sono tutti quelli che negano l’evidenza: è sufficiente che la verità si discosti dalle loro convinzioni, che essi, per principio, non la vogliono ammettere, non l’accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza del lato negativo che c’è in loro, dovrebbero essere disponibili a rivedere i loro giudizi, le loro rabbie, le loro paure, i loro attaccamenti; ma preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere tutto. Anche per loro, come per i farisei, “ammettere” significa dover “cambiare” la loro mentalità: meglio quindi non vedere, ignorare volutamente qualsiasi novità.
Infine, prendiamo la persona di Gesù. Egli non deve difendere il suo operato di fronte a nessuno: egli è libero. Libero come Colui che accetta di passare per incapace, di essere deriso, rifiutato, umiliato, percosso, pur di difendere la Verità, il Suo essere. Gesù non deve salvarsi la faccia, non deve preoccuparsi di cosa pensano gli altri, di cosa diranno. Anche in questo caso è Lui che si preoccupa dell’altro. Lui soltanto lo “vede”, lo scorge, capisce il suo problema. Tutti gli altri, preoccupati dei loro problemi, non possono occuparsi di nessun altro.
Solo imitando Gesù, anche noi potremo essere veramente liberi; solo allora potremo guardare positivamente il nostro prossimo, riservargli la nostra attenzione. È infatti la fiducia che riponiamo nelle persone, è il nostro amore, che le fa cambiare; non il giudizio, non le accuse, non il disprezzo per le loro debolezze, per i loro lati negativi.
C’è una frase che in particolare ci deve far riflettere: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; siccome però voi dite: Noi ci vediamo, il vostro peccato rimane”.
Cosa significa? Il Signore in pratica ci dice che quanti si trovano nella impossibilità di “vedere”, di giudicare ciò che è bene e ciò che è male, non commettono peccato: il vero peccato, al contrario, lo commette chi “non vuol vedere”, chi rifiuta per principio ogni correzione, ogni messaggio di salvezza. Significa quindi che il peccato comune a tante persone è quello di essere “convinte di vedere”, di sentirsi cioè le uniche titolari della Verità; persone che si propongono come esempio da seguire, persone che credono di conoscere Dio, di sapere cosa gli altri devono fare per seguirlo; gente che è convinta di essere ottime persone, bravi genitori, bravi cristiani, bravi preti, bravi cittadini. Persone convinte di non aver alcun bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione, ritenendosi giuste, in regola, uniche depositarie della verità.
Una gran brutta cosa! Gesù a quelli che si ostinano a rimanere ad ogni costo nella loro cecità, continua a ripetere: “Il vostro dramma è che siete voi a voler vivere nell’oscurità, nel buio più totale; ciò nonostante, non esitate a proporvi come guide esperte per gli altri”. Ma ciò è impossibile: “può forse un cieco guidare un altro cieco?”. Troppi uomini, purtroppo, pur con una grossa trave nei loro occhi, si sentono autorizzati a criticare “la pagliuzza” nell’occhio del prossimo.
Chiariamoci bene le idee: vedere la luce, avere occhi aperti, che vedono bene, significa una sola cosa: “conversione”; significa cioè diventare “figli della luce”, quelli che “vedono” dove camminano, che si rendono conto di avere dei doveri, che non dormono sulle proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i “figli delle tenebre”, sono quelli che preferiscono vivere nell’oscurità, nel rifiuto di Dio, nel peccato, nella notte dell’ignoranza. Il grande peccato, l’unico, è pertanto rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi” per principio, ad ogni costo, per paura.
La grande domanda che Gesù ci rivolge, quella più impegnativa, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei disposto ad accettare ciò che vedrai”? In altre parole: “Vuoi conoscermi veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità di seguirmi? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti sei fatto di Dio, di me, della mia Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee, alle tue errate convinzioni, alla tua fede personalizzata, alla tua vita ottenebrata?”. Se amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, l’amore, non possiamo che rispondere “si”.
Accogliamo allora la sfida del mondo, di quelli che ignorano Dio, di quelli che non lo “vedono” perché non lo vogliono vedere: indichiamo loro, coraggiosamente, la strada della Luce; mettiamoli di fronte alla misericordia di Dio, al Suo amore; e preghiamo.
Preghiamo umilmente perché, come ha fatto con noi, Gesù tocchi anche i loro occhi e i loro cuori, e li guarisca, come solo Lui sa fare.
“Dio”, in sanscrito, vuol dire “luce”: solo chi vive in Lui, potrà sperimentare la calda luminosità della sua Luce, la gioia infinita del suo Amore. E sarà eternamente felice. Amen.
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