«Il
primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino,
quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).
Pasqua, è il centro focale della
nostra fede: “Cristo è risorto, ha vinto la morte”. Tuttavia, bisogna
riconoscere che la gente in genere non capisce e non ama molto questa festa. Il
Natale è più semplice: un bambino che nasce lo capiscono tutti; è una festa che
riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un
anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che
la gente ama molto. La Pasqua invece è meno sentita, meno coinvolgente, meno
appassionante, forse perché prima dell’esplosione di gioia per il trionfo della
Vita sulla morte, ci costringe a misurarci con la crudeltà di una crocifissione
e di una morte orribile e violenta nei confronti dell’uomo/Dio, volutamente da
noi cercata e deliberata. Per gli stessi apostoli la notizia della risurrezione
di Gesù, sopraggiunta in quel momento di grande disagio e prostrazione, li ha
colti di sorpresa; assimilarla ha richiesto un processo laborioso e difficile.
Come già nel racconto della
passione, anche di questa esperienza, peraltro ripetutamente annunciata da Gesù,
troviamo nel vangelo un resoconto ricco di particolari, di sentimenti, di stati
d’animo, dai quali possiamo trarre alcune considerazioni. Giovanni apre alle donne: la prima a rendersi conto che durante la notte doveva essere successo qualcosa di straordinario è Maria di Magdala. Già attraverso l’analisi delle prime parole del racconto possiamo in qualche modo risalire a quello che doveva essere lo stato d’animo di questa donna: non a caso Giovanni scrive che si recò al sepolcro “di mattino, quando era ancora buio”: una antinomia, questa tra mattino (luce) e buio (tenebra), con cui l’evangelista forse voleva in qualche modo descrivere proprio il contrasto di emozioni che si stavano accavallando in lei: nel buio più totale, nelle tenebre in cui era sprofondata alla morte del “suo” Gesù, ora si stava insinuando il pensiero che una nuova realtà, eccezionale, impensabile, unica: la luce intensa, la luminosità accecante, lo splendore soprannaturale del “giorno del Signore” le annunciava la sua risurrezione, la vittoria gloriosa della Vita sulla morte.
Una domenica mattina inquietante anche per i discepoli: messi in allarme dalla stessa Maria sulla “sparizione” del corpo di Gesù, Pietro e Giovanni si portano di corsa al sepolcro: ovviamente Giovanni, il più giovane, giunge per primo, ma non entra: aspetta che sopraggiunga anche Pietro, attardato dietro a lui per la fatica dell’età. È lui che entra per primo nella tomba, ma non vede; chi invece vede è Giovanni: ovviamente non si tratta qui di notare la presenza o meno di un “lenzuolo” ripiegato; l’allusione ha un significato ben più profondo, perché “vedere” sta per “credere”. Pietro e Giovanni sono le icone di due approcci nei confronti della fede completamente opposti: il primo rappresenta colui che vuol capire con la sua testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Sia la mente che il cuore crederanno: ma la mente, il raziocinio, cerca di controllare il sentimento, cerca di contenerlo, perché il sentimento è come un’onda d’urto che travolge tutto. La mente serve per capire, per spiegare, per interpretare; l’amore invece proviene direttamente dal cuore, organo generatore di vita: l’anima, la vitalità, lo stupore, la fede, la conoscenza di Dio, sono percezioni, sono sentimenti che precedono la nostra esperienza: soltanto in seguito il raziocinio, la mente, spiegherà come e perché è successo. In parole povere succede la stessa cosa quando ci viene servita in tavola una bellissima torta: la mente, il raziocinio, cerca prima di tutto di individuarne i vari componenti, per stabilire se è più o meno buona: il cuore al contrario l’assaggia immediatamente, la gusta e gode subito della sua bontà.
Noi siamo Pietro, siamo il raziocinio, siamo la mente, quando non vogliamo dare spazio ai sentimenti che sono in noi, all’amore, alla Vita: vediamo tante cose, ma è come se non vedessimo nulla, perché tutto quello che vediamo non ci emoziona. Siamo invece Giovanni, l’amore, l’interiorità, il sentimento profondo, quando non solo “vediamo”, ma anche “capiamo” immediatamente. Continuiamo allora ad essere tanti Giovanni: quando ci relazioniamo con una persona cara, guardiamola negli occhi, entriamole dentro; cogliamo per prima cosa non tanto il suono delle sue parole, quanto le vibrazioni del suo cuore, la sua gioia o la sua tristezza, il suo slancio vitale, la sua meraviglia, il suo amore. Quando l’abbracciamo, “sentiamola”, riconosciamola dalla fragranza dei suoi sentimenti, dal profumo della sua anima. Quando preghiamo cantando, ascoltiamo le vibrazioni del nostro cuore: onde che scatenano infinite emozioni, che accarezzano le corde più intime della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, allontaniamo qualunque pensiero, entriamo in noi stessi, ascoltiamo il battito del nostro cuore: è così che percepiremo forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi.
Ogni tanto nel nostro quotidiano correre la vita, fermiamoci e ascoltiamoci. All’inizio magari avvertiremo solo il frastuono di mostri e demoni che si accalcano per avere visibilità e ascolto; ma se avremo pazienza, nella calma, nel silenzio, nella preghiera, scopriremo la tanto trascurata ma inconfondibile presenza del Dio Amore, sorgente in noi di inesauribile vita e luce.
Allora capiremo che ogniqualvolta pensandoci sconfitti esclamiamo: “È tutto finito”, in realtà qualcosa di nuovo sta prendendo vita in noi. Un qualcosa che ci pone su un livello superiore di vita, che esige da noi un salto evolutivo, una crescita spirituale. Sì, perché questa cosa si chiama fede. Avere fede significa infatti fidarci di Dio fino all’abbandono totale di noi stessi, perché in tutto ciò che ci succede, c’è sempre la sua mano benefica che corre in nostro aiuto, cercando di plasmarci, di forgiarci, di purificarci. Tutto quanto ci succede nella vita, è sempre un bene per noi: certo, a volte è doloroso, duro, per niente piacevole, ma è pur sempre necessario, perché tenta di farci andare nella giusta direzione.
Dal punto di vista materiale, storico, una crisi è sempre un salto nel buio, è sempre difficile, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre e comunque molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è profondamente destabilizzante; constatare, dopo tanti anni di lavoro e di sacrifici, di aver sbagliato tutto, è davvero deludente. Ma se vediamo le cose dall’altro punto di vista, se riusciamo a fare il salto di qualità della fede, allora tutto è risurrezione, tutto è vita. Ogni fatto grave, per quanto grave sia, per quanto ci costringa nel buio più totale, con la fede si trasforma in “luce”, diventa vita, diventa resurrezione.
Dobbiamo guardare le cose sempre con occhio sereno, con un’ottica positiva. Se leggiamo l’oggi alla Luce dell’Amore di Dio, ci accorgiamo infatti che tutto acquista autenticità, tutto ha un suo motivo, un suo lato buono; anche il male più assoluto, nella sua ineluttabilità, può trasformarsi in un bene concreto: tutto può diventare recuperabile, riscattabile; tutto può diventare “meritorio”. Dipende solo da noi. Ecco perché dobbiamo vivere sempre, ogni sacrosanto giorno, da veri protagonisti, entusiasti della vita, con iniziative sempre nuove, consapevoli però che il “mondo” non è nostro, che non ci appartiene, che risponde a regole che trascendono la nostra intelligenza. Dobbiamo imparare a guardarlo soltanto come nostra dimora temporanea: perché è in esso che dobbiamo lavorare, è in esso che dobbiamo cambiare, è su di esso che saremo giudicati. Prima o poi verrà quel giorno in cui la morte, bussando alla nostra porta, ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro: è il normale corso della vita: inutile abbandonarci alla disperazione, inutile opporsi, inutile dimenarsi: non esistono cavilli legali o avvocati a cui ricorrere. Allora capiremo che tutto quanto pensavamo “nostro”, ci era stato dato soltanto in “concessione”, “in uso”. Niente e nessuno ci appartiene: con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli.
Anche per gli apostoli la “morte” corporale di Gesù rappresentava una tragedia immane, la fine di tutto il loro mondo; non erano ancora in grado di pensare che la morte fosse per l’umanità preludio di vittoria e di vita, che la morte fosse in realtà una “rinascita”. Fu lì, al sepolcro, che iniziò la loro scoperta incredibile, irrazionale, indicibile: che cioè si erano sbagliati su tutto, che le cose non erano come loro pensavano, che la realtà andava ben oltre: che la loro vita materiale, insomma, era destinata a trasformarsi in una nuova Vita più radiosa, più bella, più intensa, una vita senza fine, spirituale, eterna.
Ebbene, sia questo anche il miracolo della nostra Pasqua: un miracolo che ci contagi, ci converta, ci cambi in profondità; la nostra “Risurrezione” ci permetta di cogliere l’invisibile nel visibile, di guardare sempre la vita con gli “occhi speciali” della fede, di vivere a piene mani l’Amore; ci convinca soprattutto che Dio è sempre presente qui, accanto e dentro di noi: nostro compito è soltanto quello di cercarlo, di trovarlo, di conoscerlo, di amarlo. Tutto qui. Amen.