«Fate attenzione, vegliate,
perché non sapete quando è il momento…» (Mc 13,33-37).
Dio
vuole incontrarsi con l’uomo. È il motivo chiave di queste domeniche che
precedono il Natale, e che fa da filo conduttore per tutto il periodo
d’Avvento. “Avvento” deriva infatti dal latino “ad-venio” che letteralmente significa: “Ti vengo incontro”.
Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, la venuta personale, quella che Egli farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”.
Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno del Padrone, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa. Certo, per noi che viviamo sempre a pieno ritmo, che siamo immersi nella bellezza della vita, è decisamente sgradevole pensare a queste cose.
È innaturale immaginare la nostra fine: concludere di punto in bianco la nostra esistenza, troncare la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento dei nostri progetti, prospettarci nella mente quell’ultimo istante in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. Nessuno guarda con simpatia a queste realtà, tutti preferiscono ignorarle, non pensarci, non approfondirne i particolari; molto meglio preoccuparci del presente, del concreto, dell’immediato.
Eppure sono realtà che richiedono grande considerazione. Come deve essere allora questa nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile, paziente, produttiva, costante. La gente invece si stanca subito: vuole risultati, successi, traguardi facili e immediati; pretende subito raccolti abbondanti. L’attesa invece è tenace: bisogna soprattutto essere convinti che il seme di Dio è il migliore, che per nascere e crescere, oltre ad un terreno fertile, ha bisogno della luce e del calore dell’amore. E di tanta perseveranza: una virtù che oggi purtroppo è molto trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano in fretta e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, cangiante. Se Gesù con il suo Vangelo è ancora “fermo” a più di duemila anni fa, noi che possiamo farci? Si adatti anche Lui ai tempi moderni, la sua Parola si aggiorni, ci segua; si allinei con le nostre esigenze, si metta al passo coi tempi, e noi allora vedremo di seguirlo.
Illusi! Pensiamo di cambiare il mondo? È il mondo che cambia noi, questa è la verità.
Solo se continueremo a lavorare in silenzio, ad arare, a girare la terra, a concimare, a togliere pazientemente i sassi e le sterpaglie, un giorno potremo vedere la fioritura e cogliere i frutti.
Il vangelo di oggi ci insegna proprio questo: dobbiamo vegliare, dobbiamo aspettare il ritorno del padrone lavorando, ; dobbiamo rimanere sempre vigili, senza cedere mai al sonno. Perché questo è il grande pericolo della vita: addormentarsi, vegetare, sopravvivere.
“Vegliare” infatti non vuol dire smettere di lavorare, far finta di niente, tirare avanti aspettando che “qualcosa succeda”: se non facciamo niente, non succederà mai niente; “vegliare” vuol dire imparare a conoscere oggi la Voce, mettere in pratica nel presente gli insegnamenti di quel Dio che un giorno ci chiamerà. Quando Lui chiama non abbiamo scelta: dobbiamo rispondere, dobbiamo andare, costi quel che costi, anche se abbiamo paura, anche se siamo terrorizzati, anche se non capiamo il perché, anche se ci sembra impossibile che tocchi proprio a noi.
Ritagliamo allora dal nostro tempo, oggi che possiamo, spazi di meditazione, pause di riflessione su queste verità. Non lasciamoci frastornare dalle idee e dalle mode materialistiche del momento: sono cose in continua evoluzione, in costante travisamento, ci portano sempre al peggio, in realtà effimere, in altri pensieri, in altre ambizioni, in altre priorità. Soprattutto, lo ripeto, viviamo Cristo, la “Vita”. Condurre una vita da morti, non si può chiamare vita.
Non prendiamoci in giro dicendo: “Tanto, col tempo le cose cambieranno”. Succede che il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, quando avrò meno preoccupazioni, quando sarò anziano, “in pensione”, allora mi dedicherò a Dio”: sono parole idiote, senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da tutto per amare Dio; serve solo conoscerlo, volerlo incontrare, volerlo vedere, saperlo riconoscere nei fratelli, assaporarlo; insomma dobbiamo viverlo, ora che possiamo, in famiglia, nel lavoro, nella nostra professione. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di poterlo amare domani? Non cambierà nulla. Sono solo fantasie, è uno stupido alibi che ci costruiamo per giustificare la nostra apatia. E poi, chi ci garantisce di avere tempo sufficiente per poterlo fare?
Soprattutto non illudiamoci di essere già delle brave persone: non diciamoci che sì, alla fin fine, non siamo proprio così tanto male; non convinciamoci di essere, tutto sommato, come gli altri, anzi migliori degli altri; di essere insomma dei buoni cristiani, dei “quasi perfetti”, bisognosi al massimo di qualche ritocchino ogni tanto! Non dimentichiamo mai che a Gesù, i “quasi perfetti”, procurarono i problemi più grossi. Fu ucciso proprio dalle persone che pensavano di essere le più buone, le più brave, le più osservanti, le più religiose. Non creiamoci false e inutili aspettative: già il solo pensare di essere migliori degli altri, ci mette in coda a tutti, all’ultimo posto, perché questa è subdola presunzione, fine superbia.
Aspettiamo invece molto umilmente l’incontro finale con Dio, pregando, ogni nuovo giorno, al nostro risveglio: “Gesù, fammi parlare oggi come se le mie parole fossero le ultime. Fammi agire come se quelle di oggi fossero le mie ultime azioni. Fammi accettare oggi la sofferenza, come se fosse l’ultimo dono che ho la possibilità di offrirti. Fammi pregare come se la mia preghiera di oggi fosse l’ultima possibilità che ho di parlare con te qui in terra”. Amen.
Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, la venuta personale, quella che Egli farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”.
Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno del Padrone, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa. Certo, per noi che viviamo sempre a pieno ritmo, che siamo immersi nella bellezza della vita, è decisamente sgradevole pensare a queste cose.
È innaturale immaginare la nostra fine: concludere di punto in bianco la nostra esistenza, troncare la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento dei nostri progetti, prospettarci nella mente quell’ultimo istante in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. Nessuno guarda con simpatia a queste realtà, tutti preferiscono ignorarle, non pensarci, non approfondirne i particolari; molto meglio preoccuparci del presente, del concreto, dell’immediato.
Eppure sono realtà che richiedono grande considerazione. Come deve essere allora questa nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile, paziente, produttiva, costante. La gente invece si stanca subito: vuole risultati, successi, traguardi facili e immediati; pretende subito raccolti abbondanti. L’attesa invece è tenace: bisogna soprattutto essere convinti che il seme di Dio è il migliore, che per nascere e crescere, oltre ad un terreno fertile, ha bisogno della luce e del calore dell’amore. E di tanta perseveranza: una virtù che oggi purtroppo è molto trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano in fretta e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, cangiante. Se Gesù con il suo Vangelo è ancora “fermo” a più di duemila anni fa, noi che possiamo farci? Si adatti anche Lui ai tempi moderni, la sua Parola si aggiorni, ci segua; si allinei con le nostre esigenze, si metta al passo coi tempi, e noi allora vedremo di seguirlo.
Illusi! Pensiamo di cambiare il mondo? È il mondo che cambia noi, questa è la verità.
Solo se continueremo a lavorare in silenzio, ad arare, a girare la terra, a concimare, a togliere pazientemente i sassi e le sterpaglie, un giorno potremo vedere la fioritura e cogliere i frutti.
Il vangelo di oggi ci insegna proprio questo: dobbiamo vegliare, dobbiamo aspettare il ritorno del padrone lavorando, ; dobbiamo rimanere sempre vigili, senza cedere mai al sonno. Perché questo è il grande pericolo della vita: addormentarsi, vegetare, sopravvivere.
“Vegliare” infatti non vuol dire smettere di lavorare, far finta di niente, tirare avanti aspettando che “qualcosa succeda”: se non facciamo niente, non succederà mai niente; “vegliare” vuol dire imparare a conoscere oggi la Voce, mettere in pratica nel presente gli insegnamenti di quel Dio che un giorno ci chiamerà. Quando Lui chiama non abbiamo scelta: dobbiamo rispondere, dobbiamo andare, costi quel che costi, anche se abbiamo paura, anche se siamo terrorizzati, anche se non capiamo il perché, anche se ci sembra impossibile che tocchi proprio a noi.
Ritagliamo allora dal nostro tempo, oggi che possiamo, spazi di meditazione, pause di riflessione su queste verità. Non lasciamoci frastornare dalle idee e dalle mode materialistiche del momento: sono cose in continua evoluzione, in costante travisamento, ci portano sempre al peggio, in realtà effimere, in altri pensieri, in altre ambizioni, in altre priorità. Soprattutto, lo ripeto, viviamo Cristo, la “Vita”. Condurre una vita da morti, non si può chiamare vita.
Non prendiamoci in giro dicendo: “Tanto, col tempo le cose cambieranno”. Succede che il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, quando avrò meno preoccupazioni, quando sarò anziano, “in pensione”, allora mi dedicherò a Dio”: sono parole idiote, senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da tutto per amare Dio; serve solo conoscerlo, volerlo incontrare, volerlo vedere, saperlo riconoscere nei fratelli, assaporarlo; insomma dobbiamo viverlo, ora che possiamo, in famiglia, nel lavoro, nella nostra professione. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di poterlo amare domani? Non cambierà nulla. Sono solo fantasie, è uno stupido alibi che ci costruiamo per giustificare la nostra apatia. E poi, chi ci garantisce di avere tempo sufficiente per poterlo fare?
Soprattutto non illudiamoci di essere già delle brave persone: non diciamoci che sì, alla fin fine, non siamo proprio così tanto male; non convinciamoci di essere, tutto sommato, come gli altri, anzi migliori degli altri; di essere insomma dei buoni cristiani, dei “quasi perfetti”, bisognosi al massimo di qualche ritocchino ogni tanto! Non dimentichiamo mai che a Gesù, i “quasi perfetti”, procurarono i problemi più grossi. Fu ucciso proprio dalle persone che pensavano di essere le più buone, le più brave, le più osservanti, le più religiose. Non creiamoci false e inutili aspettative: già il solo pensare di essere migliori degli altri, ci mette in coda a tutti, all’ultimo posto, perché questa è subdola presunzione, fine superbia.
Aspettiamo invece molto umilmente l’incontro finale con Dio, pregando, ogni nuovo giorno, al nostro risveglio: “Gesù, fammi parlare oggi come se le mie parole fossero le ultime. Fammi agire come se quelle di oggi fossero le mie ultime azioni. Fammi accettare oggi la sofferenza, come se fosse l’ultimo dono che ho la possibilità di offrirti. Fammi pregare come se la mia preghiera di oggi fosse l’ultima possibilità che ho di parlare con te qui in terra”. Amen.