«Quando il Figlio dell’uomo
verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua
gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni
dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore
alla sua destra e le capre alla sinistra».
Con questa
domenica si conclude l’anno liturgico. E come meditazione finale, la Chiesa ci
propone una visione apocalittica: Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai
suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel
giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di accantonare nella nostra mente,
ma che a tutti, inutile negarlo, incute una seria preoccupazione.
Di
fronte a tale scenario noi restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima
è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di
Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere
questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo
si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio dal volto amoroso
e compassionevole?
Due
aspetti, quelli di oggi, che solo apparentemente sono in contrasto tra loro. Prima
di tutto la qualifica di “Re” attribuita a Cristo: una denominazione altisonante
e ieratica che male si adatta anche questa al Gesù, umile e remissivo, Padre
innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: un Re che entra nella sua
città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento
somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un re che
svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli
altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi gli
uni gli altri”; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli
sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro,
appeso nudo ad una croce, un Re che necessita di un cartello per essere
identificato, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore. Che c’è
di “regale” in tutto questo?
C’è poi
la figura di questo giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono
per valutare, premiare e condannare: e, guarda caso, lo fa proprio nei
confronti di coloro che Lui stesso ha talmente amato da offrire la propria vita
per loro morendo sulla croce.
Ripeto:
potrebbe sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona
conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa di “Cristo, Re
dell’universo”, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo,
una verità fondamentale: che Gesù - per noi eletti, noi figli, noi sua Chiesa -
rappresenta veramente tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del
Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è
il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui
che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero
nascosto nei secoli.
Dire che Cristo è
"sovrano" della nostra vita, significa riconoscere che solo in lui ha
senso il nostro percorso di vita e di fede. E, permettetemi, è molto consolante,
alla fine dell’anno liturgico, ribadire con forza, tutti insieme, questa nostra
convinzione. Sì,
fratelli, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto tale, noi che gli
abbiamo detto “sì”; siamo stati noi a volere che fosse Lui a guidare la nostra
vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di
fronte al mondo.
Quindi,
nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e
misericordioso” e insieme un “Re giusto e inflessibile giudice”; un re che
Verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra
coerenza su quanto gli abbiamo promesso; in una parola, se siamo stati o no all’altezza
del suo amore, donando anche noi amore.
Gesù durante
la sua vita terrena non ha mai “giudicato”; e non lo farà neppure allora. Dio non
giudica, fratelli, Dio “svela”. Dio cioè farà vedere quello che non abbiamo
voluto far vedere, quello che noi ci siamo nascosti, quello che abbiamo
lasciato appositamente nell’ombra.
Il suo
“giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà semplicemente nel
rendere pubblica, nello svelare la situazione reale di ciascuno, nel portare tutto
a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nulla potrà
più rimanere nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto apparirà nel vero senso della
parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato. E ognuno saprà da solo, senza
bisogno di sentenze, se andare alla destra o alla sinistra del Re.
Il
testo di Matteo pone una insistenza quasi puntigliosa su alcuni “bisogni”: fame,
sete, essere forestieri, nudi, malati, carcerati; ed è in funzione della loro “soddisfazione”, che noi saremo chiamati a documentare pubblicamente il nostro operato: È chiaro che si tratta di una
provocazione voluta: sono tutti “bisogni” che implicano “azione”, esigono cioè da parte nostra un amore concreto, attivo, un amore che non si deve fermare alle belle parole; un amore
azione, interessamento, preoccupazione, un reale darsi da fare.
Ci
sono milioni di uomini che muoiono di fame ogni anno: conosciamo bene questa realtà,
perché ciclicamente viene riproposta all’attenzione del mondo da alcune organizzazioni
internazionali. Ma parliamo, parliamo, e poi nessuno fa nulla: il nostro alibi
è che c’è già chi ci deve pensare; e poi noi abbiamo il lavoro, la spesa da
fare, mille cose da sbrigare, le pulizie di casa che non finiscono mai, guardare la
tv, qualche meritato divertimento. Insomma ci sono tante cose per noi ben più
importanti dei cinquanta milioni di morti di fame.
Ancora: un
miliardo di persone bevono acqua non potabile, contraendo ogni genere di
infezione, o ne sono completamente senza. Allucinante al giorno d’oggi. E noi che
facciamo? Anche qui grandi conferenze, grandi parole, grandi convegni. Certo per noi è
facile parlare, con il frigo e la dispensa pieni di bevande, o con l’acqua
potabile che scorre in abbondanza quando apriamo il rubinetto di casa. Anzi,
guai se per caso dovessero temporaneamente sospenderne l’erogazione: andremmo
in mille escandescenze. Ci arrabbieremmo. Per così poco? Dovremmo invece pensare un pò di più a chi non ce
l’ha mai, a chi muore per la sua mancanza!
I
forestieri sono i vicini, quelli che vivono attorno a noi: sono gli immigrati, quelli
che vengono da altre città, quelli che abitano qui per lavoro, quelli che per
necessità hanno abbandonato il loro ambiente, la loro famiglia, quelli che non
hanno amicizie o compagnie. Forestieri sono anche persone che conosciamo, persone
anziane, colleghi di lavoro, che per i motivi più disparati non hanno nessuno
con cui condividere una gioia, una bella notizia, un dispiacere; non hanno
nessuno con cui passare qualche ora, andare al cinema, passeggiare, mangiare
una pizza. Piccole cose di una serena convivenza. Ma tanto si sa, noi siamo a posto: noi gli amici li abbiamo già, che
possiamo farci?
I nudi
sono quelle persone che nessuno copre, che nessuno difende, che nessuno considera;
quelli che sono privi di qualunque conforto umano, che vivono alla deriva, ai
quali viene negata la loro dignità di persone: una esagerazione? Nossignori;
facciamo un giro per le grandi città, nelle periferie, e ce ne renderemo conto!
I
malati. Quante persone sono malate nel fisico o nell’anima. Per chi è in
ospedale, nella solitudine, avere qualcuno vicino è come vedere la luce alla
fine di un tunnel completamente buio. Quando un malato è triste, disperato,
quando non intravvede alcuna soluzione possibile, quando si sente infermo anche
nell’anima, quando con tutte le forze cerca qualcuno che si interessi a lui, che
lo ascolti, che condivida le sue sofferenze, ecco: avere questo qualcuno
vicino potrebbe essere la sua salvezza. Noi, come ci comportiamo in proposito?
Le
nostre carceri sono sovraffollate. Ma non è solo questo il dramma. Il dramma è
la solitudine, lo squallore di certi ambienti. Il dramma è che il carcere è
un’onta dalla quale non ci si riprende più. Il dramma è che nessuno vuole più
il carcerato nel mondo del lavoro, nella società. Il dramma è che se uno non
era un criminale incallito, in carcere impara a diventarlo. Hai voglia a
strombazzare di “recupero”: spesso la cura è peggiore del male. Non possiamo
proprio far niente in proposito?
Ecco:
il “tesario d'esame” è questo: situazioni che esigono tutte un nostro
coinvolgimento. Non grandi cose, ma anche piccole condivisioni, una fraterna
comprensione, un piccolo slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un pio
desiderio. Ripeto: non saremo giudicati sui nostri pii propositi; non saremo
giudicati su quello che avremmo voluto fare, se avessimo avuto tempo o possibilità;
non saremo giudicati sulle nostre buone intenzioni, ma su ciò che concretamente
abbiamo fatto, su come l’abbiamo fatto, sulla nostra buona volontà.
Dopo
l’esame personale di ciascuno, il testo del Vangelo introduce, come risultato, due possibilità diverse, due destinazioni opposte, in funzione dei singoli comportamenti: una per gli eletti, l’altra
per i condannati. Uno è invece l'elemento che giustifica questa scelta: una domanda accorata che sgorga da entrambe le schiere: consolante per i primi,
tragica e disperata per i secondi: “Quando
Signore?”. Già, “quando”? Nessuno se n'era accorto; nessuno aveva capito di aver avuto a che fare non con dei bisognosi, ma con Dio in persona: non ci avevano mai pensato. Sì,
fratelli, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile;
è in incognito, è misterioso. E tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno
amato o rifiutato senza rendersene conto: gli uni hanno amato l’uomo e, pur non vedendo in lui Dio, lo hanno comunque amato; gli altri, non amando l’uomo, hanno rifiutato anche Dio.
L’amore
per Dio, quando si ama il prossimo, è un amore inconsapevole, inconscio. Nessun
santo sapeva di essere santo amando il prossimo. Chi ama Dio non “sa” di amarlo.
Se noi amassimo uno sapendo che poi erediteremo le sue ricchezze, è chiaro che lo stiamo usando.
Lo stessa cosa succede quando noi amiamo il prossimo per avvicinarci a Dio! Anche
in questo caso noi stiamo usando qualcuno. Perché, se noi amiamo il prossimo
semplicemente per essere dei cristiani in regola, per sentirci a posto con Dio,
perché c’è un comandamento che ce lo impone, scusate, ma che razza di amore è
il nostro? Stiamo veramente amando, o stiamo facendo dei progetti per il futuro?
L’amore non va mai strumentalizzato; in nessun caso. Neppure per arrivare a
Dio. Pertanto, e lo ripeto per maggior chiarezza, non “dobbiamo” amare il prossimo
per “amare Dio”, perché in questo modo lo facciamo per nostra comodità, per
avere un tornaconto, elevato quanto si vuole (Dio), ma pur sempre un tornaconto.
Invece il fratello, il prossimo, va amato per se stesso, perché ci entra dentro
l’anima, perché il suo volto ci penetra dentro, ci tocca il cuore.
La prima
preoccupazione di chi cerca la perfezione, è di sapere se la sua vita è gradita
o no a Dio, se piace o no a Lui, di sapere se è bravo o no, se ha fatto giusto
il suo compitino: non lo saprà mai. “Quando Signore?” Nessuno lo sa: d’altronde,
se Dio venisse qui da noi in veste ufficiale, tutti faremmo a gara per aiutarlo,
per metterlo a suo agio, per farcelo immediatamente “amico”; vorremmo ovviamente
entrare tutti nelle sue grazie, tra i suoi intimi, perché tutti vorremmo essere
presentati da Lui al Padre, essere considerati bravi figli, bravi discepoli. Ma
Dio non è visibile in questo mondo, fratelli; se lo fosse, amarlo sarebbe molto
facile per tutti; difficile è invece amarlo senza vederlo, amarlo nell’altro, nel
prossimo, nello sconosciuto, nell’uomo della porta accanto. Diceva
Madre Teresa: “Non so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che
chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio”.
C’è dunque una diversa destinazione:
quelli a destra, sono i salvati; quelli a sinistra, i dannati. Ma perché mai “destra”
e “sinistra”?
La
destra, per gli antichi, è il segno della luce, della ragione, di chi vede le
cose e se ne preoccupa. La sinistra, invece, è segno del buio, dell’inconsapevolezza,
del non accorgersi, del disinteresse. Ecco, la differenza tra i due
schieramenti è proprio qui: c’è chi si lascia toccare, colpire, segnare da chi
incontra, c’è chi gli parla, chi si immedesima con lui, e chi, invece, alza una
barriera, si protegge, si schernisce, si difende. La differenza quindi è tra
chi “sente” la vita dell’altro e vi partecipa con la sua, e chi al contrario ne
rimane fuori, non entra, non si lascia coinvolgere, non si lascia toccare da
ciò che l’altro vive; rimane insensibile, indifferente, schermato, menefreghista.
C’è
una parola moderna che stabilisce bene ciò che differenzia le due schiere: è l’“empatia”.
Empatia vuol dire infatti entrare dentro, sentire dentro; percepire, cioè, quello che anche l’altro
percepisce. Viene dalla parola greca “patos”
- che vuol dire sentire, patire,
e indica un sentimento forte e profondo, simile alla sofferenza - e dalla
desinenza “in” che vuol dire dentro.
L’empatia
è dunque la capacità di lasciarsi toccare dalle persone. Noi piangiamo con
facilità davanti alle scene commoventi di un film, ci identifichiamo con i nostri
campioni sportivi ed esultiamo con essi per la vittoria. Ma ci risulta
difficile “sentire” cosa l’altro sente, “vivere” quel che l’altro vive; non riusciamo
a percepire il suo dolore, la sua sofferenza, l’intensità delle sue parole e
dei suoi gesti. Non siamo in sintonia con lui, gli siamo fuori e lui non ci è
dentro. In questo caso, fratelli, non può esserci amore: dove c’è distacco,
divisione, non esiste amore. L’amore è invece vicinanza, è unione, è entrare
dentro l’altro: è, insomma, “empatia”, un sentimento che ci cambia, che ci fa diversi, che
ci modella, che ci fa vedere le cose da altre prospettive.
Ma il
vangelo non si esaurisce qui: lo stesso impegno che dobbiamo avere verso il
prossimo, dobbiamo averlo anche verso noi stessi; dobbiamo cioè soddisfare,
oltre quelli degli altri, anche i nostri “bisogni”. Sì, fratelli, perché succede
anche a noi di essere affamati, di essere assetati, e dobbiamo quindi darci da “mangiare
e da bere”. Chi di noi non ha fame d’amore? Chi di noi non ha sete di dolcezza?
Chi di noi può dire: “Io basto a me stesso! Io non ho bisogno di nessuno!?”
Solo un pazzo, solo un esaltato. Dobbiamo invece tener sempre nel giusto conto anche
il nostro bisogno di amore, di tenerezza, di affetto, di complimenti; di
stare con persone che ci amano, che ci apprezzano, che ci stimano, che hanno
fiducia in noi.
L’amore
è come la ricarica per il telefono, la benzina per l’auto, il cibo per il
corpo. Non se ne può fare a meno. Non possiamo lavorare, faticare, correre in
continuazione, e pensare di poter resistere senza alcuna ricarica.
Ascoltiamo
dunque i bisogni del nostro cuore, della nostra anima: ascoltiamoli attentamente
perché capita anche a noi di sentirci forestieri e
carcerati; anche noi ci sentiamo talvolta
di vivere in un mondo ostile, estranei a tutti e a tutto: ed è qui, in questo
momento, che abbiamo bisogno anche noi di accoglienza, di un consiglio, di una
buona parola, di assicurazioni.
Invece
spesso noi ci teniamo tutto dentro. Neghiamo a noi stessi di aver bisogno di aiuto.
Siamo così orgogliosi da preferire di star male, piuttosto che ammettere
la nostra debolezza. Ma il nostro orgoglio non ci ripaga mai, fratelli,
ricordiamocelo. Se ci sentiamo tremendamente soli, forse dipende dal fatto che non vogliamo nessuno vicino a noi. Se talvolta gli altri non ci amano,
forse siamo noi che non vogliamo farci amare!
Quando
ci guardiamo nello specchio dell’anima, succede a volte di sentirci nudi, di
vederci cioè per quelli che siamo in realtà, al di là di tutte le maschere e i
camuffamenti con cui ci travisiamo, e ci assale un senso di rifiuto per noi
stessi. Non ci vorremmo così; ci vorremmo diversi; ci vorremmo migliori; vorremmo
non vivere certe cose e non fare certi pensieri. Ecco, è proprio in questi
momenti che ci dobbiamo amare e accogliere per quello che siamo. È difficile,
ma dobbiamo accettarci così, capire che dobbiamo fare i conti con la nostra
fragilità, che possiamo ammalarci e avere bisogno di aiuto; che in questi casi dobbiamo
ricorrere a qualche “medico”, che illumini le nostre ombre. Un “medico”?
Sissignori: perché quando il nostro cuore si irrigidisce e rifiuta di aprirsi, allora abbiamo
bisogno di un “medico”; quando la nostra mente insiste nella ripetizione
maniacale di certi schemi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra
anima non riesce più a vivere, a gioire, a stupirsi, allora abbiamo bisogno di
un “medico”; quando il nostro spirito si rifiuta di perdonare, allora soprattutto
abbiamo bisogno di un “medico”. Non possiamo pretendere di essere Dio e di risolvere
tutto da soli. Non possiamo pensare di essere onnipotenti e di bastare a noi
stessi. Non possiamo infine essere così stupidi di credere di non aver bisogno
dell’aiuto di nessuno, neppure di Dio.
È una faccenda molto seria, fratelli. Perché alla fine dei tempi, davanti al
Cristo in maestà, al Re dell’universo, dovremo dare testimonianza anche su questo.
Il risultato? “I maledetti al supplizio
eterno, e i giusti alla vita eterna”.
Non c’è alternativa.
Fratelli
miei: mettiamo allora da parte il nostro bel “taccuino” su cui abbiamo segnato
puntigliosamente le ore di preghiera, le messe e le confessioni, le opere buone
e i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; nonché le eventuali
giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quanto ci è
stato detto. Mettiamo da parte tutti i nostri bei discorsetti. Perché il
Signore ci chiederà soltanto se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole,
nell'affamato, nel solo, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì:
avete capito bene. Il giudizio sarà tutto sulla carità che abbiamo praticato. E
sul cuore con cui l’abbiamo praticata.
La nostra messa domenicale,
fratelli, non può, non deve esaurirsi in Chiesa: deve continuare fuori, nella
vita quotidiana. Perché solo così la preghiera, l'eucarestia, la confessione, diventano
strumenti di comunione e di amore col Cristo e tra di noi; solo così potremo
fare della nostra vita il luogo della carità. Nel lavoro, nello studio, a
scuola o all’università, nei lavori di casa o in ufficio, per strada a piedi o
in macchina: è qui che noi ci salveremo. Ma solo, e sottolineo solo, se sapremo
portare il nostro amore da dentro a fuori, da vicino a lontano, se sapremo riconoscere
il volto del Cristo adorato nel volto di chi incontriamo ogni giorno.
Non
c’è altro da dire, fratelli. Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro. Ma viviamo
così da oggi, da ora, da subito, immediatamente; perché in quel giorno non avremo
più tempo di far nulla, tutto sarà già compiuto. Allora Cristo
sarà nostro Signore e Re nei secoli eterni se avremo amato veramente, diventando
trasparenza della sua misericordia e testimoni credibili della sua compassione.
Amen.
«Avverrà come a un uomo che,
partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno
diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di
ciascuno; poi partì…».
La
parabola è semplice: c’è un padrone che affida i suoi beni, i talenti, ai suoi tre
servi che, di fronte alla sua iniziativa, assumono due atteggiamenti contrastanti:
i primi due, molto attivi, si danno da fare, investono, rischiano e fanno fruttare
il capitale; il terzo, al contrario, si lascia prendere dalla paura, dallo
sgomento, si emargina e pensa bene di nascondere la somma ricevuta piuttosto
che impegnarsi nel capitalizzarla. Al rendiconto finale i primi due riceveranno
una ricompensa molto più sostanziosa di quanto essi stessi abbiano guadagnato,
mentre il terzo verrà condannato per la sua inattività, per il suo inutile
isolamento che lo ha portato ad una gestione dei beni affidatigli totalmente
negativa.
L’insegnamento
che si può cogliere da tale parabola è ovviamente quello classico: “Metti a
disposizione di Dio e del prossimo i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità
e datti da fare, investi con intelligenza questo capitale, in maniera che anche
gli altri ne traggano beneficio; non trascurarlo, di qualunque entità esso sia,
non nasconderlo senza fare nulla, perché procureresti un grave danno a te e al
prossimo”.
Abbiamo
parlato di “talenti”, ossia di doni, di potenzialità, di carismi che ognuno di
noi in varia misura ha ricevuto gratuitamente da Dio: identificarli e
applicarli alla nostra vita pratica, è molto semplice. C’è da dire, prima di
tutto, che ci sono “talenti” che di solito non li pensiamo immediatamente come
“dono”, e che invece meritano tutta la nostra considerazione, meritano di
essere trattati con estrema cura e messi doverosamente a frutto.
Per
esempio: un talento importantissimo è la vita; un capitale, un dono incredibile
e irripetibile la vita, cui spetta ogni attenzione e cura: ci pensiamo mai a
tanta responsabilità? Vogliamo forse buttarla via, declassarla, svalutarla, preferendo
l’isolamento materiale e mentale, l’ignoranza, l’autodistruzione, piuttosto che
la crescita nei nostri ruoli, nelle nostre possibilità, nei nostri meriti, in
vista dell’inserimento finale nel regno?
Un talento
altrettanto importante è la libertà: ci è stata data la possibilità di essere sempre
noi stessi, di assumerci la responsabilità delle nostre azioni, di coltivare idee
nuove, di lottare per un “nostro” ideale; approfittiamo di questa opportunità per
combattere, per lottare e vincere, oppure preferiamo nasconderci, accomodanti e
indolenti, accettando qualunque compromesso pur di evitare i giudizi della
gente, ai quali abbiamo condizionato la nostra vita?
Altro
talento da sviluppare è la verità: come la vediamo? la cerchiamo caparbiamente,
vogliamo trovarla, viverla, costi quel che costi, osando, rischiando se
necessario anche la faccia? oppure preferiamo nascondere stupidamente l’evidenza,
vivere nell’ignoranza, chiudere gli occhi della mente, perché la sua luce, la sua
chiarezza, la sua splendida trasparenza ci incutono troppa paura?
Un altro
talento ancora è la nostra “chiamata”, la nostra vocazione: talento
preziosissimo. Come lo curiamo? Lo viviamo con generosità, con entusiasmo, perché
sappiamo che rappresenta la volontà di Dio? Rispondiamo al suo invito, accettiamo
senza indugio il ruolo che Lui ci ha assegnato, senza condizionamenti e meschini
“distinguo”; viviamo le conseguenti contrarietà e sacrifici, accettandoli con
animo gioioso, consapevoli che essi sono strettamente legati al progetto di
vita che Dio ha previsto per noi? Oppure pensiamo di vivere rinunciando a noi
stessi, a tutte le nostre concrete possibilità di servizio, nascondendoci
dietro al pretesto di non essere all’altezza di alcuna chiamata? Ci trasciniamo
stancamente in una esistenza piatta, priva di ideali e di interessi? Ma, fratelli,
ci pensiamo mai a come potremo giustificarci poi?
Un altro
talento, infine, è soprattutto la nostra anima: forse il più dimenticato, pur
essendo la nostra essenza, quel soffio di vita che il creatore ci ha donato con
la nascita. L’anima: la nostra amica, la nostra consigliera, la nostra
confidente. Cerchiamo con tutte le nostre forze di farla crescere, maturare,
sviluppare, oppure preferiamo accantonarla, lasciarla lì a dormire, a vegetare,
inascoltata e tradita; in altre parole non è che la lasciamo morire di inedia,
solo perché abbiamo paura di confrontarci con Lui attraverso di lei?
I nomi
che possiamo dare ai vari talenti, come abbiamo visto, possono essere tanti. Ma
il possesso di ciascuno, anche di uno solo, presuppone sempre un comportamento
responsabile, un lavoro costante, attivo e propositivo: rinunciare a ciò con un
atteggiamento di menefreghismo, di abbandono, di indifferenza, significa cedere
inesorabilmente alla paura, all’indolenza, all’ignavia, alla codardia.
È da
questa serie di sentimenti negativi che noi dobbiamo guardarci, fratelli; la
vicenda del terzo servo ce lo insegna: perché egli fu indubbiamente vinto dalla
paura; anzi da un insieme di paure che lo spinsero a seppellire il proprio
talento, vanificandone qualsiasi potenzialità.
Sono
sentimenti, questi, sempre di grande attualità, sempre negativi e invalidanti,
che meritano quantomeno una veloce analisi.
La prima
paura è quella del “confronto”, del giudizio della gente: il servo ha il
terrore di come gli altri potrebbero valutare le sue iniziative. Avverte un ingiusto
svantaggio perché, con un solo talento in dotazione, si sente nettamente inferiore
agli altri, meno dotato di loro, e quindi rifiuta categoricamente di dimostrare
anche quel poco che ha, quel poco che è, pur avendo una sua realtà, una sua innegabile
dignità. Sembra dire: “Io, con un solo talento, sono il più sfortunato! Loro ne
hanno tanti! Io non ho le stesse possibilità. Non posso rischiare di sbagliare,
ho soltanto questo talento e me lo devo tenere molto stretto. Del resto la
colpa non è mia; è del padrone che me ne ha dato uno solo!”. Ma il padrone, che
gli legge dentro, lo redarguisce: “Malvagio, bugiardo, falso: vuoi giustificare
la tua stupidità, la tua inefficienza, la tua pigrizia, dando la colpa a me?
Vuoi giustificare la tua paura di rischiare, dicendo che l’hai fatto per me?
Prenditi le tue responsabilità. Fuori da qui, nelle tenebre!”. E questo,
fratelli, la dice lunga: perché chi vive senza far niente, nell’abulia, nel
disinteresse, rinunciando a qualunque iniziativa, finisce inesorabilmente nelle
tenebre del nulla!
Quando
uno comincia a chiedersi se è più dotato degli altri, se è migliore o peggiore,
se l’altro è più o meno bravo di lui, se ha più soldi, più intelligenza, più simpatia,
più consensi, più donne… beh, allora vuol dire che è già sulla buona strada per
rovinarsi da solo.
Nella
vita, fratelli miei, ci sarà sempre qualcuno inferiore a noi, che noi
puntualmente disprezzeremo; ma soprattutto ci sarà qualcuno superiore a noi, che
noi, altrettanto puntualmente, invidieremo con tutto il cuore, approfittando
della cosa per commiserarci e per piangerci addosso dalla rabbia. Le persone si
rovinano perché non guardano mai a loro stesse, a quel che sono, a quel che possiedono,
alle loro possibilità; ma guardano sempre con invidia agli altri: a quel che hanno,
come vivono, cosa fanno. Pensate all’assurdità del comportamento di questo disgraziato
che, frastornato dalla ricchezza dei colleghi, nasconde agli occhi di tutti, sotterrandola,l’unica
cosa preziosa che è veramente sua, di cui potrebbe invece andarne fiero:
preferisce non confrontarsi, si limita a guardarli da lontano in azione,
macerandosi nell’invidia e nello sconforto. Non riesce ad accettare che essi siano
più bravi di lui, e rinuncia stoltamente alla possibilità concreta di esprimere
umilmente quello che lui è e quello che sa fare.
Non
sono pochi, fratelli miei, quelli che si comportano così; sono più di quanti ne
possiamo immaginare: si credono umili, remissivi, provati e tartassati dalla
vita pur essendo dei giusti e timorati di Dio; si sentono bravi e santi, perché
fanno delle rinunce (che poi non volontarie, e meritorie ma inevitabili, imposte
dalla vita); in realtà sono pieni di orgoglio, rinunciano a fare perché hanno
paura di rischiare, di mostrarsi deboli e insicuri, di essere giudicati
negativamente. E così perdono ogni dignità, ogni credibilità; e per questa loro
ossessione, vivono decisamente male, nei pregiudizi e nelle paure.
La
seconda paura del servo, sicuramente quella determinante, è la paura che gli
deriva dall’immagine distorta di Dio che egli si è fatta. Quest’uomo prova nei
confronti di Dio soltanto paura, un sacro terrore: «Signore so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e
raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra»
(25,25).
Ma che
Dio è questo, fratelli miei? Chi non sarebbe terrorizzato, paralizzato, da un
Dio implacabile che non ammette errori? Che idea di Dio si è mai fatta questo
poveraccio? Come avrà fatto? Che razza di uomo è? Semplice, fratelli: è un uomo
che agisce in maniera speculare all’immagine di quel Dio che lui stesso si è
costruito nel suo intimo. In altre parole, lo stesso terrore che ho nei
confronti di Dio, lo nutro anche nei confronti di me stesso: ho una paura folle
di vivere, di quello che potrebbe rivelarmi la mia anima; ho il terrore di
ascoltarmi, di vivermi. Se invece sono convinto che Dio è amore, allora la mia
vita è serena, posso guardarmi tranquillamente dentro l’anima, dando nome e
spazio a tutto ciò che di bello vi trovo. Se Dio mi ama, mi sento di provare, di
rischiare e anche di sbagliare, ma sono comunque tranquillo, so che Lui mi ama,
mi consola, mi perdona: la condanna arriva soltanto se non ne può fare
assolutamente a meno, e dipende sempre e soltanto da me, mai da Lui. Se Dio per
me è fiducia, mi spingo ad osare, volo sempre in alto; non mi rinchiudo in una
falsa sicurezza, nel terrore e nel legalismo. Se Dio per me è Vita, mi riesce naturale
vivere, espandermi, realizzarmi; trovo invece assolutamente innaturale lasciarmi
appassire, lasciarmi morire.
È
proprio così, fratelli: se ho paura di Dio, non posso vivere; se penso di non
poter vivere, vuol dire che ho paura di Dio; non c’è alternativa. Gravissima
malattia, fratelli, quella di pensare Dio come un padrone autoritario, un giudice
severo, spietato e inappellabile. Una malattia che anche in un passato non
troppo lontano mieteva le sue vittime. Nell’educazione dei giovani del mio
tempo veniva inculcata la paura di Dio, il terrore delle conseguenze
implacabili del peccato, il terrore di affrontare per causa sua pene
indescrivibili, fiamme e fuoco eterni. Si viveva nel terrore del peccato – e una
volta tutto era peccato, proprio tutto – nel terrore di perdere la grazia, di
sbagliare, di commettere qualcosa di non gradito a Dio: con il risultato di
creare in essi una concezione distorta di Dio. Io stesso ho conosciuto più
tardi persone che, condizionate allora da questa terrificante immagine di Dio, sono
cresciute con una personalità bloccata, sterile, rigida, vuota; persone incapaci
di amore e di umanità; persone che magari si buttavano nella preghiera, persone
devotissime, sempre in chiesa per rosari e giaculatorie, ma che avevano un’anima
priva di Vita, perché non conoscevano la gioia e la felicità dell’amore di Dio.
Ebbene,
Dio non è così, fratelli! Non è quello il nostro Dio: se noi lo temiamo
soltanto, se abbiamo solo terrore di Lui, vuol dire che di Lui non abbiamo
capito nulla, vuol dire che dobbiamo immediatamente cambiare idea. Perché Lui è
soprattutto amore; è Lui stesso che ci sussurra amorevolmente: “Venite a me voi
tutti… affaticati e oppressi, ed io avrò cura di Voi”. Ascoltiamolo!
Una terza
paura è quella legata all’insicurezza. Il servo del Vangelo ha paura di
sbagliare. Non vuole fare errori; ma proprio perché non li vuol fare, compie
l’errore più grande. Vorrebbe controllare ogni minima sfumatura della sua vita,
renderla assolutamente sicura, in tutto. Ma non si può! Non ci si può proteggere
da tutto e da tutti; non si può vivere convinti di non sbagliare mai. Pensare
così significa pretendere la perfezione assoluta, umanamente impossibile: in
realtà equivarrebbe a non vivere. Perché vivere è sì crescere, diventare
migliori, più profondi, inseriti nel mistero della vita. Ma vivere è anche
sbagliare, innamorarsi, perdersi e ritrovarsi; chiudersi e aprirsi; andare anche
in depressione, in fallimento, in crisi, ma poi rialzarsi. Vivere è piangere, è
ridere. Vivere è sentirsi addosso tutta la tristezza del mondo, percepire in
certi giorni un dolore profondo, antico, ancestrale; ma vivere è provare anche quella
felicità ed ebbrezza che ci fanno sentire beati e felici già su questa terra. Ecco:
volersi precludere tutto questo è precludersi la vita.
L’uomo
del vangelo ha paura del padrone e cerca di tutelarsi. Vuole essere certo di
piacergli, e non si accorge che la paura lo costringe a fare scelte sbagliate
di se stesso e della sua vita. Purtroppo chi vuol controllare tutto - e lo fa
per paura, perché sente di non essere in grado di affrontare e gestire la
situazione - alla fine perde il controllo di tutto. Chi nella vita cerca solo sicurezze,
è fondamentalmente un debole, uno che ha paura di se stesso, e che finisce sicuramente
per sbagliare.
«Per paura andai a nascondere
il tuo talento».
Una paura folle, quella del servo, dovuta anche alla sua insicurezza. Sì,
perché l’insicurezza chiude, quando invece l’amore e la fiducia aprono. L’insicurezza
evita, la fiducia incontra. L’insicurezza crea paura e diffidenza, la fiducia
amore. L’insicurezza crea sospetto e pregiudizio, la fiducia complicità. L’insicurezza
fa vedere tutti gli uomini come dei nemici, la fiducia come semplicemente delle
persone, delle nuove possibilità d’incontro. L’insicurezza ha bisogno di
combattere, di difendersi, di proteggersi, di mettere barriere; crea ansia, crea
controlli e difese su tutto.
Abbiamo
paura del giudizio degli altri? Tranquilli: è la vita. Non potremo mai impedire
agli altri di pensare e di parlare, qualunque cosa facciamo, in qualunque modo
la facciamo. Accettiamo allora che essi possano non essere d’accordo con noi, che
possano non capirci o fare scelte diverse, perché noi tutti siamo venuti a
questo mondo non per rispondere alle aspettative altrui, ma per vivere la nostra
vita, per capitalizzare quel grande talento che Dio ci ha affidato. E dobbiamo
farlo combattendo sempre, provando e riprovando, nonostante la paura e l’insicurezza.
Anzi, dobbiamo combatterla proprio, l’insicurezza, perché è nemica dichiarata
della fede, del nostro “credo” fiducioso.
E
concludo: penso, fratelli, che l'insegnamento per noi e per i nostri giovani che
crescono con la mentalità di oggi - che privilegia il divertimento, il
consumismo, le chiacchiere inutili – sia proprio questo: nella vita, sia materiale
che spirituale, bisogna impegnarsi sempre, ricominciare sempre da capo, non
arrendersi mai; vivere intensamente, senza pause, senza soste, senza “intermezzi”;
questa è la prospettiva giusta: perché per un cristiano il tempo libero non
esiste: fino a quando c'è tempo e vita, egli deve essere in azione, deve darsi da
fare per il Signore, per il prossimo, per la Chiesa, per la società. Un
cristiano inattivo, che non faccia nulla, che si consideri in “vacanza”, che
abbia nascosto il suo talento per tenerlo al sicuro senza preoccupazioni, è
semplicemente inconcepibile. Vivere solo per cose futili, senza mai trovare il
tempo per un incontro, un'attività, una collaborazione, una presenza, non è vivere
da cristiani: significherebbe venir meno agli impegni di fede, di preghiera, di
carità, con tutto quel che segue. La vita di chi vuol seguire Cristo è una vita
in continua tensione, nel bene, nella carità, nelle opere buone. Non possiamo arrenderci
mai, fratelli miei, neppure quando, avanti negli anni, pensiamo di aver
raggiunto il nostro meritato “traguardo”: niente di più falso; perché quello
che abbiamo guadagnato per Dio, durante tutta la nostra vita, sarà sempre nulla,
una miseria, rispetto a quello che abbiamo ricevuto da Lui.
Non imitiamo,
fratelli, il terzo uomo del Vangelo che si sente in regola nella sua
inefficienza: noi, che ci dichiariamo discepoli di Cristo, noi che abbiamo
avuto in consegna da Lui, tutti indistintamente, un “talento” importantissimo, che
è l’amore di Dio, noi, dobbiamo impegnarci seriamente a metterlo a frutto: ogni
giorno, instancabilmente. È un “talento”, un tesoro, di inestimabile valore; non
lasciamolo inerte, non trascuriamolo, perché il nostro vivere, il nostro
crescere, il nostro dare frutto, sono strettamente proporzionali all’offerta che
di esso ne facciamo agli altri.
Sì,
fratelli, possiamo aumentare il nostro guadagno da presentare al Padre,
elargendo la carità e l’amore avuti da Dio, ai nostri fratelli: in parrocchia,
nella società, in famiglia, negli ambienti in cui viviamo e lavoriamo. Le
opportunità per realizzare questa nostra missione, sono anch’esse altrettanti doni
che Dio ci ha affidato, altrettanti “talenti”: e anche su questi dovremo
rispondere a Lui. Pensiamoci con calma ma seriamente, fratelli: perché è un vero
delitto perdere qualunque opportunità di dimostrare al mondo che Dio è Amore.
Amen.
«Il regno dei cieli sarà simile
a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo.
Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade,
ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade,
presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono
tutte e si addormentarono…»
La
parabola delle dieci vergini che aspettano lo sposo, ci invita a pensare alle cose
ultime della nostra vita, alle cose veramente importanti, a quelle che
sistematicamente accantoniamo, quando invece dovremmo pensare più spesso e più
seriamente che in questo mondo non ci stiamo in pianta stabile, che siamo solo provvisori,
perché la vita non è nostra.
Abbiamo
ricordato da alcuni giorni i nostri cari defunti che ci hanno preceduto là dove
anche noi dovremo un giorno andare. Si, fratelli, perché, anche se non ci
pensiamo, non rimarremo eternamente su questa terra. La vita è soltanto un
passaggio: il cammino da un punto di partenza ad uno di arrivo, dalla nascita
alla morte: nessuno può esimersi; giorno dopo giorno, il nostro nome sta
avanzando inesorabilmente sulla lista dei chiamati; siamo tutti in attesa del
nostro turno per l’incontro finale con lo Sposo, il nostro Creatore e Signore.
Ecco, sono
proprio queste due le parole importanti che ci vengono proposte alla
meditazione dal Vangelo di oggi: “attesa” e “passaggio”.
“Vigilate, tenetevi pronti,
perché non sapete quando il vostro Signore verrà".
La
nostra vita è prima di tutto “attesa”. Una definizione curiosa, con un
significato molto intrigante: attesa di chi? di che cosa? per quale motivo mi
devo condizionare la vita nell’attesa di un qualcuno che viene quando piace a
lui? Certo, tra le mille preoccupazioni quotidiane, quella dell’attesa di Dio non
rientra proprio tra i nostri pensieri più importanti. Abbiamo ben altro cui
pensare. Se però riflettiamo un poco, ci rendiamo conto che l’attendere,
l’aspettare che qualcuno o qualcosa si materializzi nella nostra vita, è una
categoria mentale che è parte integrante del nostro comportamento. Tutti, in
qualche modo, siamo in “attesa”: in genere ciò che aspettiamo, proviene dal
mondo che ci circonda, proviene da altri, dall’esterno: un qualcosa che ci
spetta quasi di diritto e che prima o poi deve arrivare: dal lavoro, dai figli,
dalla famiglia, dagli anni che passano. Costruiamo esperienze, proviamo emozioni,
ci struggiamo per ottenere risultati, sia nell’immediato che per il domani. E ci
aspettiamo quindi le conseguenze: perché tutto ciò che facciamo, in fondo, è motivato soltanto
dal desiderio, anche se inespresso, di avere in cambio un beneficio concreto: essere
felici, essere appagati e ripagati, avere il cuore ricolmo, sazio, soddisfatto.
Questo è naturale per tutti.
Ma per chi ha fede, anche se spesso superficiale e
di maniera, l’attesa assume un valore più importante e impegnativo, è un
qualcosa di più intimo, di soprannaturale, un qualcosa che non si arriva a
capire del tutto, ma che si “sente” come parte integrante del nostro essere. Siamo
in attesa di una “chiamata”, del richiamo di Dio: è la voce dello Spirito, il
richiamo inappellabile di Colui che ha permesso la nostra esistenza, di Colui che
ha impresso il suo marchio di fabbrica nei nostri cuori.
Col
passare degli anni, però, questa sensazione purtroppo si va affievolendo: constatando
che i nostri egoismi continuano a rimanere tali, vedendo che il mondo non
cambia come vorremmo, sopraffatti dal contingente, dall’immediato concreto, di
fronte ad un costante progresso del benessere, la nostra “attesa” perde di
tensione, pian piano si smorza, la disillusione cresce nel nostro cuore, non ci
aspettiamo più nulla che non sia legato al nostro vivere qui e ora: di fronte
all’inevitabile fallimento dei nostri sogni, delle nostre aspettative, nella
nostra anima finisce col prevalere la stanchezza, se va bene, il cinismo, se va
male.
La
delusione più amara arriva ovviamente per chi ha investito la propria “attesa” esclusivamente
sulla realizzazione della propria immagine, sull’apparire, sull'essere
splendidi, sul potere, sulla gloria, sul possedere. Del resto le suadenti
sirene del mondo, della società dei consumi, blandiscono continuamente, spingono,
esaltano ben bene su questo cammino: dicono che bisogna lavorare, lottare, produrre,
se si vuole ottenere, sfondare, riuscire. E l'uomo tecnologico, schiavo del ventunesimo
secolo, è invogliato a lavorare senza sosta, per produrre ricchezza,
benessere, rinunciando a qualsiasi forma di vita alternativa, rinunciando alla
vita dello spirito. Dio diventa un accessorio inutile, anzi una zavorra ingombrante
di cui liberarsi.
Prima
o poi, però, diventerà anch’egli preda, facile e prevedibile, della insoddisfazione,
del rimorso, dell’amara sensazione di aver sbagliato tutto, di aver sperperato
le occasioni migliori: dopo una vita delirante, sente prima o poi un vuoto
assoluto, un’assenza stridente, divorante: l’assenza di un qualcosa che non
sa bene cosa sia, che lui stoltamente attribuisce al mancato
conseguimento di un certo risultato, di un certo target di benessere, alla
mancanza di un corpo perfetto, sano e vigoroso, di una bellezza esteriore
rispondente ai canoni della moda, alla impossibilità di realizzare i propri
sogni, di possedere tutto e subito, persone e cose. Stupidaggini, fratelli miei:
sono tutte e solo stupidaggini, idiozia acuta, lo sappiamo bene.
Sì,
noi conosciamo molto bene la vera natura di quel malessere: noi, fratelli miei,
noi cercatori di Dio, sappiamo che non c’è nulla di più deprimente nella vita
dell’uomo che la constatazione del proprio fallimento, di non essere stati
all’altezza della “chiamata”, di aver tradito la fiducia di Dio, di aver
trasformato l’attesa in “disattesa”. Anche noi, che siamo partiti con
entusiasmo, che abbiamo vegliato notti intere nell’attesa dello Sposo, noi che abbiamo
abbandonato “il mondo” per seguirlo - e che poi pian piano ce lo siamo ripreso
tutto questo mondo, con tanto di interessi – noi che, in fondo, conosciamo un po' lo Sposo, ebbene anche noi non
riusciamo a vegliare fino al suo ritorno: nonostante il nostro cuore sia inquieto, soffra
per la sua assenza, per non averlo vicino, per non sentirlo,
non vederlo.
Così facendo abbiamo sbagliato, fratelli miei; sbagliamo e, non sia mai, continueremo a
sbagliare! Perché
non è il "fuori" che può riempire la nostra anima: quello la inebria
di falsa gratificazione, la stordisce, la inganna, ma non riuscirà mai ad appagarla.
È il “dentro” che conta, è con la fede, con la generosità del nostro cuore, con
la carità che possiamo contrastare il nostro vuoto di Dio; un vuoto che fatichiamo
a riempire, a colmare, a calmare. Puntare ogni nostra “attesa” sull’appagamento dei
falsi bisogni del consumismo, è irrimediabilmente
deludente, rischioso e controproducente.
La
vita è dunque “attesa”, fratelli, e noi dobbiamo riporre la nostra speranza, la
nostra intelligenza, il nostro cuore, unicamente nell'attesa di Colui che, da solo, può
saziare realmente ogni nostra aspettativa.
Questo in sostanza è anche il vero significato di “transito”, di “passaggio”.
Dobbiamo essere sempre
vigili come le sentinelle, in attesa che lo Sposo celeste passi per condurci
alle nozze senza fine; egli passa sicuramente, lo possiamo constatare ogni
giorno: ma non sappiamo quando verrà per noi. Allora, concentriamoci seriamente su
questa sacrosanta verità: il Signore ad un certo momento verrà a prenderci.
Non prendiamola come un pensiero triste, fratelli, perché incontrarsi con Lui è un pensiero di grande sicurezza e serenità: è questa l'idea che ci deve accompagnare tutti i giorni nella gioia dell’attesa: perché, ogni
giorno che passa, ci avvicina sempre più a tale incontro col Signore; ogni giorno della nostra
vita è un passo in avanti non verso l'ignoto, ma verso le braccia spalancate
del Padre nostro misericordioso, che aspetta di accoglierci nel suo amore
infinito.
La
morte è per alcuni un pensiero fastidioso. "Gli uomini, non potendo
evitare la morte, hanno deciso di non pensarci. Ma è un rimedio ben
misero", scriveva Pascal. Per il pensiero laico moderno, la morte è tabù: meno se ne parla, meglio è. "Non sappiamo da dove veniamo né dove
andiamo, e non ci importa neppure saperlo". Così si pensa oggi.
E
invece no, fratelli; il Vangelo ci insegna che Dio ci ha creati e che il nostro
destino è di tornare a Lui. Per questo dobbiamo vegliare. Ma cosa vuol dire agli
effetti pratici, “vegliare”, questo stare svegli, pronti, questo essere in costante attesa del
Signore che deve venire? Vuol dire impegnarci a fare il bene, a mettere in pratica i
suoi insegnamenti: i vasetti dell’olio di riserva delle vergini prudenti, altro
non sono che le nostre opere buone: e dobbiamo affrettarci a farne grande riserva,
perché non conosciamo quanto tempo manchi all'incontro. Anche in noi,come nei santi,
il pensiero della morte che si avvicina, deve moltiplicare il
nostro entusiasmo e le nostre energie.
A
volte pensiamo che dopo i 60-70 anni, una volta in pensione, siamo finalmente liberi
di starcene un po' tranquilli, di dare uno stacco significativo alla nostra
esistenza, di pensare a cose più piacevoli, più distensive, più divertenti. Illusi!
Per quanti dei nostri conoscenti e amici questo desiderio è rimasto soltanto un
miraggio, una fantasia, null’altro che un sogno infranto! Lo sposo è arrivato
immediatamente, senza preavviso, e hanno dovuto abbandonare sul nascere tutti i
loro bei progetti.
Non
abbassiamo la guardia, fratelli miei: Il lavoro per il regno dei cieli non termina
mai; non esiste pensione che tenga! Anzi, più passano gli anni e più il lavoro
deve essere febbrile, perché l’arrivo dello Sposo è sempre più vicino. Da giovani,
giustamente, ci siamo impegnati in tante cose, come costruirci un futuro, fondare
una famiglia, raggiungere una certa posizione professionale; ma quando
raggiungiamo una certa età e queste tensioni diminuiscono, non possiamo campare altre
scuse; non creiamoci ad arte impegni, progetti velleitari, per svicolare dal
vero problema; ogni momento è buono, ma è soprattutto col crescere degli anni
che dobbiamo dedicarci in maniera prioritaria alla “vera” attesa. Non serve più
costruire per questo mondo, dobbiamo farlo solo per il cielo. Approfittiamo del
tempo che il Signore ancora ci concede, per fare finalmente qualcosa di più importante
e decisivo, visto che negli anni già trascorsi abbiamo fatto sicuramente molto poco. E questo vale sia per gli anziani che per i giovani: quello che è stato è stato, ma non scommettiamo mai sul domani! Potremmo non avere un domani.
Non serve
a niente, fratelli miei, avere posizioni di prestigio, onori, ricchezze, se poi
ci manca completamente l’olio dell’amore e delle opere buone. Non dimentichiamo
che tra i sette vizi capitali ce n'è uno meno conosciuto, l'accidia, che è appunto
la negligenza, il menefreghismo, la svogliatezza di fare il bene, di compiere i
propri doveri di cristiano. Perché tutto è più importante per noi! Beh, come
stiamo a questo riguardo?
Il
tempo che il Signore ci dà, lo ripeto, è uno dei doni più preziosi. Non può
essere buttato via, sciupato, vissuto male. Molti si giustificano di non poter fare
molto per il Signore e per i propri fratelli, proprio per mancanza di tempo:
possibile mai? Possibile che non abbiano neppure pochi minuti per fare una
visita, una telefonata, ad un parente, ad un amico, a un conoscente in
difficoltà? Che non abbiano un po’ di tempo per migliorare la relazione con il
proprio coniuge, con i figli? Pochi minuti al giorno per la formazione, per la
preghiera, per la lettura di un buon libro? Capite bene che una simile scusa è
improponibile.
La nostra
vita deve essere da subito, immediatamente, “attesa” dello Sposo. Un’attesa
gioiosa come per il ritorno di una persona fortemente amata. Le nostre ore devono
passare condizionate da tale pensiero. Ne più ne meno come se vivessimo la
vigilia di un evento importantissimo, un evento destinato a cambiarci
radicalmente la vita, a darle un nuovo significato, una svolta decisiva, una
nuova allettante prospettiva.
Ecco,
è questo il clima descritto nella parabola di oggi: la tensione dei preparativi
cresce, perfino l'aria diventa frizzante; è tutto un via vai febbrile… l’agitazione
per non dimenticare nulla, il correre frenetico, l'ansia che si tocca con mano.
Anche per noi, fratelli, deve essere così: perché questo ci impone anche la nostra “storia” personale;
pensiamoci un istante: nella nostra vita abbiamo accolto il Vangelo, ci siamo
convertiti, abbiamo cercato di configurarci a Cristo, di seguirlo fedelmente; gli
abbiamo promesso sempre la massima fedeltà; gli abbiamo assicurato
continuamente il nostro amore; magari abbiamo anche già provato un assaggio della
sua presenza reale, dolcissima, magari per qualche istante ("raptim" come dice
Agostino), forse durante una veglia di preghiera, un pellegrinaggio in Terra
Santa o a Lourdes, o in qualche particolare ritiro. Ne siamo rimasti affascinati,
attratti, stregati; ma la sua presenza è stata fuggevole, è stata un
"già" e "non ancora", tormento e sicurezza. Ma tutto ciò
non è stato determinante per la nostra santificazione. Non è bastato: dopo quei
momenti di particolare entusiasmo inebriante, di innamoramento esaltante di Dio, è calata
la notte del silenzio, la quotidianità, e i problemi contingenti ci hanno travolto.
Oggi è
l’occasione per scuoterci: da oggi, da questo momento, rimettiamoci in vigile “attesa”,
fratelli; prepariamoci come si deve, aspettiamo… Non stanchiamoci, perché non ci
sono dubbi, Egli tornerà! Lo sappiamo e per questo dobbiamo essere pronti: “Estote parati”, siate pronti! ci
ricorda oggi il vangelo.
Nella
notte dell’anima, aspettiamo la luce del suo amore. Sì, la nostra vita deve essere un'attesa
d'amore; e come tale dobbiamo viverla. Tutto qui.
Se la viviamo così, non importa se nella vita non è andato tutto come volevamo:
pazienza se i nostri sogni, i nostri progetti, non si sono realizzati.
Pazienza. Tutto passa.
Se la viviamo così, tutto ciò che ci accade lo mettiamo in riferimento con qualcosa
di più grande, di immenso, lo mettiamo direttamente nel cuore stesso di Dio; successi
e sconfitte le leggiamo alla luce di questo orizzonte, cento volte più ampio,
mille volte più luminoso.
Se la viviamo così, sentiamo il senso dei nostri limiti come necessario, come un
qualcosa di benevolo, come una opportunità ulteriore che ci viene data per poter
capire il senso profondo della vita.
Se la viviamo così, la nostra vita
sarà incoraggiamento, sarà uno sprone, per noi e per i nostri fratelli, a
rimanere svegli, vigili, nell’ansia amorosa di incontrare lo Sposo da un
momento all’altro.
E allora una preghiera sgorgherà spontanea dal nostro cuore: Signore, donaci la vera sapienza, allontana da noi la stoltezza, fa'
che siamo capaci di alimentare continuamente le nostre lampade, per poterti correre
incontro senza inciampare, ed entrare speditamente con Te nel tuo regno d’amore.
Amen.
«Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono,
ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano
infatti fardelli pesanti e difficili... sulle spalle della
gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un
dito...»
Nella
discussione con gli scribi e i farisei Gesù denuncia in particolare l'incoerenza
e l'ipocrisia e ne ricava per tutti un magistrale insegnamento. Ormai
conosciamo molto bene il comportamento usuale degli scribi e dei farisei: conoscevano
perfettamente la legge della Bibbia, la insegnavano, ma erano anche maestri nel
trovare tutte le scappatoie e le eccezioni per non mettere in pratica ciò che
insegnavano. Se poi capitava che osservassero la legge, si mettevano bene in mostra, si pavoneggiavano, cercando di passare come persone giuste, fedeli, osservanti e in regola, disprezzando chi non era al loro livello;
non tolleravano le debolezze degli altri, e invece di aiutarli, li
condannavano, deridendoli. Ebbene: Gesù, gente come quella, la mette immediatamente al bando.
La isola: “Siate rispettosi di quello che essi insegnano, perché la Legge la
conoscono bene e la sanno predicare altrettanto bene, ma non seguite il loro esempio; non
fate come fanno loro, non meritano la vostra attenzione, perché sono incoerenti, fasulli,
gente che predica bene ma razzola male”.
Ovviamente, con le
parole di oggi, Gesù non si rivolge soltanto ai suoi discepoli, a quanti lo
seguivano: ma parla anche noi, a noi persone evolute e razionali del XXI
secolo: parla soprattutto a noi, catechisti impegnati, cattolici praticanti,
religiosi istruiti; parla a noi, chiamati a insegnare, a testimoniare il
vangelo, a noi mandati a portare il lieto annuncio di liberazione e di vita ai
poveri, ai peccatori, ai deboli del nostro tempo.
Gesù
parla alludendo proprio alla nostra vita concreta, a come viviamo, al comportamento dei “maestri” della nostra epoca, dei nostri giorni.
Certo che noi, uomini tecnologici, siamo proprio strani! Ci
dichiariamo in tutti i modi, a volte anche con la violenza, contrari a qualsiasi
forma di autoritarismo, di obbligo, di coercizione; ci indispettiamo se qualcuno
sopra di noi fa pesare il suo ruolo, la sua carica; siamo tutti, giustamente, vogliosi
di autonomia e di libertà: eppure, fratelli miei, non sappiamo fare a meno del
“guru” di turno, del “profeta”, del mistico che, da buon ciarlatano, pretende
di darci il rimedio infallibile per i nostri problemi; di colui che, attraverso
i mezzi più ridicoli (carte, oroscopi ecc.), sostiene di avere per noi il consiglio mirato, la
dritta garantita su come affrontare la nostra “fragile” vita.
Anche per questo il
nostro è un tempo strapieno di maestri, di tuttologi, di opinionisti; più
aumenta il senso di insicurezza, più si espande la relatività del pensiero, e più ancora aumentano
coloro che hanno qualcosa da dire, che sono esclusivisti della soluzione giusta.
Sappiamo che sono degli pseudo maestri, ma quanti di loro, fratelli miei, sono diventati anche per noi un punto di riferimento: in televisione, sui giornali, nei mezzi
di comunicazione, negli ambienti di lavoro, nella scuola, in politica, in campo
sociale! Maestri che straparlano tutti, che sbraitano, urlano, che vogliono imporsi:
non importa su chi e su che cosa, se in positivo o in negativo, l’importante per loro è urlare,
apparire, esserci.
Al contrario Gesù, nella sua compostezza, è pratico, chiaro come sempre: egli ci spiega molto concretamente come
dobbiamo vivere nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie, come dobbiamo
edificarci vicendevolmente nell'amore e nella pace, come dobbiamo educare i
nostri figli.
Sono le realtà portanti della vita, e con queste realtà noi dobbiamo confrontarci ogni giorno; è in riferimento ad esse che noi dobbiamo esaminarci in particolare sulla nostra coerenza
e sincerità, per non indulgere minimamente all’incoerenza e all'ipocrisia, così facili e frequenti. Insegnamenti importanti, quelli di Gesù, soprattutto per noi che abbiamo il ruolo educativo di dare il buon esempio; e noi in particolare siamo invitati a
esaminarci seriamente, tutti: sacerdoti, religiosi, suore, catechisti, collaboratori
parrocchiali, genitori, insegnanti; dobbiamo chiederci onestamente: crediamo veramente in quello che insegniamo? Lo viviamo coerentemente, con tutto il cuore, con amore cristiano? Io consacrato
che insegno a pregare e guido la preghiera, amo la preghiera? Dedico tempo alla
mia preghiera personale? Mi preparo alla preghiera comune? Io, genitore, che desidero
che i miei figli crescano in parrocchia, che vadano al catechismo, che frequentino
la chiesa: io, sono attivo in parrocchia? faccio la mia parte con passione? Cerco
una formazione cristiana che sia adatta alla mia età e alla mia situazione? Vado
a messa, e soprattutto la vivo poi con tutta l'adesione del cuore?
E così via anche per tutti i vari doveri e impegni della nostra vita sociale, di
famiglia, di scuola, di lavoro.
Perché, fratelli, siamo chiamati ad essere comunità cristiane che annunciano il
vangelo con la vita e le parole; siamo chiamati a comportarci da adulti:
noi nei confronti dei giovani, e i giovani nei confronti dei più piccoli; dobbiamo
essere tutti delle persone che testimoniano l'amore sia nel cuore che nelle
opere. Chiaramente, chi vive compiti istituzionali, sociali, politici,
mediatici o altro, chi in altre parole gode di maggior prestigio e visibilità,
è ancor più responsabile della sua coerenza; non serve a niente fare bellissimi
discorsi se poi non si vive per primi l'onestà, la correttezza, lo spirito dei
valori umani e cristiani.
Ecco, fratelli: è questo che ci sottolinea oggi il Signore: e preghiamo perché ci aiuti a seguirlo anche in questo!
È
chiaro che per essere veramente in regola, dobbiamo affidarci al giudizio di
qualcun altro che ci indichi con onestà dove veniamo meno, dove siamo incoerenti,
dove costruiamo i nostri sotterfugi, dove pretendiamo dagli altri ciò che poi noi
non facciamo, dove ci piace farci vedere, apparire, dove cioè siamo così
sfacciatamente sostenitori del nostro io, da diventare addirittura antipatici;
dove badiamo più alle esteriorità o alle consuetudini sociali, piuttosto che misurarci
con l'amore e la verità di Dio.
Come
ho già detto, ognuno di noi, anche se inconsciamente, ha scelto un suo maestro (o più di uno) cui affidarsi: l'opinione della gente, i propri appetiti, il
vincente di turno, la star del momento, il personaggio di spicco, il prete
mediatico e onnipresente, l'astrologo di grido. Ma non prendiamoci in giro, non rendiamoci ridicoli! Noi abbiamo ben altro a cui pensare; noi cristiani abbiamo già un unico e insostituibile Maestro, quello autentico, il Maestro per eccellenza: Gesù Cristo!
Non ci
servono surrogati, non abbiamo bisogno di sedicenti profeti, santoni, futurologi, imbroglioni e
parolai da strapazzo: noi abbiamo già il migliore in assoluto. Dobbiamo seguire
solo Lui; è Lui che dobbiamo avere al centro della nostra vita; sono soltanto Sue
le parole, Suoi i gesti, su cui dobbiamo riflettere da adulti, con passione ferma e critica,
con la sincerità del cuore, senza deleghe. Tutti siamo chiamati alla scoperta di
questo Dio adulto che ci tratta da adulti. In che modo? Vivendo come Lui, facendoci
servi dei nostri fratelli, come lui ci ha insegnato: “Il più grande tra voi sia servo”. Possibile? Sì, tranquilli:
è proprio Lui che parla, Lui, il Cristo Re mite e umile di cuore, che per noi si è fatto uomo, servo, si è annientato, accettando di morire crocifisso.
Solo riflettendo su questo, fratelli, capiremo il vero significato di “autorità”: una parola tanto ambita e usurpata, ma che nella nostra comunità
cristiana assume un senso particolare: che non è assolutamente quello di dominio, di comando, ma di puro
servizio, di umile ministero.
«Voi siete tutti fratelli…». È la logica conseguenza del nostro
metterci al Suo servizio, dell'accettarlo come Maestro e diventare figli di uno stesso Padre: tutti fratelli, tutti ugualmente salvati, tutti ugualmente perdonati.
Ognuno di noi, però, con un ruolo, un compito, un ministero: i vescovi quello di mantenere la fede nella Chiesa e di annunciare la
Parola; i presbiteri quello di aiutare i Vescovi nell'annuncio e di costruire comunità;
i laici quello di santificarsi e di annunciare il Vangelo nel loro contesto di
vita. E
tutti in armonia, tutti uniti nella comune appartenenza a quella
fede soprannaturale ottenuta mediante il Battesimo; nessun Maestro, ma solo fratelli chiamati a ruoli
specifici. Perché, in buona sostanza, essere fratelli
significa che tutti ci prendiamo cura del buon andamento della Comunità, abbandonando un modo di essere Chiesa asfittico e senza vita, per raggiungere la meravigliosa
scoperta di essere tutti figli di Dio, sia nella fatica della sopportazione
reciproca e delle diversità, che nella stessa visione evangelica delle comuni scelte obbligatorie. Essere fratelli
significa evitare in tutti i modi che nelle comunità prevalga l'aspetto umano, le
simpatie, le antipatie, introducendo il rischio descritto da Gesù, di diventare
cioè professionisti del sacro, primi della classe, ma con l’anima vuota. Evitiamo pertanto, di pretendere che il nostro modo di vivere l'esperienza cristiana sia “il”
modo, l’unico possibile, l’unico giusto. Ricordiamoci, fratelli, che il Vangelo è uno;
e che le varie sensibilità - che sono molte poiché lo Spirito suscita sempre nuove esperienze -
pur appartenendo alla Chiesa, non sono “la” Chiesa. Una
cosa invece è assolutamente certa, trasversale, valida per tutti: chi vuole essere “grande”,
deve “abbassarsi”. Non c’è alternativa. Perché è nell'abbassamento che sta il
segreto della vita cristiana. Chi vive l'umiltà, sa dare valore a quelle cose
che sembrano piccole, ma che invece sono grandi, importanti, essenziali. Chi vive
lo stile di Gesù, sa che nella Chiesa non esistono più posizioni irrilevanti, di poco conto, ma tutto
acquista un nuovo valore, un nuovo significato: proprio perché nella
Chiesa ognuno ha un suo compito insostituibile, ognuno ha la sua esperienza e la sua
sensibilità, ognuno vive i carismi avuti da Dio. Non allo sbando, ma tutti uniti e concordi:
perché il collante che ci unisce tutti è il Signore Gesù: l'unico Maestro infallibile.
«Chi tra voi è più grande, sarà
vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà
esaltato».
Dobbiamo
necessariamente essere umili. Una virtù grande l’umiltà: è la vera virtù dei forti; una
virtù che in teoria tutti consideriamo necessaria, ma che nella pratica difficilmente
riusciamo a fare nostra. Una virtù che il mondo non comprende, trovandola semplicemente assurda,
degradante, che deprime e svilisce la personalità; l'umile è un
debole, un buono a niente, uno senza carattere che non potrà mai sfondare nella
vita.
Nulla di ciò, fratelli: per
diventare umili, bisogna invece amare. E non è cosa da inetti. Bisogna amare molto. Come ha fatto Gesù:
l’amore misericordioso l’ha fatto scendere dal cielo; l’amore l’ha spinto sulle
strade della Palestina; l’amore l’ha condotto a cercare i malati, i peccatori,
i sofferenti. Lo stesso amore l’ha portato senza indugi sul Calvario, dove
“umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce”.
L’umiltà
è stata la forma esteriore della sua carità divina, la sua fedele accompagnatrice
in tutta la sua vita terrena. L’umiltà
è stata anche l’atteggiamento convinto per cui Dio “ha guardato” con ammirazione la nostra santa
Mamma, facendo in lei “grandi cose” e rendendola “beata” presso tutte le
generazioni della terra. Maria era umile perché amava la volontà di Dio e rispettava
quella delle persone che erano intorno a lei.
“Chi si umilia sarà esaltato”. C'è un modo immediatamente pratico per rendere esecutiva questa frase del Vangelo: con il servizio. Con la carità: sapendo che in ogni persona che
incontriamo, incontriamo nostro Signore Gesù, e in ognuna di esse, abbiamo il privilegio di servirLo. Si, fratelli miei: la vera umiltà consiste nel guardare attentamente il Volto di nostro Signore, sicuri che in Lui possiamo leggere il volto riflesso dei nostri fratelli. In Lui troviamo la giusta via da percorrere nel nostro vivere quotidiano; e sempre in Lui possiamo vedere come la nostra vita sia sterile, arida e assolutamente inutile, se non la viviamo protesi nell'amore umile verso Lui e verso i fratelli. Amen.
«Uno dei farisei, un dottore
della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: Maestro, nella Legge, qual è
il grande comandamento?»
Solita
domanda provocatoria del “Pierino” di turno. Erano seicentotredici i precetti della
Torah ebraica: trecentosessantacinque negativi (tanti quanti i giorni
dell’anno!) e duecentoquarantotto positivi (tanto quante erano le membra del
corpo umano secondo la cultura del tempo). Secondo la tradizione rabbinica ogni
precetto aveva un identico valore e implicava uno stesso obbligo. Ma nella pratica
circolavano opinioni diverse. Alcuni dicevano: “Sono tutti da osservare alla
lettera, scrupolosamente, in tutto e per tutto”. Altri: “No, non sono tutti uguali,
non hanno tutti la stessa importanza”.
La
risposta di Gesù è, come al solito, di grande semplicità, altamente
propositiva: «Ama Dio con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Ama il prossimo tuo
come te stesso». Quindi l’amore è l'unico, il più grande comandamento. Punto. Un unico
amore con due beneficiari: Dio e il prossimo. Un accostamento che rende chiaro
come il primo non si realizzi senza il secondo: entrambi costituiscono l’unico
fondamento della Legge, senza di essi tutti gli altri precetti non hanno
ragione di esistere. In pratica per Gesù solo due “consigli” su seicentotredici leggi: un
magistrale sfoltimento!
Qualcuno
li definisce “comandamenti” dell’amore. Niente di più inesatto. L’amore non si
comanda. Nessuna legge, mai, può costringere qualcuno ad amare, perché l’amore
vive una sua vita, è libero, autonomo, spontaneo, indipendente: caratteristiche
che per loro natura rifiutano qualunque forma di imposizione.
L’amore
non si comanda e non si esige: una verità che ci tocca da vicino, ci rende indifesi, spogli, impotenti. Ci rende vulnerabili, perché capiamo
che non esistono armi, soldi, promesse o lusinghe, punizioni o mezzi coercitivi,
per costringere qualcuno ad amarci; non possiamo esigere dagli altri un sentimento che non hanno,
che non sentono, che non provano. O lo fanno spontaneamente, perché loro ci
considerano meritevoli di amore, oppure ci dobbiamo arrendere, dobbiamo
accettare la situazione, non possiamo farci nulla. Una cosa che ci disturba
parecchio. Chi infatti non entra in crisi di fronte ad un rifiuto di amore, di
amicizia, nel sentirsi dire un “no” esplicito? Tutti abbiamo avuto sicuramente qualche
esperienza del genere. E tutti ci siamo rimasti male, abbiamo dovuto accettare a malincuore di essere rifiutati.
Ma non lamentiamoci
per questo, fratelli; non sentiamoci i più incompresi, i più sfortunati, i più
disgraziati del mondo! Non facciamo le vittime! Non cerchiamo di imporci opprimendo
la libertà altrui, quando invece per noi la pretendiamo intoccabile e assoluta.
Non possiamo pretendere sempre il “si”, negando l’eventualità di un “no”.
Entrambi sono radicati nella libertà altrui e godono di un pari diritto. Per cui
se vogliamo essere amati, se vogliamo che qualcuno ci dica sempre “si”,
dobbiamo meritarcelo con la nostra vita, con i nostri comportamenti verso gli altri. E anche in tal caso non possiamo pretendere nulla, perché l’amore è un
dono. Un dono puramente gratuito.
Gesù in
realtà non “escogita” un nuovo comandamento, il comandamento dell’amore; semmai
spiega per bene quanto che era già prescritto nel Levitico: «Non ti vendicherai e non conserverai
rancore contro i figli del tuo popolo, ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). E nel Deuteronomio: «Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il
cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). Parole che ogni
ebreo già conosceva, dovendole recitare puntualmente mattino e sera. Gesù quindi non si
inventa nulla, dice semplicemente: “Fate attenzione perché ora vi spiego per bene
una cosa: chi ama Dio, ama anche l’uomo. E chi ama veramente l’uomo, non può
non amare Dio”. Tutto qui, poche parole ma importanti: l’amore è uno, e uno
solo: “Chi ama Dio ama l’uomo, e chi ama l’uomo ama Dio”. Sembra un gioco di
parole: in realtà esprimono due concetti legati tra loro indissolubilmente. E con
la sua vita, con le sue parole, con i suoi gesti, nel vissuto reale, Gesù ce ne
ha confermato tutto il valore e la portata.
Noi però non siamo ancora riusciti a capirlo fino in fondo. Nei
lunghi anni di vita della Chiesa, abbiamo sempre distinto i due amori, Dio e il
prossimo; li abbiamo sempre separati, convinti che l’amore a Dio fosse più
importante, valesse molto di più dell’amore per il prossimo. Monaci, preti,
vescovi, suore: quelli sì che amano come si deve, in maniera giusta: quelli sì
che amano Dio! Per loro esiste solo Lui; tutto il resto, prossimo compreso, non può competere con Lui. Unica scelta vincente, pensiamo. Mentre l'amore per i propri fratelli, l’amore umano, l’amore per le persone, è un sentimento
più basso, meno meritorio;
certo è un amore che noi diamo, è un sentimento che riteniamo inevitabile nella vita, ma che rimane pur sempre un sentimento tollerato, che deve essere purificato, sublimato.
Gesù,
invece, dice no: non ci sono diverse categorie di amore, l’amore è uno solo,
identico: se noi amiamo veramente Dio, lo dimostriamo da come ci comportiamo
con gli altri, da come amiamo il prossimo. Possiamo anche essere preti, frati,
suore, ma se siamo nei confronti del prossimo dei manipolatori,
dei falsi, noi non amiamo Dio. Possiamo raccontare tutte le
più belle storie del mondo, ma se trattiamo male gli altri, se li mortifichiamo,
se li calpestiamo, se li possediamo, noi non amiamo assolutamente Dio, non c’è
scampo. Siamo degli imbroglioni. Madre Teresa amava ripetere: “Non riesco a
capire come tu faccia a vedere Dio in un pezzettino di pane, e non nel volto di
un tuo fratello…”.
«Ama Dio con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente…»
Ecco,
fratelli, il punto è proprio questo: dobbiamo amare senza “se” e senza “ma”. Dobbiamo
identificarci nell’amore, dobbiamo distribuirlo a piene mani.
Del
resto non dobbiamo andare troppo lontano per trovarlo, non c’è bisogno di fare
grandi ricerche: l’amore è in noi.
Siamo noi il segno tangibile dell’amore di Dio; siamo noi l’immagine dell’Amore
per definizione; l’amore non è “altro” da noi, lo portiamo dentro, è Dio che vive
in noi da sempre. Noi siamo fatti per essere amati e per amare. Per essere amati da Lui e amare Lui, e per amare i nostri fratelli.
L’amore
non è da “raggiungere” ma semplicemente da “liberare” dal nostro cuore, dalla
nostra anima, dalla nostra mente. Dovrebbe essere semplice e naturale. Ma non è
proprio così. Se non lo facciamo, non è perché ci manca l’amore,
ma perché siamo impediti, siamo condizionati: non disponiamo
cioè di quella libertà assoluta, di quella serenità priva di rigurgiti di “rispetto
umano”, che ci permettono di spalancare in maniera ottimale il cuore,
l’anima, la mente.
Abbiamo
paura. Le nostre esperienze negative ci portano a chiuderci a riccio.
Ricordate?
Quando eravamo piccoli, noi amavamo la mamma senza calcoli, senza ritegno,
senza vergogna: noi l’amavamo in assoluto, per noi c’era solo lei; per noi la mamma era
Dio. L’amore che nutrivamo per lei era amore autentico, totale, generoso,
fiducioso, spontaneo, senza calcoli. Poi, purtroppo, con la crescita, attraverso
le esperienze della vita, abbiamo imparato che l’amore porta inevitabilmente anche delle
sofferenze; abbiamo capito che aprendoci amorosamente all’altro, rischiamo di
essere dominati, manipolati, gestiti nostro malgrado; e se lo facciamo comunque,
abbassando le nostre difese, quasi sempre finiamo con l’essere derisi
e umiliati. Allora abbiamo deciso di lasciar perdere. Non lo abbiamo più fatto
e ci siamo rinchiusi. Dentro. Da allora siamo cauti, amiamo solo idealmente, con
il pensiero, con la fantasia, con le intenzioni, ma non con il cuore: perché il
nostro cuore è chiuso, sordo ad ogni richiamo, prigioniero di troppi ricordi dolorosi,
di troppe ferite, di sofferenze.
Ma,
fratelli miei, questo non è amare: l’amore di testa, di fantasia, non esiste. Amare
è adeguarsi al quel Dio creatore che sta in noi, nel nostro cuore. È quel
sentimento divino che nasce dal cuore e in uno slancio vitale ci coinvolge in pieno: il nostro essere, le nostre emozioni, la nostra vita. In maniera totale, concreta e reale.
L’amore a distanza, l’amore mentale, l’amore
sognato, esiste solo nei fumetti: è manipolazione, è surrogato. L’amore invece o c’è, e allora lo “senti”, oppure non c’è. Non si può “produrre”
meccanicamente, prescindendo da Dio, dal cuore, dall’anima. Quindi amare Dio
e il prossimo, significa amarli per davvero, amarli in maniera integra, libera,
indivisa, generosa, concreta. È amarli con tutto il nostro essere, con i piedi
per terra, pienamente coinvolti nel vivere quotidiano.
Ci
siamo mai chiesto se amiamo Dio? Certo che lo amiamo, abbiamo risposto! Ma come?
Beh, è naturale che lo amiamo così, col cuore, in quanto amando la vita, ci
sentiamo attratti da Lui che è la Vita, pensiamo a Lui con “riconoscenza” per
questo dono meraviglioso che ci ha dato e che continua a darci tutti i sacrosanti giorni. Si, fratelli,
tutto questo è bello, rassicurante. Ma la “riconoscenza” non è amore. Con la “riconoscenza” noi non lo amiamo ancora come dovremmo, con tutto “noi stessi”: ossia dal
profondo, in maniera viscerale, passionale, senza calcoli. Dobbiamo amarlo aderendo completamente a
Lui, alla sua volontà, perdendoci in Lui, in tutto e per tutto. Altrimenti ci risiamo, fratelli: il
nostro è un amore “mentale”, superficiale, un amore che si ferma alla “convenienza”, un amore “dovuto”, perché così fan tutti i bravi cristiani; un
amore che non ci appassiona. Lo amiamo, ma con
timore, con paura, con ritrosia, con una piccola parte di noi, perché – ci
diciamo - è la vita che ci ha reso diffidenti.
Strano comportamento il nostro,
vero? Non ci manca nulla, abbiamo dentro di noi l’Amore, ma non sappiamo
tirarlo fuori, non sappiamo amare, non siamo liberi di amare. Siamo dei
pusillanimi. Lasciamo che il nostro amore muoia, soffocato da mille
incrostazioni.
A
questo punto arriviamo a pensare che la felicità e l’amore, dipendano da
circostanze a noi estranee, da altri, da situazioni contingenti, dal
raggiungimento di questo o quell’obiettivo. Ma amare, fratelli, non significa
abbandonarsi passivamente ad un’altra persona o nel cercare “altro”; significa
invece reagire, entrare dentro di noi, cercare Lui, con un coinvolgimento
di tutte le nostre emozioni: anche quelle più dolorose, come paura, abbandono,
dolore, perdita, rabbia, tradimento. Amare significa far
esplodere all’esterno tutta la nostra vita interiore, liberare tutta la
passione e la forza che portiamo dentro. Amare significa essere spalancati al
potere dello Spirito e alla Forza della Vita, inspirarli a pieni polmoni, e
riversarli sugli altri, in un flusso carismatico continuo.
Fratelli,
non lasciamo spegnere il nostro amore. Non permettiamo che altri spezzino le
nostre ali. Dio ci ha fatti per librarci in alto, in cielo, e non per ruzzolare
per terra. Se abbiamo perso la fiducia in Lui, se siamo stati feriti, se siamo
diventati cinici, risentiti, offesi, scuotiamoci! Le ali le abbiamo ancora:
sono solo ferite, sono solo spezzate…
Il medico ci attende. Ci
vuole tanta fede, lo so; ma Gesù ci dice: ama e, se sbagli, pazienza. Egli in ogni caso non
gradisce persone tiepide, non ama gli uomini “di poca fede”; vuole gente
entusiasta come Paolo, preferisce chi sbaglia per eccesso, che per difetto. Se dunque
riusciamo a credere nuovamente nell’Amore, se arriviamo a guarire le nostre
ferite, se possiamo spalancare di nuovo le nostre ali, allora, fratelli miei, torniamo
a volare. Torniamo cioè ad amare Dio e il prossimo con tutta la forza della nostra
vita, con tutta l’intensità possibile: “con tutto il cuore, con
tutta l’anima, con tutta la mente”. Abbandoniamoci completamente a quell’Amore
che vibra e pulsa in noi: perché in tale abbandono viviamo
momenti di pura condivisione divina.
Amiamo Dio e il prossimo come Gesù ci ha insegnato. Così facendo la nostra vita sarà luce abbagliante per tutti. Tutto il resto: piani
pastorali, strutture, carismi, ministeri, celebrazioni liturgiche, Chiesa... tutto passerà in secondo ordine; tutto,
paradossalmente, diventerà accessorio, diventerà “dopo”.
L’unica cosa essenziale
è l'amore: amare e lasciarsi amare. Subito. Qui e ora. Amen.
«In quel tempo, i farisei se ne
andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi
discorsi».
Poche
pennellate quelle usate da Matteo per fissare la scena del vangelo di oggi. Con
poche ma incisive parole ci presenta tutti i particolari di un ambiente ostile
a Gesù: una riunione tra incapaci esasperati, un accordo subdolo e scellerato, falsi
discepoli smaccatamente untuosi e melliflui, una proposta trabocchetto.
I
farisei, sempre loro, non sanno più cosa architettare per dare addosso a Gesù. Ma
questa volta sembra proprio che la trovata sia vincente. E bisogna darne atto:
la trappola che hanno escogitato è veramente geniale: se vuoi incastrare uno, interrogalo
a freddo sulla politica; troverai sempre un motivo per dargli contro. E proprio
sulla politica i farisei hanno scelto il terreno per lo scontro: «è lecito, o no, pagare il tributo a
Cesare?»
La
tassa in questione è il “tributum capitis”,
la somma cioè che ogni cittadino ebreo, dai 6 ai 65 anni, doveva pagare a Roma
come segno di sudditanza. Formidabile come trovata! Perché qualunque risposta
Gesù avesse dato, si sarebbe condannato con le sue mani: se infatti avesse
risposto "sì", avrebbe dimostrato di avallare l'occupazione degli
invasori, e in tal caso si sarebbe inimicato il popolo che li odiava; rispondendo
“no”, gli erodiani, che erano filo romani, avrebbero informato immediatamente le
autorità per una pronta cattura e conseguente condanna come nemico dichiarato di
Roma.
Farisei
ed erodiani vanno dunque da Gesù per porgli il quesito: in realtà non cercano da
Lui una risposta, ma solo un motivo, un parere compromettente, per accusarlo o
condannarlo comunque. A loro non interessa altro. Tutto quello che fanno, lo
fanno non certo per ascoltarlo con animo aperto, non per sentire una sua
opinione o per imparare qualcosa di positivo da Lui, ma soltanto per trovare la
scusa giusta per incastrarlo, e attuare così il loro proposito di eliminazione.
Tutto
sembra perfetto, ma come al solito non hanno fatto i conti con il loro
interlocutore.
«Maestro, sappiamo che sei
veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di
alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere:
è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?»
Già
alle prime battute, apertamente untuose e provocatorie, Gesù, che conosceva
molto bene la falsità del loro cuore, li zittisce immediatamente, e con una
esclamazione li identifica per quel che realmente sono: “ipocriti!”. E con ciò
stesso smonta tutto il loro piano accusatorio, smaschera la loro recita; e a
conferma, chiede semplicemente una moneta. Non una moneta qualsiasi, ma «la moneta del tributo», ossia quella
speciale moneta romana, che serviva a pagare la tassa, e su cui apparivano impresse
l’immagine dell’imperatore e la scritta: “Al divino Tiberio Cesare, figlio del
divino Augusto”. Un oggetto che già da solo era infamante per gli ebrei
osservanti, un oggetto di autentica idolatria, poiché anche il solo possederlo significava
in qualche modo rinnegare il loro Dio, l’unico Dio, accettando l’idea che anche
l’imperatore romano fosse “Dio”. Una moneta che scotta dunque: Gesù non ce l’ha
e la chiede; i farisei ─ altro motivo di doppiezza ─ ce
l’hanno e gliela porgono. Ma Gesù non la guarda neppure: anzi alla loro domanda
iniziale, risponde con un’altra domanda: «L’immagine
e l’iscrizione di chi sono?». Poveracci questi farisei: erano andati da
Gesù con la loro bella domanda, baldanzosi, certi di avere la meglio, di avere in
mano finalmente il “via” alle loro macchinazioni; insomma si aspettavano una
risposta seria, inequivocabile, certa, definitiva; ed Egli che fa? li snobba molto
elegantemente, contrapponendo loro la sua domandina, facile facile e per nulla
compromettente. «Di Cesare» è la loro
ovvia ma prudente risposta.
A
questo punto la sentenza di Gesù li coglie di sorpresa, impreparati, li spiazza
del tutto: «Rendete dunque a Cesare
quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio».
Elementare.
Ineccepibile. Gesù è chiarissimo. E dunque, al di là di qualunque credo
religioso, pagare il tributo allo Stato, al re, all’imperatore, non vuol dire
assolutamente mancare di fedeltà a Dio. Non solo è lecito, ma è doveroso. Lo Stato,
l’autorità politica, ha la sua ragion d’essere. I veri credenti sono quindi leali
verso di esso, perché sono anche buoni e onesti cittadini; perché, così
facendo, onorano Dio.
Un pensiero
molto sentito dai cristiani, che sarà poi immediatamente ripreso anche da
Pietro (cfr. 1Pt 2,13-14) e da Paolo (cfr. Rm 13,1ss).
Ma, ovviamente,
nella risposta di Gesù l’accento, con tutta la sua forza, cade sulla seconda
parte: «rendete a Dio quello che è di Dio».
Gesù intende cioè rivendicare la posizione unica ed esclusiva che Dio occupa
nella vita dell’uomo. In altre parole, Dio non si accontenta di una vile moneta,
ma si aspetta molto di più: dovete dargli ciò che è suo, ossia dovete dargli voi
stessi, interamente: la vostra esistenza, la vostra persona; proprio perché
l’uomo, con tutto ciò che lo riguarda, è proprietà esclusiva di Dio.
Ma
attenzione; il senso della risposta va anche oltre: se cioè Cesare, il potere
politico, dovesse attentare ai diritti di Dio, pretendendo di imporre ciò che
contrasta con la Sua volontà – e quindi col vero bene delle persone – ebbene: in
tal caso, il credente dovrà ubbidire a Dio e non allo Stato. Quello che è di
Dio ha diritto di precedenza sempre e comunque.
È
molto importante cogliere nella risposta di Gesù tutta la sua logica di fondo,
un principio paritetico: come la moneta, che porta impressa l’immagine
dell’imperatore, va restituita a lui, così ogni uomo, che reca impressa nell’anima
l’immagine di Dio, deve essere restituito a Lui, in quanto sua
proprietà totale: tanto più che l'immagine, che portiamo in noi dalla nostra creazione,
è diventata ancor più chiara e inconfondibile con il Battesimo, che ci ha resi conformi a
Cristo, legandoci a Lui e al Padre in modo vitale e definitivo. Un’immagine
di Dio, quella dell’uomo, che deve pertanto tornare a Lui assolutamente integra, non
offuscata o distorta.
Quindi,
se tutto ciò che siamo e che abbiamo dobbiamo renderlo a Dio, visto che tutto
gli appartiene, noi come rispondiamo a tale obbligo? Per esempio: il tempo, che
è di Dio, in che misura glielo doniamo? Quanti minuti al giorno gli offriamo
per dialogare con Lui? Quanto del nostro tempo e delle nostre risorse,
materiali e umane, dedichiamo al servizio della Chiesa e del nostro prossimo? Quanto
tempo ancora impegniamo per mettere generosamente a frutto i doni che Lui ci ha
dato a sostegno della nostra vocazione?
La
realtà economica-sociale-politica, che noi credenti non dobbiamo certo
trascurare, non deve interferire con la realtà divina, con quelle che sono le
priorità di Dio; è comunque una realtà che deve essere armonizzata con quello
che dobbiamo restituire a Dio. Egli ci comanda di amare tutti e di amare
sempre, in ogni situazione: ecco allora che ogni forma di impegno sociale e
politico, vissuta come servizio fraterno al prossimo, diventa anch’essa un modo
concreto di vivere il primato di Dio nella nostra esistenza. L’attività
sociale, economica e politica in quanto tale, finalizzata cioè a se stessa, non
salva: come d’altro canto il credente non si salva se, a sua volta, non assume e non svolge,
con carità e professionalità, il ruolo che gli compete nella vita pubblica.
Abbiamo
detto che tutti gli uomini che popolano la terra, sono di Dio; tutti hanno impressa
in sé l’immagine del loro Creatore e Padre che li chiama ad appartenergli nella
fede e nell’amore: di qualunque razza, di qualunque nazione essi siano. Allora,
come facciamo a non sentire la chiamata bruciante per aiutare i più derelitti a
riconoscere il loro “marchio di fabbrica”, quell’impronta divina impressa nel
loro essere più profondo? Come facciamo a non impegnarci con entusiasmo per risvegliare
in loro la nostalgia della grande e divina Famiglia, da cui tutti veniamo e a
cui tutti siamo destinati a tornare? C’è forse una causa che meriti, più di
questa, un nostro maggior investimento di risorse, di energie, di dedizione? La
Chiesa, fratelli, esiste per questo. La Chiesa è questo. E a questo sono
finalizzate la nostra vita e la nostra vocazione di cristiani. Annunziare il Vangelo,
essere parte attiva nella nuova evangelizzazione di questa nostra società ormai
scristianizzata, è il nostro primo atto d’amore, il più grande dono e servizio
che possiamo offrire ad ogni nostro fratello, e alla società intera, perché riconosca il primato
assoluto di Dio.
Raccogliamo
coscienziosamente, fratelli, la provocazione che Gesù, buon maestro, ci mette oggi
davanti: preoccupiamoci di tutto ciò che Gli appartiene e che prima o poi a Lui
deve ritornare: non solo di Liturgie, non solo di culto, non solo di preghiere,
ma di amore. Di tanto amore e di tanta carità: verso di lui e verso il
prossimo; verso tutti i fratelli e le sorelle che lui ci ha messo accanto nelle
nostre scelte di vita.
Sulla
moneta romana c’era l’effige di Cesare: ed è giusto restituirgliela. Ma su
tutti i volti del nostro prossimo, sul nostro di volto, risplende l’immagine di
Dio. Gesù, con la parabola di oggi, ci mette tutti sotto esame, e ci invita a
distribuire le nostre preoccupazioni quotidiane in maniera proporzionale al
valore del destinatario. E, come abbiamo visto, la moneta è importante, ma solo marginalmente.
Gesù stesso
è stato messo alla prova da emeriti “sprovveduti”, proprio su una questione di
soldi e di potere: come se il problema del Regno di Dio si risolvesse con le
tasse e con il potere politico. Certo, lo ripetiamo, meritano la nostra
attenzione perché sono socialmente importanti. Ma non devono essere causa di distrazione e di
allontanamento da Dio. Noi stessi in questi giorni abbiamo occhi e testa puntati sulle
Borse di New York, di Tokio e delle capitali economiche dell’Europa. Sembra quasi
che dipenda proprio da lì la salvezza o la fine del mondo. Sembra che nel Down
Jones, nel Nasdaq, nel Mibtel e nel Nikkei si trovino i parametri assoluti per
capire il destino dell’uomo, se abbia o no futuro, se possa sopravvivere a
livello mondiale, nazionale e personale, se possa o no contare su una salvezza
finale.
Non è
questo fratelli: e Gesù ci aiuta a ritrovare il giusto equilibrio in queste
nostre preoccupazioni. Oggi purtroppo siamo tutti fin troppo concentrati su
quello che riguarda Cesare, mentre quello che riguarda Dio ci preoccupa molto
molto meno: anche noi, come ho detto, magari inconsapevolmente, ne siamo molto coinvolti, ci accorgiamo di
tirare un profondo sospiro di sollievo quando sentiamo che l’indice delle borse
sale, perché capiamo che l’economia mondiale forse migliora; oppure cadiamo nell’ansia
quando vediamo gli indici in rosso, e parlano di un crollo peggiore di quello
del 1929.
Ebbene, tutto
questo, fratelli, è “di Cesare”, e credo che sia giusto preoccuparcene. Ma sarebbe
più giusto preoccuparci, cosa che forse non avviene, della sorte dei cristiani
copti in Egitto, della situazione delle donne in India, dell’odio verso Cristo
e la Chiesa che quotidianamente esplode puntuale in gran parte del mondo. Forse
la nostra attenzione è più concentrata sugli indici delle borse mondiali, piuttosto
che sugli indici delle ingiustizie sociali che sconvolgono milioni di nostri
fratelli. Abbiamo applaudito per le centinaia di miliardi di dollari, dati alle
banche, pensando che salvino il mondo; e non ci indigniamo che poi nemmeno un
millesimo sia destinato alla salvezza di intere nazioni povere e abbandonate. Non
è una polemica, fratelli: è una semplice constatazione.
Forse
la crisi economica mondiale ci farà finalmente accorgere che riceviamo molto di
più da Dio che da Cesare. Possiamo avere meno soldi in mano: ma in
contropartita, se ci pensiamo bene, abbiamo una grandissima ricchezza: abbiamo l’amore
di Dio nei nostri confronti, e l’amore reciproco dei fratelli e sorelle nel
mondo; una ricchezza enorme che nessuna crisi economica potrà mai portarci via.
Allora
diamo solo un pezzetto di cuore a Cesare, fratelli; ma la gran parte
riserviamola a Dio, e a tutto ciò che Egli ci pone accanto. Riconosciamo il
valore di chi ci ama e di chi ci sorride; di chi si preoccupa di noi, di chi ci
incoraggia, di chi crede in noi. E riconosciamo soprattutto che apparteniamo a
Dio. Non attacchiamoci ai soldi, al successo, agli onori, alla carriera, al
giudizio degli altri. Usiamo le cose, ma amiamo le persone; riconosciamo che entrambe, pur con diverso valore,
provengono da Dio.
Noi
viviamo nello Stato, ma non apparteniamo allo Stato, apparteniamo a Dio: non
dimentichiamolo mai, fratelli; non dimentichiamo mai la nostra origine. La
nostra anima è di Dio e dobbiamo restituirla a Lui. Veniamo da Lui e un giorno
ritorneremo a Lui: viviamo quindi come suoi figli, viviamo liberi, viviamo
veri; viviamo prendendoci cura della nostra coscienza e del nostro cuore.
Coltiviamo soprattutto l’immagine di Dio impressa nella nostra anima, perché è
sua: coltiviamola e soprattutto viviamo per restituirgliela, immacolata e splendente come l'abbiamo ricevuta. Con questo
atteggiamento, fratelli, ci sentiremo integrati e protetti, non più soli, ma
dentro una storia, accompagnati dalla Vita per eccellenza e sostenuti
dall’Amore assoluto. Amen.