giovedì 6 giugno 2024

09 Giugno 2024 – X DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 3,20-35 
Entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé». Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in sé stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro sé stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro». Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».

Esaurite le grandi solennità del Tempo Pasquale e quelle “mobili” immediatamente successive alla Pentecoste, oggi la liturgia ci reintroduce nel Tempo Ordinario, durante il quale ci propone una serie di letture evangeliche che illustrano quelle che devono essere le caratteristiche fondamentali della Chiesa di Cristo e di quanti intendono farne parte.
Marco, con il suo solito stile conciso e pieno di inclusioni, sottopone oggi alla nostra riflessione un testo particolarmente significativo in questo senso.
Le tematiche trattate sono due: la difesa di Gesù dall’accusa rivoltagli dalle autorità di essere un indemoniato, uno strumento di Satana, e la sua precisazione su chi siano “sua madre e i suoi fratelli”.
Ma andiamo con ordine. Gesù, durante la sua missione, è costantemente circondato da una folla di poveretti, di emarginati dalla società, di malati, di posseduti dal demonio, di bisognosi d’aiuto: tutti lo rincorrono per avere da lui la soluzione dei loro problemi, la guarigione dalle loro infermità. E a tutti Egli dona conforto e salute sia corporale che spirituale.
Preoccupate di tanto consenso della folla, le autorità religiose, sopraggiunte di proposito da Gerusalemme, cercano in tutti i modi di screditarlo, sostenendo che tutto quanto egli compie, lo compie per mezzo si satana: in particolare gli rinfacciano che egli riesce a cacciare i demoni grazie soltanto all’intervento diretto di satana. Una insinuazione decisamente ridicola: quando mai satana aiuterebbe qualcuno per essere cacciato da una sua abitazione? È infatti decisamente impensabile che il demonio, attaccatissimo e gelosissimo del suo regno di morte, sia tanto ingenuo da aiutare chi vuol privarlo proprio delle sue stesse proprietà.
Semmai, ribatte Gesù, opera del demonio sono i vostri tentativi di attribuire a satana le opere che appartengono a Dio, rifiutando in questo modo l’opera redentrice che io sto realizzando nel mondo. In altre parole, dice Gesù, gli indemoniati siete voi, perché rifiutate categoricamente e senza riserve la salvezza che mio Padre, Dio Amore, sta operando mio tramite: un peccato, il vostro, che non potrà mai ottenere il perdono: “In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna”.
Rifiutare l’azione di Dio che, dal momento del suo battesimo nel Giordano (“Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento!”), agisce nella persona di Cristo, costituisce infatti il più grave insulto alla potenza stessa di Dio. Con il loro atteggiamento, pertanto, gli scribi si autoescludono dalla salvezza che il Padre, grazie allo Spirito, per mezzo del Figlio, con il Cielo definitivamente spalancato, ha portato nel mondo quel reciproco amore che li unisce indissolubilmente. Peccare quindi contro lo Spirito Santo è un’offesa gravissima, “imperdonabile”, non perché Dio non perdoni chi si pente, ma perché, rappresenta la volontaria astensione dalla fede, il rifiuto di convertirsi aderendo all’opera redentrice di Cristo.
Il catechismo ce ne presenta diversi di questi peccati “contro lo Spirito Santo”, tutti demoniaci e “imperdonabili”: come “disperare della salvezza eterna, presumere di salvarsi senza merito, impugnare la Verità conosciuta, invidiare la Grazia altrui, ostinarsi nel peccato, l’impenitenza finale”. Sono tutti molto simili perché ciascuno comporta il rifiuto della Grazia e degli aiuti divini di cui lo Spirito Santo è portatore.
Oggi poi, considerando anche superficialmente quanto accade intorno a noi, è impossibile non rilevare una diffusa, accanita ostilità contro la persona di Gesù e gli insegnamenti del suo Vangelo: purtroppo oggi la società si esprime contro lo Spirito in maniera sempre più categorica, combattendo con tutti i mezzi la fede cristiana, la Chiesa cattolica e qualsiasi riferimento ad essa, rifiutando ostinatamente qualunque iniziativa divina di perdono e di Grazia.
Nonostante le infinite prove tangibili e inconfutabili dell’Amore di Dio, rivelate attraverso la vita delle persone e gli eventi della storia, c’è chi cerca sistematicamente di propagandare odio per il sacro, per i principi morali, per i valori inalienabili della civiltà cristiana, contrapponendo alla dottrina etica e religiosa della Chiesa, un edonismo, un materialismo, un relativismo sfrenati. C’è addirittura chi si vanta con orgoglio della propria miscredenza, del proprio perseverare nel peccato, della propria vita amorale e contro natura, facendolo come atto di sfida, di sberleffo, nei confronti di Cristo e dei “beoti” che lo seguono; come pure chi, pur riconoscendosi colpevole, rifiuta con orgoglio e arroganza qualunque forma di ripensamento e di ravvedimento.
Peccare quindi provocatoriamente contro lo Spirito Santo, in questa nostra società secolarizzata e impertinente, è diventato ormai un naturale e sconsiderato “modus operandi”: ma di una cosa dobbiamo essere assolutamente certi: che perseverando stupidamente nel negare Dio e la sua Misericordia, prima o poi cadremo vittime del nostro errore, perché in nessun modo la presunzione e l’orgoglio riusciranno a sopraffare l’Amore e la Verità.
Di fronte a tanta cattiveria, a noi deboli e tiepidi cristiani, impantanati nella nostra umanità, può capitare a volte di rimanere perplessi e di chiederci: “perché vivere il Vangelo di Cristo, se poi per questo dobbiamo sopportare oltre alle derisioni, ogni genere di contrarietà? Ne vale veramente la pena?”.
Assolutamente sì: perché se a noi capita sovente di deludere chi ci ama, a Cristo questo non può succedere, Egli nella sua vita non ha mai deluso nessuno: le sue promesse di premio e di Amore eterno, sono certezza assoluta: e questo ci deve bastare per continuare a vivere cristianamente, annunciando sempre la sua Parola con coraggio e determinazione. Le difficoltà che incontriamo nel “salire il suo santo Monte”, sono sicuramente sopportabili all’idea del riposo, della soddisfazione, di quell’Amore completo e duraturo che otterremo una volta raggiunta la vetta.
Ma torniamo al testo: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”.
È il secondo tema del vangelo di oggi. Per commentare questo versetto di Marco e quelli analoghi degli altri sinottici (Mt 12,46-50; Lc 8,19-21) sono stati versati fiumi d’inchiostro: la questione era: “Gesù era figlio unico, o Maria la sempre vergine ha avuto altri figli?” Al di là delle insensate e offensive ricostruzioni di tanti romanzieri contemporanei, il cui scopo preferito è quello di gettare discredito sul nostro “credo”, oggi le posizioni degli studiosi sono tre:
a) secondo la Chiesa cattolica i “fratelli e le sorelle” di Gesù erano i cugini, i parenti affini o comunque i membri del clan familiare di Gesù;
b) secondo le Chiese orientali essi erano invece i “fratellastri” di Gesù, figli cioè di un precedente matrimonio di Giuseppe che, rimasto vedovo, era convolato a nozze con Maria;
c) secondo le chiese protestanti moderne, i Testimoni di Geova, e alcuni studiosi della corrente storico-critica, essi erano “veri figli carnali” di Giuseppe e Maria, nati dopo il primogenito Gesù.
Ora, per avere un’idea corretta sul significato del termine greco adelphòs con cui è stata tradotta la corrispondente parola ebraica, è necessario risalire al mondo semitico e al fondo linguistico e sociale sotteso ai Vangeli: tra le popolazioni nomadi, infatti con un unico termine (‘aha in aramaico e ‘ah in ebraico) si designava sia il fratello che il cugino, il nipote, l’amico. Per tale motivo si spiega infatti perché Abramo riferendosi a suo nipote Lot, lo chiami “fratello(Gn 13,8), e lo stesso faccia pure Labano nei confronti del nipote Giacobbe (Gn 29,15).
Si tratterebbe quindi di una libera interpretazione del suddetto termine polivalente fatta da Marco nel comporre il suo vangelo in lingua greca, nonostante all’epoca, per indicare nipoti e cugini si usasse il termine “anepsiói”; ciò tuttavia non deve meravigliare perché già nel III secolo a.C., nella traduzione in lingua greca della Bibbia ebraica, i LXX avevano tradotto il termine originale ebraico ‘ah proprio con adelphòi”: un termine peraltro che nella cultura nomade di allora la parola “fratelli” veniva usata in senso onorifico dalle persone, oltre che per indicare l’insieme dei loro parenti, di qualunque grado fossero, anche per i loro gruppi di amici, di conoscenti ecc.
Così pure, nel Nuovo Testamento (At 1,14; 1Cor 9,5), l’espressione “adelphòi” veniva comunemente usata non per indicare i fratelli “carnali” di Gesù, ma quel gruppo specifico di persone giudeo-cristiane, legato al clan parentale nazaretano di Gesù: essi infatti costituivano una specie di comunità a sé stante, che aveva progressivamente raggiunto una tale autorevolezza da imporre come primo “vescovo” di Gerusalemme proprio quel “fratello di Gesù”, Giacomo, citato anche dallo storico romano di origine ebraica Giuseppe Flavio.
Per noi cattolici, in ogni caso, il problema non esiste, in quanto la questione è già stata ampiamente risolta, nel senso che l’esistenza di “fratelli e sorelle carnali” di Gesù è incompatibile con il dogma della esclusiva, perpetua verginità di Maria, esplicitamente esposto nel Secondo Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 d.C., e ufficialmente confermato nei successivi Concili Lateranense IV del 1215 e II di Lione del 1274.

Ma torniamo al vangelo: c’è da notare come Marco specifichi come in questa occasione siano i “suoi” che si intromettono nell’azione pastorale di Gesù, definendolo addirittura “fuori di sé”; questi “suoi” sono appunto il suo “clan”, sono i suoi “parenti” che intervengono, spinti non dallo Spirito Santo, ma semplicemente dal loro cuore, preoccupati di come potevano mettersi le cose a causa dell’accesa discussione con i capi religiosi; non potevano essere certo parenti stretti come i fratelli carnali ad interromperlo, non poteva certo essere Maria sua madre, costantemente illuminata dallo Spirito, a “mandarlo a chiamare”: Ella era consapevole di dover rispettare i tempi e la volontà di questo suo Figlio e Signore, e lo faceva con il suo silenzio adorante.
Ma Gesù, “girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
Una risposta secca, questa di Gesù: una risposta un po’ indispettita; una risposta con cui forse vuol disconoscere i suoi parenti, rinnegando Maria, ripudiandola come Madre? Certamente no!
La sua risposta ha semplicemente un valore universale: non è rivolta tanto a Maria e ai “suoi”, quanto a tutti gli uomini; è una risposta che ci provoca tutti direttamente, personalmente: è la risposta, unita allo “sguardo”, con cui Gesù sceglie e, nello stesso tempo, interpella, invita, impegna ciascuno a seguirlo.
La sua condizione logica però è una sola e vale per tutti, nessuno escluso: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,34-39).
Per Gesù quindi, prima di tutto, viene la volontà di Dio: ed è in questa volontà divina che Lui fa nascere tutti i rapporti interpersonali. Chi è in linea con la volontà di Dio? Chi gli permette di compiere solo e sempre la volontà del Padre. Chi dovesse ostacolarlo, interromperlo, disturbarlo, dimostra di non amarlo, perché non capisce cosa significhi per lui fare la volontà di Dio. In pratica Egli ci fa capire che per essere uniti a Lui con legami di autentico amore, non servono i legami della carne e del sangue, quanto piuttosto la decisione di fare come lui la volontà del Padre, in quanto se è vero che Gesù è l’origine della nostra comunione fraterna, è altrettanto vero che questo nostro legame con lui, si fonda e si costruisce all’ombra “luminosa” di quel Padre che egli è venuto a rivelare; Egli in pratica ci introduce nella sua intima e personale relazione con il Padre, invitandoci a partecipare di quello stesso mistero che li unisce: e le parole con cui termina il suo discorso devono costituire per noi la sintesi programmatica della nostra sequela: “chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
Allora, “fare la volontà di Dio”, dev’essere il nostro principale programma di vita; è compiere il “disegno del Padre”, realizzare la sua “idea”; che non è osservare la sua legge in astratto, ma seguire lo stesso cammino di suo Figlio Gesù, portando anche noi la croce del riscatto, così come Lui l’ha portata: con lo stesso amore, con lo stesso attaccamento, con lo stesso proposito, convinti anche noi di compiere la volontà del Padre “nostro”. Amen.

giovedì 30 maggio 2024

02 Giugno 2024 – CORPO E SANGUE DI CRISTO


Mc 14,12-16.22-26 
Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 

Il vangelo di oggi ci ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, Corpo e Sangue di Cristo.
E ci sottolinea quanto sia importante la condivisione, quanto sia fondamentale partecipare tutti insieme allo stesso banchetto del Corpo di Cristo, fare cioè “comunione” con i fratelli: oggi infatti è la festa di noi tutti, la festa che ci ricorda l’importanza di essere “Chiesa”.
Alla sua morte Gesù non ci ha lasciato in eredità nulla di questo mondo: non ricchezze, non oggetti preziosi, non una casa, non libri preziosi: ci ha lasciato una cosa sola, sé stesso come nutrimento divino: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”.
Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono, ed è appunto questo il grande mistero che la Chiesa oggi propone alla nostra meditazione: Gesù è venuto su questa terra, si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è fatto carico di tutte le nostre colpe, ha assunto un corpo umano da offrire in sacrificio sulla croce, per pagare il prezzo del nostro riscatto: un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando una costante opera di mediazione tra noi e il Padre.
È vero: noi possiamo arrivare a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso la contemplazione di un paesaggio incantevole, di un tramonto struggente, delle bellezze inimitabili della natura, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le lacrime di gioia di quando siamo felici… Anche queste sono “mediazioni”, sono canali che ci portano a Dio. Ma il più grande, il più autentico, il più immediato “canale” che ci fa confluire materialmente, concretamente in Dio, è il corpo di Cristo, è l’Eucaristia: Dio, attraverso il pane della Messa, si “transustanzia” nel corpo del Figlio, e continua a darsi a noi in un rapporto diretto di amicizia, di grazia, di nutrimento; un rapporto divino, concreto, corporale, una fusione, un assorbimento reale del suo corpo nel nostro corpo, con cui Egli ci rende materialmente compartecipi della divinità del Padre.
E allora, quando alla comunione il celebrante o il ministro, nell’offrirci l’ostia consacrata, ci dice: “Questo è “il corpo di Cristo”, rispondiamogli convinti e con fermezza “Amen”! Sì, è vero!”: apriamo questa nostra misera dimora al Corpo di Cristo che viene dentro di noi, che viene ad abitare in casa nostra, che diventa un tutt’uno con noi, immedesimandosi in noi.
E se in quel momento prodigioso siamo “presenti” in noi stessi, possiamo sussurrare al nostro ospite divino: “Scusa il grande disordine, Signore, questo è il “mio” corpo, e purtroppo non ho di meglio da offrirti …” e possiamo sentire di rimando: “Amen, Sì, lo so, ma non ti preoccupare, figlio mio, io ti amo come sei!”.
Ecco, questo è quel “Magnum mysterium”, quel “sacramentum adorabile”, che i Padri hanno cantato alludendo a questo “”, a questa personalissima, totale e incondizionata accettazione reciproca: un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro, che ci impegna seriamente nella nostra vita di cristiani, nella “perfetta carità” fraterna. 
Quindi, per vivere degnamente una nostra “vita eucaristica”, non serve accostarci tutti i giorni alla comunione sacramentale, continuando poi a vivere nella nostra consueta mediocrità, come se nulla fosse accaduto: sarà invece sicuramente più utile e meritorio vivere ogni giorno facendo della nostra vita un dono d’amore a Dio e al prossimo. Se non riusciamo a realizzare questo compito, se non riusciamo a donare, ad esprimere, a offrire agli altri ciò che abbiamo di assolutamente “nostro”, ciò che Dio con la sua presenza concreta ha divinizzato in noi, in una parola, se ci dimentichiamo di Lui, la nostra vita sarà inutile, sarà sterile; le nostre fatiche, le nostre lotte, la nostra passione, la nostra cristianità, non varranno “nulla”, non serviranno a nessuno: né a noi, né a Dio, né ai nostri fratelli. Amen.

 

giovedì 23 maggio 2024

26 Maggio 2024 – LA SANTISSIMA TRINITÀ


Mt 28, 16-20 
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Oggi la Chiesa celebra la festa della SS.ma Trinità. Un titolo che non esiste nei Vangeli; un concetto teologico sconosciuto agli apostoli; essi annunciavano soltanto la loro grande verità: “Quello che è stato crocifisso, Gesù, non è morto, ma è vivo; noi lo abbiamo veduto, lo abbiamo incontrato, e ora lo sentiamo dentro di noi”. Punto. Questa era la loro fondamentale testimonianza: e per la Chiesa nascente ciò bastava. 
Col passare degli anni però i primi cristiani cominciarono a chiedersi qualcosa di più sulla persona di Gesù: “Cosa vuol dire che Gesù è Figlio di Dio?”. E poi: “In che modo Gesù è il Figlio di Dio?”. E ancora: “Chi è Dio?”.
Per noi la vita Trinitaria è una verità raggiunta e ben definita, ma all’inizio non fu affatto così.
Solo nel 325 il primo Concilio Ecumenico, tenutosi a Nicea, stabilì che “il Padre e il Figlio sono della stessa sostanza”, usando per “sostanza” il temine greco “homousios”: che significa esattamente “identici” tra di loro, sia per la “natura” che per la “sostanza”. 
Più tardi, contro la corrente del macedonianismo (nome derivato dal suo fondatore il vescovo Macedonio di Costantinopoli), secondo cui lo Spirito Santo non era la terza persona della Trinità, non era di pari dignità e divinità del Padre e del Figlio, ma subordinato a loro, il primo concilio Ecumenico di Costantinopoli del 381, decretò che anche lo Spirito Santo è ugualmente “homousios”, cioè “consustanziale”, al Padre e al Figlio. 
Colui però che chiarì il mistero della Trinità in maniera chiara, accessibile a tutti, fu Sant’Agostino, che nel suo “De Trinitate” spiegò: “il Padre è Colui che ama (Amans); il Figlio è l’Amato (Amatus); lo Spirito è l’Amore (Amor) che Padre e Figlio nutrono tra loro”. 
Le tre Persone divine sono realmente distinte tra loro. Dio è unico ma non “solitario”: Padre, Figlio e Spirito Santo non sono semplicemente dei nomi che indicano modalità diverse dell'Essere divino, ma sono tre realtà veramente distinte tra loro: “Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio”, dichiara il Symbolum dell’undicesimo Concilio di Toledo (anno 675); sono distinti tra loro per le loro relazioni di origine, come il quarto Concilio Lateranense (anno 1215), sancisce in maniera chiara e definitiva: “È il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede”. 
Tre persone divine, dunque, che tra loro non sono autonome, indipendenti, statiche, bensì dinamiche, sono cioè in assoluta, continua, relazione tra loro: una simbiosi, una compenetrazione reciproca di amore che tutto crea, tutto redime e santifica, definita dal Concilio con il termine particolare di “pericorèsi”, dal greco “perì-kōrèin” cioè letteralmente, “andare, girare intorno, ruotare, accomodarsi, danzare”. Una Trinità - Padre, Figlio, Spirito Santo – che in pratica è Vita, Relazione, Divenire, Amore: un Darsi e Riceversi continuo, persistente, eterno. Una verità che, per noi, non è sicuramente facile da capire e da spiegare. 
Possiamo invece trarre più agevolmente - dall’unione reciproca delle tre persone (ipòstasi) nell’unico Dio - una prima grande verità: che la nostra vita, il creato intero, qualunque cosa ci accada, è tutto costantemente collegato al Padre Creatore attraverso il Figlio; tutto è interconnesso, comunicante col divino, grazie all’Amore Assoluto (Gv 17,11); per cui tutto ciò che ci riguarda è essenzialmente “trinitario”, in quanto nulla può esistere “al di fuori” di questo Amore, al di fuori di questa palpitante, esclusiva, “relazione” divina. 
Una realtà che ci tocca in maniera particolarissima, poiché tutti indistintamente cerchiamo amore, tutti vogliamo essere amati, tutti “sorretti” dall’amore. Dio solo, però, è in grado di saziare questa nostra fame di felicità: è Lui l’unica forza che ci sostiene nelle difficoltà, Lui il calore che ci riscalda l’anima, il medico che ci guarisce le ferite, la guida che ci accompagna lungo il difficile percorso della vita; è Lui quell’energia soprannaturale che ci infonde coraggio, potenza, entusiasmo, fedeltà; il suo amore, insomma, è un sentimento unico, di grande dolcezza, di comprensione, di garbo; un amore di forza, di chiarezza, di determinazione; un amore, soprattutto, intimo, discreto, personale, che non si impone, che non pretende nulla in cambio, e che pertanto non fa paura, non terrorizza, non manipola nessuno. 
Egli, infatti, per mezzo del Figlio, continua ad avvicinare i più deboli, i più derelitti, i più indegni, i peccatori più incalliti, sussurrando a ciascuno: “Sono qui per amarti: ti va di seguirmi, aprendomi il tuo cuore?”. Nessuna “costrizione: non butta giù le porte; sa benissimo che la paura di aprirgli il nostro cuore, di abbandonarci a Lui, di lasciarci amare, ci immobilizza, ci fa sentire indegni; ma Lui, con la sua voce silenziosa e suadente: “Non preoccuparti se non sei ancora pronto ad amarmi, io aspetterò: non rinuncerò mai ad amare proprio te. Qualunque errore, qualunque delitto tu abbia commesso, io continuerò sempre ad amarti!”. Parole che, in qualunque situazione ci troviamo, aprono ad una prospettiva di bontà e di amore, che merita immediatamente, da parte nostra, una risposta valida e adeguata. Amen.

 

giovedì 16 maggio 2024

19 Maggio 2024 – DOMENICA DI PENTECOSTE


Gv 15, 26-27; 16, 12-15 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Pentecoste deriva dal greco “pentekosté heméra”, che significa “cinquantesimo [giorno]”; è la festa che si celebra appunto cinquanta giorni dopo la Pasqua. Per gli antichi cinquanta era il numero della pienezza di un tempo: Pentecoste, il cinquantesimo giorno, indica infatti che un tempo è finito: è il tempo vissuto dal Gesù terreno, il tempo dei suoi insegnamenti, delle sue apparizioni, e apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito.
Ma cosa è successo negli ultimi giorni di quel tempo a Gerusalemme? Gesù è morto e gli apostoli ancora impreparati sono presi dalla paura: “Che accadrà adesso? La nostra guida, il nostro capo, se n’è andato, è stato ucciso; cosa ne sarà di noi?” Per loro è un momento di crisi profonda, radicale, decisiva. Improvvisamente, però, come aveva promesso Gesù, i cieli si aprono su di loro e lo Spirito di Dio scende su di loro, invade i loro cuori, trasforma radicalmente la loro vita.
Quante volte ci troviamo anche noi in situazioni di grande tensione, di malessere interiore: all’esterno tutto sembra andare per il meglio: viviamo tranquillamente la nostra vita, abbiamo il lavoro, la salute, una famiglia che ci ama, tanti amici che ci stimano; nonostante ciò, nel nostro intimo, siamo spenti, procediamo meccanicamente, per forza d’inerzia: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole, siamo generosi, ma non c’è slancio nella nostra fede, non c’è passione; se parliamo dell’amore di Dio sembriamo degli stanchi e indifferenti precettori non degli innamorati, perché? Anche se all’esterno veniamo rispettati, tutti ci considerano dei bravi cristiani, dentro di noi non ci piacciamo, siamo insoddisfatti, ci rendiamo conto che non è esattamente questa la vita che dovremmo vivere. Che fare allora? Come risolvere queste situazioni? Abbandonandoci completamente nelle mani di Dio: Lui sa di chi e di cosa abbiamo bisogno: in questo modo la nostra fede riacquisterà forza e vigore, il suo Spirito trasformerà la nostra mente, il nostro cuore, la nostra anima: Lui prenderà in mano la nostra vita. Sarà insomma la nostra Pentecoste.
Un evento, la Pentecoste, che ha marchiato intimamente gli apostoli, li ha trasformati in altre persone, completamente “nuove”, diverse da prima. Da poveri pescatori, che per sopravvivere erano costretti ad un lavoro ingrato, pesante, monotono, frustrante, rinascono improvvisamente come depositari, sostenitori e annunciatori in tutto il mondo, del rivoluzionario messaggio spirituale di Gesù. Da una totale, quasi infantile, dipendenza da Lui, passano ad una totale autonomia, alla loro piena libertà di pensiero. Parlano una lingua “altra”, sconosciuta, che però tutti, nonostante la diversità dei rispettivi idiomi, capiscono perfettamente; ogni timore, ogni dubbio, ogni incertezza, ogni debolezza, scompaiono all’istante; lo Spirito di Dio scende in loro e satura la loro anima.
Prima, Gesù era “fuori” di loro: il loro era un rapporto puramente esteriore, passavano cioè le giornate insieme, mangiavano insieme, parlavano con Lui. Ora, quel Gesù, morto e risorto, è “dentro di loro”, sentono, forte e chiara, la presenza del suo Spirito. Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora sanno benissimo che nessuno potrà mai toglierlo dalla loro vita.
Ecco, la Pentecoste dovrebbe produrre anche in noi un deciso salto di qualità: un salto che, da come siamo ora, freddi, insignificanti, insapori, ci trasformi in persone appassionate, entusiaste, animate da un fuoco interiore: in persone che vivono una nuova vita con Dio, condividendo con Lui una personale, profonda, intimità.
Se non ci apriamo, se non accogliamo lo Spirito di Dio, la nostra vita continuerà a trascinarsi nella mediocrità, nella tiepidezza: non potremo “sentire” la sua voce, non potremo parlare con Lui, non apprezzeremo la forza della sua guida; non arriveremo mai a capire che Lui è il nostro tutto, che con Lui dentro di noi, le prospettive del domani, della vita, del mondo, cambieranno radicalmente di aspetto e di valore.
Così, per esempio, nel nostro vivere la Chiesa: senza la nostra Pentecoste, resteremmo superficiali esecutori di “riti” ripetitivi, spesso incompresi; la nostra fede rimarrebbe involuta, non maturerebbe. Al contrario, nella nuova dimensione, Dio non è più una regola, un precetto, una formula; è sempre invece la Persona meravigliosa di cui innamorarsi, una realtà che ci conquista completamente: in particolare è il Padre, modello di libertà, di energia, di coraggio; è lo Spirito santo, che con il suo amore ci incendia l’anima, ci cauterizza le ferite, ci infonde i suoi doni, i suoi carismi: è il Consigliere, l’Avvocato, il Maestro, l’Ispiratore, grazie al quale, finalmente, tutto nella nostra vita acquista autenticità!
Certo, noi crediamo nello Spirito Santo: ma siamo altrettanto certi di conoscerlo veramente? Da cristiani quali ci professiamo, che rapporti concreti intratteniamo con Lui? Se girassimo tale domanda a quanti incontriamo per strada, i più, sicuramente, non saprebbero cosa rispondere. E non sanno rispondere, perché effettivamente non lo conoscono, non ne hanno mai fatto un’esperienza diretta, non lo hanno mai vissuto, godono dei suoi doni senza sapere cosa sono e da dove vengono. Molti pensano che lo Spirito di Dio riguardi solo Lui, che non abbia nulla a che vedere con noi, con la nostra corporeità; al massimo lo considerano un di più, un vago optional, prodotto dalla fertile fantasia religiosa: quindi un qualcosa di cui l’uomo può anche farne a meno. Ma lo Spirito Santo non è un accessorio, non è frutto di una ideologia: è al contrario l’elemento imprescindibile che ci dona la vita, è qualcuno che convive con noi dentro di noi, dal primo istante del nostro concepimento, è colui con il quale, ancorché inconsciamente, condividiamo la nostra essenza di persone razionali; è la “fiamma pilota” che mantiene accesa la nostra debole esistenza, che illumina la nostra coscienza, le nostre scelte, la nostra intelligenza: è insomma la nostra anima, quell’elemento essenziale che presiede alla nostra sopravvivenza corporea, per poi ricongiungersi con l’Altissimo.
Sentiamo spesso nelle prediche la raccomandazione di essere creature “spirituali”, di rispettare lo Spirito che abita in noi: un comportamento che non consiste nel pregare continuamente, senza sosta, nel compiere grandi opere di carità, frequentare quotidianamente la chiesa, partecipare a tutti i pellegrinaggi nei luoghi sacri. “Essere spirituali” significa semplicemente vivere facendoci guidare dallo Spirito di Dio, che non è chissà dove, ma dentro di noi. È il modo cristiano di rapportarci con Dio, di ricambiare il suo amore profondo, di condividerlo con i nostri fratelli, con le persone che ci circondano. Quando i santi guardavano le persone che incontravano, non si fermavano al loro aspetto esteriore, alle loro caratteristiche personali, ma erano affascinati dallo Spirito di Dio che trapelava inconfondibilmente dalla loro corporeità.
Gesù fu per eccellenza l’uomo del vedere oltre l’apparenza esteriore, del guardare dentro, del considerare la realtà “superiore”, divina, dell’essere umano. Questa cosa Lui la chiamava “Regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso futuro, ma è presente qui, ora, è l’oggi; dipende dai tuoi occhi, da come ti guardi intorno”. Quando infatti egli incontrava i sofferenti, i derelitti, i poveracci, le donne bisognose, persone che tutti evitavano, Lui le abbracciava, le ascoltava, appagava il loro bisogno di amore; vedeva i peccatori e mentre tutti li giudicavano e li condannavano fermandosi all’apparenza (“Siete dei disgraziati lontani da Dio!”), Lui andava “dentro”, sapeva scorgere la luce profonda, la forza interiore, il desiderio di vita, nascosti dentro di loro. Un esempio? Sul Golgota, al suo fianco, era crocifisso un peccatore, un assassino: e mentre tutti vedevano in lui il malfattore, il delinquente, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Prima di esalare l’ultimo respiro, mentre tutti coloro che lo conoscevano provavano sdegno e rabbia verso i suoi carnefici, Lui al contrario vide in essi la tenue luce dell’anima, soffocata purtroppo dalle tenebre dell’odio: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”.
Ebbene: noi, suoi moderni discepoli, come ci comportiamo col nostro prossimo? Cosa vediamo in loro? Beh, noi non abbiamo tempo per “guardarlo”: abbiamo un sacco di cose da fare, dobbiamo correre, dobbiamo lavorare, dobbiamo produrre! E questo ci preoccupa, ci assilla continuamente, ci tormenta l’esistenza: siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente felici. Non ci accorgiamo che invece di progredire siamo sempre fermi, immobili, sempre allo stesso punto di partenza. Preoccupati solo del materiale, non abbiamo tempo per lo Spirito, per fermarci a guardare la vita alla luce di Dio: questo è il nostro vero problema!
Ci siamo mai chiesto perché nel chiudere le porte, invece di accompagnarle, le sbattiamo? Perché urliamo sempre invece di parlare normalmente? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché, se possiamo imbrogliare gli altri, lo facciamo volentieri? Perché nulla più ci commuove? Perché non c’è mai luce e serenità nel nostro volto? Perché non sappiamo più esprimere sentimenti nobili? Perché non sappiamo più dire neppure “grazie”? Per un motivo molto semplice: perché da “Spirito” che eravamo, ci siamo trasformati in “materia”.
Da cosa ce ne accorgiamo? Semplice: siamo, per esempio, “materia” quando, all’inizio del nuovo giorno, ci preoccupiamo di organizzare soltanto gli impegni di lavoro, le opportunità di guadagno; siamo invece “spirito” quando consideriamo quel giorno un’ulteriore opportunità offertaci da Dio per riservare amore a Lui e al prossimo; siamo “materia” quando ci irritiamo per qualunque cosa, siamo “spirito” quando ci chiediamo cosa non funziona in noi e cerchiamo di migliorarci; siamo “materia” quando ammiriamo nella donna il solo fascino esteriore, siamo “spirito” quando vediamo in lei la bellezza della sua anima e della sua dignità materna; siamo “materia” quando respiriamo e basta (avviene in automatico), siamo “spirito” quando sentiamo che il respiro, è vita, è dono, è la “ruah”, il soffio creatore di Dio. L’intera nostra vita, pertanto, può essere sempre terribilmente materiale o meravigliosamente spirituale, piena di buio deprimente o di luce esaltante: renderla divina, appassionata, entusiasmante, dipende solo ed esclusivamente da noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, dalla nostra anima.
Questo è il motivo per cui ci serve veramente la Pentecoste: ben venga quello Spirito che mette in crisi la nostra indifferenza; uno scossone dirompente che finalmente distrugga i nostri nascondigli, le nostre becere scusanti, che ci costringa ad abbandonare i nostri cenacoli di paura, la nostra materialità. Quello Spirito di Dio che ci faccia camminare a testa alta sulle vie della vita, incuranti del mondo, impassibili di fronte alle sue insidiose e inutili lusinghe, raggianti nel volto, illuminati dal calore del Suo amore. Amen.

 

  

mercoledì 8 maggio 2024

12 Maggio 2024 - ASCENSIONE DEL SIGNORE


Mc 16,15-20 
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano. 

L’evangelista Marco, nel brano evangelico di oggi, descrive l’ultima apparizione di Gesù ai discepoli durante la quale consegna loro le sue ultime volontà, prima di essere “elevato in cielo” e di sedersi “alla destra di Dio”. Sono raccomandazioni che rivestono una particolare importanza, poiché suonano come un vero e proprio passaggio di consegne: Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”. In pratica dice: “Io me ne vado, non sarò più qui; non parlerò più di persona, non farò più nulla direttamente, ma voi rimarrete, ed io continuerò ad esserci per mezzo vostro”. 
Lui dunque non ci sarà più, per questo si affida ai suoi discepoli: saranno loro i nuovi Gesù; saranno loro che continueranno a divulgare nel mondo la sua “buona notizia”, il suo “euanghelion”, il vangelo. 
Tutti infatti devono riceverla, tutti devono conoscere la bontà, la novità, l’apertura, l’universalità della sua missione e dei suoi insegnamenti. 
Ma, in pratica, cosa ha detto, cosa ha fatto Gesù di così tanto importante, nel suo peregrinare per le strade della Palestina? L’opposto di quanto facevano i capi religiosi di allora: perché, mentre questi discriminavano stabilendo: “Questo popolo sì, questo è il popolo prescelto da Dio, quello buono, gli altri no; gli altri sono infedeli, cattivi; questi sono degni, quelli no; questi saranno premiati perché puri, quelli condannati perché impuri (donne, peccatori, pubblicani, lebbrosi, ecc.)”; Gesù al contrario diceva: “Io accolgo tutti, non ho preferenze, non guardo alla presenza, all’importanza, alla cultura, alla simpatia: io guardo il cuore. Vado da chiunque, perché il mio messaggio introduce in una nuova vita, fatta di amore, di pace, di verità: proprio per questo il mio messaggio deve arrivare a tutti, perché tutti lo devono conoscere. Ognuno poi è libero di accoglierlo e di praticarlo; non importa cosa deciderà: l’importante è che tutti sappiano che con me possono vivere nell’amicizia vera, nell’amore, nella pace, con me e con mio Padre”. 
Il Dio di Gesù quindi non si pone come una esclusiva di alcuni privilegiati, Dio è di tutti, ama tutti, credenti e increduli, vicini e lontani, buoni e cattivi, giusti e ingiusti. Dio non è monopolio di alcuni: neppure della Chiesa cattolica: perché è la Chiesa cattolica che appartiene a Dio, non viceversa! Nessuno può dire: “Io conosco già tutto di Dio, e questo mi basta”; al contrario deve dire: “Io voglio seguire, vivere, praticare fino in fondo, tutto quello che conosco di Dio”. 
Le catechesi, le predicazioni, la pastorale, non devono aggiungere nulla di più del vangelo, non devono inventarsi nulla di nuovo, cercando di aggiornarlo alle mentalità moderne; devono soltanto risvegliare, far emergere, far risplendere quel Dio che nella sua grandezza, nella sua potenza, nel suo amore infinito, vive già in ogni persona a cui è destinato. 
Tutti abbiamo ricevuto con la nascita il dono di avere Dio in noi, il suo Spirito di vita (siamo tutti sue creature!). Ognuno poi potrà stabilire con Lui un rapporto unico, riservato, intimo, dal quale gli deriveranno doni, carismi, attitudini, capacità strettamente personali, diversi per quantità e qualità rispetto agli altri. Sbaglia quindi chi nel far catechesi pretende di far conoscere Dio, imponendo la propria personale esperienza con Lui: Dio non è una formula, ancorché sacra, non é una raccolta di preghiere, non è un codice comportamentale: Dio è una presenza viva, è un Padre che ama i suoi figli. Educare gli altri ad amarlo, pertanto, vuol dire semplicemente aiutarli a scoprire la Sua presenza in loro, a stabilire con Lui un colloquio, una relazione di reciproca, profonda amicizia. 
Gesù dunque, ventun secoli fa, ha vissuto un tempo storico di circa trentatré anni; poi è tornato in cielo (Ascensione): il tempo della sua storia umana termina qui: da quel momento inizia il “Tempo della Chiesa”, inizia la “nostra” storia. Ora tocca a noi continuare la sua opera: siamo noi le sue mani, i suoi piedi, le sue labbra. Un compito arduo, per assolvere il quale abbiamo però la certezza di non essere mai soli: tutto ciò che faremo, lo faremo in “collaborazione”, in stretta unione con Lui: Marco conclude il suo vangelo, sottolineando a chiare lettere che ogni nostra iniziativa deve essere “condivisa”, deve essere affrontata e realizzata in stretta collaborazione con Gesù: dobbiamo cioè “operare insieme” (16,20); “synerguntos”, dice il testo greco; un termine che già dalla sua pronuncia fa capire l’indissolubilità del legame che deve esistere tra il mandante (Gesù) e gli esecutori del “progetto Chiesa” (noi). 
Nostro compito, allora, non è quello di essere indipendenti, di agire autonomamente come se la “Chiesa” fosse stata pensata e ideata da noi: noi non conosciamo nulla, non capiamo i “calcoli” del Progettista: siamo dei poveri operai che, in “sinergia” con l’Alto Direttore dei lavori, dobbiamo semplicemente assicurargli il nostro impegno per la perfetta realizzazione della sua Opera. Nient’altro. Eppure, talvolta ci capita di esclamare: “Ma tu Signore, perché non sei più chiaro e deciso quando parli? Perché di fronte alla dilagante accozzaglia di idee improponibili, di fronte al disinteresse, alla inettitudine, all’incostanza, alla pigrizia, al doppiogiochismo, all’infedeltà dei tuoi rappresentanti, dei tuoi operai, porti pazienza, non fai nulla, non reagisci? Perché non intervieni tu in prima persona, anche energicamente se vuoi, come hai fatto talvolta quando eri quaggiù? Perché non provvedi tu a sistemare un po’ le cose?”. E magari ci alteriamo anche, dimenticando che ora siamo noi, in prima persona, che dobbiamo farci carico della situazione, siamo noi che dobbiamo preoccuparci, cercare nel nostro piccolo, di porvi rimedio, di cucire gli strappi, di ribadire con l’esempio i suoi insegnamenti, di difendere con fermezza i suoi valori inalienabili. 
È vero che in atto c’è una buona cooperazione tra Dio e noi: solo che è altrettanto vero, che Lui è sempre di parola, puntuale, esegue sempre il suo compito; noi, invece, no: spesso e volentieri svicoliamo! Lui, con pazienza, ci ispira, ci fa coraggio, ci dà la forza, la costanza di insistere: noi invece preferiamo spesso fare di testa nostra, pensiamo di poter fare da soli, senza di Lui, di saperne più di Lui: salvo poi accorgerci, puntualmente, che questi nostri personalismi sono inutili, improduttivi! Il nostro cristianesimo è troppo superficiale, infantile, acerbo: pretendiamo che Dio faccia continuamente miracoli, che ci conceda favori e “grazie” a non finire, che ci risparmi il dolore, la sofferenza, che appiani le difficoltà della vita, che cambi insomma il mondo e i suoi abitanti! Ma siamo solo dei bambini capricciosi che pretendono soltanto, e fanno i capricci se non ottengono immediatamente ciò che chiedono. In realtà siamo cresciuti, siamo grandi, adulti; Gesù perlomeno ci considera tali; e allora comportiamoci di conseguenza, rispondiamo positivamente alle sue aspettative; facciamo cioè in modo che il nostro cristianesimo, la nostra fede, cessino di essere infantili, ma siano da “adulti”. 
“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (16,15). 
Per Gesù la “salvezza” è il risultato del “credere”: significa che, vivendo il vangelo con fede viva e profonda, è possibile raggiungere un’esistenza appagante, appassionata, che esprime gioia, amore, benessere interiore; una vita che ci fa sentire vivi, realizzati, accolti. 
Inoltre quanti arriveranno a credere veramente, saranno dotati di particolari doni, di “segni” straordinari, di carismi, grazie ai quali potranno essere riconosciuti da tutti (16,17): 
“Scacceranno demoni”: nel vangelo i demoni parlano, hanno voce, si danno da fare. Esattamente come fanno anche quelli di oggi: noi, infatti, siamo in balia di schiamazzi alienanti, di opinionisti insopportabili, di urlatori che fanno discorsi senza senso, divulgatori di notizie false, di opinioni e suggerimenti idioti: sono i nostri demoni, i nostri spiriti maligni che, attraverso i “media”, asserviti al demoniaco dio denaro, con il loro incessante bombardamento pubblicitario, con i loro messaggi subliminali, sono un pericolo, un macigno malsano che ci appesantisce, ci ammorba, ci impedisce di volare in alto, ci uccide l’anima. Ebbene, volendo, noi possiamo scacciare tutti questi demoni, queste voci, questi attacchi maligni: possiamo liberarci di tutta questa zavorra che non ci conduce a Dio, ma lontano da lui: è sufficiente zittirli, spegnerli, eliminarli! Basta un semplice “click”! 
“Parleranno nuove lingue”: normalmente di cosa parla oggi la gente, cosa ci propongono le migliaia di canali informativi che ci sovrastano? Parlano di gossip, scandali, omicidi, violenze, di delinquenti, di gioventù bruciata; ogni giorno un vagone di notizie tragiche, nefaste, ossessive, miste a “chiacchiere” inutili, insinuazioni ripugnanti, discorsi fatui, spersonalizzati, senz’anima. La gente, parlando, crede di comunicare, di esprimersi; ma non fa altro che moltiplicare linguaggi incomprensibili! 
Quali sono allora le lingue nuove che potremo parlare? 
È la lingua del silenzio, del tapparsi la bocca, dell’ascoltare: “Se la gente si ascoltasse di più, parlerebbe decisamente di meno” diceva l’umorista Arthur Bloch. Ed è vero: non si apprezzerà mai abbastanza il valore di “Sto in silenzio e ascolto: che cosa? le parole dell’anima, del cuore, della coscienza, di Dio. Ascolto il respiro della vita, il mutarsi della natura; il cinguettio degli uccelli, il sibilo del vento, la risacca del mare. 
È la lingua degli occhi: fermiamoci una buona volta, guardiamo, scrutiamo gli occhi di chi ci parla. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima, e l’anima ha sempre tante cose da dirci, da insegnarci, molto più delle parole. Impariamo a dar loro voce e autorità.
Parleremo
la lingua del cuore, la lingua dell’anima: parlarsi intimamente, esprimere le proprie emozioni, le proprie paure, i propri bisogni, i propri desideri; piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi, essere insomma felici. Le persone neppure immaginano quante vibrazioni, quanta vita, quanta energia, quanta forza, possiamo trarre dal parlare queste nuove lingue, che non dipendono dalle “parole”, ma dalle intime effusioni dell’anima. 
Allora diventeremo "altri": Prenderete in mano i serpenti”: il serpente è pericoloso, a volte mortale. Noi lo evitiamo, perché è viscido, fa ribrezzo, paura. Ma Gesù ci rassicura. “Con me puoi tutto!”. Prendiamoli allora in mano questi serpenti particolari che ci insidiano: non crediamo più in nulla? non andiamo più in chiesa? ci siamo stancati di sentire sempre le stesse prediche? i preti non ci trasmettono più nulla? abbiamo perso la stima e la fiducia nel nostro prossimo, nei colleghi, nei parenti, negli amici? la loro presenza è diventata insopportabile? Fermiamoci: affrontiamo la questione, prendiamo in mano un problema alla volta, il nostro serpente di turno: analizziamo la nostra fede, la nostra carità, la nostra coerenza; svegliamoci dal nostro torpore, scuotiamoci dalle nostre paure; chiediamo a Dio nuova forza, nuovo vigore, nuovo entusiasmo. Perché tirare avanti fingendo che tutto vada bene? Siamo convinti che un richiamo, un rimprovero, una paternale, nei confronti di qualcuno, arrogante e ribelle, sia utile e necessaria? Facciamola! Cosa aspettiamo? "Pugno di ferro in guanto di velluto", insegnavano i santi Padri. Comportiamoci anche noi come ha fatto e come ci ha insegnato Gesù: se usiamo la Sua carità, il Suo amore, se operiamo in sinergia con Lui, troveremo sicuramente la forza, il modo giusto e indolore per rendere inoffensivo qualunque serpente velenoso! Amen. 

 

  

venerdì 3 maggio 2024

05 Maggio 2024 – VI DOMENICA DI PASQUA


Gv 15,9-17 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Dio ci ama gratuitamente, illimitatamente, al di là di tutto. Lui non ci chiede di essere innocenti, puri, giusti, buoni; ci chiede soltanto di lasciarci amare, perché il suo è un amore gratuito, un amore immeritato: è l’amore di Dio. Esattamente il contrario dell’amore degli uomini che è interessato, condizionato, egoistico. L’amore degli uomini è legato a determinate condizioni, che si possono accettare o rifiutare. Ma l’amore di Dio no, l’amore di Dio è incondizionato, assolutamente gratuito, irrinunciabile; Egli ci ha amati e ci ama da sempre, da prima del nostro concepimento. Pertanto tutti noi abbiamo un debito enorme di amore e di riconoscenza con Lui; e se non possiamo fare nulla per il passato, facciamolo almeno nel presente e per il futuro, ricambiamo cioè questo suo amore, cercando di ri-amare, Lui e il nostro prossimo, con un amore almeno “simile” al suo. 
È questo il comportamento concreto che ci chiede Gesù. Non gradisce gli scarti, non le mezze misure, non i ritagli di tempo, “tanto per…”, ma il meglio in assoluto, il tutto. Con tutti. Ogni giorno. Dovunque. 
Perché? perché l'amore vero nasce da Dio, l'amore è Dio stesso; e se vogliamo che Dio sia presente in noi, sia presente intorno a noi, dove viviamo, dove lavoriamo, dove preghiamo, dove ci muoviamo, dobbiamo semplicemente amare come ama Lui. Le chiese, le pratiche di pietà, le attività pastorali, i gruppi parrocchiali, servono e acquistano valore, soltanto se sono un mezzo per praticare questo amore “speciale”. Se al contrario sono occasioni per esibirci, per coltivare il nostro orgoglio, i nostri personalismi, se si riducono a centri di pettegolezzi, di maldicenze, di critiche, di cattivi esempi, diamoci un taglio: facciamo una bella pulizia, rovesciamo (come ha fatto Gesù all’ingresso del Tempio) qualche bel tavolino, fosse pure quello della “Caritas”, con i suoi “fedeli” gestori! Dobbiamo aver sempre presente che il “volontariato” è un corollario dell’amore, un veicolo dell’amore, ma non è in alcun modo l’amore: soltanto noi, unicamente noi, possiamo e dobbiamo trasformarlo in amore! 
Poi Gesù dice: “Se osserverete i miei comandamenti…”. Quali comandamenti? Allude ai dieci comandamenti? Perché in Giovanni non troviamo nessuna lista di suoi “comandamenti”. E anche negli altri vangeli, quando Gesù invita a “osservare” qualcosa, non intende certo i “Dieci Comandamenti”, semmai le Otto Beatitudini.
Così quando sentiamo parlare di “comandamento” dell’amore, noi pensiamo subito alle parole: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. E pensiamo che per Gesù fosse proprio questo.
Ma non è così. Questa era la spiegazione data dalla spiritualità ebraica, dai primi cristiani provenienti dall’ebraismo, ma non da Gesù; per loro oltretutto era un comandamento abbastanza ovvio, in quanto, per un ebreo, il “prossimo” non erano tutti gli “altri”, ma solo gli altri ebrei. Gesù lo spiega più avanti cosa intende: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”; l’allusione alla lavanda dei piedi è chiara: dobbiamo essere cioè al servizio di tutti, con amore e umiltà! 
Proprio a questo proposito Gesù (Gv 13,34) dice: “Vi do un comandamento nuovo (kainèn)”.
Ora, “nuovo” in greco si può dire in due modi: “neòs” se usato in senso “numerico” (mi hanno regalato una nuova penna; ora ne ho due); oppure “kainòs” se usato in senso “qualitativo”, cioè una “novità!” (mi hanno regalato un computer, una novità rispetto ai pc di prima); la “novità” sta sul superiore livello del dono, un dono cioè di tutt’altro valore. 
Nel nostro caso, infatti, gli ebrei avevano già i Dieci Comandamenti e Gesù non intende dar loro un undicesimo (neòs). Avevano già 613 regole da seguire, bastavano quelle, erano più che sufficienti! Gesù non aggiunge un’altra regola: anzi le riduce tutte ad una, dà cioè un’unica regola, ma totalmente nuova (kainòs): un comandamento che è tutta un’altra cosa, un comandamento che sta su un altro piano, che sostituisce tutti quelli che c’erano prima.
Gesù, in pratica, dice semplicemente di amare, ma di farlo con un amore “nuovo”, un amore diverso rispetto agli amori di prima, un amore che produce soltanto gioia: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Non a caso la parola “amore” (kàris) deriva dalla radice “karà” che significa appunto gioia, festa, godere. 
Questa è la novità importante, fondamentale, che lo rende unico: l’amore, per essere come quello di Dio, deve produrre gioia, allegria, felicità; se il nostro amore non produce questi sentimenti in noi e nelle persone che “diciamo” di amare, allora dobbiamo porci seriamente delle domande, dobbiamo esaminarci in profondità. L’essere nella gioia, non vuol dire provare la stessa gioia di quando tutto ci va bene, di quando siamo fortunati. La gioia dell’amore è diversa, è un’altra cosa: è quel sentimento profondo, intimo, rassicurante, che tranquillizza, che fa sentire a proprio agio, a posto, che fa sentire di essere amati, che assicura sulla bontà dei propri progetti, sulla strada che si sta percorrendo, che in questo mondo si sta facendo qualcosa di buono, di importante, un qualcosa che crea sensazioni di vitalità, di gioia interiore, di libertà. 
Si può amare il Signore ed essere sempre seri, tristi, affranti, immusoniti? Se non dimostriamo mai i segni della gioia, dell’amore, che sono appunto il sorriso, la serenità, la generosità, la pace, ecc., dobbiamo cominciare a preoccuparci seriamente sulla fondatezza delle nostre condizioni! Forse, tutto sommato, non siamo ancora veramente convinti che Dio ci ama: perché Dio è gioia, è felicità, è apertura, entusiasmo! Se siamo certi che Lui ci ama, come possiamo vivere sempre nella tristezza, nella malinconia, nel disappunto, dimostrando a tutti il contrario? 
E continuando la sua lezione sull’amore, Gesù dice: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Un’affermazione che è stata in passato, e lo è ancora oggi, travisata, distorta, incompresa; un’iperbole difficilmente attuabile: il “dare la vita”, infatti, equivarrebbe a “morire” per gli altri: in altre parole uno per amare veramente gli altri, dovrebbe rinunciare alla propria vita, sacrificarsi fino alla fine ultima, rinunciare alla propria esistenza materiale; per cui il darsi agli altri, senza “morire”, sarebbe un darsi non evangelico, non in linea con l’amore di Gesù che ha sacrificato la sua vita sulla croce per amore nostro; sarebbe un darsi incompleto, un darsi limitato, un vivere in maniera incompleta il “comandamento nuovo” di Gesù.
Ma non è questo il significato: Dio non ci impone eroismi, non vuole che rinunciamo al grande dono della vita che lui stesso ci ha dato, non intende martirizzarci: lo accetta solo da poche persone, dai santi, e anche da loro, in particolari casi, in rare occasioni. La nostra santità passa invece attraverso gli eroismi della “normalità”. Attraverso un donare quella “vita” che coincide con il nostro essere spirituale, con la nostra anima, con i nostri sentimenti d’amore.
Il vangelo di Giovanni è chiaro: quando egli scrive dare la “vita”, non usa la parola “zoé” che indica la vita che è in noi, per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), oppure “bìos” che allude al modo in cui noi viviamo la nostra vita (quam vivimus); usa invece il termine “psyché”, che nella lingua greca del Nuovo Testamento significa appunto “anima, respiro, soffio vitale, sentimento”. 
Questa è dunque la vita che dobbiamo dare ai nostri amici: è la nostra anima, ciò che abbiamo dentro, quello che siamo nel nostro intimo, il nostro essere spirituale. Dare la vita materiale, quella esteriore, non serve. Neppure quando parliamo di figli. Il dono più grande per un figlio non è assicurargli una vita al top: non sono i soldi, né il cognome famoso, né i beni, né un’adeguata posizione sociale; il vero dono è mettergli a disposizione totale tutto ciò che noi siamo e abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda, è dargli la nostra anima, il nostro amore, i nostri slanci, le nostre convinzioni, i nostri ideali. 
Se noi, da parte nostra, non abbiamo nessuna vitalità, nessun entusiasmo, nessun ideale, nessun valore radicato; se non abbiamo nessuna sicurezza, nessuna fede, nessuna apertura, che tipo di “vita” potremo mai “sacrificare”, quale “vita” potremo mai donare ai nostri cari, agli altri, al prossimo? 
Succede a volte che marito e moglie, insieme da molti anni, durante la loro vita in comune si siano regalati di tutto: corpo, tempo, benessere, preziosi, ville, ma non si siano mai fatto dono della loro “anima”. Ebbene: pur vivendo sotto lo stesso tetto, essi continuano ad essere tra loro degli estranei. Se non si fanno dono reciproco della loro psyché, del loro “spirito”, del loro “sentire” più intimo e riservato, tra i due non c’è una vera complicità spirituale, non arriveranno mai a condividere la loro fragilità, la loro vulnerabilità, le loro paure, i loro sogni segreti. Tra i due non c’è alcuna complicità interiore. Ecco perché, prima o poi, le coppie inesorabilmente scoppiano: non perché non si amano più, ma perché non sanno amarsi in questo unico modo. Non conoscono l’essenza del vero amore, l’amore con cui Dio li ama entrambi, e non sanno condividere e convivere questo amore. “Stanno insieme” perché fanno tante cose in comune, abitano nella stessa casa, hanno gli stessi interessi: ma se tra loro non c’è questa simbiosi interiore, non c’è questo incontro, questa fusione di anime, il loro non è “psychéin”, non è “dare la propria vita per l’altro”, non è “vivere insieme un’unica vita”, non è la “fusione dell’essere”, il respirare insieme, il sentire insieme, il pensare all’unisono. In altre parole non si amano “come io ho amato voi”, non si amano cioè con lo stesso amore di Dio. Amen.

 

 

giovedì 25 aprile 2024

28 Aprile 2024 – V DOMENICA DI PASQUA


Gv 15,1-8 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di commiato (Gv cc. 13-16), che Gesù ha rivolto ai discepoli prima di essere arrestato dai suoi carnefici. Siamo durante l’ultima cena: Egli apre completamente il suo cuore, rivelando, con profonda emozione, tutto il suo amore per loro: parla di sé, della sua “ora” ormai “arrivata”, di ciò che l’aspetta, del suo domani di passione; parla delle loro preoccupazioni, di ciò che anch’essi dovranno affrontare nel futuro, dell’amore e dell’odio che il mondo riserverà loro. E per spiegare in maniera più comprensibile la sua missione di salvezza, il suo ruolo di guida, la sua leadership permanente, ricorre all’immagine, allora comune, del vignaiolo, della vigna incolta, della vite fertile e dei suoi tralci fruttuosi; un simbolismo molto noto al popolo, in quanto lo stesso Israele, nella Scrittura, era equiparato ad una vigna, di cui Jahweh stesso ne curava la manutenzione; molto celebre, per esempio, è il passo di Isaia, in cui Dio, amareggiato, si lamenta della infedeltà del suo popolo: “la vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,1-24). Nel Cantico dei Cantici, la sposa (Dio) invita lo sposo (il popolo) nella “vigna”, ritenuta il luogo dell’amore, dell’incontro, della felicità, della gioia. Così il “vino”, ottenuto dal frutto della vite, era simbolo di benessere interiore, di appagamento delle aspirazioni più profonde, di ebbrezza, di stordimento spirituale, di intensa percezione della bellezza del vivere; a Cana, infatti, quando durante il banchetto nuziale viene a mancare il vino, la festa rischia improvvisamente di guastarsi; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando per tutti vino a volontà, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo, più di prima. 
Se i tralci non producono uva, se in essi non è avvenuto alcun passaggio di linfa vitale, se non producono più il loro frutto, elemento fondamentale per la felicità, per il benessere dell’uomo, vuol dire che sono secchi, privi di vita, e quindi destinati ad essere tagliati e buttati al fuoco.
È dunque in questi termini che Gesù spiega ai suoi che se vogliono ottenere dei risultati nella loro missione, devono sempre rimanere uniti a Lui, esattamente come avviene in natura tra la vite e i suoi tralci: il tralcio, strutturalmente distinto dal fusto della vite, è comunque parte di essa, ne è la sua propaggine, e solo se rimane unito ad essa può portare frutto: il fusto quindi è la vita per il tralcio, è il suo nutrimento, la sua forza, il suo tutto. Vite e tralcio formano pertanto un tutt’uno inseparabile, per il benessere degli altri.
Purtroppo, in questa nostra società, ricca di “tralci” umani completamente diversi, piuttosto che una fraterna collaborazione al bene comune, vige una radicale, errata, controproducente concorrenza: ognuno, sopravalutando se stesso, è convinto che nessuno possa superarlo, che nessuno sia “più” di lui, non accetta “superiorità” di alcun genere; gli dà fastidio cioè che nella vita, gli altri esprimano meglio di lui le loro potenzialità, realizzino con maggior successo i loro programmi, diventino insomma quei “tralci unici”, che producono frutto in qualità e quantità per essi irraggiungibili.
Ciò che caratterizza invece qualunque comunità, non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti uguali, possedere tutti le stesse identiche capacità: la superiore qualità del prodotto di una vite non è data dalla quantità di uva prodotta dai singoli tralci, ma dalla sua bontà, dal suo gusto, dalla maturazione succosa dei suoi grappoli, dovuti appunto ad una più capillare circolazione della linfa, alla migliore esposizione ai raggi del sole; in altre parole, riferito a noi, è l’amore, il dialogo, la condivisione, la comprensione, la disponibilità che in una convivenza crea stabilità, serenità, pace, benessere comune.
Molte famiglie, molte comunità, molti “gruppi”, pensano di essere “uniti” solo perché si radunano insieme molto spesso. Ma non è l’incontrarsi di frequente che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è tutt’altra cosa; significa condividere nell’anima, nello spirito, nella vita gli stessi sentimenti, gli stessi ideali; significa “sentire” che gli altri condividono con noi le loro personali e diverse aspirazioni, le particolari necessità dell’anima, esattamente come noi facciamo con loro: l’unione vera, infatti, è data da una vicinanza “sentita”, dalla convivenza di due spiriti assolutamente diversi, liberi e autonomi, non certo da una compresenza fisica.
Noi che siamo i “tralci”, pertanto, non dobbiamo mai staccarci dalla vite, che rappresenta l’unica nostra possibilità di emergere, di sopravvivere; non dobbiamo mai staccarci dalla nostra “vite”, dal nostro “Spirito”, dalla nostra anima; mai arrogarci le prerogative della vite, mai cercare di sopraffare l’altro, perché nell’esatto momento in cui lo facciamo, perdiamo ogni nostra vitalità comune, rinsecchiamo, siamo destinati ad una morte spirituale certa. È la legge della sopravvivenza: il tralcio, staccato dalla vite, inesorabilmente muore. Non esistono alternative.
Gesù dunque si propone come “Vite”, come “Vita” vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto, l’ebbrezza della vita, sono l’elisir della felicità, l’unico vero piacere della vita”. Parole però che lasciano trasparire anche le difficoltà del percorso per giungere a tanto: ogni qualvolta, per esempio, il sacerdote nel celebrare l’Eucaristia pronuncia sul vino, frutto della vite, la formula sacramentale “Questo è il mio calice, versato per voi”, con cui lo transustanzia nel sangue di Cristo, ci ricorda due cose importanti: che il “sangue versato”, oltre che riferirsi alla passione di Gesù, ci mette di fronte alla nostra situazione umana, alle nostre malattie, alle nostre sofferenze; ci ricorda soprattutto, però, che quel “sangue” è Gesù stesso in persona che diventa nostro gusto, nostro sapore, nostra gioia di vivere: è Lui infatti che con la sua presenza dentro di noi, ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura, e soprattutto il suo amore.
Vivere nell’intimità divina, in stretta unione con Gesù, nostra Vite, vuol dire per noi “tralci” segregarci dalle cose futili della quotidianità, rifugiarci nel silenzio della nostra anima, lasciarci inebriare dalla Sua presenza, agevolare in noi la trasfusione della Sua forza, della Sua potenza, del Suo amore.
Chi rimane insensibile a tutto ciò, è a dir poco un rinunciatario, uno che non sa “vivere”, uno che quando piove preferisce stupidamente starsene all’aperto e bagnarsi, piuttosto che entrare in “casa” sua! Come può pensare infatti di entrare in intimità con Dio, chi si rifiuta a priori di entrare in intimità con sé stesso? Per entrare in autentica unione con Lui non basta andare in chiesa e riempirlo di parole, di promesse, di chiacchiere, di preghiere biascicate: bisogna lasciarsi compenetrare dalla sua presenza, in una silenziosa, adorante, disposizione spirituale dell’anima! Sono troppi quelli che purtroppo parlano “a Dio” ma non “con Dio”. Sono troppi quelli che quando sono in chiesa, quando sono davanti a Dio, quando pregano, quando cantano, quando celebrano, non provano più alcuna emozione interiore, nessun trasporto spirituale, nessuno slancio; persone che non si commuovono più di fronte alle parole di Gesù; che non si lasciano coinvolgere in ciò che fanno; che non provano l’ebbrezza del canto o l’intima e preziosa sonorità del silenzio. Persone, insomma, che hanno solo paura di Dio, hanno soggezione di Lui, non vogliono aprirsi; persone che in cambio, nella loro mediocrità, diventano logorroiche, lo subissano di vuote parole, piuttosto che di prove tangibili di amore. Sono troppe le persone che parlano agli altri dell’amore di Dio, che invitano tutti ad amarlo, ma lo fanno soltanto con la voce, con la bocca, perché il loro cuore è arido, insensibile; la loro vita lascia trasparire solo tristezza, amarezza, fallimenti, sconfitte, rimorsi. Non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi, non è questa la felicità che ha pensato per noi: Egli al contrario, per noi, ha creato il sole, le stelle, le bellezze della natura, la vita, il mondo intero; soprattutto ci ha donato il suo amore, perché lo gustassimo, lo assaporassimo, ci saziassimo con esso il cuore e l’anima.
Gesù dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete continuamente, quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo “rimanere in Lui” c’è tutto il segreto della vita felice: poter cioè anticipare, già in questa vita, quella felicità futura che ci è stata promessa per quando lo vedremo “così come egli è” (1Gv 3,2).
I ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono perentoriamente: “Sei connesso o no?”. Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima, sono sempre “connessi” con Lui? Guai a noi se chiudiamo questo contatto, guai a noi se stacchiamo la spina, perché, ci dice oggi Gesù, “senza di me, voi non potete far nulla”: non dimentichiamo mai questa verità, perché Lui è l’unico canale che ci trasmette linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.