Mc 14,1-15,47 - La passione del Signore (passim...)
Al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici» […]. I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. […] La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». […] Condussero Gesù al luogo del Golgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. […] Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». […] Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme. […].
Nel racconto della Passione,
riviviamo la storia di un “uomo” perdutamente innamorato di Dio e degli uomini.
Un amore “folle” che lo ha portato ad accettare la morte come conseguenza
estrema. Tutta la vita di Gesù, uomo-Dio, è stata vissuta con passione, con
intensità, amando, piangendo, commovendosi; interessato a chiunque lo
avvicinava, acceso ora dall’amore e ora dallo sdegno. Una vita vibrante,
appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare. Soprattutto
una vita di fedeltà: Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo,
per tutto ciò che vive; fedele, in particolare, al suo grande amore per Dio,
suo Padre, il quale, è sempre con Lui, al suo fianco, anche quando tutto, alla
fine, sembra già finito, quando tutto “è compiuto”.
Il testo della Passione è la
storia di quest’uomo fedele a sé stesso, al proprio cuore, innamorato di Dio,
suo Padre, e degli uomini in attesa di essere salvati.
Ripercorriamo insieme alcune
scene di questo straziante percorso di Gesù, così come ci vengono proposte oggi
dal vangelo: in Gesù possiamo anche noi ritrovare la forza per compiere il
nostro cammino fino in fondo, per vivere con passione la nostra vita; possiamo
rispecchiarci nelle varie situazioni, nei personaggi che vengono coinvolti nel
racconto, per capire come noi viviamo la vita di ogni giorno, con quali
atteggiamenti, con quale fiducia o paura.
In loro possiamo rivederci,
ritrovarci; capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono delle
immagini profonde, delle icone stampate a fuoco, che vivono in ciascuno di noi,
in ogni uomo.
L’unzione di Betania
(14, 3-9).
Due giorni prima della
crocifissione Gesù partecipa ad una cena a Betania. Una donna gli si accosta e
gli unge il capo con unguento prezioso. Non era un gesto insolito, ma si usava,
in genere, soltanto in occasioni solenni, anche perché il valore dell’unguento
era molto elevato, stimato quasi quanto il salario annuo di un lavoratore. È un
gesto di assoluta bontà. Del resto cosa può fare questa donna per Gesù? Nulla.
In che modo lo può aiutare? In nessun modo. Può forse attenuare la delusione,
l’angoscia per la fine, che Gesù vive in cuor suo? No. Questa donna non può
fare proprio nulla: ma può amarlo. E così le sue mani, delicatamente, sfiorano,
massaggiano, accarezzano, il capo di Gesù. “Lasciatela stare, lasciatela che mi
ami, lasciate che mi conforti, lasciate che si prenda cura di me”. È l’amore!
Quando non possiamo fare più nulla, possiamo sempre amare, prenderci cura,
assicurare la nostra presenza, stare silenziosamente vicini. Quando non
possiamo fare più nulla, non ci rimane che amare: questo è sempre in nostro
potere.
Giuda (14, 10-21).
Come è possibile che uno di
quelli che seguono Gesù da vicino, che dicono di amarlo, lo abbia tradito? Come
è possibile che uno di quelli che per Lui hanno abbandonato tutto, lo abbia
consegnato ai nemici? Rimane un mistero. Il Vangelo accenna al denaro.
Purtroppo, cosa non si fa per denaro! Per denaro siamo pronti a vendere, a
volte, quello che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il
nostro cuore, la nostra anima, l’affetto, il nostro tempo. E quando abbiamo
perso tutto, cosa ci rimane? Il vuoto! Chi insegue il denaro, le ricchezze, il
benessere materiale, finisce spesso come Giuda, che disperato si impicca. Il
denaro è una illusione affascinante ma effimera: quando si è convinti di avere
tutto, di potere tutto, ci accorgiamo di non avere nulla: non abbiamo amato,
non abbiamo vissuto; abbiamo solo inseguito un sogno fatuo, un’apparenza
impossibile, un impegno inutile. È la morte.
L’eucarestia (14,
22-25).
Il sinedrio furente ha già
deciso di condannare Gesù, proprio quando, durante la cena pasquale, Egli offre
la sua vita in dono d’amore e di pace: “Sì, sono io quel pane che viene
spezzato per sfamare molti. Voglio che la mia vita sia come il grano che, macinato,
diventa alimento, vita, sicurezza per l’umanità. Voglio che dalla mia morte,
tutti riacquistino vita. Voglio che la mia carne straziata, il mio sangue
versato, la mia vita, diventino forza, alimento, sicurezza, rinascita per
l’umanità intera”. Con queste motivazioni Gesù affronta la sua atroce
sofferenza. Non gli verrà tolta, né alleviata: nulla percettibilmente cambierà.
Ma da quel momento tutto cambierà, tutto sarà diverso: ora tutto è chiaro,
tutto acquista un suo significato. Da oggi anche il nostro dolore, le nostre
sofferenze acquistano un valore, una loro nobiltà. Ora anche noi sappiamo che
per portare frutto, il “seme” deve cadere per terra, deve morire. Cosa poteva
donarci di più Gesù? Non ci ha lasciato soltanto belle parole, bei miracoli, bei
discorsi: Gesù ha donato sé stesso, ci ha fatto dono del suo immenso amore.
Questo è il vertice della vita. Perché l’amore vero è donarsi, sempre,
completamente, fino alla fine, senza alcuna riserva. È questo infatti che noi
celebriamo in ogni Eucaristia: l’Amore donato. E ogni qualvolta doniamo amore,
noi celebriamo una Eucarestia.
Il Getsemani (14,
26-42).
Gesù prega: avrebbe potuto
fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Non si comporta
come se fosse un disperato, abbandonato da Dio, sfiduciato, lontano da suo
Padre. Anzi, Gesù lo prega il Padre, c’è molta comunicazione tra lui e suo
Padre. Gesù però è terribilmente angosciato per quanto sta per accadergli, ha
paura. È l’angoscia per un supplizio che si prospetta terribile; l’angoscia per
sentirsi tradito dai suoi amici; la paura di fallire il suo compito: Gesù
continua ad essere in comunicazione con Dio, ma nel suo intimo tutte le paure,
tutti i mostri contrari si materializzano. Qui, nel Getsemani, la solitudine lo
invade. Nessuno dei suoi amici, neanche i più intimi, Pietro, Giacomo e
Giovanni, gli rimangono vicini. Dormono, non capiscono, non colgono la
profondità, il dramma, la gravità di quanto sta per accadere. Vivono in
superficie, addormentati, anestetizzati, talmente presi dalle loro cose, dalle
loro miserie, che non “notano” la tragedia che incombe anche su di loro. Come
possono dormire, ad essere tranquilli, in simili momenti? Gesù, debilitato
nella sua natura umana, moralmente ferito, bisognoso di aiuto, li implora:
“State con me; ho paura, so che non potete far nulla, ma almeno vegliate, non
lasciatemi solo”. Ma essi dormono: è solo. Nessuno gli è più vicino; nessuno lo
comprende; nessuno lo consola.
Il tradimento di Pietro
(14, 26.-31. 66-72).
A Gerusalemme, probabilmente,
nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il punto! Pietro è Cefa, è la
“roccia”, l’uomo che ostenta sicurezza: “Anche se tutti si scandalizzeranno, io
non lo sarò”. È l’uomo istintivo, l’uomo d’azione; un uomo che, come lascia
intendere, non ha paura di niente e di nessuno. Eppure Pietro è ancora un
debole: uno che messo di fronte alla realtà, alle proprie responsabilità, si
affloscia, cede, balbetta, si ripiega su sé stesso. È un uomo che ci
rappresenta molto bene: nelle nostre presunte “certezze” morali, religiose,
nella nostra millantata fedeltà, nella nostra tracotanza interiore: “Gli altri
possono tradire, non certo io!”; uno che ci assomiglia nella banalità dei
nostri giudizi, nella superficialità dei nostri ideali. Nonostante ciò Gesù lo
perdona; anzi lo ha già perdonato prima ancora che tradisse, lo ama sempre e
comunque malgrado i suoi voltafaccia: di questo però egli se ne renderà conto
soltanto quando capirà che l’amore di Dio è più grande di qualunque nostro fallimento,
di qualunque nostro errore. Dio non chiede a nessuno di essere “perfetto” ad
ogni costo; ci chiede semplicemente di essere “umani”, di essere consapevoli
della nostra debolezza, dei nostri limiti, dei nostri sentimenti, delle nostre
paure, delle nostre fragilità. Ogni volta infatti che, sopravvalutandoci, ci
consideriamo superiori, inattaccabili, solidi, incorruttibili, puntualmente
ruzzoliamo per terra, dimostriamo nei fatti la nostra inconsistenza, la nostra
instabilità mentale. Noi cristiani, come Pietro, siamo purtroppo assolutamente
inaffidabili: di fronte al pericolo ci defiliamo. Finché le cose vanno bene,
finché ci mimetizziamo nella folla, allora è semplice per tutti seguire Gesù:
quanta gente infatti lo seguiva finché parlava, finché guariva, finché sfamava!
Solo pochi giorni prima era entrato in Gerusalemme tra i canti di gioia di una
folla osannante che lo salutava agitando rami di ulivo e di palma. E adesso?
Quando c’è da mettersi in gioco, da cambiare, da convertirsi, da trasformarsi,
quando le nostre scelte diventano pericolose, compromettenti, dolorose,
controcorrente, noi ci comportiamo esattamente come Pietro: con grande
disinvoltura rinneghiamo la verità, facciamo finta di nulla, ci tiriamo
indietro, pronti a tradire la fiducia di chiunque.
L’arresto (14, 43-52).
Osserviamo per un attimo come
il manipolo di esagitati, mandati dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli
anziani si scagli contro Gesù. Va da lui “con spade e bastoni”. Giuda, uno dei
discepoli, lo bacia e lo tradisce. Gli mettono “le mani addosso e lo
arrestano”, mentre tutti, “abbandonandolo”, fuggono. È l’infamia del
pregiudizio comune, della gente; l’insensatezza del “per sentito dire”, del “mi
sembra”, del “qualcuno mi ha detto”. È l’infamia di chi ci percuote e ferisce
senza motivo. È la falsità di chi si professa amico, di chi ci abbraccia e
bacia (certi baci sono proprio come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di
chi ci incensa e poi ci colpisce alle spalle. È la meschinità di chi di fronte
a qualcuno in difficoltà, in pericolo, si gira dall’altra parte e se ne va: “Si
arrangi, non sono affari miei”.
Davanti al sinedrio
(14, 53-65).
I capi e i sacerdoti cercano
qualche motivo per condannarlo a morte: ma non trovano nulla. Molti attestano
testimonianze contro di lui, ma sono false, discordi, lontane dalla
verità. Alla fine trovano qualcosa, un qualche motivo per accusarlo. È la distorsione
della verità. È quando l’odio, la rabbia e tutto il sentimento interno scoppia
e sfocia in un’aggressività che giudica, che vuole ferire, che vuole punire. E
non importa chi ci sia davanti; non importa cosa l’altro abbia detto o fatto.
Quando l’anima è piena di odio e di rabbia allora bisogna trovare qualcuno da
infangare. Allora non esiste più l’altro nella sua verità, non esiste più
l’obbiettività, esiste solo il nostro odio che esce, giudica, uccide e si
scaglia contro l’altro. Quante persone insultano, schiaffeggiano, sputano
addosso agli altri tutto il loro male! E non si accorgono che non sono gli
altri a fare il male: sono loro, seminando il loro di male, il loro lato
negativo, il loro marcio. Combattono negli altri quello che è il loro male. Ma
facendo così, continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa
verità.
Pilato (15, 1-15).
Gesù è stato giustiziato dai
Romani? Difficile dire quanto Pilato abbia influito. Anzi Lui coglie la forza,
la profondità dell’uomo che ha davanti e anche l’inganno che i notabili giudei
stanno per tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui glielo hanno
consegnato. Potrebbe lasciarlo andare, non gli sembra che Gesù sia un
“sedizioso”, uno che trama contro l’autorità imperiale, come gli è stato
descritto. Lui, titolare dello “ius coërcitionis”, potrebbe fare qualcosa. Lui
decide, lui potrebbe decidere per la vita o per la morte di Gesù. Ma l’unica
cosa che gli interessa è il potere, avere meno problemi possibili, in
particolare non incrinare i rapporti politici con le autorità religiose locali.
Pilato sembra comandare, essere il potente; è uno, invece, intrappolato nel
gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del detenere
il potere. Sembra comandare, sembra essere lui la massima autorità giuridica,
invece, è l’impotente di turno, colui che non può agire, che non può deludere i
suoi pari; che non può manifestare il suo dissenso; che non ha il coraggio di
prendere una posizione chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo
che si omologa, che va dove vanno tutti. E si crede il governatore, si crede
potente. Ma potente di cosa?
La crocifissione e la
morte (15, 24-38).
Guardiamo
la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno di “sostare” per
entrare nel suo mistero. Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù, sul Golgota,
muoiono tutte le speranze della gente, muore chi aveva lottato con lui, chi
aveva coltivato il desiderio e l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di
vero. Come avrà vissuto questo evento Maria, sua madre, che l’aveva
accompagnato fin lassù? Come l’avranno vissuto le persone che Gesù aveva
guarito? Come l’avranno vissuto la Maddalena, Zaccheo, Lazzaro e gli altri
amici? E con loro i sordi che hanno riacquistato l’udito, i muti la parola, i
lebbrosi la salute, i ciechi la vista, i morti la vita? Come avranno vissuto
questa tragedia, cos’avranno provato nel vedere l’uomo mite e misericordioso
che aveva donato loro speranza, forza, vita, appeso, inchiodato ad una croce,
come il peggiore dei farabutti? Cos’avranno provato quando hanno capito che su
quella croce è finito realmente il Figlio di Dio? Cosa avrà provato tutta
quella folla che, sperimentando su di sé la bontà delle sue azioni, il suo
altruismo, il suo amore per tutti, si era unita a lui lungo il percorso che lo
portava a Gerusalemme e che, proprio per questo, al suo ingresso in città, gli aveva tributato un’accoglienza trionfale?
Sicuramente
contrarietà, dolore, rabbia: sì, perché non è stata quella “folla” che ha
preteso la condanna e la “consegna” di Gesù nelle mani delle autorità religiose! Sappiamo infatti per certo che non è stata
quella gente che, urlando, ha convinto Pilato a liberare un comune assassino,
uno sconosciuto, un “Barabba” che con ogni probabilità non è mai
esistito realmente: sembra infatti che gli evangelisti, nell’identificare una
persona con quel nome, siano incorsi nell’errata interpretazione del termine
aramaico “Bar-abbas”, che significa “Figlio del Padre”; un’espressione,
che era molto conosciuta dalla gente che frequentava Gesù, perché Lui amava
spesso definirsi in questo modo. Quel popolo, quindi, chiedeva a gran voce la
libertà di “Bar-Abbas”, del “Figlio del Padre”, di Gesù, perché
lo ammirava profondamente, lo considerava un profeta, il Messia inviato da Dio
per risollevare le sorti di Israele, e quindi mai e poi mai avrebbe voluto
vederlo morire crocifisso come un volgare delinquente.
A chi
attribuire allora la vera colpa della morte di Gesù? Non a Pilato, che poteva
esercitare questa “iurisdictio” solo per i “cives” romani e non
per gli ebrei; non alla folla che aveva seguito Gesù e che lo voleva libero, ma
unicamente ai capi dei sacerdoti e alle loro squadracce di scalmanati, nelle
cui mani Gesù è stato “consegnato” innocente, senza alcuna condanna!
Sono loro i registi
dell’operazione, gli organizzatori di quel tragico spettacolo di morte. Anche
se in tanti, pur non condividendola, hanno comunque accettato passivamente
quella tragica fine, giustificandosi in cuor loro con false, egoistiche
motivazioni: per esempio Caifa, con la “necessità storica”; Pilato con la ragione
politica e il mantenimento dell’ordine; Pietro con la sopravvivenza personale;
i sadducei con la legge; i farisei con la religione; le persone rispettabili
con la morale; i soldati con l’obbedienza e così via. Ognuno aveva i suoi
validi motivi; ma erano sufficienti? O erano solo tentativi di tranquillizzare
la propria coscienza? Di lavarsene anch’essi le mani?
La croce rappresenta quindi
lo scontro fra due religioni: quella di Gesù e quella degli ebrei. La religione
dei farisei e degli scribi è la religione dell’esteriorità, della forma, della
maschera. Qui contano i grandi numeri, l’istituzione, l’ordinamento,
l’obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone o le
appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili: ciò che conta è
il rispetto ossequioso e formale alla norma. Più cose fai e più sei bravo.
Gesù, invece, amava la vita, non la sofferenza. Gesù dava voce alle persone, le
ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle donne, a chi era escluso dalla
società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso, prostituta o pagano che fosse,
perché per lui tutti erano figli dell’unico Padre. Gesù non faceva sacrifici
inutili, non digiunava, non si comportava scrupolosamente nei confronti delle
regole. Era molto libero, mangiava, banchettava, faceva spesso festa e amava la
compagnia e la felicità. Perché sapeva che il vero sacrificio, il vero digiuno,
la vera croce non era fare “qualcosa”, ma fare della propria vita “qualcosa di
vero”, di importante, di significativo. Gesù non reprimeva l’amore, i
sentimenti umani: era amico di tutti, donne comprese; piangeva, si arrabbiava
anche, una volta ha menato pure le mani. Com’era dentro, così era fuori. Gesù
si stupiva e si commuoveva; voleva che fossimo umani. Sosteneva che in noi non
c’è nulla che sia indegno agli occhi di Dio, nulla da nascondere. Che davanti a
Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle
maschere. Perché in croce tutto questo finisce.
Questa era la religione di
Gesù. Questa è la religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di
distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, ma mai
distrutta. Infatti Gesù-Verità è risorto, e con lui anche la speranza di poter
far parte con Lui del Regno dei cieli, come ci promette la sua religione.
E quando il venerdì santo
andremo a baciare la croce, baciamo allora con riconoscenza la nostra
religione, la religione di Gesù, la religione del Padre, della Vita,
dell’Amore, della Verità. Ciò che viene da Dio non può morire, non morirà mai,
anche se le civiltà di questo mondo cercano in tutti i modi di annullare il suo
ricordo, la sua esistenza, i suoi insegnamenti. Dio può essere perseguitato,
deriso, umiliato, crocifisso, ma non potrà mai morire. Perché Dio è l’unica
realtà immortale, indistruttibile, e chi si affida a Lui, vivrà in eterno!
Amen.