Mt 22, 34-40
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Dopo
aver fatto continue brutte figure con Gesù, i farisei per metterlo alla prova
scelgono questa volta una persona competente, il meglio del meglio, nientemeno
che un "dottore della Legge". E questi lo affronta subito impostando il discorso
sulla “sua” materia. Da notare che il verbo “metterlo alla prova” usato
qui da Matteo, è quello stesso peirazo usato per descrivere le
“tentazioni” di satana: in pratica l’evangelista paragona il comportamento dei
sacerdoti del tempio, degli scribi, dei farisei, sempre pronti a tentare, a
mettere alla prova Gesù, come opera di satana: un particolare che dovrebbe farci
riflettere!
Ma
cosa gli chiede dunque questo dottore, questo esperto legale? “Maestro, qual
è il più grande comandamento della legge?”.
Anche
questa volta è la solita domanda provocatoria del “Pierino” di turno. Al tempo
di Gesù erano 613 i precetti della Torah ebraica: 365 negativi e 248 positivi.
Stabilire quale fosse il più importante era praticamente impossibile, poiché
per la tradizione rabbinica tutti, indistintamente, erano importanti e
obbligatori.
Del
resto, già da come si pone, lascia subito intendere il suo reale proposito: l’appellativo
di “maestro” con cui si rivolge a Gesù, infatti, è pronunciato in
maniera chiaramente provocatoria: non solo non ha alcuna intenzione di
approfondire le sue conoscenze (lui non ha nulla da imparare, sa già tutto!) ma
cerca piuttosto un pretesto per metterlo in difficoltà davanti al suo pubblico;
vuole cioè cogliere in fallo Gesù per offrire alle autorità l’opportunità di
condannarlo: e quale argomento è più indicato se non quello di indagare su cosa
Gesù pensi dei comandamenti e della legge?
La
verità non gli interessa; e non è neppure curioso di conoscere realmente il
pensiero di Gesù; vuole semplicemente sfruttare l’occasione per avere la
conferma di cosa egli pensasse in merito ad una questione fondamentale e
delicata: il valore cioè dei comandamenti della Legge, visto che nella sua
predicazione Egli non solo ne prende le distanze ma arriva pure a trasgredirli.
Egli in pratica definisce “vecchi, sorpassati, incompleti” proprio quei
comandamenti che tutti ritenevano validi, e che tutti si sentivano obbligati ad
osservare. Una “interpretazione”, quella di Gesù, che inquietava seriamente le
autorità religiose; per cui la sua risposta serviva soltanto come riprova della
sua ortodossia, oppure come motivo di denuncia ufficiale.
Ma
Gesù sa perfettamente cosa vorrebbero sentirsi dire le autorità tramite il suo
interlocutore: “Il più grande comandamento? Ma è ovvio, è l’osservanza del
sabato!”. Sì, perché il rispetto del “sabato” era il comandamento più grande,
più considerato dagli ebrei; Dio stesso lo aveva rispettato, consacrandolo col
riposo dopo le fatiche della creazione. La sua osservanza equivaleva
all’adempimento di tutta la legge, e la sua disobbedienza era punita con la
morte (Es 31,14).
Sappiamo
però che per Gesù questo comandamento non è per nulla importante, non è affatto
prioritario, tant’è che non ne tiene conto, non gli interessa: se deve fare
qualcosa di importante, come per esempio guarire un ammalato, lo fa
tranquillamente anche di sabato, perché per lui l’amore è molto più importante
della legge.
È
comunque una domanda ben congegnata, perché se Gesù avesse dato la risposta che
tutti si aspettavano, (“la legge del sabato”), il dottore della legge gli
avrebbe immediatamente contestato il suo comportamento: “È giusto, maestro: ma
perché tu non lo rispetti?”. Se invece avesse risposto diversamente, avrebbe
fatto la figura dell’ignorante, di uno che non conosce la legge, e questo
sarebbe stato altrettanto deleterio per Gesù.
Il
dottore dimostra in questo modo di essere un esperto, un vero conoscitore delle
dispute legali: ma Gesù dimostra di non essere da meno, e gli risponde a tono
citando anche lui la Scrittura, dimostrando di conoscerla altrettanto bene: gli
fa capire cioè che il testo non va interpretato sulla base di una singola
citazione letterale, ma attraverso una visione d’insieme, una lettura completa
dei testi: e gli cita infatti un altro comandamento – altrettanto “grande”, anzi
sicuramente il “primo”, il più importante – riferito cioè a quella “preghiera”
che gli ebrei recitano due volte al giorno, al loro “Credo” ufficiale (Dt
6,4-9): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutto il tuo
essere e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei
comandamenti”. E fin qui tutto bene: il dottore non può che essere
d’accordo. “Amare Dio”, in fin dei conti, non è difficile, è un fatto interiore
che non si può misurare dall’esterno, e che quindi nessuno può conoscere né
giudicare: questa volta le autorità sono salve, Gesù non le condanna! Ma il
problema nasce subito dopo, con quel che segue: “E il secondo è simile al
primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)”. Anche questo è
scritto nella Bibbia, ma è evidente a tutti che le autorità non lo tengono per
nulla in conto.
A
rigor di logica, Gesù non dice nulla di nuovo. Ma in realtà, per come andavano
allora le cose, introduce una grande novità: condiziona cioè l’amore per Dio
all’amore per il prossimo: crea un legame indissolubilmente tra i due amori.
Come dire: “Amare Dio senza amare veramente le persone, non serve a nulla, non
è un vero amore per Dio. Pertanto, quello che voi ripetete ogni giorno nella
vostra preghiera, mettetelo anche voi in pratica, come faccio io!”.
Che
dire? È chiaro che a questo punto il dottore si trova spiazzato: non ha parole,
non immaginava che il discorso prendesse una simile piega, è sorpreso,
ammutolisce: “Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno da quel
giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt 22,46).
Una
bella lezione: del resto Gesù non cita chissà quale teoria, ma risponde
attenendosi scrupolosamente a quanto già prescritto dalla legge ebraica. E
poiché si rivolge ad un ebreo, oltretutto ottimo conoscitore delle Scritture,
il succo è questo: “La legge ce l’avete e la conoscete: mettetela in pratica!”.
Ma
non è tutto qui: il “novum” introdotto da Cristo nella legge antica
dell’amore è a dir poco rivoluzionario. Per tre motivi: prima di tutto per il
nuovo concetto di “prossimo”: per un ebreo il prossimo era un altro ebreo o al
massimo uno che abitava in Palestina; per Gesù, invece, “prossimo” è l’intera
umanità; inoltre, altra novità, dobbiamo amare questo prossimo “come noi
stessi”: ma attenzione, perché se ci fermassimo a queste sole parole, il nostro
amore non sarebbe comunque perfetto: per logica, infatti, se io mi amassi poco
o nulla, amerei poco o nulla anche il mio prossimo. Ebbene: Gesù annulla questo
aspetto riduttivo, e riconosce alla legge dell’amore una valenza divina,
universale: in altre parole, ama il prossimo tuo “non” come tu ami te stesso,
ma come Dio ama te, “come Io vi ho amati”. Una nuova e straordinaria
prospettiva si apre quindi davanti a noi: il termine di riferimento dell’amore
al prossimo non sarà più quello riduttivo, il “nostro”, ma quello di Dio,
universale, straordinario, senza limiti.
Per
Gesù amare l’uomo equivale amare Dio, e amare Dio equivale amare l’uomo.
Risultato: l’amore per Dio non lo si misura da quanto uno è pio o religioso, da
quante preghiere dice: ma da quanto amore nutre per i suoi fratelli. Il vero
credente non è colui che esegue alla lettera le prescrizioni religiose, ma
colui che vive realmente l’amore, colui che compie ogni sua azione elargendo
amore.
Un’attenta lettura di questo vangelo ci offre poi
altre considerazioni su cui meditare.
Prima di tutto, ci siamo
mai chiesto cosa significhi la parola “amore”? Etimologicamente deriva
dal latino “a-mors” (“a” privativo e “mors”, morte) che letteralmente vuol dire
“togliere la morte a qualcuno”, “dare la vita”; per cui “amare”
significa “rendere vivo”, vitale, colui che amiamo. Gesù vedeva intorno a sé
soprattutto persone che soffrivano: persone colpite da gravi malattie, come
ciechi, sordi, paralitici, lebbrosi, o addirittura persone morte. Egli le
“amava”: il suo amore le guariva, le toglieva dalla morte, reale o simbolica,
rimettendole in contatto con la vita. Egli dispensava amore a piene mani, e lo
faceva (altro insegnamento fondamentale per noi) non per avere un “ritorno”,
una ricompensa, un riconoscimento: neppure in termini di fama, perché chiedeva
sempre a tutti di non divulgare la cosa, di non parlarne con nessuno; non lo
faceva neppure per proselitismo: non diceva: “Ti guarisco ma tu devi credere in
Dio; tu devi venire in chiesa; tu devi obbedirmi; tu mi devi...”. Lui vedeva
semplicemente uno che soffriva, e con il suo “amore” lo liberava dalla
sofferenza, dal disagio.
Questo è l’amore di Gesù, e
questo deve essere anche il nostro amore: chi ama rende vivo l’altro;
chi ama vuole il meglio per l’altro, anche se ciò ci costa fatica e sacrificio;
perché ciò che è meglio per l’altro, non sempre coincide con quello che è
meglio per noi.
Altra considerazione: in
passato per l’ascetica cristiana amare il prossimo “come noi stessi”
comportava un far passare in second’ordine l’amore per sé stessi, per la
propria persona; significava riconoscere all’amore per l’altro la priorità
assoluta: in questo modo amare se stessi, “amarsi”, era ritenuto una “debolezza
umana”, un peccato; equivaleva ad essere egoisti, narcisisti. La via maestra
per la santificazione personale passava quindi attraverso il sacrificarsi,
l’immolarsi completamente per gli altri; tant’è che a quanti volevano
intraprendere un cammino cristiano più impegnativo, venivano continuamente
ricordate le parole: “Se uno non rinnega sé stesso e non prende la sua
croce...”: era un cammino di vita che “doveva” essere impostato solo sul
sacrificio, sulla penitenza, sulla spersonalizzazione, sulla tolleranza, sulla
totale dedizione per gli altri. Oggi questa lettura del vangelo è stata
profondamente rivista: nessuno si permette più di affermare che Dio accetta al
suo servizio soltanto gli infelici, i frustrati, i pieni di sventure: perché non
è così!
Ma allora come dobbiamo amare
noi stessi? Esattamente come amiamo gli altri. “Amarci” infatti significa
volere il nostro bene, renderci vivi, vivere da vivi; significa lottare per ciò
che è bene per noi, fare in modo che la nostra persona sia retta, rispettabile
e rispettata. Gli altri ci evitano, ci ignorano, ci escludono? Invece di
continuare ad arrabbiarci, amiamoci! “Amarci” vuol dire migliorare il nostro
carattere, la nostra personalità; significa trasformarci, diventare amabili,
accettabili, ricercati; significa essere più aperti con gli altri, più
elastici, meno saccenti, meno giudicanti, meno pretenziosi; in una parola
“amarci” significa diventare migliori.
Pretendere dagli altri ciò
che noi non sappiamo o non vogliamo fare per noi stessi, è autentico
parassitismo.
Infine un’ultima
considerazione: il nostro amore deve essere “pieno”: dobbiamo cioè “amare in
pienezza”. Il vangelo parla di amare “con tutto il cuore, l’anima e la
mente”. Altrove aggiunge “con tutte le forze” (Lc 10,27),
cioè con la concretezza, con le azioni. L’amore, per essere vero amore, deve
interessare tutte le nostre facoltà, tutte le nostre possibilità, l’intera
nostra persona, a tutti i livelli: altrimenti non è amore. Infatti: amare solo
con mente e forze senza cuore, è volontarismo, è azione, è
amore freddo, senza passione, manca il sentimento. Amare con mente e cuore
senza le forze, ossia le opere, è sentimentalismo, non c’è azione.
Amare con cuore e forze senza mente, è istintivo,
irrazionale, non c’è il pensiero, non c’è consapevolezza, non c’è lucidità.
Soltanto quando l’amore è mosso dall’intera nostra persona, da tutto di noi: mente,
cuore e forze, solo allora è pieno, completo, perfetto. Solo in
questo modo “ameremo” veramente il prossimo; lo ameremo come Gesù ci ha
insegnato, esattamente come Lui stesso ci ha amati e continua ad amarci: senza
condizioni, senza tornaconti, senza pretese. Amen.