giovedì 21 settembre 2023

24 Settembre 2023 – XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 20,1-16
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 Può sembrare, in prima battuta, che Gesù con questa parabola, intenda condannare la logica umana della “ricompensa”, secondo cui Dio ci amerebbe e ci premierebbe solo in proporzione della “quantità” e della “durata” del nostro lavoro, della nostra fatica: in una parola, in base ai nostri “diritti” acquisiti. 
Ma non è così; Dio non ci premia per soddisfare un nostro “diritto”; Dio non usa alcun parametro sindacale: la sua giustizia e il suo amore non sono legati ad alcuna legge economica del tipo: “Hai lavorato tot, eccoti tot”. Quello che ci gratifica di fronte a Dio è solo ed esclusivamente la “qualità” del nostro lavoro, mai la sua “quantità”!
Purtroppo è proprio la mentalità meritocratica, radicata nell’uomo, che ci porta a pensare in questi termini: “Io sono sempre andato in chiesa, gli sono stato vicino, ho fatto tanto del bene; quindi è impossibile che Dio mi ripaghi allo stesso modo dei “lontani”, di quelli che nella loro vita non hanno mai fatto nulla per Lui! Dio per questo mi amerà sicuramente di più!”. No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama anche tutti gli altri uomini tuoi fratelli.
Anche perché “essere vicini” a Gesù, “stare” con Lui, “accompagnarsi a Lui”, non vuol dire necessariamente “seguirlo”, che è l’unico modo per rapportarci con Lui. Gli apostoli, per esempio, durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano, stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”, non si “compenetravano” con Lui: “seguire Gesù” infatti è capirlo, custodire nel proprio cuore i suoi insegnamenti, attivarsi concretamente per metterli in pratica: in una parola, “seguire” significa “amare e vivere il suo Vangelo.
Anche oggi, purtroppo, c’è troppa gente che “accompagna” semplicemente Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge salmi e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo, non segue con il cuore i suoi insegnamenti. Quando però a fine “giornata” si presentano a Dio, convinti di essere fedeli lavoratori, assidui operatori del sacro, e si aspettano per questo la ricompensa, rimarranno delusi; perché in realtà è come se nella loro vita non avessero mai lavorato; in effetti non hanno mai sopportato alcun disagio, alcun “pondus diei et aestus”; non hanno mai amato veramente, non hanno mai capito cosa comportasse veramente la loro “sequela”, non l’hanno mai vissuta nel loro cuore e nelle loro opere, per cui non è possibile immaginare alcuna ricompensa: la loro aspettativa di premio è improponibile. Se comunque “paga buona” ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del Padre, dalle sue infallibili e amorose valutazioni, non certo dalle loro pretese.
Ora, pretendere davanti a Dio di superare nei meriti tanti nostri fratelli, che riteniamo meno dotati di noi, ricorrendo ad astiosi confronti, significa essere schiavi dell’invidia, significa provare per gli altri soltanto rancore, condizionare il proprio cristianesimo, la propria fede, ad una stupida, inutile gara.
Ed è proprio su questo particolare aspetto che Gesù, con il vangelo di oggi, vuol metterci in guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”.
Già, l’invidia: le sue parole non sono un paradosso, non si riferisce a situazioni inverosimili, fantasiose; pensiamoci un attimo: non capita forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci, se in qualche prova, in qualche esame, viene “scelto” e premiato un altro al posto nostro? Non capita a noi di arrabbiarci perché altri sono più fortunati di noi? Di “legarcela al dito” perché uno, che pensavamo amico, ha invitato altri e non noi a qualche evento importante? Ecco: tutti, in qualche modo, siamo “invidiosi”: e lo siamo perché, nel nostro innato egocentrismo, nel profondo del cuore e della mente, pretendiamo di essere sempre i primi, i preferiti, gli unici in assoluto meritevoli di considerazione.
Purtroppo l’invidia è il nostro peso quotidiano: è un sentimento malevolo, che effettivamente ci destabilizza, ci toglie ogni imparzialità, ogni visione realistica: non ci accontentiamo mai di ciò che abbiamo, non lo gustiamo, non lo viviamo, vogliamo sempre di più, con il risultato che questo continuo confrontarci con gli altri ci distrugge, ci rovina la vita, fino a portarci ad odiare stupidamente, senza motivo, il nostro prossimo.
Non ci rendiamo conto che questo continuo, maniacale, confronto con gli altri, è una competizione che continuerà ad evidenziare la nostra persistente inferiorità: perché nella vita ci sarà sempre qualcuno che è più di noi, che ha più di noi, che sa più di noi, che è più bravo, più apprezzato, più bello di noi. La vita a questo punto diventa un’ossessione, una irrazionale gara che non ci vedrà mai vincitori.
Ecco: è proprio questa esagitata ossessione che Gesù oggi condanna.
E lo fa perché ci invita a guardare unicamente noi stessi: perché ciò che conta nella vita è capire che davanti a Dio siamo tutti “figli unici”, siamo una realtà unica, persone irripetibili, siamo “noi” e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere come gli altri, più degli altri, decretiamo il nostro fallimento: ci dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande valore.
La “parabola” del vangelo di oggi ci dimostra infatti che Dio ama tutti indistintamente, sia coloro che lo “seguono” attivamente dal mattino della loro vita, sia quelli che rispondono alla sua chiamata a sera inoltrata. I primi non devono aspettarsi un trattamento preferenziale: non è la durata o la difficoltà del servizio che aumenta i meriti, Dio non ci premia, come pensiamo noi, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza più provata, più coerente. Il premio finale del suo amore eterno è destinato, in ugual misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora, a condizione, unica e inderogabile, di essere “operatori” di “qualità”, di amore, non di “quantità”, di “numeri e durata”.
Noi battezzati, dobbiamo pertanto smettere di pensare come ci fa comodo: “è vero che Dio ama tutto il genere umano, ma sicuramente i “segnati”, i battezzati come noi, i prediletti, quelli che praticano il Vangelo di suo Figlio, i santi, sono amati da Dio sicuramente più degli altri”.
Quanti “cristiani”, pii e religiosi, continuano ancora a dissentire sull’insegnamento della parabola odierna; non sanno capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte, all’ultimo momento, dopo una vita intera passata nei bagordi, negli ozi e nel peccato, fregandosene di tutto e di tutti, riceva lo stesso nostro trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi, che abbiamo lavorato e “faticato” tutta una vita per questo!”.
Come abbiamo visto, però, niente è più falso: perché ammesso pure, per assurdo, che i “battezzati” siano veramente tutti “santi”, le parole di Gesù sono categoriche, non ammettono false sicurezze, escludendo “a priori” qualunque fraintendimento personale: “I pubblicani (i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Questa è la verità, dobbiamo farcene una ragione e accettarla umilmente.
Evitiamo dunque interpretazioni personalistiche e fantasiose del Vangelo; rinunciamo all’assurda pretesa di essere comunque i più meritevoli. Guardiamo piuttosto negli altri ciò che realmente sono: “fratelli”, figli dello stesso Padre, che lavorano nella medesima vigna paterna, obbedendo anch’essi alla Sua chiamata. Accettiamolo con dignità, umiltà, e grande amore.
Non perdiamo tempo nelle meschinità: ringraziamo invece Dio, ogni giorno, per averci comunque chiamato a lavorare nella sua vigna, pur non disponendo di alcuna “specializzazione”, di alcun attestato di “merito”; ringraziamolo anche per la possibilità offerta a tutti gli altri “operai”, nostri fratelli (compresi quelli dell’ultima ora), di poter meritare, come noi, la sua stessa grazia trasformante. La bontà di Dio ci faccia finalmente uscire dalle ristrettezze di una fede “sindacalizzata”, e trasformi questa nostra breve “giornata lavorativa”, in una anticipazione, ancorché pallida, di quella gioia, di quell’immenso fuoco d’amore e di bontà, che un giorno Egli sicuramente riverserà nel cuore di ogni suo fedele e umile lavoratore. Amen.

  

giovedì 14 settembre 2023

17 Settembre 2023 – XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
18, 21-35 
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Il Vangelo di oggi continua a proporci insegnamenti per la nostra vita di “comunità”.
Domenica scorsa ci ha dimostrato quanto sia importante ascoltare le ragioni del proprio fratello, rapportarsi con lui; quanto sia importante aprirgli il nostro cuore e accogliere il suo.
Oggi ci offre un ulteriore approfondimento: “il perdono è uno dei modi più efficaci per esprimere l’amore”. 
A Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. “Quante volte devo perdonare? Fino a sette volte?”. Era il limite imposto dalla legge antica. E Gesù: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.
Il che significa, caro Pietro, che non hai scampo: devi perdonare sempre! Perché? Semplicemente perché il “tuo” perdono non deve provenire dalla tua buona predisposizione caratteriale, ma deve essere la logica e consapevole conseguenza del fatto che Dio perdona te in ogni occasione, sempre, di continuo. Chi si guarda un po’ dentro, infatti, e vede quanto male gli è stato perdonato, non può esimersi dal perdonare a sua volta.
L’unica misura del perdono è quindi perdonare sempre: senza misura, senza calcoli; perché è quanto Dio fa con noi.
La nuova giustizia che Gesù introduce nel Regno, dunque, non è quella che si basa sulla regola del “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la giustizia propria di chi ama senza limiti; Egli sostituisce cioè la giustizia della legge “che uccide”, con la sua, la legge dello Spirito che “dona vita”.
Perdono incondizionato: questo deve essere il nostro riferimento. Ma in cosa consiste il perdono? Come viverlo? Come si giustifica? Sono le domande che ci nascono spontanee.
Ecco allora che Gesù, con la parabola del servo “graziato”, ci porta a fare le dovute considerazioni pratiche: questo servo doveva al suo re una somma esorbitante, “diecimila talenti”, una cifra enorme, incalcolabile, poiché per raggiungerla avrebbe richiesto l’intero salario giornaliero di duecentomila anni di lavoro. Un’assurdità. Consapevole di questo, il servo tenta il tutto per tutto: va dal suo creditore, si getta ai suoi piedi e lo supplica tra le lacrime. E il re prova compassione per lui; si immedesima talmente nella sua angoscia, nella sua disperazione, da condonargli, in uno slancio di misericordia, l’intero debito. Un condono tombale, senza alcuna penalità.
Bene: quel servo, ottenuta la grazia per il suo mostruoso debito, uscito dalla residenza reale, incontra un suo pari che gli doveva poche monete; da notare la precisazione di Matteo: “appena uscito”, non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito!”: e, nonostante fosse ancora nel pieno dell’emozione e della gioia per la cancellazione del suo debito, in preda ad una collera improvvisa, assale quel poveretto e lo strangola gridando “rendimi ciò che mi devi!”: una inezia rispetto ai miliardi che gli erano stati appena condonati! E senza pietà alcuna, sordo alla richiesta del meschino di pazientare, lo fa gettare in prigione.
Certo, di fronte alla legge egli avrà agito anche correttamente, ma ha comunque dimostrato di essere un uomo spregevole, senza pietà, senza il minimo senso di giustizia, poiché non ha saputo riconoscere al compagno, che gli doveva una somma irrisoria, quella stessa misericordia che poco prima il re gli aveva accordato condonandogli un debito smisurato, incalcolabile.
Talvolta, purtroppo, capita anche a noi cristiani moderni, di reagire d’impulso contro insignificanti offese o inadempienze ricevute e, come quel servo, rivendichiamo con cattiveria i nostri diritti, esigendo l’immediato risarcimento dei danni, ancorché irrilevanti. È innegabile! 
Ma questa è una scelta che non paga mai, che non risolve in alcun modo i nostri problemi, poiché introduce un meccanismo perverso con cui il male richiama altro male, la violenza genera altra violenza, chiamando in causa famiglie intere, moltiplicando all’infinito odio e avversione: la sete di vendetta infatti corrode l’anima, fa vivere nel tormento, porta l’inferno nel cuore.
Nondimeno, non è raro imbattersi quotidianamente in situazioni del genere: vicini di casa che litigano per un nonnulla e lasciano passare anni, decenni, senza riprendere un dialogo, una parola, un saluto; genitori e figli che interrompono drasticamente qualunque rapporto per motivi puerili, banali, distruggendo in tal modo l’armonia familiare; persone di chiesa, cristiani convinti, che dilaniandosi l’anima per immaginarie ingiustizie o critiche subite dai fedeli o dai preti di turno, abbandonano sdegnosamente la loro comunità ecclesiale; laici e consacrati che, in intimo contrasto tra loro, pur assistendo quotidianamente all’Eucaristia, incuranti dell’invito di Gesù di praticare amore e misericordia, insistono nel vivere schiavi del loro rancore. Sono tutte persone che preferiscono rimanere orgogliosamente arroccate sulle loro posizioni, pur sapendo che il perdono è l’unica strada che consente di vivere un’esistenza feconda, autentica, serena e felice.
Certo, si tratta di una strada difficile da percorrere, questo sì. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con il Suo aiuto.
L’impegno inderogabile per noi cristiani, ci dice dunque Gesù, è quello di perdonare, sempre e comunque, proprio perché sappiamo che Dio lo fa continuamente con noi. Dobbiamo cioè perdonare perché siamo dei “perdonati privilegiati”: siamo cioè noi per primi che, continuamente e gratuitamente, senza merito alcuno, sperimentiamo il perdono divino.
Può succedere anche che talvolta il nostro perdonare come Gesù ci ha insegnato, rischi di essere ridicolizzato dalla gente, ci venga rinfacciato come segno di debolezza, di meschinità.
Poco importa: perché chi ha incontrato sulla propria strada il grande perdono di Dio, non può più astenersi dal trattare comunque tutti come fratelli, con sincerità, con amore, con la massima indulgenza. Possiamo allora dire che una comunità è “osservante”, “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti, immacolati, non sbagliano mai e non si permettono di offendere gli altri; ma perché si sentono dei “perdonati” e in quanto tali amano e perdonano i fratelli.
Il male reciproco che, nella loro debolezza, inevitabilmente fanno, non costituisce quindi un elemento “dirompente”, ma nel reciproco perdono diventa il “collante” che li unisce tutti saldamente in Cristo, santificandoli.
Davanti a Dio siamo tutti peccatori, debitori insolvibili, perché mai, in tutta la nostra vita, potremmo restituirgli l’amore che Egli, con la sua infinita misericordia, ci dona continuamente: quell’amore che, dal canto nostro, disinvoltamente, calpestiamo continuamente con le nostre intemperanze. Sì, perché anche noi, come il servo del vangelo, spesso e con facilità siamo “giusti” ma spietati, “corretti” ma cattivi; siamo persone magari rispettose del diritto e della giustizia umana, ma molto meno inclini alla carità, alla pietà e alla misericordia. Dobbiamo quindi capire, una volta per tutte, che il perdono guarisce, ripaga, matura e fortifica chi lo esercita, non chi lo riceve; e che quindi, perdonando, facciamo prima di tutto un atto meritorio per noi stessi! Amen.


giovedì 7 settembre 2023

10 Settembre 2023 – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
18,15-20 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

I cinque “grandi discorsi” del vangelo di Matteo, sono stati elaborati dall’autore con lo scopo evidente di offrire alla giovane comunità cristiana di allora, una raccolta ben ordinata di regole precise, di norme, di consigli, per consentirle di tradurre in comportamenti di vita, le novità fondamentali della predicazione di Gesù. Il brano che oggi la Liturgia ci propone, è tratto appunto dal capitolo 18 del vangelo matteano, dal cosiddetto “Discorso ecclesiale” o “comunitario”. 
Ovviamente al giorno d’oggi noi non dobbiamo prendere alla lettera i suoi contenuti, poiché sono stati scritti per uomini di oltre duemila anni fa, che vivevano in un determinato ambiente, con una mentalità e una cultura molto diverse dalla nostra. L’importante per noi non è tanto di rimanere fedeli a delle “regole” comportamentali dell’epoca, soggette a mutare nel tempo, quanto di fare nostro il messaggio spirituale di Gesù, che è quello che rimane fermo e immutabile nei secoli.
Cosa ci raccomanda allora “lo Spirito di Dio”, qual è il messaggio profondo del testo di oggi? Che dobbiamo riservare agli altri un comportamento di sollecitudine, di attenzione, di umiltà, di discrezione, perché il nostro primo dovere è, e rimarrà, quello di amare il nostro prossimo. Quante persone invece che si dichiarano osservanti, che frequentano chiesa e sacramenti, continuano a conservare nel loro cuore sentimenti di odio nei confronti di parenti, amici, conoscenti? Quante persone litigano per anni e anni, sempre per lo stesso futile motivo? Ciò vuol dire che non vivono il vangelo, non hanno imparato nulla dalla vita, dalle loro esperienze, non si sono mai domandati il perché del loro comportamento: non hanno capito cioè che insistere nell’odio, oltre che a screditarli come cristiani, non serve a nessuno, è inutile, fa solo male a loro e agli altri; con il loro comportamento dimostrano di non voler migliorare spiritualmente, di non voler vivere la loro fede, di non voler imparare a crescere: in pratica vivono nell’indifferenza, preferiscono rimanere “tiepidi”: caldi di facciata ma freddi nel loro cuore, senza preoccuparsi delle parole tremende di Dio: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo, e poiché sei tiepido, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3, 15-16).
Anche la prima comunità cristiana non era perfetta: anch’essa doveva fare i conti con discussioni, conflitti, litigi: non per nulla l’evangelista ripete qui con insistenza (per ben 4 volte!) il verbo “ascoltare”, nel suo significato più ampio di capire, di sentire tutte le ragioni, di immedesimarsi in esse, di perdonare sempre con carità cristiana: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”. Punto.
Del resto, la convivenza umana, fin dalle sue origini, non è mai stata esente da tensioni, da lotte intestine, da scontri a volte cruenti: succedeva ai tempi di Matteo, è successo in tutte le comunità che da allora si son seguite, continua a succedere anche oggi, nelle nostre comunità moderne ed evolute.
È una situazione inevitabile, dovuta alla naturale conflittualità degli uomini, alla loro personale “mentalità” che li caratterizza come persone uniche, altamente insofferenti ad ogni genere di sopraffazione: “homo homini lupus” sentenziava, quasi due secoli prima di Cristo, il commediografo latino Plauto (Asinaria II, 4, 88).
Bene: col vangelo di oggi Gesù, proprio allo scopo di ovviare a tale degradante situazione, sottolinea l’importanza dell’amore nei rapporti interpersonali. Quindi, se litigare è facile, è inevitabile, ciò non deve assolutamente indurci ad escludere, per partito preso, qualunque tentativo di chiarimento, fatto ovviamente con carità e amore fraterno. Sono questi infatti gli elementi fondamentali, indispensabili, per ogni civile convivenza fondata sulla pace e sulla concordia. La libertà di esprimere apertamente le proprie ragioni è un diritto inalienabile per chiunque, è vero: ma ciò che determina unioni o separazioni, armonie o rotture, involuzioni o crescite, è soprattutto il “modo” con cui ci esprimiamo, la “qualità” del nostro interloquire: nulla infatti è più indisponente del voler imporre ad ogni costo le nostre vedute, con supponenza e sarcasmo, come unici e infallibili conoscitori della verità, dell’intero scibile umano! Sosteneva infatti a questo proposito il poeta Orazio (cito a memoria): “Ogni conoscenza delle cose, ogni sapere umano, ha dei confini di verità oltre i quali non abbiamo la certezza di trovarci nel giusto” (Cfr. Sermones–Satire I,1). E già da sola, questa saggia constatazione dovrebbe indurci a sentenziare con maggior cautela e umiltà.
Purtroppo, per imparare e praticare bene tutto questo, non c’è un manuale “ad hoc”, non c’è una scuola specifica che ci insegni a “cum-vivere”, a “convivere” serenamente con gli altri. 
Solo la vita cristiana, con i suoi consigli, può farlo: ma deve essere una vita convinta, rispettosa degli insegnamenti di Gesù, alimentata dal Suo Amore, orientata dalla pratica della Sua Parola. Amen.

 

 

giovedì 31 agosto 2023

03 Settembre 2023 – XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
16,21-27 
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

Ad un certo punto della sua vita Gesù affronta decisamente il suo destino. La sua condotta di vita, troppo aperta, troppo chiara e manifesta, per qualcuno era già diventata pericolosa. Quello che diceva e faceva era troppo provocante, troppo critico nei confronti della gente altolocata, dei ricchi del suo tempo, dei potenti, che di sicuro prima o poi gliel’avrebbero fatta pagare. 
Gesù era “troppo” per tutti, in tutti i sensi: non era l’uomo del compromesso, delle mezze misure, degli accomodamenti, delle vie di mezzo. Il suo parlare era chiaro: “sì sì, no no!”.
Era inevitabile quindi che decidesse di completare la sua missione, affrontando quella che sarebbe stata la tappa conclusiva della sua vita terrena, la sua grande sfida col mondo: andare a Gerusalemme per sacrificarsi sulla croce.
Finché Egli viveva e predicava in Galilea tutto sommato non interferiva più di tanto con i grossi poteri. Ma andando a Gerusalemme si sarebbe scontrato inevitabilmente con gli interessi dei potenti, con le più alte autorità religiose. Prima di tutto con gli anziani: per loro Gesù era troppo infantile, troppo immaturo, troppo sognatore, un romantico idealista. Per il loro cuore di ghiaccio, razionale, rigido, un uomo così era pericoloso; un uomo che si estasiava di fronte al volo degli uccelli in cielo o alla fioritura dei gigli dei campi, un uomo che abbracciava i bambini portandoli come esempio, o che accoglieva e ascoltava donne di qualunque livello, dando loro conforto e comprensione, cosa avrebbe potuto fare di buono? “Che sono queste smancerie? Che sono queste effusioni amorose? Inutile romanticismo, cose da poeti, da visionari, da sognatori”. E fu così che lo condanneranno a morte.
In particolare, si sarebbe scontrato con i sommi sacerdoti: per i loro cuori pieni zeppi di leggi, di tabù, di regole, di prescrizioni, di cose da osservare, Gesù era troppo libero, era un uomo che si credeva in contatto con Dio, uno che gli parlava apertamente. Il Dio che annunciava era poi un Dio troppo presente, un Dio che non incuteva terrore, che si chinava amorevolmente sull’uomo; un Dio troppo progressista, interessato alla liberazione dell’uomo; un Dio amico, vicino, che si preoccupava dei lebbrosi, dei pagani, degli esclusi; un Dio che metteva tutti sullo stesso piano: “ma che Dio è questo? Come si permette quest’uomo di insegnarci chi è Dio? Di Dio bisogna avere paura, bisogna temerlo, obbedirgli, non certo come fa quest’uomo che lo chiama addirittura papà!”. Gesù era per loro una rivoluzione. E fu così che essi pure lo condanneranno a morte.
Infine avrebbe avuto grossi problemi anche con gli scribi: con loro, per i loro cuori arroganti, per il loro orgoglio (loro erano gli unici interpreti della Scrittura, loro sapevano tutto, cos’altro poteva essere annunciato di nuovo?). Gesù era una deflagrazione che sconvolgeva il loro mondo, la loro vita, tutto il loro sistema, il loro credo, le loro interpretazioni bibliche. Gesù era troppo pericoloso: “quest’uomo che parla della Bibbia in un modo totalmente distorto, chi si crede di essere? Non ascolta i padri, non segue la tradizione: come può pretendere di saperne più di noi, noi, gli unici custodi e interpreti della Parola e della tradizione?”. E fu così, infatti, che anch’essi lo condanneranno a morte.
Gesù percepisce l’ostilità che sta montando intorno alla sua persona. Il suo modo di vivere tocca e mette in discussione troppe persone, troppi interessi e troppi cuori. Tutto quello che fa, viene osservato, sezionato; ogni pretesto è buono per metterlo in cattiva luce, per avere da ridire su di lui, per trovare malignità contro di lui, per accusarlo.
È la sorte dei grandi uomini: siccome non li si può attaccare nella verità, li si attacca con le menzogne. Gesù lo sente, conosce tutto questo, lo intuisce; percepisce che si sta organizzando il pretesto per imbavagliarlo, per contenerlo, per metterlo a tacere, per tendergli inganni: Egli sa di essere un uomo scomodo e poiché non sarebbero mai riusciti a imbavagliarlo, a farlo stare zitto, prima o poi avrebbero trovato l’occasione per zittirlo definitivamente, uccidendolo. Come puntualmente avvenne.
Di ciò Gesù avverte anticipatamente i discepoli: “Guardate, mi potrebbero uccidere. Potrebbe capitare: preparatevi. Andare a Gerusalemme sarà molto pericoloso. Ho paura, ma devo andarvi lo stesso; non posso tirarmi indietro, non posso abbandonare la mia missione. Non posso tradire il mio cuore, il mio mandato, il mio Dio, tutto quello che sento e provo. Io devo andare”.
Questo è il messaggio che Gesù si preoccupa di trasmettere ai suoi; ma gli apostoli sono scettici, fanno fatica a credere, ad accettare la cosa. Non può essere. Come si può perseguitare un uomo come Gesù? Come si fa ad odiare un uomo così? Come si può anche solo pensare di togliere la vita ad uno che è in grado di ridare la vita ai morti?
E Pietro, impulsivo come al solito, sbotta improvvisamente: “Signore, questo non ti accadrà mai!”.
Pietro qui fa da maestro a Gesù; i ruoli si capovolgono, gli si “mette davanti”.
Il vangelo dice che “trasse in disparte” un Gesù, deciso più che mai di seguire la sua strada, di compiere fino in fondo la sua missione. Pietro vorrebbe distoglierlo da questi propositi, cerca di “trarlo” fuori, lontano dalla sua determinazione.
Ma Gesù, che poco prima gli aveva detto “Tu sei la pietra su cui fonderò la mia chiesa”, lo redarguisce, gli risponde severamente: “Lungi da me, satana”; letteralmente: “Dietro di me, satana”. Che, in altre parole, significa: “Io vado dove devo andare: non distrarmi; non cercare di intralciarmi il passo, togliti da mezzo, mettiti dietro a me!”.
E qui c’è un primo importante messaggio proprio per noi, per la nostra vita: dobbiamo cioè rimanere sempre fedeli alla “chiamata” di Dio: mai fermarci, mai lasciarci fuorviare! Non permettiamo mai che il satana di turno ci ostacoli nel compiere il bene: egli, infatti, cercherà sempre di pararsi davanti a noi, ma noi dobbiamo tenerlo dietro, non ci deve infastidire, non deve pretendere di guidarci, di portarci dove vuole lui: siamo noi che decidiamo dove andare, come andare, quando andare.
Ma chi è questo Satana, sempre pronto a mettersi di traverso sul nostro cammino? Qui, come abbiamo visto, è Pietro, l’amico di Gesù. Sicuramente Pietro non voleva fargli del male, pretendeva solo di fargli cambiare idea, che si ricredesse su quanto aveva loro prospettato, e lo faceva proprio perché lo amava.
Nel nostro caso Satana è lo “spirito del male”: anch’egli si materializza sempre molto amichevolmente, non indossa mai le vesti del nemico che ci odia, del demonio terrificante con le corna e il tridente, per difenderci dal quale dobbiamo correre dall’esorcista. Si presenta invece proprio come uno che ci vuol bene, come una persona amica che ci sta vicino, che vuole aiutarci: si insinua infatti nei nostri momenti di difficoltà, pretendendo di consigliarci le soluzioni più facili, le scorciatoie più sicure, le strade più “giuste” da seguire: tutte soluzioni che, guarda caso, sono sempre contrarie a quanto ci suggerisce la nostra coscienza; “Satana” rappresenta tutte quelle persone che con la loro posizione, con la loro autorità, con la loro influenza, tentano di gestirci, di manovrarci, di manipolarci; “Satana” è questa nostra società moderna, votata al consumismo, all’edonismo, culturalmente succube di ignoranti nullità che pretendono di decidere per noi cosa dobbiamo pensare, cosa scegliere per vivere, cosa guardare in tv, cosa leggere, condizionando la nostra libera discrezionalità, la nostra autonomia raziocinante.
Ebbene: “Davanti a te nessuno”, ci raccomanda perentoriamente Gesù. Perché accettare che qualcuno si metta “davanti” a noi, si sostituisca a noi, significa accettare di stargli dietro, di approvare cioè ogni sua iniziativa, rinunciando alla nostra libertà di stabilire se percorrere la strada “giusta”, quella che Gesù ha pensato per noi, oppure quella del mondo, destinata alla rovina.
Gesù nella sua vita terrena non fu mai dominato da qualcuno, né tanto meno condizionato da qualche cieca fatalità, ma pur di compiere la sua missione di amore e di risurrezione, affrontò sempre con sguardo fermo, con grande volontà e dignità, il dolore, le sofferenze, e una morte decisamente straziante. Egli conosceva perfettamente ciò a cui andava incontro: sapeva che non era venuto per caso tra gli uomini, ma per indicare loro la via “retta” da seguire per raggiungere la salvezza; non ha dispensato morte, ma solo Vita, gioia, amore, amicizia, libertà.
Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Gesù è sempre chiaro: le sue parole ci portano sempre a pensare “secondo Dio” e non secondo gli uomini.
Rinnegare”, in greco, significa “dire di no, opporsi”: non nel senso che dobbiamo sistematicamente rifiutare tutto, ma nel senso che dobbiamo imporre a noi stessi dei “no” categorici a certe situazioni illusorie di vita, traducendoli in altrettanti “sì” alla Vita.
A che serve all’uomo vivere nei piaceri, conquistare il mondo, se poi perde la sua anima, la sua Vita, sé stesso? A che gli serve indossare una maschera imbellettata e seducente per “recitare” una sceneggiata, oltretutto scadente e inutile, in una esistenza provvisoria, che non gli appartiene? A che gli serve raggiungere tutto il desiderabile, se poi non può goderlo? Se poi non è felice? Se poi improvvisamente perde tutto? Se poi soprattutto perde Dio, l’Amore eterno, la Vita vera? Non è forse da imbecilli, da idioti, da insensati? Sappiamo tutti perfettamente che così non può funzionare: nessuna maschera, nessuna vita materiale, per quanto seducente, nessuna ricchezza, nessun benessere, saranno mai in grado di assicurarci la vera Felicità eterna! Perché se perdiamo la nostra dignità divina, la nostra anima, abbiamo perso tutto! Amen.

 

 

mercoledì 16 agosto 2023

27 Agosto 2023 – XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
16,13-20 
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Il vangelo di oggi si apre con una precisa domanda di Gesù ai suoi discepoli. A noi può sembrare strano che Gesù voglia conoscere l’opinione della gente sul suo conto. Ma non dobbiamo dimenticare che la società del suo tempo si fondava principalmente sui valori di onore e disonore: più di chi fosse in realtà, uno doveva preoccuparsi soprattutto di che cosa la gente pensasse di lui; il valore delle persone era infatti stimato in base alle opinioni della gente: più cioè sull’apparire che sull’essere. L'onore del clan, della famiglia, della tribù era l’unica cosa importante: veniva prima ancora del valore reale delle persone. 
Un metro di giudizio, del resto, che non è molto lontano da quello imposto dalla mentalità di questa nostra società contemporanea super evoluta. Anche oggi, la paura di non essere “valutati”, di non venir considerati dalla gente, è profondamente radicata in noi: “Nessuno mi considera, nessuno mi apprezza, nessuno mi vuole”. È l’indicatore della nostra insicurezza: per questo siamo sempre in affanno, alla continua ricerca di stima, di amore, di amicizie, di riconoscimenti. Più questa paura ci domina e più la nostra vita diventa una corsa alla ricerca dell’apparire, una vita fittizia e irreale. Non conta più ciò che siamo, ciò che viviamo o ciò che sentiamo, ciò che Dio sussurra al nostro cuore, il nostro progetto di vita, la nostra vocazione: conta soltanto non sfigurare, essere accettati, apprezzati, ammirati.
Ma perché Gesù sembra adeguarsi a tale mentalità? Perché agli occhi dei suoi discepoli vuole essere un uomo come tutti gli altri, il più possibile aderente alla loro “forma mentis”; vuole essere in tutto come uno di loro. È quindi naturale che il Maestro si preoccupi di conoscere cosa pensino di lui, della sua missione, della sua predicazione, le folle che lo seguono, in continua crescita, giorno dopo giorno: Egli vuole mettersi in gioco anche su questo. Ovviamente senza per questo rimanere turbato o succube delle loro risposte.
I discepoli, quindi, sollecitati in maniera così diretta, gli riportano le opinioni più diffuse: “Ti ritengono Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta”. Tutto vero. Però sono anche un po' reticenti e bugiardi, perché di Gesù si dicevano tante altre cose; si diceva, per esempio, che era un poco di buono, uno che stava volentieri con le donne, uno che assumeva atteggiamenti scandalosi e ambigui, che stava apertamente in compagnia di gente scomunicata come i pubblicani, uno che amava mangiare e bere, insomma un "eretico". Tutto questo non glielo dicono, anche se erano voci altrettanto diffuse, che loro ovviamente ben conoscevano.
Gesù, del resto, fu molto amato ma anche molto odiato, perché non fu una persona insignificante, anonima, senza carismi, uno che lasciava indifferenti; tutt’altro: una volta che l'avevi incontrato, dovevi necessariamente scegliere: o ti piaceva o ti infastidiva; o lo consideravi amico oppure nemico. Non c’erano alternative.
Gesù, prima di esprimere quella richiesta, aveva già guarito centinaia di persone, aveva risuscitato morti, aveva moltiplicato il pane per migliaia di persone, aveva sedato tempeste. Eppure tutto questo non gli era servito ad ottenere dalla gente un riconoscimento corale, sincero, onesto.
Che altro avrebbe dovuto fare ancora, perché tutti gli credessero? La fede non nasce da ciò che guardiamo ma da “come” guardiamo. Guardare superficialmente, senza interesse, senza coinvolgimento mentale, non porta automaticamente alla fede: bisogna guardare con passione, con serietà, con onestà, bisogna farlo con altri “occhi”, non con quelli corporali, ma con quelli dello spirito; perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Ecco perché le dicerie della gente su Gesù sono così diverse: perché sono il risultato di una visione parziale, superficiale: ciò che dicono di lui è vero, ma non rispecchia la realtà: sono supposizioni, opinioni, ragionamenti, ipotesi, congetture, giudizi o pregiudizi.
Ma Gesù, con le sue domande non si ferma qui. Quello che dicono di lui i lontani, non gli interessa; Egli vuol sapere cosa “loro”, i suoi discepoli, pensano di Lui. E quindi corregge il tiro: Ma “voi, chi dite che io sia?”. E qui Pietro, prontamente, si lancia in una risposta che gli sgorga come al solito dal cuore: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”.
Pietro non è un teologo, non è un filosofo erudito che sentenzia. Pietro è istinto, intuizione, passione. L’idea di Gesù, figlio di Dio, non gli proviene dall’istruzione, non l’ha sviluppata gradualmente con anni di studio: per lui la realtà divina del suo Maestro è l’illuminazione di un istante, un fulmine che gli ha infiammato il cuore. Non è arrivato a comprenderlo tramite sillogismi, calcoli mentali, ragionamenti: ma sotto l’impulso dello Spirito che ha fatto sussultare il suo cuore generoso e innamorato. E Gesù lo conferma chiaramente: “Beato te Simone, perché né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”.
Oltre ai discepoli però quella domanda Gesù la rivolge anche a tutti noi, direttamente, singolarmente. E dunque: “Chi è Gesù per noi? Cosa pensiamo di Dio? Che rapporto abbiamo con Lui?
Se la nostra risposta è che sì, Dio lo conosciamo, questo significa anche che lo sentiamo veramente come “nostro Padre”? che ascoltiamo la sua voce che ci parla? Che abbiamo avuto modo di “sentirlo vicino” anche nelle prove tragiche della vita? No? E allora, come possiamo dire di “conoscere” uno che non abbiamo mai avuto occasione di incontrare? Perché “incontrarlo” significa “cambiare” necessariamente qualcosa nella nostra vita, nel nostro carattere, nella nostra persona! Se siamo sempre gli stessi, allora vuol dire che non l’abbiamo mai incontrato, né mai conosciuto. Anzi, peggio, forse non abbiamo mai “voluto” incontrarlo, conoscerlo, prenderlo in considerazione; per noi insomma, Lui non conta nulla, è un “qualcosa” di irrilevante. Incontrarlo, conoscerlo, significa al contrario lasciarlo entrare nel nostro cuore: è come aprire le porte ad un uragano, lasciarsi investire da un vento impetuoso, irresistibile; è come innamorarsi irrazionalmente, perdutamente, di qualcuno, fare un’esperienza unica che ci sconvolge la vita.
Dio, dal canto suo, ha il cuore spalancato per tutti, aspetta tutti, è disponibile per tutti: è un'esperienza, un incontro, che tutti possiamo fare; non è un privilegio per i sapienti, per i santi, per i suoi ministri.
Incontrarlo non è difficile, e appena succede, ce ne accorgiamo subito: sentiamo improvvisamente, istintivamente, la presenza dentro di noi di qualcuno che ci consola, ci suggerisce nuove soluzioni e, prendendoci per mano, ci guida per sentieri che prima ci erano sconosciuti, in una vita completamente nuova, diversa; ci fa capire che fino ad allora abbiamo solo sopravvissuto, abbiamo perso tempo, abbiamo vegetato, dormito, camminato a vuoto; e ci assicura che, se ci fidiamo di Lui, tutto, anche qualunque dolore o tragedia, acquisterà un valore straordinariamente meritorio.
Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. È questa la Chiesa di Cristo! La Chiesa è Cristo; è il luogo dell'incontro con Lui, dell'esperienza di Dio. Altrimenti perde la sua ragion d’essere, la sua vitalità. Quando andiamo in chiesa e partecipiamo ad una liturgia, ad un incontro di preghiera, quello che conta non è ciò che diciamo o facciamo, i fiumi di parole distratte che pronunciamo, ma solo se “tocchiamo” Dio, se lo “incontriamo” realmente, se Lui ci “tocca” il cuore. Perché andare in chiesa, e non essere “toccati”, non avere la percezione della Sua presenza, è inutile, è tempo perso. Se non c'è Dio, non c’è vita!
La Chiesa di Cristo, fondata su Pietro “roccia”, deve essere dunque anche per noi il luogo dove ci sentiamo figli di Dio, dove possiamo piangere, sentirci a casa, sentirci compresi e ascoltati, dove possiamo dare voce a quello che abbiamo dentro.
Amiamo allora la nostra Chiesa: difendiamola. Perché è Lei che ha la missione fondamentale di proteggere quel sacro fuoco, quello Spirito che Dio ha posto dentro ciascuno di noi; è la casa dell'anima, di quanto vive nell'anima. È Lei che ci lega a Cristo, che ci rende liberi da tutti i comportamenti devianti, aggressivi, da tutti quei demoni (rabbie, risentimenti, ossessioni, ecc) che troppo spesso, malauguratamente ci dilaniano l’anima. Se noi rimaniamo legati a Cristo, siamo veramente liberi, sciolti da tutto il resto; se preferiamo rimanere legati al “resto”, perdiamo purtroppo la nostra libertà, la nostra forza, la gioia di sentirci figli amati. Amen. 

 

 

20 Agosto 2023 – XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
15,21-28 
In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco una donna Cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Il vangelo racconta di una madre che è in ansia per la sorte della figlia. Gesù ha appena concluso una discussione con i farisei su cosa sia puro o impuro. I farisei ne facevano una questione formale, di regole, di leggi, e Gesù aveva tagliato corto: “Non sono le cose o i comportamenti che sono puri o impuri, è il cuore, è l'intenzione con cui fai le cose che le rende pure o impure”. In altre parole, tradotto per noi cristiani di oggi: “non è frequentando la chiesa che dimostriamo di essere o non essere buoni cristiani”: tutto dipende invece dal perché ci andiamo, dalle nostre intenzioni, dalla nostra fede, dal nostro cuore, da ciò che abbiamo dentro, da ciò che viviamo. 
Un principio che Gesù mette in evidenza anche nei confronti della donna cananea del vangelo di oggi: siamo in territorio pagano, nella zona di Tiro e di Sidone. Lungo la strada Gesù incontra una donna che gli chiede aiuto, ma Egli sembra non accorgersene, non si degna neppure di ascoltarla e continua per la sua strada. Un comportamento strano, decisamente inconsueto per Gesù. Con gli stessi discepoli che gli chiedono di esaudire le richieste della donna, quantomeno per farla smettere di seguirli e di gridare, Gesù usa delle espressioni in deciso contrasto con le sue abitudini. 
Noi ci saremmo senz’altro aspettati che Lui la ascoltasse secondo il suo solito, che accogliesse le sue richieste, che fosse misericordioso anche con lei. Ma Gesù vede le cose con altri occhi rispetto ai nostri: e ce lo fa capire subito, riferendosi al motivo della discussione con i farisei di poco prima: non basta cioè desiderare di cambiare, di uscire da certe situazioni; non sono sufficienti le buone intenzioni. Bisogna essere convinti, consapevoli di ciò che si vuole o non si vuole, essere pronti ad accettare tutte le conseguenze e quindi agire risolutamente di conseguenza. Il desiderio, anche se forte, non basta, non è sufficiente.
Se Gesù avesse esaudito subito questa donna, nessuno avrebbe mai capito se era sincera o meno, se volesse a tutti i costi la guarigione della figlia; se fosse mossa da una fede autentica, in grado di affrontare qualunque contrarietà, qualunque umiliazione, pur di ottenere quello che chiedeva, oppure se si comportasse così, tanto per mettere Gesù alla prova. 
Per questo Egli esaspera la situazione che gli si era presentata: adotta cioè lo stesso modo di ragionare del suo tempo, quella mentalità secondo cui i pagani (e questa donna era pagana) rispetto al popolo ebreo, agli “eletti”, erano considerati una razza inferiore, delle “pecore perdute” estranee quindi ad ogni progetto di salvezza messianica futura.
Partendo da qui, Gesù intende evidenziare la fondamentale novità del suo insegnamento: dopo essersi attenuto, come ebreo, alla mentalità corrente, con i fatti Egli ne dimostra l’assoluta incongruenza. Come se volesse dire: “Sono stato fin qui in linea con le Scritture e le vostre tradizioni: ora però voglio dimostrarvi la novità della mia missione: per me, pagano o ebreo che uno sia, non fa alcuna differenza; tutti meritano la mia stessa attenzione, ma ad una condizione: che le loro azioni e le loro parole siano coerenti con quello che pensano; tutti sono uguali ai miei occhi; ma l’importante, l’essenziale, è che lo spirito con cui essi si rivolgono a me sia sincero, senza secondi fini; perché è il loro retto comportamento, le loro oneste intenzioni, la sincerità dei loro cuori che li rendono graditi ai miei occhi e degni della mia attenzione!”.
Gesù è un uomo libero, assolutamente libero; libero di mettere in discussione la propria tradizione, sia religiosa che sociale: e ne dà immediatamente la prova.
Appena la donna ha superato l’esame sulla sincerità e la “purezza” della sua fede, mediante la precisazione sui “cagnolini” che si accontentano di ricevere anche solo le briciole che cadono dalla tavola degli “eletti”, Gesù cambia improvvisamente atteggiamento: sembra quasi sorpreso, colpito, meravigliato. Come se dicesse: “O donna, mi hai conquistato, non l’avrei mai pensato, non l'avrei mai detto. Mi sono sbagliato sul tuo conto; eccoti accontentata, sia fatto ciò che tu chiedi”. La donna viene capita, esaudita: la figlia è guarita; ancora una volta la misericordia divina ha trionfato.
Possiamo cogliere qui, per inciso, un altro insegnamento: Se c'è da cambiare idea (e qui Gesù dimostra di averla cambiata!), rendendoci conto di aver sbagliato, ebbene, dobbiamo farlo! Non dobbiamo rimanere caparbiamente sulle nostre posizioni, non accettando mai, per principio, la possibilità che le cose, i tempi, le persone, le opinioni possano cambiare. Chi non cambia mai, non va in profondità nelle cose, vive sempre in superficie. Le sue corte radici non lo alimentano, non riesce a cambiare, a crescere, la sua mente muore.
“Morte” infatti vuol dire rigidità, staticità, sepoltura, significa imbalsamare tutto, cose e persone. La vita al contrario è divenire, scorrere, mutazione. Tutto è proiettato nel futuro, “panta rei”, diceva Eraclito, niente rimane sempre uguale. Oggi non è ieri. Crescere è lasciarsi mettere in discussione. Chi cambia si rinnova, è sempre giovane, non si annoierà mai. Chi rimane immobile, sempre lo stesso, è già vecchio in partenza, la sua esistenza sarà atona, scontata, insignificante.
Ma torniamo al personaggio centrale del vangelo, alla donna Cananea, il cui comportamento merita altre considerazioni.
Lei dunque, straziata dalla sofferenza, decide di andare da Gesù perché sua figlia è in preda al demonio. Si sente in ansia, è giustamente preoccupata. Questa donna, non c'è dubbio, ama sua figlia ma l'amore non basta. Deve fare qualcosa di più, deve dimostrare con le parole e con i fatti tutto il suo amore.  
Ma perché, una volta raggiunto, lo implora a gran voce, chiedendo prima di tutto misericordia per sé stessa? “Pietà di me!”, grida. Se è la figlia ad essere invalida, preda del demonio, meritevole di compassione, per quale motivo chiede pietà per sé e non direttamente per la figlia? Forse si sente in colpa perché, esasperata, non riesce più a sopportare le frequenti esplosioni di violenza della figlia? Oppure vuol essere perdonata perché si sente colpevole della situazione, a causa di sue precedenti colpe personali? Non sappiamo: probabilmente la sua richiesta di perdono si spiega proprio con la mentalità di allora, secondo cui le disgrazie, le calamità che colpivano i figli, erano la conseguenza delle colpe, dei “peccati”, commessi dai genitori. Forse la donna, in cuor suo, pensava: “Se e quando Dio perdonerà le mie colpe, mia figlia guarirà, perché essendo io la causa della sua infermità, è giusto che sia il mio pentimento a procurarle la guarigione”.
La donna cananea è determinata, risoluta: e quando Gesù, ignorando la sua richiesta, continua a camminare senza nemmeno voltarsi, invece di desistere, continua a seguirlo, insistendo nell’invocare il suo aiuto.
I discepoli, disturbati dalle sue urla, la guardano infastiditi, con un certo nervosismo. Ma lei non si arrende: e quando finalmente riesce ad avvicinarsi a Gesù, si butta ai suoi piedi e lo implora: “Signore, aiutami!”; ma Lui, di rimando, si rifiuta addirittura di ascoltarla: “Che vuoi tu da me? Tu non appartieni al popolo eletto!"
A questo punto delusione, rabbia, disperazione, avrebbero devastato il cuore di chiunque: chi non si sarebbe sentito umiliato, offeso, da tanta indifferenza?
Ma la cananea irremovibile insiste nella sua azione: lei non teme giudizi, non teme impopolarità, non teme derisioni: anzi risponde con logica prontezza alla spiegazione di Gesù. È una donna gigantesca, battagliera, che non si arrende, perché la sua fede è profonda, convinta, inattaccabile; ed è grazie a questa sua tenacia, a questa sua energia interiore, che alla fine otterrà ciò che chiede: la guarigione della figlia.
Nel Padre Nostro, Gesù ci raccomanda di pregare “Padre, sia fatta la tua volontà!”. Ma di fronte alla grande fede della donna, alla sua singolare perseveranza, Gesù fa un’eccezione: “Donna, sia fatta la tua volontà. Avvenga per te come desideri”.
Un significativo esempio per noi di come, per ottenere, sia necessaria una fede convinta, vitale, dinamica: “chiedere” con fede ardente, è “volere con tutte le forze”, è agire con la certezza di ottenere; significa insomma continuare a credere saldamente fino in fondo, fino all’impossibile, costi quel che costi. Il vangelo di oggi ci offre infatti a questo proposito una fondamentale verità: per Gesù il fatto più importante, la cosa essenziale, determinante, non è tanto “se” crediamo, ma “come” e “quanto” crediamo! Amen.

 

 

giovedì 10 agosto 2023

13 Agosto 2023 – XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 14,22-33
[
Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Il testo del vangelo di oggi segue immediatamente quello della moltiplicazione dei pani. Saziata la folla Gesù, con fare deciso, invita i discepoli a salire su una barca, per allontanarsi proprio da quella folla che, dopo il portentoso miracolo di cui aveva beneficiato, lo considerava sempre di più un “uomo-mito”. 
Gesù sapeva perfettamente quanto fosse pericoloso il consenso generale e il successo, conseguiti oltretutto in un contesto di così grande emozione. Certo, essere importante, essere famosi, ci fa piacere, ci fa sentire qualcuno, ci fa sentire amati, voluti, desiderati.
Ma ─ insegna Gesù ─ bisogna fare attenzione, perché il successo può dare veramente alla testa: si rischia di stravolgere la propria vita, di non vivere più come siamo, o come dovremmo essere, per finire di vivere unicamente condizionati dall’idea fissa di mantenere e accrescere il successo ottenuto, la fama, la gloria.
Per questo, senza frapporre indugi, Gesù ordina ai discepoli di abbandonare la scena: e lui stesso si ritira in un luogo appartato, per pregare in solitudine.
Un particolare che ci suggerisce immediatamente il primo insegnamento: “ritagliatevi del tempo per voi e vivetelo in solitudine; non abbiate paura di restare da soli, di fronte a voi stessi”.
Nella vita assistiamo a due forme di solitudine: una, che è frutto di isolamento, di incapacità di relazionarsi, di dirsi e di aprirsi; una solitudine che è frutto di un carattere difficile, egocentrico, narcisista, di quanti vedono unicamente se stessi al centro dell'universo: una solitudine che si chiama “chiusura”.
Ma c'è anche una solitudine buona, anzi necessaria. È quando l'uomo si mette di fronte a sé stesso, davanti a quello che lui è realmente, a quello che è il mondo, al vero senso della vita, alle sue paure, al suo desiderio di infinito; e questa solitudine è “preghiera”.
L'uomo si perfeziona soltanto in questa solitudine: guardandosi in faccia, negli occhi, scrutandosi nel cuore, sinceramente, senza nascondersi nulla: può essere un’occasione fastidiosa, dolorosa, ma è il momento della verità, del silenzio, del deserto, dello smarrimento; è quando finalmente uno smette di raccontarsi falsità illudendo sé stesso.
Noi in genere amiamo purtroppo la confusione: quella illusoria della televisione o il frastuono assordante di una discoteca, delle piazze o degli stadi; amiamo il caos, le strade affollate, il rumore, la moltitudine di gente.
Di contro, Gesù sceglie la solitudine della montagna, i luoghi solitari, separati, isolati. Una solitudine che Egli ci propone, poiché ci offre solidità, ci permette di non girare a vuoto spiritualmente, ci fa sentire bene con noi stessi. Noi infatti abbiamo paura di fermarci e di guardarci in faccia. Spiritualmente siamo dei bambini, siamo infantili e immaturi; non riusciamo a vivere senza avere qualcuno al nostro fianco, abbiamo un bisogno costante di presenze, di appoggi, di conferme, di lodi e di riconoscimenti. Stiamo insieme ad altri non per amore, ma perché egoisticamente non riusciamo a stare da soli.
La vita è la nostra fragile barca, tutti dobbiamo salirci, tutti dobbiamo prenderne il timone e governarla tra le acque agitate dei nostri problemi, delle nostre paure, di tutti quegli eventi che non siamo in grado di dominare e di controllare.
Anche noi, come i discepoli, di fronte a situazioni ingovernabili, ci sentiamo smarriti come e più di loro: ci sentiamo nella bufera, e per quanto ci impegniamo di remare, di “governare” la nostra barca, ci rendiamo conto che non basta. Sentiamo ad un certo punto di non farcela; sentiamo di non essere più in grado di gestirla, di controllare gli eventi.
Noi vorremmo tenere sempre ogni cosa sotto controllo, avere la vita esclusivamente nelle nostre mani; vorremmo essere sempre noi i vincitori, i dominatori, ma non è così. A volte ci troviamo ad annaspare nel vuoto, le onde ci sovrastano, tutto ci sfugge, ci sembra di affogare, di annegare, di colare a picco.
E cominciamo a piagnucolare: “Dio, non ce la posso fare, è difficile; è impossibile!”, e ricorriamo a Lui pregandolo di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare continuamente a nostra disposizione con i miracoli in mano. Quando siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui invece ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase importante quel “sono io”: il verbo greco “eimì” indica sì un presente, ma anche un passato e insieme un futuro (Cfr. Es 3,14). In altre parole, Lui, nostro Padre, è sempre presente: lo è sempre stato, lo è ora, e lo sarà in futuro.
È una realtà che non appartiene ancora a Pietro: egli non crede che “quel fantasma” che “cammina sul mare” sia il Signore; lo mette alla prova: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. E Pietro va, e senza accorgersi cammina sulle onde in tempesta, riesce a dominarle. È il miracolo del credere, della fede convinta.
Lo stesso succede talvolta anche a noi: se abbiamo vera fede, ciò che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza necessaria per affrontarle. Noi dobbiamo credere fermamente in questo; la nostra fede deve rimanere sempre ferma, autentica, incrollabile, altrimenti ripetiamo l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui distoglie lo sguardo da Gesù, impaurito dai pericoli che lo circondano, dalla forza del vento e del mare, inesorabilmente affonda, cola a picco. È il dramma della nostra vita: se noi ci concentriamo sul pericolo, sulle difficoltà, sulla sofferenza delle prove, affondiamo; ma se il nostro sguardo è fisso in Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver paura. Insieme possiamo affrontare qualunque cosa, fidati di me”.
Ogni mattina, quando ci alziamo, facciamoci il segno della croce. Non facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non so cosa mi capiterà oggi, ma io Signore ho fiducia in te!”. E allora con questa convinzione nel cuore, affrontiamo serenamente la nostra giornata. Un piccolo gesto, questo segno della croce, che non deve trasformarsi in un atto scaramantico, superstizioso, ma deve esprimere la nostra assoluta fiducia in Dio, la sola in grado di renderci la vita serena: infatti, fintantoché Lo sentiremo al nostro fianco, i nostri passi non potranno mai vacillare: “Si nobiscum Deus, quis contra nos? – Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rm 8,31). Ecco, è questa la nostra unica certezza! Amen.