mercoledì 16 agosto 2023

27 Agosto 2023 – XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
16,13-20 
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Il vangelo di oggi si apre con una precisa domanda di Gesù ai suoi discepoli. A noi può sembrare strano che Gesù voglia conoscere l’opinione della gente sul suo conto. Ma non dobbiamo dimenticare che la società del suo tempo si fondava principalmente sui valori di onore e disonore: più di chi fosse in realtà, uno doveva preoccuparsi soprattutto di che cosa la gente pensasse di lui; il valore delle persone era infatti stimato in base alle opinioni della gente: più cioè sull’apparire che sull’essere. L'onore del clan, della famiglia, della tribù era l’unica cosa importante: veniva prima ancora del valore reale delle persone. 
Un metro di giudizio, del resto, che non è molto lontano da quello imposto dalla mentalità di questa nostra società contemporanea super evoluta. Anche oggi, la paura di non essere “valutati”, di non venir considerati dalla gente, è profondamente radicata in noi: “Nessuno mi considera, nessuno mi apprezza, nessuno mi vuole”. È l’indicatore della nostra insicurezza: per questo siamo sempre in affanno, alla continua ricerca di stima, di amore, di amicizie, di riconoscimenti. Più questa paura ci domina e più la nostra vita diventa una corsa alla ricerca dell’apparire, una vita fittizia e irreale. Non conta più ciò che siamo, ciò che viviamo o ciò che sentiamo, ciò che Dio sussurra al nostro cuore, il nostro progetto di vita, la nostra vocazione: conta soltanto non sfigurare, essere accettati, apprezzati, ammirati.
Ma perché Gesù sembra adeguarsi a tale mentalità? Perché agli occhi dei suoi discepoli vuole essere un uomo come tutti gli altri, il più possibile aderente alla loro “forma mentis”; vuole essere in tutto come uno di loro. È quindi naturale che il Maestro si preoccupi di conoscere cosa pensino di lui, della sua missione, della sua predicazione, le folle che lo seguono, in continua crescita, giorno dopo giorno: Egli vuole mettersi in gioco anche su questo. Ovviamente senza per questo rimanere turbato o succube delle loro risposte.
I discepoli, quindi, sollecitati in maniera così diretta, gli riportano le opinioni più diffuse: “Ti ritengono Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta”. Tutto vero. Però sono anche un po' reticenti e bugiardi, perché di Gesù si dicevano tante altre cose; si diceva, per esempio, che era un poco di buono, uno che stava volentieri con le donne, uno che assumeva atteggiamenti scandalosi e ambigui, che stava apertamente in compagnia di gente scomunicata come i pubblicani, uno che amava mangiare e bere, insomma un "eretico". Tutto questo non glielo dicono, anche se erano voci altrettanto diffuse, che loro ovviamente ben conoscevano.
Gesù, del resto, fu molto amato ma anche molto odiato, perché non fu una persona insignificante, anonima, senza carismi, uno che lasciava indifferenti; tutt’altro: una volta che l'avevi incontrato, dovevi necessariamente scegliere: o ti piaceva o ti infastidiva; o lo consideravi amico oppure nemico. Non c’erano alternative.
Gesù, prima di esprimere quella richiesta, aveva già guarito centinaia di persone, aveva risuscitato morti, aveva moltiplicato il pane per migliaia di persone, aveva sedato tempeste. Eppure tutto questo non gli era servito ad ottenere dalla gente un riconoscimento corale, sincero, onesto.
Che altro avrebbe dovuto fare ancora, perché tutti gli credessero? La fede non nasce da ciò che guardiamo ma da “come” guardiamo. Guardare superficialmente, senza interesse, senza coinvolgimento mentale, non porta automaticamente alla fede: bisogna guardare con passione, con serietà, con onestà, bisogna farlo con altri “occhi”, non con quelli corporali, ma con quelli dello spirito; perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Ecco perché le dicerie della gente su Gesù sono così diverse: perché sono il risultato di una visione parziale, superficiale: ciò che dicono di lui è vero, ma non rispecchia la realtà: sono supposizioni, opinioni, ragionamenti, ipotesi, congetture, giudizi o pregiudizi.
Ma Gesù, con le sue domande non si ferma qui. Quello che dicono di lui i lontani, non gli interessa; Egli vuol sapere cosa “loro”, i suoi discepoli, pensano di Lui. E quindi corregge il tiro: Ma “voi, chi dite che io sia?”. E qui Pietro, prontamente, si lancia in una risposta che gli sgorga come al solito dal cuore: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”.
Pietro non è un teologo, non è un filosofo erudito che sentenzia. Pietro è istinto, intuizione, passione. L’idea di Gesù, figlio di Dio, non gli proviene dall’istruzione, non l’ha sviluppata gradualmente con anni di studio: per lui la realtà divina del suo Maestro è l’illuminazione di un istante, un fulmine che gli ha infiammato il cuore. Non è arrivato a comprenderlo tramite sillogismi, calcoli mentali, ragionamenti: ma sotto l’impulso dello Spirito che ha fatto sussultare il suo cuore generoso e innamorato. E Gesù lo conferma chiaramente: “Beato te Simone, perché né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”.
Oltre ai discepoli però quella domanda Gesù la rivolge anche a tutti noi, direttamente, singolarmente. E dunque: “Chi è Gesù per noi? Cosa pensiamo di Dio? Che rapporto abbiamo con Lui?
Se la nostra risposta è che sì, Dio lo conosciamo, questo significa anche che lo sentiamo veramente come “nostro Padre”? che ascoltiamo la sua voce che ci parla? Che abbiamo avuto modo di “sentirlo vicino” anche nelle prove tragiche della vita? No? E allora, come possiamo dire di “conoscere” uno che non abbiamo mai avuto occasione di incontrare? Perché “incontrarlo” significa “cambiare” necessariamente qualcosa nella nostra vita, nel nostro carattere, nella nostra persona! Se siamo sempre gli stessi, allora vuol dire che non l’abbiamo mai incontrato, né mai conosciuto. Anzi, peggio, forse non abbiamo mai “voluto” incontrarlo, conoscerlo, prenderlo in considerazione; per noi insomma, Lui non conta nulla, è un “qualcosa” di irrilevante. Incontrarlo, conoscerlo, significa al contrario lasciarlo entrare nel nostro cuore: è come aprire le porte ad un uragano, lasciarsi investire da un vento impetuoso, irresistibile; è come innamorarsi irrazionalmente, perdutamente, di qualcuno, fare un’esperienza unica che ci sconvolge la vita.
Dio, dal canto suo, ha il cuore spalancato per tutti, aspetta tutti, è disponibile per tutti: è un'esperienza, un incontro, che tutti possiamo fare; non è un privilegio per i sapienti, per i santi, per i suoi ministri.
Incontrarlo non è difficile, e appena succede, ce ne accorgiamo subito: sentiamo improvvisamente, istintivamente, la presenza dentro di noi di qualcuno che ci consola, ci suggerisce nuove soluzioni e, prendendoci per mano, ci guida per sentieri che prima ci erano sconosciuti, in una vita completamente nuova, diversa; ci fa capire che fino ad allora abbiamo solo sopravvissuto, abbiamo perso tempo, abbiamo vegetato, dormito, camminato a vuoto; e ci assicura che, se ci fidiamo di Lui, tutto, anche qualunque dolore o tragedia, acquisterà un valore straordinariamente meritorio.
Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. È questa la Chiesa di Cristo! La Chiesa è Cristo; è il luogo dell'incontro con Lui, dell'esperienza di Dio. Altrimenti perde la sua ragion d’essere, la sua vitalità. Quando andiamo in chiesa e partecipiamo ad una liturgia, ad un incontro di preghiera, quello che conta non è ciò che diciamo o facciamo, i fiumi di parole distratte che pronunciamo, ma solo se “tocchiamo” Dio, se lo “incontriamo” realmente, se Lui ci “tocca” il cuore. Perché andare in chiesa, e non essere “toccati”, non avere la percezione della Sua presenza, è inutile, è tempo perso. Se non c'è Dio, non c’è vita!
La Chiesa di Cristo, fondata su Pietro “roccia”, deve essere dunque anche per noi il luogo dove ci sentiamo figli di Dio, dove possiamo piangere, sentirci a casa, sentirci compresi e ascoltati, dove possiamo dare voce a quello che abbiamo dentro.
Amiamo allora la nostra Chiesa: difendiamola. Perché è Lei che ha la missione fondamentale di proteggere quel sacro fuoco, quello Spirito che Dio ha posto dentro ciascuno di noi; è la casa dell'anima, di quanto vive nell'anima. È Lei che ci lega a Cristo, che ci rende liberi da tutti i comportamenti devianti, aggressivi, da tutti quei demoni (rabbie, risentimenti, ossessioni, ecc) che troppo spesso, malauguratamente ci dilaniano l’anima. Se noi rimaniamo legati a Cristo, siamo veramente liberi, sciolti da tutto il resto; se preferiamo rimanere legati al “resto”, perdiamo purtroppo la nostra libertà, la nostra forza, la gioia di sentirci figli amati. Amen. 

 

 

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