Lc 6, 17.20-27
In quel tempo, Gesù, 17disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, Ed egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».
Al mattino, dopo una notte passata sul monte a pregare, Gesù chiama intorno a sé i discepoli che erano con lui, e ne sceglie dodici, ai quali dà il nome di apostoli. Insieme ad essi poi discende dal monte, e viene subito circondato da una grande folla, sopraggiunta dal nord, dalle città di Tiro e Sidone, e dal sud, dalla Giudea e dalla città di Gerusalemme: una moltitudine di persone sofferenti, malate, bisognose di aiuto, affamate.
Di fronte a tanto dolore,
Gesù prova una grande pietà: e alzando gli occhi al cielo, inizia a parlare,
indicando il percorso preferenziale per entrare a far parte del suo Regno.
Gesù
come Mosè: è a lui che Luca sicuramente pensa nel descrivere questa scena: come l’antico liberatore e legislatore di Israele,
sceso dal Sinai, consegna al suo popolo la legge, i dieci comandamenti, così
anche Gesù, liberatore e consolatore dell’umanità, scende da un monte e
consegna alla folla di “poveri” che
lo seguono, la “sua” nuova legge, la legge delle beatitudini: “Beati voi poveri…, Beati voi affamati…,
Beati voi che piangete…, perché vostro è il regno di Dio”.
Quelli che circondano Gesù,
sono soprattutto i “poveri”, gli “ptokòi”:
gente afflitta, debole, provata, vulnerabile, senza più entusiasmi: è il popolo
degli “anawim”, gli umiliati dalla
vita che, nonostante tutto, sono accorsi in massa da Lui per ascoltare le sue
parole di vita, convinti di poter finalmente “guarire” anche solo ascoltandolo, toccandolo.
“Beati voi poveri – makarioi
ptokòi”. Gesù li capisce, riconosce la loro dignità di persone sofferenti,
li conforta; e lancia un avviso singolare per tutti gli “anawim” della terra; con le sue beatitudini, egli rivaluta la loro
situazione, tragica agli occhi del mondo, ma non davanti a Dio, dicendo:
“Nessuno potrà mai trovare la vera felicità, la beatitudine, la pace, la
serenità del cuore se non è “povero”
come voi: se cioè non accetta l’amarezza del pianto, se non sopporta con umiltà
e rassegnazione l’essere considerato dal mondo un “minore”, un “perdente”.
Una prospettiva, questa di
Gesù, decisamente incomprensibile per la mentalità del mondo, malata di
egocentrismo, di quel “superomismo”, che nulla chiede, ma tutto pretende, e con
la forza e l’astuzia tutto ottiene; che non accetta le disavventure, non si
inchina al destino, non si abbassa a niente e a nessuno: classica mentalità dell’“onnivincente”,
lontana anni luce dallo spirito delle beatitudini.
Ma attenzione: il senso profondo
delle beatitudini non è semplicemente: “Felice è colui che piange, che soffre, che
è un povero derelitto”; per essere veramente felici è necessario vivere la
propria vita, la propria situazione, qualunque essa sia, in comunione con Dio, offrendola
a Lui, condividendola con Lui, considerandola sempre e comunque un suo dono, sia
nei momenti esaltanti che in quelli di profondo dolore.
Per fare ciò, ovviamente, il
nostro cuore deve essere sempre aperto, sensibile, in sintonia con lo Spirito
che ci inabita; perché se questo sincronismo si interrompe, se il nostro cuore
diventa di pietra, se non proviamo più emozioni, se non sappiamo piangere, se
non accogliamo positivamente le nostre sofferenze, non potremo mai capire il senso
autentico della vita, non potremo mai viverla nel cuore di Dio: allora diventeremo
infelici, insoddisfatti, incattiviti; allora ci chiuderemo nel nostro rancore,
e ci rifiuteremo caparbiamente di ascoltare la Sua voce consolante di Padre.
“Elohim”,
in ebraico, è uno dei nomi di Dio: ma “Elohim”
è anche quell’uomo che si “divinizza”, che diventa “divino”, che fa di
tutto per tornare ad essere pienamente l’immagine di Dio; “Elohim”, è ciò che tutti
noi siamo in profondità, è la nostra essenza, è la nostra anima.
Il primo uomo, Adamo,
creatura di Dio, amalgama di terra e di Spirito divino, ha tradito il suo
compito, il suo essere spirituale, il suo nome, la sua missione. Ha voluto
essere Dio, “da subito”, immediatamente: ma questo suo peccato di ribellione lo
ha proiettato in una condizione dolorosa, faticosa, lontana dall’amicizia di
Dio; la vita umana si è trasformata in un cammino evolutivo, fatto di passione,
di sofferenze, di lotte, di dolore; un cammino che troppo spesso “si perde” nel
peccato, nella superbia, nell’egoismo, nell’alienazione mentale, nella morte.
Da tutto questo Cristo ci ha
riscattato, ci ha ridato l’amicizia, l’unione, l’amore di Dio, con Dio: il
nostro stato di felicità eterna, di autentica beatitudine, è però commisurato
al grado di adesione alla Sua volontà, all’amore, alla carità con cui conduciamo
la nostra vita su questa terra.
Solo se anteponiamo questa nostra
unione col Divino, davanti a tutto e a tutti, il nostro sarà un cammino di
felicità, di beatitudine, una costante condivisione già su questa terra della
bontà e dell’amore del Padre.
La nostra felicità sta altrove, nel raggiungimento di quei
tantissimi traguardi, purtroppo fasulli, che ci prefiggiamo: “Quando avrò
ottenuto quel riscontro finanziario, quando avrò raggiunto quella visibilità,
quell’obiettivo politico, quando sarò ricco, potente, allora sicuramente sarò
felice!”. Ci illudiamo cioè che la felicità consista nella ricchezza, nel
benessere, nel potere: e pur di raggiungere questi status symbols, spendiamo il meglio di noi stessi, il nostro cuore,
la nostra anima, ipotechiamo le cose più belle della vita, sacrifichiamo tempo,
famiglia, amicizie, relazioni, intimità interiore.
Una volta raggiunto il nostro sogno, ci attende però un’amara
sorpresa: la conquista fatta non ci basta più, davanti a noi si aprono
immediatamente nuove prospettive: un nuovo traguardo ci affascina, ancor più
attraente, più utile, più indispensabile: e la corsa riparte, nell’affanno,
nella frustrazione di continui fallimenti, obbligandoci ad un vivere alienante
che non approderà mai ad alcun porto sicuro e definitivo.
Siamo purtroppo schiavi del consumismo: con grande
indifferenza eliminiamo non solo le cose ma anche le emozioni: e proprio per
questo sentiamo la necessità pressante di nuove emozioni, sempre più forti, sempre
più intense; siamo ormai completamente insensibili, corazzati, mascherati,
impossibilitati a percepire la bellezza di quelle vere emozioni, quelle
spirituali, sicuramente meno forti, meno violente, ma che lasciano un segno
indelebile, permanente, duraturo, di beatitudine interiore.
In ogni uomo convivono stabilmente due realtà, due
forze fra loro contrastanti: quella materiale e quella spirituale. Per l’uomo
materiale, felicità significa esteriorità, correre, conquistare, possedere; al
contrario, per quello spirituale, per l’uomo delle beatitudini, la felicità è interiorità,
è ascoltare, cercare di capire, fidarsi, condividere. Per la nostra materialità,
la vita è una quantità di infinite rette: è una marcia continua, stressante,
per raggiungere, conquistare, impadronirsi di sempre nuovi, innumerevoli,
traguardi. Per il nostro spirituale, la vita è una spirale concentrica: un
costante ritorno in sé stessi per attingere lo Spirito dalla propria anima e
metterlo a disposizione degli altri.
È questo il vero senso dell’ebraico “ascèr”, beatitudine: questo, il significato profondo delle beatitudini: in pratica, non devono rappresentare un nostro punto di arrivo, una conquista personale, ma una spinta a ripartire verso l’altro, verso il nostro fratello più debole; a proseguire sempre per quella via maestra indicataci da Gesù: che poi è l’unica strada, l’unico percorso, che ci porterà al traguardo finale, al godimento della piena felicità, della “beatitudine” eterna, nell’Amore del Padre. Amen.