“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria” (Mt 25,31-46).
Di
fronte a tale scenografia restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo,
la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di
Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere
questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo
si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio dal volto
amoroso e compassionevole?
Si
tratta invece di due immagini, quelle di Gesù, che solo apparentemente sono in
contrasto tra loro.
Prima
di tutto la qualifica di “Re” attribuita a Cristo: una denominazione
altisonante, maestosa, che mal si adatta a quel Gesù, umile e remissivo, Padre
innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la
Parola: un Re che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero
bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi
dei suoi sudditi; un re che svalorizza il potere umano, invitando tutti
indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”,
li esorta con “amatevi gli uni gli altri”; un Re contestato e deriso, un Re
sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re
senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che per essere
identificato ha bisogno di un cartello, un Re senza potere se non quello
devastante dell’amore. Che c’è di “regale” in tutto questo?
C’è poi
la figura di questo giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono
per valutare, premiare e condannare: e, guarda caso, lo fa proprio nei
confronti di coloro che Lui stesso ha talmente amato da offrire la propria vita
per loro morendo sulla croce.
Potrebbe
dunque sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona
conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa di “Cristo, Re
dell’universo”, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo,
una verità fondamentale: che Gesù - per noi eletti, noi figli, noi sua Chiesa -
rappresenta veramente tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del
Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è
il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e
senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero nascosto nei
secoli.
Dire
che Cristo è “sovrano” della nostra vita, significa riconoscere che solo in lui,
con lui, per lui, ha un senso il nostro percorso di vita e di fede.
Ecco
perché, alla fine dell’anno liturgico, è molto consolante ribadire con forza,
tutti insieme come Chiesa, questa nostra convinzione, perché siamo stati noi
che lo abbiamo eletto tale, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi a
volere che fosse Lui a guidare la nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a
volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.
Quindi,
nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e
misericordioso” e insieme un “Re giudice, giusto e inflessibile”; un re che
Verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra
coerenza su quanto gli abbiamo promesso: in una parola, se siamo stati o no
all’altezza del suo amore, donando anche noi amore agli altri.
Gesù
durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato”; e non lo farà neppure
allora. Dio non giudica, Dio “svela”. Dio cioè rivelerà davanti a tutti quello
che noi abbiamo tenuto nascosto, quello che volutamente abbiamo lasciato
nell’ombra, nell’incompiuto.
Il suo “giudizio”,
il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà quindi semplicemente nel
rendere pubblica, nello svelare la reale situazione di ciascuno, nel portare
tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro
cuore; nulla potrà più rimanere ancora nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto “apparirà”
nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato.
E
ognuno saprà da solo, senza bisogno di sentenze, se andare alla destra o alla
sinistra del Re.
Ma in
base a quale “codice” verrà valutata la nostra fedeltà? Il vangelo di Matteo elenca
in proposito, con una insistenza quasi puntigliosa, una serie di “situazioni”, come
avere fame, avere sete, essere forestieri, nudi, malati,
carcerati; situazioni tutte che prevedono “azione”, che esigono cioè da
parte nostra un intervento reale, che non si ferma alle belle parole, ma che è azione,
interessamento, preoccupazione. In una parola, significa mettere concretamente a
disposizione del prossimo il nostro amore.
È
questo il “tesario” su cui alla fine saremo esaminati: non ci verranno richieste
grandi azioni, eroiche imprese, perlopiù impossibili, ma piccole cose, una buona
parola, una fraterna condivisione, uno slancio di carità, un sostegno morale…
Qualunque cosa, purché non rimanga un vago desiderio, perché “tutto quello
che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a
me”.
È questo
l’unico elemento su cui poggia il verdetto finale, lo stare alla destra o alla
sinistra del Re: l’aver fatto tutto personalmente a Lui.
Una
domanda accorata però sgorga a questo punto da entrambe le schiere: chiedono
una spiegazione: “Quando Signore? Quando mai ti abbiamo incontrato?
Già, “quando?”.
Nessuno di loro se n'era mai accorto della sua presenza; nessuno aveva mai capito
di aver avuto davanti a sé non delle persone bisognose, ma Dio stesso in
persona! Non ci avevano mai pensato. Sì, perché Dio non è visibile a occhio
nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è in incognito, è misterioso: e
quindi tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato senza
rendersene conto: gli uni amando la persona hanno in lei amato Dio, pur non
vedendolo; gli altri, rifiutando di amare la persona, hanno rifiutato anche
Dio.
Amare Dio,
quando si ama il prossimo, è un amarlo inconsapevolmente, istintivamente. I
santi sono tali proprio perché amando il prossimo amavano Dio, lo amavano senza
sapere di amarlo, senza sapere di ottenere per questo dei meriti divini. Se amassimo
qualcuno, sapendo di ereditare le sue ricchezze, in realtà non lo amiamo, lo stiamo
solo usando per un nostro tornaconto. La stessa cosa succede quando amiamo il
prossimo allo scopo di avvicinarci a Dio, per ottenere da Lui dei meriti! Anche
in questo caso noi “usiamo” qualcuno. L’amore non va mai strumentalizzato,
finalizzato; mai, in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio. Quindi, non “dobbiamo”
amare il prossimo per “amare Dio”; il prossimo, il fratello, va amato per sé
stesso, lo dobbiamo sentire nell’anima, ci deve penetrare dentro, deve toccarci
il cuore.
Una preoccupazione
costante del cristiano è di sapere se Dio gradisce ciò che lui fa, se è
considerato meritevole del paradiso, se la sua bontà gli porta frutto, e via
dicendo.
Ma non
lo saprà mai, perché Dio non è “visibile” in questo mondo, non si dispone di
riscontri immediati: per cui amarlo senza vederlo, amarlo nell’altro, nel
prossimo, nello sconosciuto, nell’uomo della porta accanto, senza sapere di
amarlo, è decisamente molto più difficile e impegnativo.
Questo
è un insegnamento importante del vangelo di oggi: ma il messaggio non si
esaurisce qui: lo stesso impegno, la carità, che dobbiamo avere verso il
prossimo, dobbiamo averli anche verso noi stessi; dobbiamo cioè soddisfare,
oltre quelli degli altri, anche i nostri “bisogni”. Sì, perché anche a noi succede
spesso di sentirci affamati, assetati, bisognosi di nutrirci, di abbeverarci.
Chi di
noi, infatti, non ha fame d’amore? Chi di noi non ha sete di dolcezza? Chi di
noi può dire: “Io basto a me stesso! Non ho bisogno di nessuno?”. Solo un idiota,
un pazzo, un esaltato. Ecco perché non va mai sottovalutata la necessità di ottenere
amore, tenerezza, affetto, comprensione; di stare con persone che ci amano, che
ci apprezzano, che ci stimano, che hanno fiducia in noi.
L’amore
è come la ricarica per il telefono, la benzina per l’auto, il cibo per il
corpo. Non se ne può fare a meno. Non possiamo lavorare, faticare, correre in
continuazione, e pensare di poter resistere senza alcuna ricarica.
Ascoltiamo
dunque i bisogni del nostro cuore, della nostra anima: ascoltiamoli
attentamente perché può capitare di sentirci anche forestieri e carcerati;
di sentirci circondati da un mondo ostile, estranei a tutti e a tutto: ed è in
questi momenti, che anche noi abbiamo bisogno di accoglienza, di un consiglio,
di una buona parola, di condivisione.
Invece
spesso ci teniamo tutto dentro. Neghiamo a noi stessi di aver bisogno di aiuto.
Siamo così orgogliosi da scegliere di star male, piuttosto che ammettere la
nostra debolezza.
Se ci
sentiamo tremendamente soli, forse siamo noi che non vogliamo nessuno vicino a
noi. Se talvolta gli altri non ci amano, forse è perché siamo noi che non
vogliamo farci amare! Investire nel nostro orgoglio non ci ripaga mai.
Se poi ci
guardiamo allo specchio dell’anima, può succedere di vederci completamente nudi,
indifesi, di vederci cioè realmente per quelli che siamo, al di là di tutte le
maschere e i camuffamenti con cui ci travisiamo, e ci assale un senso di
rifiuto per noi stessi. Non ci vorremmo così; ci vorremmo diversi; ci vorremmo
migliori; vorremmo non vivere certe esperienze, non seguire certe iniziative.
È
difficile, ma dobbiamo accettarci così, capire che dobbiamo fare i conti con la
nostra fragilità, che possiamo spiritualmente ammalarci e avere bisogno di
aiuto; che in questi casi dobbiamo ricorrere a qualche “medico”, che illumini
le nostre ombre: sì, perché quando il nostro cuore si irrigidisce, quando si rifiuta
ad aprirsi, abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra mente insiste
nella ripetizione maniacale di certi schemi, allora abbiamo bisogno di un “medico”;
quando la nostra anima non riesce più a vivere, a gioire, a stupirsi, abbiamo
bisogno di un “medico”; quando la nostra coscienza fa fatica a perdonarci, soprattutto
allora abbiamo bisogno di un “medico”. Non possiamo vivere prescindendo da Dio
e di risolvere tutto da soli. Non possiamo pensare di essere onnipotenti e di
bastare a noi stessi. Non possiamo essere così stupidi da pensare di non aver alcun
bisogno di Dio.
È una
faccenda seria: perché alla fine dei tempi, davanti a Cristo, Re dell’universo,
dovremo dare spiegazioni sulle nostre scelte, sulle nostre decisioni, sull’intera
nostra vita.
Con quale risultato definitivo? “I maledetti al supplizio eterno, i giusti alla vita eterna!”. Non c’è alternativa.
La
nostra messa domenicale, non può, non deve, a questo punto, esaurirsi in
Chiesa: deve continuare fuori, nella vita quotidiana. Perché solo così la
preghiera, l'eucarestia, la confessione, diventano strumenti di comunione e di
amore con e per Cristo e tra di noi; solo così potremo fare della nostra vita
il luogo della carità. Nel lavoro, nello studio, a scuola o all’università, nei
lavori di casa o in ufficio, per strada, a piedi o in macchina: è qui che noi
ci salveremo. Ma solo, e sottolineo solo, se sapremo portare il nostro amore dall’interno
all’esterno, dal vicino al lontano, se sapremo
riconoscere il volto di Cristo nel volto di chi incontriamo ogni giorno.
Viviamo
così e non preoccupiamoci d’altro. Ma viviamo così da subito, immediatamente;
perché in quel giorno, che arriverà all’improvviso, non avremo più tempo per
far nulla, “actum est”, tutto sarà già compiuto: e solo se avremo amato Dio veramente,
se saremo diventati trasparenza della sua misericordia, testimoni credibili del
suo amore, verremo accolti tra le braccia di Cristo, nostro Re e Signore. Amen.