«Non
pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per
abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17-37).
Un
vangelo all’apparenza contraddittorio quello di oggi. Dapprima sentiamo Gesù
che conferma in pieno la validità della Legge antica, e subito dopo lo sentiamo
puntualizzare, mettere dei paletti, introdurre delle vere e proprie rettifiche.
Ma nessuna
contraddizione in ciò: lo dice Lui stesso: “sono venuto per dare compimento”,
sono venuto cioè a dare alla Legge il suo autentico significato.
Gesù va
ben oltre l’osservanza formale della legge. Ad un certo punto sembra spazientirsi
e dire: “Basta, così non si può più andare avanti. Il vostro rapporto con Dio
non può continuare a basarsi soltanto sull’osservanza esteriore e materiale
della Legge; non potete riempirvi la bocca dicendo: Noi siamo ebrei, noi
siamo figli di Abramo, noi siamo il popolo dell’Alleanza, e poi fate come
vi pare. Non potete più giustificarvi dicendo che ciò che fate è volontà di
Dio, parola di Dio, quando Dio in realtà non c'entra proprio per nulla”.
Per
questo precisa: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e
dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”; era noto infatti che la
maniacale osservanza della legge da parte degli scribi e dei farisei, la loro giustizia,
il loro modo di intendere Dio, era tutta una costruzione fittizia, un comportamento
puramente legalista, apparente.
A quel
tempo tutti pensavano che ogni cosa prevista dalla Bibbia, dovesse essere eseguita
a tutti i costi: “se la Legge dice così, si deve fare così!”. Gesù invece dice:
“No, neanche per sogno! Non dovete essere “ottusi”, non dovete preoccuparvi
solo di quello che è scritto, ma del perché è scritto; dovete capire cosa
Dio vuole da voi, e lo capirete soltanto se è l’amore che vi guida, se le
vostre azioni sono mosse dalla carità, dalla retta intenzione, dal totale
coinvolgimento della vostra anima, non certo obbedendo meccanicamente a degli
ordini, senza sapere perché, senza alcuna convinzione, senza alcun
coinvolgimento.
Anche i
cristiani, purtroppo, ragionano talvolta con la stessa mentalità antica. Quante
volte ci nascondiamo anche noi dietro le “regole”! “Io vado in chiesa tutte le
domeniche, osservo i precetti, mi comporto da bravo cristiano, rispetto il
prossimo, trovo simpatia per il Papa, per la Chiesa ecc.; insomma sono un
cristiano in regola!”. E quando diciamo così, ci aspettiamo ovviamente che ci
dicano: “Ma che bravo!”.
Solo che
non siamo “bravi” per niente! Ci comportiamo così solo per nostra
soddisfazione, per sentirci superiori, rispettabili, additati come esempio;
facciamo le cose solo superficialmente, meccanicamente, “per sentirci a posto”,
a scanso di eventuali “sorprese” (non si sa mai!).
Siamo
dei bravi “osservanti del catechismo”, ma non siamo dei bravi cristiani. Perché
nel nostro “fare”, nel nostro “rispettare” la legge di Dio, non c’è Amore, non
c’è Dio, ma ci siamo soltanto noi stessi.
Amare
gli altri a comando, significa non amare, essere vuoti, sterili; significa non
aver nulla di speciale da donare; significa avere un cuore gelido, arido.
Significa insomma rinunciare alla Vita.
Questa è
dunque la “legge nuova” di Gesù: Egli non abolisce l'Antica Alleanza, ma la
porta al suo autentico e profondo significato. La fa passare cioè
dall'esteriorità (sono fedele a Dio perché osservo i suoi precetti)
all'interiorità (sono fedele a Dio perché lo seguo per amore, vivo nell'amore).
Non cancella la legge dei padri antichi, ma rompe definitivamente con quella
loro mentalità che si fermava al “fare”, all’obbedire passivamente, al
considerare obbligatorie certe usanze assurde, improponibili già ai suoi tempi;
insomma egli condanna non la legge, ma una sua interpretazione falsa, stupida,
artificiosa, senza senso.
Del
resto le leggi, come tutte le cose, possono evolvere nel tempo. Gesù non dice:
“Abramo, Mosè e gli antichi, hanno sbagliato”. Anzi loro sono stati molto
importanti per il loro tempo; ma oggi noi conosciamo cose che una volta essi non
conoscevano; oggi noi abbiamo capito che Dio non è un giudice inflessibile che ogni
qualvolta sbagliamo immancabilmente ci punisce; abbiamo capito che Dio non è una
esclusiva di pochi, di un popolo, ma è il Dio di tutti, del mondo intero;
abbiamo capito che Dio è amore, misericordia, compassione, tenerezza per tutti,
anche per le donne, per i bambini, per gli esclusi, i lebbrosi, i peccatori. Tutto
questo loro non lo sapevano, e quindi non possiamo giudicarli per questo.
Teniamo il buono e lasciamo ciò che non è più buono. Non rimaniamo attaccati
alle regole: le regole sono fatte per l'uomo e non l'uomo per le regole (Mc
2,27). Le regole servono per vivere, ma quando diventano contrarie alla
vita, non servono più e devono essere rinnovate, corrette, sostituite.
Sono i valori
che durano per sempre; al contrario le regole, che servono solo a realizzare, a
mettere in pratica i valori, possono sempre cambiare.
Noi
insomma non dobbiamo lasciarci condizionare dalle apparenze, dal lato esteriore
che è sempre mutevole, o dai “si è fatto sempre così”. Dobbiamo andare in
profondità, dobbiamo agire sempre coerentemente con la nostra coscienza.
Dobbiamo, come dice Gesù, essere uomini liberi, uomini franchi e veri. Non
dobbiamo lasciarci vivere nei compromessi, nei doppi sensi, nella ricerca egoistica
del nostro “star bene”, costi quel che costi; dobbiamo avere il coraggio di
difendere i nostri ideali, i nostri programmi, le nostre azioni; non
nascondiamoci dietro a fantasie passeggere e inutili.
Anche a
costo di andare controcorrente. Quante volte invece abbiamo il terrore di
esporci! Quante volte cerchiamo di eludere le nostre vere responsabilità!
Ebbene, dobbiamo avere il coraggio di uscire allo scoperto, di parlare
francamente, di comportarci da “cristiani”, da uomini e donne di fede: il nostro
parlare, come ci insegna Gesù, deve essere “sì, sì; no, no”. Il “politichese”
non è il linguaggio di Cristo. Amen.
“Voi
siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo…” (Mt 5, 13-16).
Il
vangelo di oggi ci chiede di essere sale e luce: due elementi con effetti completamente
diversi: il primo dà gusto e non si vede, la seconda invece non ha gusto ma è
visibilissima e percepibile da tutti. Che vuol dire? Che dobbiamo essere
nascosti, invisibili, ma assolutamente necessari e riscontrabili.
«Voi
siete il sale della terra». La
“terra” è la vita di tutti i giorni: cosa vuol dire allora essere sale, senso,
sapore, di questa terra? Vuol dire aiutare le persone a trovare il significato,
il senso della loro vita, il senso di ciò che accade.
Dobbiamo
in altre parole insegnare ai fratelli a riflettere su ciò che vivono, a farsi
delle domande, ad ascoltare Dio che parla al loro cuore, sempre e in
continuazione.
Co
me? Attraverso
i fatti, gli eventi e gli incontri di ogni giorno. Quante persone si chiedono
continuamente: “Ma dov'è Dio?”. Dicono così perché non lo sentono, perché pensano
che Lui se ne stia altrove, a farsi i fatti suoi, mentre noi dobbiamo
arrangiarci quaggiù.
Ma non è
così: perché Lui, al contrario, ci è sempre vicino, ci parla e ci educa
continuamente. Noi allora, sale e luce, è questo che dobbiamo far capire alla
gente; dobbiamo ridare loro il gusto, la conoscenza della vita.
La
parola sapienza, dal latino “sapio”, vuol dire “assaggiare,
gustare”. Diventeremo saggi, sapienti, se sapremo “gustare” la nostra vita, se
sapremo cioè imparare dalle nostre esperienze. Tutto insegna o nulla insegna:
dipende da noi. La vita è una grande scuola per chi vuole imparare. Ma solo per
chi lo vuole.
“Voi
siete la luce del mondo”.
Quella luce che abbiamo ricevuto da Dio, dobbiamo irradiarla intorno a noi,
dobbiamo trasmetterla ai nostri fratelli. “Dio”, la vita, in sanscrito vuol
dire infatti anche “luce”. È Dio, allora, la luce che dobbiamo riflettere in
noi e sugli altri.
Tutto
l'universo sembra materia ma, come ci insegna la fisica quantistica, tutto è
luce, energia. Noi anche quando ci sentiamo impastati nella materia,
potenzialmente siamo sempre luce, perché in noi abita lo Spirito di Dio, perché
siamo anima, siamo emozione, siamo “divino”, siamo energia, forza, fuoco, canto,
musica.
Se non liberiamo
lo Spirito, non ci sarà luce nella nostra vita, non ci sarà luce nel mondo.
“Siete
sale, siete luce”. Le parole di Gesù sottendono sempre
una ricca trama simbolica, hanno sempre la capacità di dire grandi cose con parole
semplici, facendo riferimento alla concretezza della vita.
Ogni
volta che ci avviciniamo ad esse, immancabilmente ci rendiamo conto che non c’è
distanza tra il mistero del Regno che esse ci annunciano e i piccoli eventi
quotidiani della nostra vita: perché ogni cosa ci parla del mistero di Dio, anche
nei momenti più difficili: come per esempio accorgersi che la società in cui
viviamo sta toccando veramente il fondo.
Inutile
fingere che tutto vada bene: stiamo purtroppo vivendo un cristianesimo senza
Cristo, una religione senza fede, un culto con celebrazione aride, senza vita.
Sono
realtà, quelle in cui viviamo, che ci devono obbligare a riflettere seriamente.
“Siete
sale, siete luce”.
In questo momento drammatico della storia, dobbiamo riflettere seriamente sul
compito che, come cristiani, dobbiamo svolgere in questo nostro mondo: un mondo
che inconsciamente si aspetta dai noi una concreta risposta (sale), e una chiara
indicazione (luce), una testimonianza insomma, che ridia alla gente speranza e
ragioni spirituali per ricostruire un’esistenza più umana.
Essere
luce e sale, in questo contesto, è un compito che ci fa trepidare, soprattutto
se guardiamo alle nostre debolezze, alle nostre infedeltà che ci rendono tanto
spesso opachi, pieni di ombre, assolutamente insipidi.
Sì,
perché essere luce del mondo e sale della terra equivale
a dimostrare che il nostro cristianesimo non è affatto sterile e passivo, ma al
contrario dinamico, entusiasta, intraprendente: in una parola è vita intrisa di
gioia e di esultanza, perché vissuta in Cristo.
Grazie a Dio abbiamo ancora tante
persone che vivono questo tipo di vita esemplare: persone che per la propria
carità, per il proprio altruismo senza limiti, si conquistano la fiducia dei
poveri, dei bisognosi, degli emarginati. Sacerdoti, religiosi, uomini e donne
consacrati, laici, che vivono nell’umile servizio della carità. Persone che
troviamo negli ospedali, nelle case, nelle scuole, nell'industria. La loro
carità, nonostante i loro limiti personali, è illimitata.
Ecco: se da un lato, dobbiamo
aprire i nostri occhi a queste realtà e scoprire quanto di buono e di bello c’è
ancora nel mondo, dall’altro dobbiamo tutti sentirci interpellati, dobbiamo tutti
sentirci impegnati, nessuno escluso, perché tutti siamo stati chiamati per nome.
Dobbiamo renderci conto che la nostra
vocazione di cristiani è l'amore e che, quando non amiamo, perdiamo ogni nostra
brillantezza, cadiamo nel buio, e trasmettiamo solo tristezza e disperazione.
Davanti alla prospettiva di un mondiale
black out di Dio, dobbiamo prendere in mano la situazione, e chiedere a Dio
nuovo vigore, nuova luce, nuovo entusiasmo per combattere con la nostra umile
azione l’oscurità che incombe. Non altrove, non in terre lontane, ma attorno a
noi, nella nostra famiglia, nel lavoro, nelle nostre comunità, nella società
civile in cui viviamo: perché è qui che dobbiamo essere fermento di vita
cristiana, operatori luminosi di amore cristiano. Ogni giorno, ogni minuto che
lasciamo passare per egoismo, pigrizia, orgoglio, indifferenza, è un giorno
perso, un'occasione mancata. Al contrario, ogni atto di amore, di carità che doniamo
all’altro, è ossigeno vitale per lui, per noi, per la società, per il mondo;
perché solo così siamo sale, luce, vita, Spirito, immagine e somiglianza di
Dio.
Amen.
“Ecco,
egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di
contraddizione…”
(Lc 2,22-40).
Il
popolo ebraico era vincolato, a proposito di neonati, da due tra le più antiche
prescrizioni della legge: la purificazione della madre (Lv 12) e il
riscatto del figlio primogenito (Es 13,1-2). La prima prescriveva che,
dopo la nascita del bambino, la madre, trovandosi in uno stato di impurità, non
doveva toccare alcuna “cosa santa” né entrare nel santuario. Solo dopo i
quaranta giorni previsti dalla legge, la coppia saliva al tempio per consentire
alla donna di purificarsi, offrendo in sacrificio a Dio, un agnello oppure un
colombo o una tortora.
Fatto questo, i genitori dovevano
quindi “riscattare” il loro bambino, se primogenito, poiché fin dalla nascita
egli era esclusiva “proprietà” di Dio.
Maria e Giuseppe dunque, pur con
tutto quello che in precedenza avevano visto e vissuto nel loro cuore, adempiono
fedelmente quanto previsto dalla loro Legge religiosa: ed essendo poveri, e non
potendo offrire un agnello, portano con sé soltanto un paio di tortore.
Finita però la prima parte del
rito, appare improvvisamente sulla scena un personaggio strano: un certo
Simeone, un uomo che Luca definisce “giusto e timorato di Dio”, uno che era abitato
dallo Spirito santo; quindi doveva essere un profeta che abitava nel tempio,
non un sacerdote, poiché di essi nessun testo dice che avessero un rapporto con
lo Spirito Santo; Simeone non è quindi un uomo addetto al culto, ma un
sapiente della Vita.
I “genitori” di Gesù, per
riscattare il loro primogenito, cercavano un uomo della Legge; incontrano
invece un uomo dello Spirito di Dio, le cui parole non contengono alcuna
prescrizione o regola, ma al contrario sono parole piene di vita.
Per questo Maria e Giuseppe
rimangono ancor più impressionati: già i pastori avevano parlato di un
“salvatore” (Lc 2,18), già l’angelo aveva annunciato a Maria che il suo
sarebbe stato il Figlio dell’Altissimo (1,32); adesso quest’uomo lo
definisce “luce nata per illuminare le nazioni”, con un compito tremendo:
sarà “segno di contraddizione, rovina, e resurrezione per molti in Israele”.
Sono andati al tempio per
incontrare un sacerdote che purificasse la madre, invece trovano quest’uomo che
annuncia a gran voce che il loro bambino ha la missione di “purificare”
Israele.
Gesù cioè sarà per molti la “pietra
d’angolo”, la pietra su cui costruire, su cui piantare le basi della
propria vita; mentre per molti altri sarà “pietra di scandalo”, ossia la
pietra contro cui inciamperanno le loro infedeltà, la pietra che li farà cadere
a causa dell’arroganza delle loro scelte di vita.
Seguire Gesù, dunque, non si
prospetta come una cosa semplice, indolore. La sua non è una strada piana,
dritta, ombreggiata, con fontanelle d’acqua e panchine dove riposare, un cammino
pieno di “vogliamoci bene” e di “amiamoci tutti”. Gesù ci mette al contrario
davanti a scelte difficili, a bivi oscuri, a cadute e rotture frequenti, a
verità dure da accettare, destinate a trasformare radicalmente la nostra vita;
ci mette di fronte a noi stessi, alla nostra coscienza, alle nostre responsabilità,
alle quali non possiamo sfuggire. Non ci lascia sonnecchiare tranquilli; il suo
è un cammino continuo di liberazione, di guarigione, di apertura, di
smascheramento: è per questo che il suo Vangelo è Vita per alcuni, morte
per altri.
Simeone predice tutto questo a
Maria, le preannuncia sofferenze tremende; anche se non le chiarisce il motivo,
le conferma comunque la terribile conseguenza; e lei ascolta, serenamente aperta
al suo futuro; accetta umilmente le parole di Simeone, anche se non capisce
cosa volesse veramente dirle, e conserva “tutte queste cose, meditandole nel
suo cuore”.
Pur non capendo, è sempre
disponibile ad accogliere il messaggio di Dio, aderendo in tutto e per tutto
alla sua volontà.
Maria non arriverà a capire neppure
suo figlio; però lo seguirà sempre e comunque, con trepidazione, con
semplicità, con discrezione, con assoluta fiducia.
In questo sta il grande “merito”
di Maria: di passare volontariamente e silenziosamente dal ruolo di madre
a quello di discepola.
L’intimità nata a seguito di questo
nuovo rapporto con suo Figlio, le offre una unione ancor più intima con Lui,
una sintonia perfetta e inattaccabile con il Suo cuore e con il suo sentire. Sarà
infatti questo legame, questo suo ruolo di madre e discepola, vissuto
concretamente nel suo cuore, che le consentirà di seguire Gesù fino in fondo,
fino ai piedi della croce, sul Golgota.
La spada che trafiggerà
Maria non sono le sofferenze naturali di una madre nei confronti di suo figlio:
preoccupazioni, ansie, timori, aspettative non accolte, ecc. La spada tagliente
per Maria è stata capire che era più importante seguire suo Figlio come
discepola che come madre, dover cioè rinunciare a quel legame di
sangue, unico, profondo, indissolubile, che unisce la madre al proprio figlio.
Maria, per seguire Gesù, ha dovuto spogliarsi completamente del suo privilegio di
madre.
Questo era quanto intendeva dirle
Simeone, il giorno della “presentazione” di Gesù al Tempio.
Ma a noi, cosa dice questa
ricorrenza? Cosa significa, per noi oggi, “presentazione al tempio”? Beh,
sicuramente significa “offrire” i nostri figli a Dio; ma non basta farlo una
volta sola, all'inizio della loro vita, col battesimo; bisogna poi continuare a
seguirli, educandoli nella fede. Bisogna crescerli nella fede. Bisogna
irrobustirli nella fede. Perché i genitori sono i primi evangelizzatori dei
propri figli: non tanto con raccomandazioni e prediche noiose e ripetitive, ma
con l’esempio, con le piccole attenzioni, inculcando loro le virtù cristiane,
rispondendo alle loro domande, vivendo loro stessi una vita coerente con la
loro fede.
Presentare i figli al Signore,
significa anche accettare che crescano fedeli a Dio ma nella libertà delle loro
scelte, magari attraversando anche dei naturali periodi di allontanamento e di crisi.
Uno santo prete diceva: “Quando
non si può più parlare ai figli di Dio, è il momento di parlare a Dio dei
figli, cioè di pregare in continuazione per loro”.
Quella
di oggi, poi, è una festa che ci ricorda di mettere in conto, di accettare
anche noi, con lo stesso spirito di Maria, le trafitture della famosa “spada”:
perché, lo sappiamo bene, “servire” Cristo alla luce del suo Vangelo, con una
vita generosa e fedele, richiede scelte talvolta dolorose, inevitabili, che
possono ferire profondamente il cuore e l’anima; ferite che sono comunque
necessarie per crescere, maturare, progredire.
Oggi al mondo non interessa più sapere che Gesù è la
luce di Dio, la sola che può illuminarci con la sua verità pura e santa. E non
lo sa perché i cristiani, nonostante siano stati costituiti profeti di Cristo nel Battesimo
e suoi testimoni “illuminati” nella Cresima, preferiscono tacere, non parlano,
sono divenuti tutti muti e indifferenti. Anzi, spesso prestano la loro voce al
coro che è a Lui contrario, oscurando così la sua mediazione di grazia, verità,
giustizia e redenzione, indispensabili per la nostra santificazione e la vita
eterna. Amen.
“Convertitevi,
perché il regno dei cieli è vicino”.
(Mt 4,12-23).
Venuto a
conoscenza dell’arresto di Giovanni, Gesù abbandona Nazareth per rifugiarsi
nelle zone più a nord della Galilea, precisamente a Cafarnao, sulla riva del
Lago di Genesaret, nei territori di Zabulon e Neftali, abitato dalle omonime
tribù di Israele. Un territorio di frontiera che i puri di Gerusalemme a quei
tempi guardavano con molto sospetto, luogo in cui si mischiavano credenze e
riti, culture e lingue, luogo imbastardito, meticcio, perduto. Basti pensare
che proprio da quei territori proveniva il movimento estremista degli zeloti, e
che dare del “Galileo” a qualcuno equivaleva definirlo “terrorista”.
È
proprio da questo luogo che Gesù inizia la sua predicazione, dai confini della
storia.
Dio è
sempre così, preferisce i lontani, quelli con una vita difficile, a quelli che
vivono tranquillamente, senza grossi problemi: Gesù preferisce abitare e
condividere tutto con queste persone, ad esse egli porta la luce, dona
testimonianza.
È un
primo segno molto importante per noi, per noi Chiesa: perché, come Gesù, anche
noi dobbiamo uscire dalle nostre case, dalle nostre chiese, portando e
testimoniando al mondo il Dio con noi; perché Lui è stanco di rimanere solo,
abbandonato nei tabernacoli, di non riuscire ad inserirsi nella nostra società,
nella vita quotidiana di tutti; è stufo di essere tirato in ballo nei momenti e
nei luoghi “sacri” e di essere estromesso dai luoghi dell’economia, della
politica, del divertimento, della cultura.
Ecco
allora che il motivo per cui noi cristiani ci raduniamo ogni domenica per celebrare
la vittoria pasquale di Gesù, deve essere quello – una volta usciti di chiesa –
di annunciare e testimoniare Cristo nel quotidiano, nel vissuto, nella “realtà”
di ciascuno!
Per
poter fare ciò, dobbiamo però, prima di tutto, realizzare in noi la
conversione.
“Convertitevi!”
è infatti l’invito bruciante che ci raggiunge oggi: “Convertitevi perché il
Regno si è fatto vicino”. Cosa significa? Che è il Regno di Dio che si è
avvicinato, indipendentemente da noi: in pratica è stato lui, Dio, che ha preso
l’iniziativa; ora spetta a noi seguirlo, “convertendoci”, facendo cioè inversione
di marcia nella nostra vita.
Dio ci
aspetta: non intende rimproverarci, farci qualche bonaria paternale, per farci
pentire e cambiare vita. Nossignori: È Lui che per primo, si mette in gioco, si
offre, si dona incondizionatamente, rischia tutto. In pratica ci dice: “Io ti sto
vicino, come fai a non accorgertene? Datti da fare, seguimi!”. Ovviamente, per
seguirlo, dobbiamo recuperare l’essenziale, dobbiamo mollare il “superfluo”, le
innumerevoli cose inutili che ci affannano la vita: come hanno fatto Pietro, Andrea,
Giacomo e Giovanni che, alla chiamata di Gesù, abbandonano all’istante quanto
stavano facendo, e accettano di diventare “pescatori” di uomini.
“Convertitevi!”:
è dunque l’ordine secco, perentorio, di Gesù, sullo stile del Battista.
Non sono
ammessi rinvii: dobbiamo farlo ora e subito; dobbiamo cioè, all’istante,
metterci in discussione, cambiare mentalità, buttare via le certezze
ingannevoli, per cercare Lui, la Verità che non inganna.
Non
dobbiamo temere le prove, di subire sconfitte e delusioni: perché è proprio nel
momento in cui il nostro piccolo mondo crolla, in cui le nostre aspirazioni, i
nostri progetti umani cadono in frantumi, che Dio trova in noi il terreno
ideale per realizzare il suo progetto.
Quando
cadono le sicurezze umane, è l’ora della sicurezza di Dio, perché Dio ci
aspetta là, sulla strada della sconfitta del nostro “ego”, della nostra
presunzione: è infatti quando viviamo nell’umiltà, nella consapevolezza del
nostro essere niente, che avviene l’incontro con Lui, l’unico Signore della
nostra vita.
Purtroppo,
oggi più che mai, è difficile capire il significato, la portata, le conseguenze
di questo “convertitevi”: siamo troppo legati alle inutili prospettive del
mondo: ma solo accettando l’invito di Gesù, fidandoci di Lui e “cambiando
strada”, potremo scoprire un nuovo panorama, una vita completamente diversa,
quella del Regno di Dio, ricca, intensa, profonda.
E ci
diremo: “Come ho fatto a non accorgermi fino ad oggi di questa meraviglia?
Eppure Dio mi era sempre vicino!”.
Allora capiremo
anche che quel “convertitevi” è una cosa seria, che non ha nulla a che fare con
l’assumere un comportamento di facciata, nulla a che vedere con i soliti esercizi
pietistici, con invocazioni di comodo, espresse a voce alta, più per farci
sentire dai vicini che da Dio. “Convertirsi”, al contrario, vuol dire: “Accorgersi
che è arrivato il momento di cambiare radicalmente vita!”; “di rendersi conto
sul serio che Dio, nella sua bontà, ci vuole vicini a Sé”: e da quel momento, chi
si convince di ciò, non potrà mai più essere lo stesso.
Purtroppo
oggi la gente è assorbita completamente da altri problemi: a nessuno viene in
mente di cambiare uno stile di vita comodo, rilassante, che offre gioie,
divertimenti, benessere, con un altro che, al contrario, gli impone autocontrollo,
altruismo, carità, dedizione per gli altri, fedeltà alla legge di Dio. Cambiare
il “pensare solo a sé stessi” con “preoccuparsi per gli altri,
per i poveri, per i meno fortunati”, è una scelta che fa paura, che
terrorizza. Significa lasciare ciò che siamo, per diventare ciò che dovremmo
essere: un andare verso l’ignoto, verso ciò che non conosciamo e che temiamo.
Per farlo bisogna fidarsi ciecamente di Dio. Invece siamo purtroppo dei “malfidati”,
dei diffidenti in tutto. E preferiamo continuare per la nostra strada.
D’altro
canto, se ci guardiamo intorno, quello che vediamo non è che ci rassicuri
molto: c’è gente che va puntualmente in chiesa da una vita, rimanendo poi sempre
uguale: anzi, “siamo” sempre uguali! Perché anche noi ci comportiamo così! Magari
ci ammantiamo di bontà e opere buone, cerchiamo di apparire persone pie e
caritatevoli ma, in fondo, siamo sempre i soliti calcolatori! Una domanda
allora dovremmo porci: “A che mi serve frequentare tanti gruppi di preghiera e
di spiritualità, se poi in pratica non cambio mai?
Succede
purtroppo che siamo convinti di cambiare, ma al contrario noi, il messaggio di
Gesù, invece di attuarlo, di metterlo in pratica, noi lo razionalizziamo, lo
teorizziamo.
Leggiamo
trattati di teologia, partecipiamo a corsi di approfondimento, a settimane di
spiritualità, siamo assidui frequentatori della Chiesa e della Parrocchia,
siamo ottimi parlatori, sempre interessanti e ammirati nelle nostre
esternazioni, ma… è solo una grande illusione, siamo solo una maschera
imbellettata e basta. Preferiamo adattarci e dissimulare, perché cambiare
veramente è difficile, è doloroso, fa paura. Preferiamo darci a Dio sempre “con
riserva” (il che equivale a non darsi). Facciamo “qualcosina” per Lui, ma mai
“troppo” per non lasciarci coinvolgere completamente. Ci rifugiamo nelle scuse
del lavoro, degli impegni di casa, dell’ufficio, dei figli ecc. per crearci un
alibi; tutto serve per sottrarci al compito fondamentale di aver cura della
nostra vita interiore, della nostra anima, di noi, del nostro spirito.
Non accontentiamoci
di essere semplici consumatori di culto: l’apostolato cristiano non è una gara
vanitosa a chi fa di più: ad avere la Chiesa più piena, le cerimonie più belle,
il coro più intonato, ma è soprattutto una “vita” nuova: la vita della
carità, nell’apertura e nell’ascolto di tutti; è la vita di Dio in noi, nelle
nostre famiglie, nelle nostre comunità. Se la nostra vita pastorale, le nostre
opere, non nascono dalla carità vissuta, sono fatiche a vuoto, non servono a
nulla: sono gesti sterili che non porteranno mai dei frutti perché sono
separati da Dio.
Soltanto
su queste premesse potremo far parte dei “chiamati”.
Viviamo,
dunque, soprattutto nella carità sincera, nell’amore vero: perché questo è
quanto Gesù vuole da noi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni
gli altri, come io vi ho amato. Tutti sapranno che siete miei discepoli, se
avrete amore gli uni per gli altri”. Amen.
“Ecco
l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” Gv 1, 29-34
Siamo
all’inizio del “tempo ordinario”, tempo liturgico che è un invito forte a
costruire la nostra “ferialità”, non nelle banalità, ma nella novità introdotta
col Natale. È infatti nello scorrere quotidiano e feriale dei nostri giorni che
dobbiamo vivere lo stupore dell’Emanuele, del Dio-con-noi, che dobbiamo vivere
la novità e la bellezza del Volto di Dio: un tempo in cui costruire e adeguare
la nostra “somiglianza” a quella “immagine” di Dio, che Egli stesso ha impresso
nell’uomo creandolo, e che Gesù, umanizzandosi, ci ha rivelato.
Il
Vangelo di oggi ci ripropone ancora una volta la figura di Giovanni, il
battezzatore: non il solito burbero e scontroso profeta penitenziale, ma un
Battista vinto dall’evidenza, più dolce, più umile che, in veste di testimone
oculare, addita ai presenti il personaggio chiave della umana redenzione,
rivelandone pubblicamente la vera identità: l’«agnello di Dio che toglie il
peccato del mondo».
Una
definizione solenne e plastica, che contiene l’assoluta e sbalorditiva novità
di Gesù, vittima sacrificale: una novità che il Battista, senza tanti
preamboli, mette subito in chiaro davanti ai nostri occhi.
A
differenza della tradizione ebraica, secondo cui è l’uomo che si deve offrire a
Dio attraverso varie forme di sacrifici cruenti, il Battista ci presenta qui un
Dio che capovolge completamente le parti! È Lui – Dio – l’Agnello, la vittima
che si immola per noi, che si dona e si consegna. Un’autentica rivoluzione, uno
stravolgimento di valori che introduce nuove verità: l’uomo non deve
conquistare nulla, non ha nulla da “meritare”; deve semplicemente accogliere la
mano tesa di Dio come dono, un dono destinato a cambiargli la vita; un potente
antibiotico contro l’innata piccineria umana che pretende l’aiuto e l’amicizia
di Dio come contropartita di iniziative puramente esteriori, senza alcun
coinvolgimento del cuore, e per questo sterili e inutili; sì, sterili e inutili
perché preoccupate più dell’apparire che dell’essere.
Dio non
è un contabile che sta seduto dietro ad una scrivania per registrare e tenere
il conto delle nostre buone azioni e dei nostri sacrifici quotidiani, soprattutto
se fatti senza vero amore.
Ora c’è
un novum fondamentale, un novum che sta proprio qui: Gesù è la
vittima sacrificale; è Lui che affronta la morte “per noi”; è attraverso la sua
vita e il suo morire, che noi scopriamo la commovente verità che Egli è Amore
assoluto; un Amore che supera tutti i nostri peccati, anche quelli più
tremendi.
È
proprio così: Dio è l’Amore fedele nei secoli; e di Lui ci possiamo fidare
completamente.
Quando
guardiamo la croce, noi vediamo la vittima immolata, appesa ad essa: l’Agnello
di Dio crocifisso, Colui che ci libera da ogni schiavitù, da ogni peccato, da
ogni colpa.
Per
quanto possiamo sbagliare nella nostra vita, Dio è più forte del nostro male:
perché Egli è l’Amico, il Guaritore, l’Amore che riempie e consola il nostro
cuore.
Scriveva
Giacomo Leopardi in una lettera al fratello: “Io non ho bisogno di gloria, né
di stima, né di altre cose simili, ma ho bisogno soltanto di amore”. Ebbene, è Dio
che soddisfa in pieno questo bisogno dell’uomo.
Nella
nostra vita di creature siamo soggetti a sofferenze, angosce, malesseri di
qualunque tipo; ma se permettiamo a Lui, creatore, di entrare nel nostro cuore,
di stare con noi in noi, allora capiremo che Lui è un amico, un sostegno, una
nuova forza prorompente; sentiremo il conforto di avere uno che ci ascolta, che
ci sorregge prontamente se vacilliamo, un rifugio sempre aperto in cui sentirci
sicuri e amati. Completamente. E quanto bisogno abbiamo veramente tutti noi di
sentirci amati!
Gesù
è l’agnello che toglie il “peccato”: il “peccato”? Di quale peccato parliamo?
Cosa è oggi ancora peccato? Che importanza diamo al peccato? Che percezione ne
abbiamo? Poca, purtroppo. Anzi pochissima, per non dire nessuna!
D’altro canto, oggi sentiamo
ripetere continuamente che Dio è misericordioso, che ci ama
incondizionatamente, che nulla può interferire con il suo Amore, che è Lui che
ci rincorre, che ci vuole salvare: allora, pensiamo, perché preoccuparci del
peccato? Sissignori: invece dobbiamo pensarci, eccome! Perché anche se l’immagine
del Dio assolutamente misericordioso è vera, non dobbiamo mai dimenticare che
Dio non salva nessuno contro la sua volontà! Per questo non dobbiamo mai abbassare
la guardia, non dobbiamo mai sottovalutare l’importanza delle nostre infedeltà.
Infatti sbagliamo completamente quando giustifichiamo qualunque nostra colpa,
qualunque nostro tradimento, pensando: “Tanto Lui è buono, ci perdona comunque
anche se pecchiamo!” Sbagliamo soprattutto perché non teniamo in alcun conto il
dolore che la nostra ingratitudine provoca nel cuore innamorato di Dio.
Continuiamo
a sbagliare anche quando pensiamo: “e poi, che peccati posso mai fare?”.
Se
esaminiamo la nostra vita alla luce del solo decalogo, forse possiamo anche
sentirci tranquilli: andiamo a messa, non ammazziamo nessuno, facciamo le
nostre elemosine, non bestemmiamo, ecc. Ma abbiamo mai pensato in quanti altri
modi possiamo peccare contro l’infinita bontà di Dio? Per esempio pecchiamo quando
non vogliamo maturare nel cuore, quando non vogliamo crescere spiritualmente,
quando preferiamo restare così come siamo, tiepidi e indifferenti. Pecchiamo
quando, sapendo che c’è un problema col nostro prossimo, facciamo finta di
nulla. Siamo nel peccato quando la vita spirituale non circola più in noi: viviamo
cioè come se fossimo già morti, siamo insensibili, niente ci commuove, niente
ci emoziona, niente ci appassiona. Peccato è ignorare le nostre responsabilità,
non voler conoscere le cose “per non avere problemi”, preferire il buio della
menzogna alla luce della verità. Peccato è non preoccuparci delle tante
infermità, delle tante debolezze, delle tante ferite che non mettiamo nelle
mani di Dio: le lasciamo invece marcire in fondo al nostro cuore, fino ad
infettare il nostro spirito, la nostra anima, fino a corroderla e ad ucciderla.
Peccato,
male, morte è, pertanto, non esprimere pienamente la vita che ognuno ha dentro.
Perché dove c’è vita non c’è morte; dove c’è espressione non c’è depressione;
dove c’è amore non c’è chiusura; dove c’è il bene non c’è il male. Nella vita,
soprattutto, non possiamo accontentarci di “non fare il male”, ma dobbiamo scegliere
sempre di “fare il bene”!
Ogni
domenica, quando andiamo a Messa, sentiamo ripeterci: “Ecco l’agnello di Dio
che toglie il peccato del mondo”. È la voce di Gesù, il Liberatore, che ci
sussurra: “Se vuoi, io vengo per portarti un po’ di pace, un po’ d’amore, di
speranza, di perdono, di serenità. Mi lasci entrare? Mi apri la porta?”: e noi
che facciamo? gli giriamo le spalle e rispondiamo: “No grazie, non mi interessa”?
Fare la comunione non è un
dovere, non è un precetto, non è un obbligo: ma è un riconoscere umilmente di
aver bisogno di Dio, di aver bisogno di coraggio e di forza. La comunione è la
possibilità che abbiamo di far entrare nel buio del nostro cuore un po’ di
luce; di portare nel mondo conflittuale della nostra anima un po’ di pace e di
perdono. È una possibilità concreta che ci viene offerta. Ma allora perché
tanta gente va in chiesa e non fa la comunione? È tanto distratta e indifferente
da non porsi neppure il problema? Non vuole farsi coinvolgere troppo? Crede di
non meritare l’amore di Dio? È difficile capirlo: perché è come andare dalla persona
amata e non darle un bacio, entrare in casa di un amico e non salutarlo. È come
andare ad un pranzo e non mangiare. Perché? Perché rinunciare alla cosa più gustosa,
a quella che dà più energia, a quella più gratificante? Eppure quando teniamo
ad una persona, facciamo di tutto per incontrarla, cerchiamo in tutti i modi di
star soli con lei!
Evitiamo allora, soprattutto, di
pensare che “tanto Dio fa tutto Lui”. “È talmente buono, capirà!”. Nossignori:
nel cammino della fede e della conversione del cuore non è possibile rimanere
assenti, disinteressati, immobili: non ci sono bacchette magiche, né interventi
mistici sostitutivi. L’azione di Dio in noi richiede sempre la nostra diretta
collaborazione, l’investimento di tutta la nostra libera volontà. Siamo noi che
dobbiamo muoverci: siamo noi che dobbiamo scegliere di stare con Lui, di
lasciarci salvare, di guarirci il cuore e l’anima. In una parola siamo noi che
dobbiamo mettere tutto nelle sue mani: che poi è l’unica scelta che non ha mai
deluso nessuno! Amen.
“Appena
battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli
vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed
ecco una voce dal cielo che diceva: Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho
posto il mio compiacimento”
(Mt 3, 13-17).
Anche
Gesù, come una grande moltitudine di persone, segue il Battista; sono
addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il
maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano
per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile
in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma
una volta disceso nelle acque del fiume, ed essere stato battezzato, tutto
cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario,
decisivo.
Quello
che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato
assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di
tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto egli
valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende conto che il “suo”
Dio, che è poi il Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio
intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera
inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c’è motivo di aver paura di
te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto
sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così
che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”,
diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo
sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi
infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da
farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale,
all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Matteo
vuole qui dire, va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di
routine; il suo è invece un tentativo di esprimere una realtà nuova,
inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento interiore
innegabile, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù
da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima
personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di
dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che tutti hanno avuto
modo di percepire:
“Si
aprirono i cieli”, sottolinea
Matteo: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta,
indissolubile comunione, in costante collegamento; e si sono aperti per
rendere possibile qualunque comunicazione.
“Ed
egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba”: non che ci fosse una colomba in
carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di
soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in
grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente sentito
entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante
osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all’inizio della storia del
mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso
però (in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha
funzionato: l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è
il nuovo inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo
nuovo che ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo
Spirito divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il
garante. E - come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di
profeti, di sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù
la particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale,
indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile.
“Ed
ecco una voce dal cielo”:
non si tratta di una voce esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in
preghiera); ma è una voce silenziosa, interiore; ciò che Gesù sente, lo sente
dentro di sé; sono parole rassicuranti, che lo mettono di fronte a se stesso:
“Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio Padre; gli piaccio (si compiace); io
sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto così: sono il suo prediletto, il
suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi ha inviato qui su questa terra,
per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora
non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”.
È
proprio l’assorbimento intimo da parte di Gesù di questi concetti “messianici”,
il suo riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella
sua vita: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio
obbligatorio da superare.
Una vera
e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso
quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice
chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”.
Tutti
noi infatti, chi più chi meno distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una
speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove,
visto che non si tratta di una chiamata tramite cellulare e neppure per “sms”.
Ma per tutti, una tale occasione, è unica, particolarissima, intensa, di grande
intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e
l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un
incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci
rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente
imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da
destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un
qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che
ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e
bello.
Per
inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati,
nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome. Era un modo per
indicare una verità molto più profonda e personale: “da quando ho detto sì alla
tua chiamata, Dio, non sono più io; sono un’altra persona, ho un altro nome”.
Ecco; se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”,
viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere
nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra
umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie,
ostinazioni, perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume;
dobbiamo renderci conto del non fatto, dell’incompiuto, delle occasioni perse,
degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutta
la nostra miseria, con il nostro niente di fatto, con tutte le situazioni
peccaminose e mortali che rendono asfittica la nostra vita cristiana. E
soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo
lavare, lavare e lavare. Dobbiamo tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo
ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno
dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo
Spirito di Dio: a quello Spirito d’Amore che solo ci può consigliare,
confortare, amare, proteggere.
Guai
a noi se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere
delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano;
guai a noi, perché così non arriveremo mai a incontrare e a conoscere l’amore
di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio
riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe.
Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore
che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi
con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere
buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la
nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore non si “contrappone”, non
è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo a servizio,
previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta”
alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola
dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata: ascoltiamo la Voce
dell’Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così,
coraggio, datti da fare!”. Perché questa è la voce che ci salva; questa è la
voce che ci fa rinascere: anche così impresentabili come siamo, è questa voce
che ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che
aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, soprattutto
amiamo!
In
questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste
consolanti sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita,
tocchino il profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d’ombra,
nelle zone buie, ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una
musica celestiale confortevole. Fidiamoci di questa Voce; rispondiamo
sinceramente e fiduciosamente a questa “chiamata”, e incamminiamoci liberi,
felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.
“In
principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a
noi” (Gv
1,1-18)
Il
vangelo che la Chiesa ci propone oggi, è lo stesso del giorno di Natale; un
brano che è il più ricco, profondo e difficile di tutti i vangeli. Alcuni
studiosi hanno passato la loro vita a studiare questa pericope giovannea: san
Giovanni Crisostomo e Sant’Agostino hanno detto, per esempio, che si tratta di
un testo che va al di là di ogni comprensione umana.
Senza
alcuna presunzione, per quanto ci riguarda, cerchiamo almeno di capire il significato di alcune
espressioni.
“In
principio” (in
ebraico berescit; in greco en arché) sono le stesse parole con
cui ha inizio nella Genesi, il primo libro della Bibbia, il racconto della
creazione.
In
particolare come iniziava l’Antico Testamento? “In principio Dio creò il cielo
e la terra” (Gn 1,1). Giovanni invece dice no: “In principio c’era il
Verbo!”
Il Verbo
è la traduzione latina del termine greco “Logos”, che ha due
significati: “Parola” e “Progetto”; per cui possiamo dire: “All’inizio c’era un progetto”.
Questo è
meraviglioso: prima ancora di creare ogni cosa, Dio aveva un’idea, un progetto.
Allora
noi, il mondo, non siamo qui per caso. Siamo tutti qui perché Dio ha un
progetto su di noi. Se non avesse avuto un progetto su di noi, non ci saremmo. Se
ci siamo è perché Dio aveva un motivo ben preciso per crearci, un motivo
davvero importante.
Quindi Dio
ha un progetto. Ma per attuarlo, ha bisogno di noi. Vogliamo allora dargli una
mano?
Identificando
poi il Logos, il Verbo, con Dio, Giovanni si scontra con la
teologia del tempo. L’Antico Testamento infatti identificava la Parola di Dio con
i Dieci Comandamenti (il Decalogo) che Dio ha dato a Mosè (Es 31,18). Ma
Giovanni dice: “No, la Parola, il Logos esiste ancor prima di tutte le altre parole”.
Una novità impensabile, che stabilisce la priorità e l’importanza assoluta
della nuova Parola. Infatti Giovanni farà dire a Gesù: “Vi do un
comandamento nuovo (kain¾n): che vi amiate gli uni gli
altri” (13,34).
Ora, per
dire “nuovo” in greco ci sono due possibilità: “neos” e “kainos”;
nel primo caso vuol dire “nuovo” rispetto ad un “altro” già
esistente; con kainos si vuol invece stabilire che un qualcosa è “nuova”
nel senso che annulla tutto il resto: Gesù, il Logos, quindi non dà un “altro”
comandamento, ma in assoluto uno “nuovo”, che mette cioè in secondo piano tutte
le Parole precedenti.
“Egli
era in principio presso Dio” (Gv 1,2).
Questo, Gv ce l’ha già detto: perché lo deve ripetere? Perché la lingua ebraica
scrive tutte parole in caratteri maiuscoli, attaccate l’una all’altra, e non
aveva, come abbiamo noi oggi, il grassetto, il corsivo, la sottolineatura, ecc.
Per cui per evidenziare un concetto lo ripetevano. Una ripetizione quindi che sta
ad indicare un concetto veramente importante.
“Tutto
è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto
ciò che esiste”
(Gv 1,3). Anche qui la seconda parte è una ripetizione della prima. Ma cosa
significa? Che tutto è stato fatto per volontà divina. Noi, in altre parole,
siamo qui solo per volontà di Dio. Magari i nostri genitori non ci volevano...
magari la gente ci rifiuta, ci respinge... magari noi stessi non ci accettiamo,
siamo insofferenti verso noi stessi... ma Dio ci vuole, perché ha un progetto
ben preciso su di noi. La creazione pertanto non è cessata il settimo giorno,
ma si sta compiendo continuamente, anche oggi, perché Dio ha bisogno di noi: è per
questo che ci ha creato.
“In
lui (cioè nel Logos-Progetto) era la vita e la vita era la luce degli uomini”
(Gv 1,4).
Il
termine “Vita” (zoé) appare ben 37 volte in Giovanni. Un termine quindi con
cui egli intende qualificare il Progetto di Dio, vuol darne una
spiegazione: il progetto di Dio è un progetto di vita: una vita con un nuovo
stile.
Prima di
Gesù infatti gli “uomini di Dio” erano gli uomini di preghiera, quelli
che si mortificavano, quelli che rinunciavano a tutto, quelli che reprimevano l’affettività
in quanto pericolosa, quelli che digiunavano e seguivano un’ascetica ferrea,
che non avevano tempo per la carità, l’amore verso il prossimo. Ma Gesù dirà di
questa gente: “Sepolcri imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi,
ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume” (Mt 23,27).
Con Gesù,
invece gli “uomini di Dio” sono quelli vivi, quelli che hanno vita, che
sanno piangere, indignarsi, commuoversi, emozionarsi, che provano amore,
misericordia, che si innamorano, che hanno slanci, che sanno stupirsi: più un
uomo è vivo, più è pieno di Dio. L’essenza, il centro del Natale, è appunto la
Vita, un bambino che nasce alla vita.
“La
luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5).
L’uomo
che vive, cioè colui che ha accolto il messaggio di Dio, risplende, è luce.
Qui non
si dice che lotta. A quel tempo, e anche oggi, ci sono molti fanatici che
vogliono imporre le proprie regole e le proprie leggi ad altri. Qui, invece, è
luce, splende, brilla: non costringe nessuno. Segue semplicemente la Luce, la
luce vera, Gesù, il verbo incarnato, che è venuto nel mondo: “Io sono la
luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della
vita” (Gv 8,12).
È Gesù-quindi,
la vera luce che illumina ogni uomo: attenzione in questo a non prendere
abbagli! Domandiamoci
spesso: “Qual è la cosa più importante che dà luce alla mia vita?”. È il
partner, i figli, i soldi, il lavoro, il successo, la gloria, l’essere
famosi... cos’è dunque la cosa più importante che condiziona la nostra vita? Deve
essere solo una: la Vita!
“Egli
era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo
riconobbe” (Gv 1,10).
Mondo è “kosmos”:
in Giovanni non indica semplicemente il creato, il cosmo, l’universo: ma è un
termine che in lui acquista un senso negativo: è il sistema politico,
religioso, civile, sul quale si fonda la società umana, in contrapposizione a
quella divina. Il potere, infatti, sinonimo di orgoglio, di superiorità, di mancanza
d’amore, di rigidità, ecc., non può conoscere Dio, non si abbassa ad amarlo. È
vero, tutte le persone sono “divine”, in quanto anch’esse create da Dio,
impregnate di Dio: solo che si sono, per così dire, dimenticate chi sono
veramente, si sono dimenticate che hanno dentro di loro l’impronta di Dio,
vivono senza riconoscerlo e quindi senza riconoscersi più. Che tristezza! È
come essere dei re e vivere da schiavi!
“Venne
fra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).
È una
denuncia tremenda. Quelli che non l’hanno accolto come Vita sono gli stessi che
poi gliela toglieranno sulla croce. È il popolo eletto, il popolo prediletto da
Dio! Chi non accoglie la Vita e non la fa vivere in sé, uccide Dio, la Vita. È
incredibile come nei vangeli quelli che hanno accolto Gesù siano stati proprio
i più lontani da Dio, i peccatori: al contrario quelli che non l’hanno voluto
accogliere, che l’hanno sempre combattuto, condannandolo alla morte di croce, siano
stati proprio i più vicini alla religione, i sommi sacerdoti, i tenutari del
tempio. Una triste constatazione!
Il
progetto che Dio ha pensato per ciascuno di noi è, a questo punto, estremamente
chiaro: “Essere suoi figli” (Gv 1,12). Attenzione, non “servi” di
Dio, ma “figli” di Dio: non come sentiamo spesso ripetere in certe
prediche, che l’uomo è fatto per servire Dio, che dobbiamo buttarci ai suoi
piedi, temerlo, servirlo in tutto e per tutto per non incorrere nei suoi
tremendi castighi!
Noi infatti non siamo i servi di
Dio, ma i serviti da Dio: Lui stesso ce l’ha insegnato abbassandosi a
lavare i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,1-20). È Dio che serve
noi: Egli non ci chiede più come una volta sacrifici cruenti, servizi,
penitenze in suo onore: è Lui che è venuto a portare i suoi servizi, la sua
disponibilità, il suo amore a noi. La “fede” non consiste più nel fare qualcosa
per Lui e basta, ma accettare riconoscenti tutto quello che Lui fa per noi.
In questo è stato chiaro: “Non
sono venuto per essere servito ma per servire” (Mt 20,28).
Siamo figli di Dio, perché è Lui
che ci ha generati come tali, con tale privilegio.
Tocca però a noi “diventare” veri
figli di Dio: non lo siamo semplicemente per nascita, per appartenenza ad un
popolo eletto, come succedeva per la casta sacerdotale dell’antico testamento:
per essere veramente tali, dobbiamo diventarlo, dobbiamo cioè essere noi a
“trasformarci” in figli. Come? Amando gli altri. Non con preghierine, digiuni o
fioretti, ma con l’amore vero; perché saremo figli, solo quando sapremo amare
anche chi non ci ama, quando ameremo senza aspettative, quando perdoneremo con
amore, sempre e tutti. Perché, come Giovanni chiarirà nella sua prima lettera: “L’amore
è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha
conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8).
“E il
Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua
gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv
1,14).
Più che “abitare
in mezzo a noi” il verbo greco ™sk»nwsen
dice letteralmente: “venne a piantare una tenda fra noi” (skenÐ = tenda); farebbe cioè
riferimento all’esodo degli Israeliti dall’Egitto, durante il quale Dio li accompagnava
assicurando la sua presenza in una “tenda”. (Es 33,7-11; 40,34-38).
In pratica Giovanni introduce qui una novità rispetto al passato: Dio cioè non
abiterebbe più nel tempio tra i sacerdoti, ma in una tenda in mezzo al popolo.
Questa
di Giovanni è una visione teologica decisamente “trasgressiva”: Dio non è più in
un luogo esclusivo, solitario, ma “in mezzo” al suo popolo, tra la “sua” gente. Dio
non è più immobile, fisso, in un luogo prestabilito, ma in continuo cammino,
insieme agli uomini.
La presenza di Dio non è più legata quindi ad un “luogo”
ma ad un “tempo”: vale a dire nell’esatto momento in cui c’è l’amore, lì
c’è Dio.
“E
noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14).
Nell’Antico
Testamento nessun uomo poteva vedere Dio: Gesù al contrario dirà: Dio si
vede... “Chi vede me vede il Padre (Gv 14,9)”; in Gesù, cioè, c’è già tutto
quello che è possibile vedere di Dio: gloria, potenza, amore. Possiamo pertanto
dire che non è Gesù ad essere come Dio, ma è Dio che è come Gesù.
Quando
la gente parla di Dio, dice tutto e il contrario di tutto. Il vangelo invece non
solo è chiaro ma estremamente pratico: Dio è come Gesù: se vuoi sapere chi è
Dio, guarda, imita, diventa, come Gesù. Tutto ciò che non è di Gesù, che non
rispecchia Lui, non è da Dio; così non vengono sicuramente da Dio quelle pratiche
religiose, quei pietismi puramente esteriori, quell’ascetismo formale, in
quanto non si rispecchiano in Gesù, ma soddisfano semplicemente il nostro
“ego”, la nostra voglia di esibirci. Gesù al contrario è “pieno di grazia e di
verità”, ossia è “pieno di amore vero”: tutto quanto egli compie è “pieno
di amore e di verità”.
È la caratteristica di Dio: l’amore del Dio di Gesù è un amore fedele, che non
tradisce, che non cerca esibizionismi, personalismi, che non si vendica, che
rimane sempre invariato nel tempo, anche se gli giriamo le spalle, anche se lo
tradiamo.
Molte
persone purtroppo pensano di aver perso l’amore di Dio, di aver fatto qualcosa
di irreparabile nei suoi confronti, di essere indegni di Lui: ma Lui non è
così! Lui rimane, Lui è fedele, sempre: “Qualunque cosa il nostro cuore ci
rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Una certezza
ci deve sostenere sempre: l’amore di Dio non tradisce mai di fronte a niente,
di fronte a nulla. Amen.