“Le
mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro
la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla
mia mano”
(Gv 10, 27-30).
Il Vangelo di oggi è formato dai quattro versetti
finali del discorso detto del “Buon Pastore”, incluso da Giovanni tra le
catechesi tenute da Gesù a Gerusalemme. Sono poche parole, che sintetizzano e documentano
tutta la personale e coraggiosa convinzione dei primi cristiani di fronte ad
una situazione estremamente ostile nei loro confronti: chi ascolta e segue il
Signore non deve temere nulla, perché nessuno riuscirà mai a strapparlo dalle
sue mani.
“Ascoltare la voce del pastore”, “essere da
lui riconosciuti”, “seguirlo”: tre momenti con un crescendo programmatico che
deve determinare anche la nostra vita di cristiani “moderni”. Approfondiamo come al solito la portata di queste parole.
“Ascoltare”: nel linguaggio comune noi mettiamo sullo stesso piano i termini ascoltare, udire, sentire: per noi sono sinonimi, esprimono la stessa cosa. Ma non è così: “udire, sentire” significa percepire semplicemente un suono: è un fenomeno naturale, spontaneo, fisiologico che non necessariamente coinvolge la volontà dell’individuo; uno “sente”, “ode” voci e suoni, e può rimanerne completamente indifferente. “Ascoltare” invece è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo, nel nostro cuore, intorno a noi, determinando la nostra volontà ad agire di conseguenza, a fare delle scelte concrete. Il concetto, per esempio, è spiegato molto bene da san Benedetto, quando nel Prologo alla sua Regola, invita il discepolo ad “ascoltare” l’insegnamento del maestro (ausculta o fili), interessando l’orecchio del cuore (aurem cordis tui) per accettarlo volentieri (libenter excipe) ma soprattutto per metterlo subito in pratica (efficaciter comple). “Ascoltare” è quindi porre attenzione, fare una elaborazione mentale che comporta un’azione consapevole.
Noi in genere “udiamo” tantissime cose, ma non per questo le ascoltiamo.
Ne consegue che “come uno ascolta” così anche si comporterà, così imposterà la sua vita.
Da come parliamo, ma ancor più da come ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo.
Se nella vita non “ascoltiamo” noi stessi e gli altri, non potremo neppure crescere, non potremo cioè diventare mai adulti, maturi: perché è ciò che ascoltiamo che ci “costruisce” dentro.
Non per nulla Paolo scrive ai Romani che la “fede nasce dall'ascolto”: fides ex auditu (Rm 10,17); attenzione: dall'ascolto, non dall'aver udito tante belle prediche o tante catechesi!
In realtà noi ogni giorno “udiamo” milioni di suoni, di parole, ma quante ne ascoltiamo?
Eppure alcuni santi si sono addirittura convertiti, “ascoltando” anche una sola parola della scrittura: noi al contrario abbiamo “udito” migliaia di volte la proclamazione del Vangelo, senza che mai sia scattato qualcosa in noi. Perché? Perché ci fermiamo alla sola percezione materiale delle parole; non le “ascoltiamo”, non le metabolizziamo, ci scivolano via senza far vibrare le corde sensibili della nostra anima.
Per noi è difficile ascoltare gli altri; ma lo è ancor più ascoltare noi stessi! Se invece ci ascoltassimo, potremmo inaspettatamente scoprire dentro di noi un’enorme quantità di parole, di suoni, di voci, di esperienze, di fatti, tutti in attesa di essere esaminati, catalogati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più, nel silenzio della nostra anima, probabilmente non avremmo la necessità di cercare altrove soluzioni e risposte agli interrogativi della vita: eviteremmo risposte di “altri”, spesso illusorie, in quanto non fanno parte di noi, non ci riconoscono, non sono “noi”, non sono la “nostra vita”.
Solo se ci ascoltassimo di più, potremmo renderci conto di quanto nel silenzio interiore, la nostra anima parli! Anzi, a volte la sentiremmo addirittura gridare in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo, ma quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così “assurda” (da “a-surdus” = senza ascolto, fuori da ogni logica), ignorando le esigenze primarie dell’anima, i richiami del profondo, le richieste sostanziali della vita: siamo sordi!
E non essendoci “ascolto”, da sordi, parliamo a sproposito, senza senso: il vaniloquio, è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare del nulla, tanto caro e praticato oggi dai nostri organi di informazione!
L’altra parola da approfondire è “conoscere”. Il pastore conosce una ad una le pecore che lo ascoltano.
Per noi, “conoscere” significa sapere chi è un tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma questa è una semplice raccolta di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità.
Ben più profondo ed esplicativo è invece il significato biblico di conoscere, che significa fare un'esperienza, incontrare, sentire, capire: l’uomo della Bibbia, per esempio, “conosce” la propria donna nell’unirsi sessualmente a lei per procreare, per avere un figlio: due corpi si “conoscono”, si fondono nell’intimità, per assicurare continuità esistenziale alla propria famiglia.
La “conoscenza” non consiste quindi nel raccogliere un sacco di informazioni; sarebbe come dire: “conosco com'è un liquore perché “conosco” la sua marca, la sua tipica bottiglia”. Ma per conoscere veramente un liquore è necessario berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore.
Questo è il punto: e questo principio vale anche per il nostro rapporto con Dio: noi lo “conosciamo”, non perché sappiamo a memoria le risposte del catechismo, ma perché lo sperimentiamo nella nostra vita, perché lo “sentiamo” vibrare nel nostro cuore, perché avvertiamo in noi la sua potenza, la sua forza, che ci coinvolge, perché lo “mangiamo nell’Eucaristia e, penetrandoci, ci cambia. È in questo modo che Gesù “conosce” coloro che “ascoltano” la sua voce: ed essere individualmente riconosciuti da Lui, essere chiamati ciascuno col proprio nome, sarà un’esperienza unica, indescrivibile, che ci cambierà profondamente, ci destabilizzerà, ci rapirà dalla nostra natura umana, dalla nostra fragilità temporale.
Infine, la terza parola è “seguire”. È la conseguenza dell’ascolto e del “conoscere”: una volta recepito, “assimilato” completamente il messaggio di Gesù, per noi sarà naturale concretizzarlo e trasferirlo con gioia nella nostra vita pratica. E così che conquisteremo la pace, la serenità del sentirci protetti, perché nessuno potrà mai “distoglierci, rapirci” dall’abbraccio di Dio.
“Nessuno le strapperà dalla mia mano”: il verbo greco “arpàzo” significa proprio questo: “rapire, strappare via, prendere, rubare”.
Purtroppo tutti noi mortali viviamo nel timore di perdere qualcosa, che qualcosa ci venga portato via, che quanto ci appartiene, quanto abbiamo conquistato con fatica e sacrificio, ci venga improvvisamente sottratto, rubato dalla mala sorte: è una paura che ci accompagna giorno dopo giorno, esattamente come la paura di perdere la nostra vita, i nostri cari, le nostre ricchezze; la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, la notorietà.
L’ansia è la compagna fedele del nostro viaggio.
Ma perché la gente ha tanta paura di perdere qualcosa che in fondo non gli appartiene? Cosa abbiamo noi mortali di veramente “nostro”? A chi e a che cosa possiamo veramente dire: “sei mio”? A nulla: perché tutto ciò che ci circonda, tutte le nostre ricchezze, i nostri beni, vita compresa, li abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: completamente nudi siamo entrati in questo mondo e completamente nudi ne usciremo.
Un giorno, vicino o lontano che sia, saremo costretti ad abbandonare tutto ciò che definiamo “nostro”, tutto ciò che amiamo, tutto ciò a cui siamo profondamente legati: è la conclusione della nostra vita terrena, il momento ultimo, è la morte. Una prospettiva finale e irrevocabile che, solo a pensarla, ci inquieta, ci preoccupa, ci infastidisce, ci turba.
Ecco allora che una certezza ci viene in aiuto col vangelo di oggi: “alle pecore che ascoltano la mia voce, che io conosco e che mi seguono, do loro la vita eterna, non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”.
I primi cristiani dicevano: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la Vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi e nessuno può strapparci dalle Sue mani”.
Fidiamoci anche noi di questa promessa di Dio, della sua Parola: abbandoniamoci fin d’ora a Lui, aggrappiamoci a quella mano che amorosamente ci tende, non sottraiamoci mai a quel suo abbraccio paterno: e allora vivremo sereni, nella certezza che nessuno mai potrà farci del male, nessuno mai potrà separarci dal suo amore! Amen.