giovedì 2 maggio 2019

5 Maggio 2019 – III Domenica di Pasqua


“Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: No. Allora egli disse loro: Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete” (Gv 21,1-19).

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, e quindi stabiliamo che non c’è.
Lui chiede: “Avete qualcosa da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: ma noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi di un certo valore da potergli dare? Un qualcosa che sia valido, efficace, utile al nutrimento e alla crescita della nostra e dell’altrui vita? Se siamo onesti dobbiamo rispondere anche noi come gli apostoli: “No”. Perché in fondo dobbiamo ammettere che non siamo soddisfatti per come siamo, ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, scontenti di tutto e di tutti. Di veramente prezioso da offrire, non abbiamo proprio nulla; anzi la prima cosa da fare è dirci francamente: “Così non va!”; perché, per poter guarire, dobbiamo ammettere di essere malati; dobbiamo soprattutto ammettere che i malati siamo noi, e non gli altri: siamo noi per primi che dobbiamo cambiare vita, noi per primi che dobbiamo darci da fare.
Dio ci aiuta certamente, ci mette sicuramente del suo in questo nostro progetto di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse subito con effetto istantaneo: un evento, un miracolo incredibile che, all’improvviso, in un attimo, ci cambia la vita, fa sparire tutti i nostri problemi. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare.
Esattamente come accadde quel mattino sulle rive del lago di Tiberiade.
Dopo una notte intera di faticoso lavoro senza alcun risultato, Gesù rimanda gli apostoli in “mare”, al largo, nonostante fossero appena rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo che ora ripartono con un obiettivo ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”.
La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, della superficialità, dell’affidarsi alle possibilità, al caso.
Lo stesso ordine Gesù lo ripete anche a noi; dopo i nostri fallimenti, puntualmente ci rimanda nella nostra vita, nel nostro quotidiano; non ci impone di cambiare lavoro, di cambiare famiglia; non ci dice di sconvolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove. Ma: “Fate le cose di prima, le stesse, ma adesso fatele in maniera razionale, consapevole. Non vivete più con la testa fra le nuvole; non aspettate che le difficoltà spariscano magicamente, fatevi delle domande serie, osservatevi, guardatevi, chiedetevi cosa volete da voi stessi, qual è il vostro ideale, cosa vi appassiona”.
Allora, piuttosto che fare come fanno tutti, piuttosto che seguire scioccamente la maggioranza, chiediamoci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Quali ideali mi muovono? Quali paure mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono sincero in quel che faccio? O preferisco nascondermi indossando delle maschere?”. Dobbiamo convincerci che solo una vita vissuta consapevolmente può dare felicità. Per questo dobbiamo dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa.
Noi ci illudiamo invece che le cose in grado di saziare i nostri cuori si trovino all’esterno, al di fuori di noi. Però ciò che ci riempie le reti, ciò che ci rende pieni di gioia, ciò che ci fa sentire amati da Dio, ciò che ci crea quell’energia continua che sentiamo dentro, è solo Lui, e Lui non si trova al di fuori ma dentro di noi.
Per questo dobbiamo calare le nostre reti dentro di noi; perché se vogliamo che esse (il cuore, l’anima) siano piene, è con noi stessi che dobbiamo lavorare continuamente, con noi e con il Dio che ci inabita.
Questo fu il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò.
Sappiamo, ce lo dice il vangelo di oggi, che Giovanni era il discepolo che Gesù amava: un amore che egli percepiva distintamente nel suo cuore, pur senza rendersene conto; un amore però che ha permesso solo a lui, umile pescatore da una vita, di riconoscere Gesù: “È il Signore!”.
Il messaggio è chiaro: anche noi, se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e fragilità, potremo un giorno “vedere e riconoscere” il Signore. E da quel momento la nostra vita inizierà a cambiare giorno dopo giorno, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di gioia.
Purtroppo la gente cerca Dio nelle “visioni” dei ciarlatani, nelle pseudo apparizioni, perché non “lo vede” nella propria vita. Ma Dio ci appare, ci incontra, soprattutto nella chiesa della nostra anima. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze religiose, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, denota in noi più una mancanza di fede, un bisogno di apparire, che una vera necessità, un autentico desiderio di incontrarlo.
Dio c’è sempre per noi, è a nostra disposizione; il suo luogo preferenziale è “dove c’è carità e amore”: dobbiamo soltanto imparare a “vederlo”.
Le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo, senza l’amore, senza il cuore, senza la Vita, non riescono a “vedere” il Signore. Come è successo a Pietro: lui l’uomo razionale, efficiente, irruento, l’uomo d’azione, l’uomo che non concede spazio ai sentimentalismi, al cuore, non riconosce il Signore: Solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede, lo riconosce e lo indica a Pietro: “È il Signore!”.
Pietro assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei vescovi, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo.
È interessante notare come Pietro, grazie a questo suo carattere altalenante, compia una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica: una volta riconosciuto Gesù, per esempio, senza alcuna esitazione, si getta in mare per raggiungerlo: era al largo, stava tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Una decisione improvvisa, quella di Pietro, che però, secondo i Padri della Chiesa, contiene un forte simbolismo: egli cioè “deve” buttarsi in acqua, prima di raggiungere Gesù, perché deve “bagnare” la propria presunzione, la propria sicurezza; deve cioè fare un bagno di umiltà, deve ricredersi, deve immergersi, anche lui come Giovanni, nel “mare” dell’amore.
Altro particolare curioso: prima di buttarsi in acqua, “si veste”: ma se mentre pescava era nudo, che senso ha “rivestirsi” per gettarsi in mare? Il senso c’è: vestirsi, significa per Pietro, indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significa rendere noto a tutti il proprio ruolo, la propria funzione; autorità, ruolo, funzione, che hanno sempre bisogno di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. È Lui infatti che, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, sale con decisione sulla barca (la chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio non può far niente senza di lui. Sì, è sempre Dio che fa: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra, ma non può fare nient’altro senza Pietro (la chiesa) e senza gli uomini, gli apostoli: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora”. Egli ha bisogno del loro amore. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale per la vita della chiesa.
Prima infatti di conferire a Pietro il mandato di “guida”, di “pastore”, Gesù mette alla prova l’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèo”. Ora, in greco, “Agapào” indica un amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista. “Filèin” invece si riferisce ad un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti personali.
Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta Egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs) più degli altri?”. Gesù è diretto nella sua domanda, esige una risposta netta, un amore incondizionato, da “agapào”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui ridimensiona la portata della richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso: “Sì, Gesù, ti sono amico” (“filèo”). Ma Gesù non rinuncia: per la seconda volta insiste per sapere se il suo amore è totale, assoluto, e Pietro, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con più cautela, con maggior circospezione, gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene…” (“filèo”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: ma questa volta succede qualcosa di straordinario. Gesù mette da parte l’impegnativo verbo “agapào” e passa a “filèo”, lo stesso verbo usato da Pietro, e gli chiede: “Simone, mi vuoi bene” (Sìmon, filéis me)?
In pratica si accontenta del suo “ti voglio bene”, si abbassa, si adatta, si adegua alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento, ancorché incompleto, è già amore!”.
Gesù in pratica rallenta il suo passo sul ritmo di quello di Pietro; il quale, a questo punto, capisce quanto Gesù tenga al suo amore, e sente il pianto salirgli in gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi delle briciole, un Dio al quale basta veramente poco: un cuore sofferente, ferito, che però vuol amare al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti.
Tre volte Pietro ha rinnegato il Signore; tre volte gli ha in pratica detto di no, e tre volte il Signore lo interroga sulle sue motivazioni vere e profonde. Gesù insiste, pur conoscendo perfettamente i limiti di Pietro; ma lo fa per fargli capire una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi, le tue motivazioni devono essere convinte, totali, sincere. Apprezzo il fatto che tu non ti senta esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione, solo perché sei Pietro, mio discepolo, e perché io ti sto ponendo alla guida della mia Chiesa. Non puoi pensare infatti che solo per questo, paura, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite, non ti tocchino; non puoi prescindere dalla tua umanità e cedere all’illusione che questi pericoli non ti riguardino. Perché se vivi in questa illusione, te lo ricordo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso. Ricordati che sei vulnerabile; amami come puoi, ma amami sinceramente: siine consapevole e vivi con gli occhi aperti”.
E infine Gesù conclude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19). La veste, l’abbiamo detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi sì decidere la direzione da percorrere, ma devi anche lasciarti condurre da Dio dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi su questa via. Lascia che sia Dio a portarti, anche se non sai dove stai andando, anche se non vorresti andarci, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”.
Ciascuno di noi vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno, stabilire lui dove andare. Ma avere fede in Dio, amare Dio, significa lasciare spazio a Lui, abbandonarci a Lui, lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.
Nessuno a priori può essere certo che Dio ad un certo giorno non decida di rovesciare la nostra vita. Chi può dire che Dio non desideri qualcosa di più impegnativo da noi? Chi può dire che Dio non ci faccia abbandonare progetti, amicizie, ideali, per seguirlo più da vicino? Chi può dire che Dio non voglia cambiare radicalmente il nostro carattere per farci diventare persone completamente diverse? Chi può dire insomma che Dio non possa scombinare la nostra vita e il nostro presente?
Noi amiamo immaginarci celebri, ricchi, realizzati, magari sposati con una moglie bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili; con una vecchiaia serena e piena di soddisfazioni: ma chi può assicurarci che il nostro domani non cambi radicalmente, diventando una realtà del tutto diversa? L’importante è che noi siamo sempre e comunque pronti a rinnovare a Dio il nostro amore, e a ripetergli: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Amen.


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