«Se qualcuno vuole venire
dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi
vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per
causa mia, la salverà» (Lc 9,18-24).
Dopo i
particolari riportati da Luca nel vangelo di oggi - siamo nel suo nono capitolo
- Gesù decide di andare a Gerusalemme, costi quel che costi: egli sa di
rischiare la vita, essendo perfettamente consapevole di quanto gli sarebbe
accaduto, ma ciò non lo fa desistere dal suo proposito. Prima però di
affrontare qualunque cosa, dice il vangelo, egli pregava: nel silenzio, nella
solitudine, di fronte ad ogni difficoltà, più che con le parole, Gesù si affidava
a quel sentimento profondo di fiducia e di intimità che lo legava al Padre. Più
che un luogo solitario, Egli cercava quell’atmosfera, quel clima di silenzio e di
distacco dalle persone e dalle cose, che gli consentiva di entrare dentro di sé
per incontrare Lui.
Non è
quindi il luogo sacro come la chiesa, che di per sé fa preghiera: ma è la
nostra predisposizione interiore. Solo se in chiesa c’è silenzio intorno e
dentro di noi, se c’è concentrazione, allora può esservi preghiera.
Non è
detto infatti che chi entra in chiesa, solo perché è luogo di preghiera,
automaticamente preghi; egli pregherà invece ogni qualvolta il suo animo saprà
aprirsi, emozionarsi, elevarsi, percepire la presenza di Dio l’infinitamente Grande,
nel suo infinitamente piccolo di uomo.
Non
basta “recitare” una serie di parole, di formule, di giaculatorie, perché ci
sia preghiera; non basta dire “amore” perché ci sia amore. La preghiera, il
legame intimo con Dio, il sentimento di amore che ci unisce a Lui, sono
tutt’altra cosa rispetto a delle parole o a delle melodie vuote, superficiali,
pronunciate e cantate meccanicamente.
Preghiera
è profondità, intimità: è emozionarsi, ringraziare Dio per la presenza nella
nostra vita delle persone che amiamo, per i loro occhi lucidi e riconoscenti
con cui ci riamano; è ringraziarlo per il sorriso dei nostri figli che ci
riempie il cuore, per un progetto di vita andato in porto, per un traguardo
raggiunto, per tutto ciò che c’è di bello, di vero, di meraviglioso intorno a
noi. Preghiera è piangere di gioia, commuoverci, sorridere, dire al Padre tutto
il nostro amore; è una comunicazione con l’Altissimo, una disponibilità umile e
sincera ad ascoltare cosa Lui ci dice.
Preghiera
è, insomma, poter dire con Gesù: “Sì” a qualunque cosa, è dire: “Grazie” per tutto
ciò che è stato, e “si” per ciò che sarà. Per chi ha un cuore vivo, basta poco
per pregare. Ma per chi ha un cuore morto, nulla è preghiera.
Mentre
dunque è ancora in preghiera, Gesù chiede ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che io sia?”.
Gesù
parla bene, compie miracoli, guarigioni, ha un notevole seguito e successo.
È
normale che le persone si chiedano: “Ma chi è costui?”. Erode stesso, qualche
versetto prima, si era chiesto la stessa cosa: “Chi è costui del quale sento dire tali cose?” (Lc 9,9).
Le
risposte che circolano sono senza dubbio lusinghiere: alcuni lo identificano
col Battista, il più grande profeta del tempo, altri con Elia, il profeta che
non era morto e che sarebbe ritornato alla venuta del Messia; altri infine lo
considerano un profeta, un uomo di Dio.
Ma
Gesù non si accontenta, vuole andare più a fondo: passa dal giudizio degli “altri”,
a quello degli apostoli: “Voi, chi dite
che io sia?” (Lc 9,20).
Pietro,
con la solita irruenza, precede tutti e dichiara: “Tu sei il Cristo”, tu sei l’unto,
l’aspettato. Ora, gli esperti della
Bibbia mettono in dubbio l’autenticità di questa risposta messianica, visto che Gesù non si
è mai definito in questo modo; anzi nel versetto successivo egli parla di sé
come “Figlio dell’uomo” e non come di “Cristo” (Lc 9,22).
A noi personalmente, cosa abbia risposto Pietro, non interessa più di tanto: quello che invece ci
deve far pensare seriamente, quello che ci mette veramente in crisi, è la solennità, l’importanza, la portata reale e profonda della domanda che Gesù, oltre agli apostoli, rivolge a
ciascuno di noi: “Chi sono io per te?”.
Molte
persone sono convinte di essere cristiane, di essere “in regola” con Dio, per
il solo fatto di essere “battezzate”, di appartenere cioè al gruppo dei
redenti da Cristo, che si prefiggono di seguire il suo vangelo. Ma un conto è la
“promessa” di diventare suoi discepoli, fattagli subito dopo aver riacquistato col
battesimo la forza e la sua grazia, un altro è
“esserlo realmente”: “essere discepoli” di Gesù, seguire i suoi passi, presuppone
infatti un rapporto diretto e costante con lui; significa aver avuto, ad un certo punto
della nostra vita, un incontro/scontro con lui; una sua “chiamata”
personalissima, carica di amore, che di fronte al nostro essere ciechi, malati
di qualunquismo, di indifferenza religiosa, ci ha folgorato, ci ha completamente
spiazzato.
Si tratta di semplici
parole che però coinvolgono una vita: “Vieni e seguimi” (Mc 1,17; 2,14) oppure “Vieni a vedere” (Gv 1,39; 1,46).
Se
guardiamo il vangelo, tutti i “malati” che hanno “seguito” Gesù, lo hanno fatto
esattamente aderendo a questo invito: lo ha fatto per esempio Zaccheo (Lc 19,1-10), lo ha fatto il cieco di
Gerico (Lc 18,35-43), la donna curva (Lc 13,10-17), l’emoroissa (Lc 9,43-48), la figlia di Giairo (Lc 9,40-56). Tutte persone che dopo
averlo incontrato, lo “hanno seguito”: sono cioè completamente cambiate, si
sono radicalmente trasformate, non sono state più le stesse. E questo soprattutto perché lo hanno conosciuto, hanno verificato la sua potenza, hanno sperimentato
il suo amore: hanno cioè capito chi egli fosse veramente.
Dio quindi
non è un’idea, una scienza, una dottrina, ma è una realtà, una persona concreta:
un qualcuno che, se lo incontriamo, se gli apriamo il cuore, se lo facciamo entrare
in noi, rivoluzionerà completamente la nostra vita come la loro: e a quel punto
sapremo bene anche noi chi è, cosa vuole da noi, cosa ha fatto e soprattutto
cosa farà ancora per noi. Questo significa essere cristiani: se invece continuiamo ad
esserlo come ci fa comodo, se ci fermiamo al superficiale, di Lui non conosceremo e non apprezzeremo mai nulla!
Dio,
ripeto, è un’esperienza, un incontro, un “ribaltamento”, altrimenti è un nulla, nessuno.
Dio è qualcosa che ci coinvolge, che ci fa diversi, che ci porta lontano: per
questo chi ha paura non lo può seguire. Perché Dio gli cambia la vita; ma
proprio per questo è irresistibile.
Poi
Gesù dice: “Il Figlio dell’uomo deve
molto soffrire...” (Lc 9,22). Nessuno di noi vuole soffrire, è ovvio. Ma quando
dobbiamo fare delle scelte importanti, questo comporta delle difficoltà, delle
sofferenze: difficoltà e sofferenze che ci purificano, ci insegnano a far
tesoro delle nostre esperienze, a vivere una vita migliore; utilizzano cioè le
sofferenze per non soffrire più, al contrario di quanti non imparano nulla
dalla loro vita.
Quindi
prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro
a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23).
Alcuni
hanno interpretato questo “rinnegare se stessi”, come un invito a distruggere
la propria personalità, a un “non vivere”, a un umiliarsi di continuo, un “annientarsi”,
un sacrificare totalmente la propria esistenza. Ma Gesù non intende questo.
Egli
vuol dire che in certi momenti, in certe situazioni, di fronte a certi
atteggiamenti, dobbiamo dire semplicemente “No”. “Rin-negarsi” vuol dire
proprio questo: “Mi dico di no!”.
Scegliere
di vivere scappando da noi stessi, dalla nostra coscienza, facendo un sacco di
cose per stordirci, per non sentire il vuoto che c’è dentro di noi, non è
vivere.
Ad un
certo punto dobbiamo dirci: “Basta, non posso andare avanti così, adesso mi
devo fermare e prendere una decisione, a qualunque costo!”. Certo, riuscire a dirci:
“No... smettila... basta!”, è difficile, doloroso; ma è assolutamente necessario.
Del resto se non sappiamo dominarci, se quando serve non riusciamo a dirci “no”,
come possiamo pensare che i nostri “sì” siano considerati veri e attendibili?
Infine
Gesù chiude il vangelo dicendo: “Chi
vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per
me, la salverà” (Lc 9,24).
Quel
verbo “salvare” (in greco sozo), vuol
dire letteralmente “custodire, risparmiare, preservare”. Quindi, chi vuole risparmiarsi,
chi vuol fare il dritto, chi svicola, chi non vuole mettersi in gioco, finisce
per perdere la propria vita.
Chi
non osa, è un perdente: quante persone purtroppo vivono l’intera vita sulla
difensiva, temporeggiando, rimandando: non osano assumere un comportamento
deciso, imboccare una nuova strada, abbandonare situazioni ormai stantie e usurate,
cambiare abitudini, stile di vita.
È una triste
constatazione: perché chi vive così, sull’indecisione, sulla difensiva, meglio
ancora, sul voler salvare ad ogni costo la propria mentalità (psichè), il proprio
modo di “pensare”, finirà inesorabilmente per perdere tutta la sua vitalità, ogni
suo entusiasmo, insomma il meglio, l’anima della sua vita.
Allora,
vale la pena meditare le parole che Gesù dice nel versetto successivo, e che
non appartengono al vangelo di oggi: “Che
giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?”
(Lc 9,25). Pensiamoci seriamente! Amen.