giovedì 16 giugno 2016

19 Giugno 2016 – XII Domenica del Tempo Ordinario

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,18-24).

Dopo i particolari riportati da Luca nel vangelo di oggi - siamo nel suo nono capitolo - Gesù decide di andare a Gerusalemme, costi quel che costi: egli sa di rischiare la vita, essendo perfettamente consapevole di quanto gli sarebbe accaduto, ma ciò non lo fa desistere dal suo proposito. Prima però di affrontare qualunque cosa, dice il vangelo, egli pregava: nel silenzio, nella solitudine, di fronte ad ogni difficoltà, più che con le parole, Gesù si affidava a quel sentimento profondo di fiducia e di intimità che lo legava al Padre. Più che un luogo solitario, Egli cercava quell’atmosfera, quel clima di silenzio e di distacco dalle persone e dalle cose, che gli consentiva di entrare dentro di sé per incontrare Lui.
Non è quindi il luogo sacro come la chiesa, che di per sé fa preghiera: ma è la nostra predisposizione interiore. Solo se in chiesa c’è silenzio intorno e dentro di noi, se c’è concentrazione, allora può esservi preghiera. 
Non è detto infatti che chi entra in chiesa, solo perché è luogo di preghiera, automaticamente preghi; egli pregherà invece ogni qualvolta il suo animo saprà aprirsi, emozionarsi, elevarsi, percepire la presenza di Dio l’infinitamente Grande, nel suo infinitamente piccolo di uomo.
Non basta “recitare” una serie di parole, di formule, di giaculatorie, perché ci sia preghiera; non basta dire “amore” perché ci sia amore. La preghiera, il legame intimo con Dio, il sentimento di amore che ci unisce a Lui, sono tutt’altra cosa rispetto a delle parole o a delle melodie vuote, superficiali, pronunciate e cantate meccanicamente.
Preghiera è profondità, intimità: è emozionarsi, ringraziare Dio per la presenza nella nostra vita delle persone che amiamo, per i loro occhi lucidi e riconoscenti con cui ci riamano; è ringraziarlo per il sorriso dei nostri figli che ci riempie il cuore, per un progetto di vita andato in porto, per un traguardo raggiunto, per tutto ciò che c’è di bello, di vero, di meraviglioso intorno a noi. Preghiera è piangere di gioia, commuoverci, sorridere, dire al Padre tutto il nostro amore; è una comunicazione con l’Altissimo, una disponibilità umile e sincera ad ascoltare cosa Lui ci dice.
Preghiera è, insomma, poter dire con Gesù: “Sì” a qualunque cosa, è dire: “Grazie” per tutto ciò che è stato, e “si” per ciò che sarà. Per chi ha un cuore vivo, basta poco per pregare. Ma per chi ha un cuore morto, nulla è preghiera.
Mentre dunque è ancora in preghiera, Gesù chiede ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che io sia?”.
Gesù parla bene, compie miracoli, guarigioni, ha un notevole seguito e successo. 
È normale che le persone si chiedano: “Ma chi è costui?”. Erode stesso, qualche versetto prima, si era chiesto la stessa cosa: “Chi è costui del quale sento dire tali cose?” (Lc 9,9).
Le risposte che circolano sono senza dubbio lusinghiere: alcuni lo identificano col Battista, il più grande profeta del tempo, altri con Elia, il profeta che non era morto e che sarebbe ritornato alla venuta del Messia; altri infine lo considerano un profeta, un uomo di Dio.
Ma Gesù non si accontenta, vuole andare più a fondo: passa dal giudizio degli “altri”, a quello degli apostoli: “Voi, chi dite che io sia?” (Lc 9,20).
Pietro, con la solita irruenza, precede tutti e dichiara: “Tu sei il Cristo”, tu sei l’unto, l’aspettato. Ora, gli esperti della Bibbia mettono in dubbio l’autenticità di questa risposta messianica, visto che Gesù non si è mai definito in questo modo; anzi nel versetto successivo egli parla di sé come Figlio dell’uomo e non come di “Cristo” (Lc 9,22).
A noi personalmente, cosa abbia risposto Pietro, non interessa più di tanto: quello che invece ci deve far pensare seriamente, quello che ci mette veramente in crisi, è la solennità, l’importanza, la portata reale e profonda della domanda che Gesù, oltre agli apostoli, rivolge a ciascuno di noi: “Chi sono io per te?”.
Molte persone sono convinte di essere cristiane, di essere “in regola” con Dio, per il solo fatto di essere battezzate, di appartenere cioè al gruppo dei redenti da Cristo, che si prefiggono di seguire il suo vangelo. Ma un conto è la “promessa” di diventare suoi discepoli, fattagli subito dopo aver riacquistato col battesimo la forza e la sua grazia,  un altro è “esserlo realmente”: “essere discepoli” di Gesù, seguire i suoi passi, presuppone infatti un rapporto diretto e costante con lui; significa aver avuto, ad un certo punto della nostra vita, un incontro/scontro con lui; una sua “chiamata” personalissima, carica di amore, che di fronte al nostro essere ciechi, malati di qualunquismo, di indifferenza religiosa, ci ha folgorato, ci ha completamente spiazzato.
Si tratta di semplici parole che però coinvolgono una vita: “Vieni e seguimi” (Mc 1,17; 2,14) oppure “Vieni a vedere” (Gv 1,39; 1,46).
Se guardiamo il vangelo, tutti i “malati” che hanno “seguito” Gesù, lo hanno fatto esattamente aderendo a questo invito: lo ha fatto per esempio Zaccheo (Lc 19,1-10), lo ha fatto il cieco di Gerico (Lc 18,35-43), la donna curva (Lc 13,10-17), l’emoroissa (Lc 9,43-48), la figlia di Giairo (Lc 9,40-56). Tutte persone che dopo averlo incontrato, lo “hanno seguito”: sono cioè completamente cambiate, si sono radicalmente trasformate, non sono state più le stesse. E questo soprattutto perché lo hanno conosciuto, hanno verificato la sua potenza, hanno sperimentato il suo amore: hanno cioè capito chi egli fosse veramente.
Dio quindi non è un’idea, una scienza, una dottrina, ma è una realtà, una persona concreta: un qualcuno che, se lo incontriamo, se gli apriamo il cuore, se lo facciamo entrare in noi, rivoluzionerà completamente la nostra vita come la loro: e a quel punto sapremo bene anche noi chi è, cosa vuole da noi, cosa ha fatto e soprattutto cosa farà ancora per noi. Questo significa essere cristiani: se invece continuiamo ad esserlo come ci fa comodo, se ci fermiamo al superficiale, di Lui non conosceremo e non apprezzeremo mai nulla!
Dio, ripeto, è un’esperienza, un incontro, un “ribaltamento”, altrimenti è un nulla, nessuno. Dio è qualcosa che ci coinvolge, che ci fa diversi, che ci porta lontano: per questo chi ha paura non lo può seguire. Perché Dio gli cambia la vita; ma proprio per questo è irresistibile.
Poi Gesù dice: “Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire...” (Lc 9,22). Nessuno di noi vuole soffrire, è ovvio. Ma quando dobbiamo fare delle scelte importanti, questo comporta delle difficoltà, delle sofferenze: difficoltà e sofferenze che ci purificano, ci insegnano a far tesoro delle nostre esperienze, a vivere una vita migliore; utilizzano cioè le sofferenze per non soffrire più, al contrario di quanti non imparano nulla dalla loro vita.
Quindi prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23).
Alcuni hanno interpretato questo “rinnegare se stessi”, come un invito a distruggere la propria personalità, a un “non vivere”, a un umiliarsi di continuo, un “annientarsi”, un sacrificare totalmente la propria esistenza. Ma Gesù non intende questo.
Egli vuol dire che in certi momenti, in certe situazioni, di fronte a certi atteggiamenti, dobbiamo dire semplicemente “No”. “Rin-negarsi” vuol dire proprio questo: “Mi dico di no!”.
Scegliere di vivere scappando da noi stessi, dalla nostra coscienza, facendo un sacco di cose per stordirci, per non sentire il vuoto che c’è dentro di noi, non è vivere.
Ad un certo punto dobbiamo dirci: “Basta, non posso andare avanti così, adesso mi devo fermare e prendere una decisione, a qualunque costo!”. Certo, riuscire a dirci: “No... smettila... basta!”, è difficile, doloroso; ma è assolutamente necessario. Del resto se non sappiamo dominarci, se quando serve non riusciamo a dirci “no”, come possiamo pensare che i nostri “sì” siano considerati veri e attendibili?
Infine Gesù chiude il vangelo dicendo: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,24).
Quel verbo “salvare” (in greco sozo), vuol dire letteralmente “custodire, risparmiare, preservare”. Quindi, chi vuole risparmiarsi, chi vuol fare il dritto, chi svicola, chi non vuole mettersi in gioco, finisce per perdere la propria vita.
Chi non osa, è un perdente: quante persone purtroppo vivono l’intera vita sulla difensiva, temporeggiando, rimandando: non osano assumere un comportamento deciso, imboccare una nuova strada, abbandonare situazioni ormai stantie e usurate, cambiare abitudini, stile di vita.
È una triste constatazione: perché chi vive così, sull’indecisione, sulla difensiva, meglio ancora, sul voler salvare ad ogni costo la propria mentalità (psichè), il proprio modo di “pensare”, finirà inesorabilmente per perdere tutta la sua vitalità, ogni suo entusiasmo, insomma il meglio, l’anima della sua vita.
Allora, vale la pena meditare le parole che Gesù dice nel versetto successivo, e che non appartengono al vangelo di oggi: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9,25). Pensiamoci seriamente! Amen.



giovedì 9 giugno 2016

12 Giugno 2016 – XI Domenica del Tempo Ordinario

«Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,36-8,3).

L’episodio riportato da Luca nel vangelo di questa domenica potrebbe essere giudicato, da certi farisei contemporanei, come inopportuno, fuori luogo, motivo di confusione, addirittura, per certi versi, scandaloso.
Non dobbiamo però lasciarci coinvolgere dai facili pregiudizi, derivanti come al solito da una lettura superficiale e distratta. Per capire il vero significato di questo testo dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo come al solito leggerlo nel suo naturale contesto, tenendo cioè presente la mentalità e il modo di vedere le cose al tempo di Gesù. Cerchiamo allora di analizzare alcuni particolari importanti.
Prima di tutto il comportamento di Gesù nei confronti dei “pranzi”. Contrariamente a certa letteratura che ci offre un’immagine stereotipata di grande austerità, Gesù era un uomo allegro, aperto, amava pranzare, pranzava molto e con tutti. Gesù nel vangelo non è un mistico, un asceta, uno che si macera continuamente nel digiuno rinunciando agli innocenti piaceri della vita: Gesù non fa penitenze straordinarie, non si mortifica macerando il suo corpo. Anzi! Gesù nel vangelo è l’uomo della festa, della gioia, dei pranzi, degli abbracci, dei sorrisi, delle emozioni. È proprio per questo che lo invidiano e lo accusano di essere “amico dei pubblicani e dei peccatori”, un “mangione e un beone”. Proprio per questo i religiosi, gli osservanti puri, le autorità del Tempio, si guardano bene dall’invitarlo: lo considerano ritualmente “impuro”, né più né meno di quella feccia della società che egli frequenta, con cui entra in contatto, con cui soprattutto si siede a mangiare: del resto “dimmi con chi vai, dimmi con chi mangi, e ti dirò chi sei”. 
Quindi, se Gesù va con certa gente di scarto, vuol dire che Egli “sostiene” quella gente, accetta quella gente, “scende a patti ” con essa. E questo, agli occhi delle persone religiose, è decisamente improponibile, scandaloso: “Ma che maestro sei?”.
In realtà, per Gesù, mangiare con quella gente è una manifestazione di grande amore: Dio non tollera, non vuole, che qualcuno si senta discriminato da lui o dal suo amore. Tutti devono sapere che Dio ama tutti, e tutti si devono sentire amati, accolti, riconosciuti, degni dell’amore di Dio, a prescindere dalla loro condotta di vita. Egli frequenta di proposito questi pranzi, proprio per incontrare tutte quelle persone emarginate, escluse, reiette, perché devono sapere che se la società o la religione le esclude, Dio no, Dio le ama, Dio sta volentieri con loro!
Un comportamento il suo che è causa di dure e rabbiose critiche da parte di scribi e farisei.
Per cui dobbiamo pensare che l’invito di Simone il fariseo, non risponda tanto ad un sentimento di “amicizia”, di accoglienza, di amore, quanto ad un pretesto per metterlo alla prova, per trovare nuovi motivi di accusa, per controllare ancora una volta chi sia davvero quest'uomo.
D’altronde i farisei erano i perfetti, gli osservanti, i “super” cristiani di quel tempo. Fariseo infatti significa “separato”: gente quindi che preferiva vivere separata, che si “isolava” dagli altri, dalle folle, per non correre il rischio di contaminarsi. La loro vita era davvero complicata: per ogni cosa, anche la più piccola e insignificante, avevano una regola precisa da osservare, un precetto da eseguire. Per esempio al mattino dovevano scendere dal letto prima con il piede destro, recitare un preghiera, poi con quello sinistro e recitarne un’altra. E poi durante tutto il giorno, continue preghiere, cose da fare, cose da non fare, lavori da fare e da evitare, ecc.
Gesù lotterà tantissimo contro questa mentalità: il succo dei suoi discorsi era che se le regole soffocano il cuore, uccidono l’amore, la misericordia, la tenerezza, vuol dire che sono regole e prescrizioni stupide. Non vengono da Dio ma dagli uomini.
Altro particolare poi che merita la nostra attenzione è la figura di questa donna, di questa “prostituta” che tutti guardano con disprezzo. E qui dobbiamo capire bene cosa significasse la prostituzione per quel tempo, per quel mondo.
Le prostitute di allora non sono in alcun modo assimilabili a quelle dei nostri tempi moderni. Per queste la prostituzione è una scelta libera, anche se talvolta sofferta: per le donne dell’epoca, invece, la scelta era obbligata. Le donne di allora erano decisamente discriminate in tutto. La nascita di una bambina era vista come una grave disgrazia, addirittura come una punizione di Dio. La donna, la bambina, era solo una bocca in più da sfamare, non potendo esercitare, come il maschio, alcuna attività produttiva per aiutare economicamente la famiglia. Era quindi abbastanza normale, ucciderla appena nata: un’usanza, del resto, che permane ancora oggi in India, in Cina, nei tanti paesi in cui le bambine vengono considerate ancora una disgrazia, e quindi anche lì molto spesso soppresse.
Di fronte a tali prospettive, l’unica possibilità di vita per le donne di quel tempo era pertanto quella di prostituirsi.
Ecco perché nella donna del vangelo di oggi, dobbiamo vedere una creatura che noi definiremmo “sfortunata”, una creatura che fin dalla sua più tenera età è stata “allevata” per questa professione, costretta ad essere “gentile” con gli uomini, abituata ad essere vista solo come “oggetto” di piacere. 
Nel suo approccio con Gesù, per lei è quindi naturale servirsi dei gesti tipici della sua professione: lei non conosce altra forma per esprimere il suo affetto, la sua riconoscenza, il suo amore, se non attraverso quell’arte che gli è stata inculcata fin da bambina. Non conosce altro. 
Ma con Gesù, come vedremo, questo “cerimoniale” della poveretta ad un tratto si stravolge: dalla finzione del mestiere, lei passa all'improvvisa constatazione di se stessa, della nullità della sua vita, si rende cioè conto di tutta la drammaticità della sua esistenza di peccatrice. E piange. Si dispera. Chiede perdono.
Per questo Gesù ha subito pietà di lei, la accetta così com’è, a differenza del fariseo che la trova immorale. Gesù non si scandalizza di lei, sa che questa persona non può essere “diversa”, non può vivere in maniera diversa da quella che le ha riservato la sua natura, marchiata dal suo essere donna. Lei non è una che esercita la prostituzione, lei è nata prostituta: questo le ha imposto la società.
Ecco perché Gesù non le chiede di cambiare vita, come ha sempre fatto con le altre “guarigioni”: Gesù non dice a questa poveretta: “Va’ e non peccare più, non fare più la prostituta”. Gesù sa che lei non ha alternative: “Va bene, tu sei così, e io ti accetto così”.
Certo, per noi oggi, ciò è difficile da capire, è troppo lontano dalla nostra mentalità: ma questo atteggiamento di Gesù è assolutamente evangelico.
Ma leggiamo questo vangelo dall’inizio: “Gesù entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola” (Lc 7,36). Letteralmente, “si sdraiò”; secondo cioè l’usanza ebraica e romana: al centro c’era un grande piatto e tutti intorno erano sdraiati. Si reggevano appoggiandosi su un gomito, con i piedi all’esterno della tavola.
“Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città” (Lc 7,37). Viene spontaneo chiederci: “come ha fatto ad entrare una donna come lei in casa di un fariseo?”. Le prostitute giravano infatti solo nei pranzi dei nobili romani, mai assolutamente in casa di un fariseo: i suoi pranzi erano rigorosamente riservati agli uomini.
Sicuramente apparteneva al gruppo di persone che seguivano Gesù, e nessuno l’aveva notata in precedenza. Luca sottolinea molto bene il fattore sorpresa: “ed ecco”; quando cioè tutti hanno preso posto, si accorgono finalmente di lei, ma ormai è troppo tardi, lei è già distesa ai piedi di Gesù. È una prostituta molto conosciuta: nel suo frequente spostarsi in città, doveva aver già visto Gesù che insegnava per le strade, o doveva averne sentito parlare, perché il suo comportamento, tutto quello che fa per Lui, rivela chiaramente il suo grande desiderio di incontrarlo.
“E fermatasi dietro (lett. stando dietro) si rannicchiò piangendo ai piedi di lui” (Lc 7,38).
L’attenzione generale a questo punto è ormai concentrata solo su questa situazione; ma i vari sentimenti sono assolutamente diversi tra loro; come per esempio: sorpresa, stupore, indignazione nel padrone di casa; angoscia, determinazione, tenerezza nella donna; soddisfazione, gioia e approvazione in Gesù.
Con il suo inatteso buttarsi ai piedi di Lui, dimostrandogli un amore vero, autentico, l’esperta peccatrice, che “sapeva amare”, denuncia il grande peccato del fariseo “giusto”: cioè il suo “non saper amare”. Quelli che si proclamano apertamente “giusti”, “retti”, “osservanti”, commettono in genere un gravissimo peccato, il peccato che va direttamente contro Dio Amore: non lo amano con cuore sincero, non lo amano concretamente, non lo amano coerentemente, ma sono tuttavia convinti di essere “giusti”, magari perché ogni tanto fanno delle “buone azioni”. Né più né meno dei farisei.
Anche noi viviamo tranquilli: pensiamo di dimostrare il nostro amore a Dio, limitandoci solo al “fare” senza “l’essere”; ci accontentiamo di qualche preghiera distratta, di elemosine, di messe domenicali “ascoltate”, ma non “vissute” durante la settimana, nella carità del quotidiano. E in questo, anche noi, non siamo molto diversi dai “farisei”.
La donna versa sui piedi di Gesù il “suo” unguento, vuole profumare Gesù: è venuta per questo. Intende regalargli l’olio profumato del suo cuore, segno di gioia, di abbondanza, di amore, di consacrazione. È l’unica persona, fino a questo momento, che offre qualcosa a Gesù, per amore: vuole cioè donare questo suo grande amore a Colui che, dal canto suo, l’ha sempre offerto generosamente a tutti quelli che ha incontrato.
La sua è una decisione che denota grande coraggio e soprattutto una grande umiltà: i suoi gesti usuali, accattivanti e di grande dolcezza, cambiano da subito significato, tradiscono immediatamente questo suo nuovo sentimento, un sentimento che fino ad allora lei stessa non immaginava, questo amore vero, sincero, smisurato che trabocca dal suo cuore, e che improvvisamente si trasforma in un pianto irrefrenabile, un pianto di serenità, di liberazione, di gioia, di amore, con cui lava i piedi di Gesù:; e in segno della sua venerazione, del suo rispetto, della sua gratitudine, glieli asciuga con i suoi lunghi capelli.
Il fariseo vede la scena, e seguendo la sua vera natura ipocrita, coglie l’occasione per continuare a negare tra sé la divinità di Gesù: “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice” (Lc 7,39). Egli è scandalizzato, schifato, dal comportamento di entrambi. Il suo disprezzo per la donna è così forte che neppure la nomina: “Chi e che specie di donna...”.
Le persone super religiose sono maliziose e vedono malizia dappertutto: Gesù invece, che conosce bene il profondo, vede nella donna solo il suo gesto d’amore; nel fariseo invece il grave peccato della sua mancanza d’amore.
Chi ha dentro di sé il peccato, o la paura del peccato, lo vede dappertutto; chi cova nel suo cuore dei mostri, o è terrorizzato dal demonio, lo vede dappertutto; chi ha dentro il proprio cuore amore e bontà, li vede dappertutto e li espande in ogni dove. Ognuno vede gli altri secondo i propri occhiali.
Quello che uno dice degli altri, dice molto più di lui che degli altri. Il fariseo ha visto nella donna solo una donnaccia, una prostituta da disprezzare; Gesù ha visto una donna sofferente e pentita da amare e dalla quale accogliere amore. Certo, i gesti con cui lei dimostra il suo amore per Gesù, sono gesti provocanti, seducenti, sono i gesti che ripete tutti i giorni nel suo "lavoro". Ma quei gesti che, in quel contesto, diventavano “prostituzione”, svendita di sé, modo per far soldi, improvvisamente, pur rimanendo uguali, diventano autentici segni di amore: ciò che prima era peccato, ora è diventato amore. Simone che non ama, vede solo i gesti e la condanna. Gesù, che ama, vede il cuore e la assolve.
Questo ci fa capire che nulla in sé è negativo: un contatto, un abbraccio, una carezza, uno sguardo, possono essere segni di amore puro e di alta spiritualità. Come anche il contrario: una preghiera, un’azione religiosa, una parola, un gesto, possono venire da un cuore pieno di odio e di risentimento, di insoddisfazione e di chiusura. È il cuore, è l’intenzione, lo sguardo, che rendono pure e impure le persone e le cose, non i gesti!
Gesù poi, rivolgendosi a Simone il fariseo, racconta una storiella, con cui intende stabilire un criterio fondamentale: non è più importante ciò che abbiamo fatto di negativo, ma ciò che abbiamo fatto di positivo. Non i peccati, ma l’amore: “Sì, Simone, tu sei perfetto, in regola, senza alcuna trasgressione, ma in te non c’è amore, non c’è vitalità, non c’è passione: sostanzialmente sei morto, imprigionato dalla tua paura di vivere. In te non ci sono peccati, tranne quello di non vivere più. Vedi questa donna? È vero, ha sbagliato molto, ma il suo cuore, contrariamente al tuo, sa ancora amare, è vivo, sa piangere, sa chiedere scusa, sa di aver tanto bisogno di amore e di perdono”.
Quando andremo di là, per entrare con Lui nel suo regno, Dio non ci chiederà: “Quali e quanti, peccati hai fatto?”, ma: “Come e quanto hai amato?”. Perché chi vive con la paura di peccare, di sbagliare, di fallire, vive costantemente sulla difensiva: semplicemente non vive, non ama, non si dona.
C’è infatti un unico, grande e vero peccato: quello di non essere più capaci di amare, quello di diventare secchi, aridi, giudicanti, così arrabbiati dentro, da non sapere più neppure cosa siano la tenerezza, la compassione, l’affetto, il sorridere, il giocare, il lasciarsi andare, la passione, la gioia per la vita, l’amore per gli altri.
“L’uomo guarda le apparenze; il Signore guarda il cuore” (1Sam 16,7). Quando Gesù doveva scegliere i suoi apostoli non guardava all’esterno, a cosa facevano, a come apparivano: tant'è che Giacomo e Giovanni avevano un caratteraccio, Matteo era un ladro; Giuda un approfittatore che poi finisce per tradirlo; Simon Pietro, l'eterno indeciso, era un pusillanime; l’altro Simone era un Cananeo, una “testa calda”. Un bel manipolo di persone con mille problemi, mille debolezze; ma Gesù guardava al loro cuore: “Questo qui, sa amare?”. Se la risposta era: “Sì”, allora aveva tutte le carte in regola per seguirlo.
Saper amare. Ecco perché la prostituta del vangelo di oggi deve essere di esempio per tutti noi: un esempio per tutti quei cristiani che si riconoscono peccatori, bisognosi di perdono, ma con tanta voglia di amare e di essere amati. Amen.



martedì 31 maggio 2016

5 Giugno 2016 – X Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei». (Lc 7,11-17).

Contare su un Dio misericordioso è il tema ricorrente in quest’anno giubilare della “misericordia”; un tema che il vangelo di oggi affronta in un meraviglioso contesto,con il quale Luca, in esclusiva assoluta, ci racconta la risurrezione da morte di un ragazzo, fatta da Gesù, mentre veniva portato fuori dalle mura della città per essere sepolto.
Il vangelo è apparentemente semplice: c’è una donna della cittadina di Nain, vedova, cui improvvisamente viene a mancare l’unico figlio. Arriva Gesù e nella sua misericordia le riporta in vita il giovane.
Un miracolo come tanti altri: anzi, neppure tanto originale, visto che già nell’Antico Testamento, quindi molto tempo prima di lui, Elia (1Re 17,17-24) ed Eliseo (2Re 4,32-37), compirono ciascuno un miracolo analogo. C’è da dire però che tra l’operato dei due profeti e quello di Gesù, c’è una differenza sostanziale: poiché i profeti agivano come “intermediari di Dio”: essi non agivano in virtù della loro forza, del loro potere, ma era Dio che agiva per mezzo loro, per cui dovettero pregare Jahweh molto intensamente, perché lui operasse il miracolo; Gesù al contrario non è intermediario di nessuno, egli è Dio e se vuole operare miracoli, non deve pregare nessuno;Egli opera e guarisce in forza della sua stessa forza. Inoltre, un’altra differenza importantissima sta nelle motivazioni dei miracoli: mentre il testo dell’Antico Testamento ha lo scopo di evidenziare la “potenza” di Dio, il testo di Luca vuole invece sottolineare la sua “misericordia”, la misericordia di Gesù, del “Signore”, come egli appunto lo chiama qui per la prima volta.
Siamo nel capitolo settimo del suo vangelo: Gesù, in tale contesto, è particolarmente impegnato a dimostrare a tutti la straordinarietà della sua missione: è di poco prima infatti la guarigione del servo del centurione che “stava” per morire; qui resuscita addirittura un bambino già morto. Opere straordinarie che inducono la gente a vedere in lui l’inviato di Dio, quel “messia”, che tutti aspettavano da tempo immemorabile. Tant’è che il Battista stesso, come sappiamo dal seguito del vangelo di oggi, venuto a conoscenza di “tutte queste cose”, manda due suoi discepoli a chiedere direttamente a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Lc 7,19). E Gesù risponde appunto: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito” (Lc 7,22). Le azioni, i fatti, più che le tante parole, sono determinanti per giudicare una persona.
Ma entriamo nel vangelo propostoci oggi dalla Liturgia. “Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e una grande folla” (Lc 7,11).
Dobbiamo riconoscere che Luca è un artista. Gli bastano pochi tratti per dare profondità e senso al quadro che si accinge a dipingere. Egli attira immediatamente la nostra attenzione su due situazioni opposte, precisamente su due “processioni”, che si incrociano alla porta della cittadina di Nain: mentre il primo corteo, al seguito di Gesù, è quello della “vita” che si appresta ad entrare, l’altro, quello che sta uscendo dalla città per accompagnare la vedova alla sepoltura del figlio, è la processione della “morte”. Il contrasto tra Gesù-Vita e popolo-morte, fa dunque qui da premessa. Ma fermiamoci un momento sul simbolismo, sul significato che possiamo dare a questo testo di Luca, magari tenendo d’occhio le tante situazioni analoghe della nostra società contemporanea.
Anche oggi non è raro veder portare dei giovani alla sepoltura. O per malattia che stronca inesorabilmente senza contare gli anni, o per sempre più irragionevoli morti giunte improvvise per incidenti o disgrazie, oppure cercate nella follia della droga o addirittura nel suicidio.
Nessuno si abitua a questi drammi. Ogni morte di un giovane, per qualunque motivo, scuote la coscienza di tutti. Giovinezza vuol dire pienezza di vita, possibilità di utopie e sogni, di fantasie, di meraviglie da costruire: di vocazioni tutte da spendere.
Si nota nei funerali dei giovani una partecipazione che difficilmente si ha per altre età.
E su tutti cala una tristezza che sconfina nella disperazione. Difficile dire parole in quella circostanza. Mai come in questi momenti la vita viene esaltata.
Un corteo funebre esce dunque dalla città: un fatto che fa pensare ad una analogia piuttosto interessante, che porta ad alcune considerazioni: la città rappresenta la figura materna; dalle sue mura, dal suo grembo, esce un bambino morto.
La madre cioè non è riuscita a farlo crescere, non ha voluto renderlo autonomo, non ha voluto che camminasse sulle sue gambe, che uscisse dalla sua influenza iperprotettiva. Tra i due è nata una relazione di esclusiva simbiosi: la madre, evidentemente, non disponeva di una sua vita propria, era il figlio che costituiva tutta la “sua” vita. Ma se è il figlio a dar vita alla madre, egli automaticamente perde la sua di vita, e non avendo più una vita, muore.
Ma perché questo figlio avrebbe “dato la sua vita” alla madre? Perché si sarebbe “spersonalizzato” fino a questo punto? Ce lo dice il testo: era“Figlio unico di madre vedova” (Lc 7,11). C’è da dire che essere “vedova” a quei tempi, significava trovarsi in una condizione veramente miserevole: una vedova, in Israele, non aveva alcun diritto, alcun riconoscimento civile, non poteva neppure lavorare per guadagnarsi da vivere. L’unico quindi che può difendere quella madre è suo figlio; l’unico che le può dare dignità, l’unico che può darle valore e sostentamento. Quel figlio è “tutto” per lei: le fa da marito, da compagno, da amico; le da sicurezza, giustizia, protezione: tutti quei riconoscimenti che nessun altro può darle.
Per cui quel figlio è “tutto” per la madre: egli non ha una vita “sua”, vive solo per lei.
E per questo muore. Muore perché invece di ricevere vita dalla madre, è lui che deve darla a lei. E senza vita non si può che morire dentro. Nessun figlio può dare la vita ad un genitore. Sono i genitori che danno la vita ai figli, non il contrario!
Qui però notiamo anche una nota particolare: “Molta gente della città era con lei” (Lc 7,11).
È una nota molto interessante. Perché quell’essere con lei non indica soltanto una presenza fisica ma anche un “andare” con lei, un pensare cioè come lei, un condividere il suo comportamento, ritenerlo giusto, doveroso, sacrosanto.
Avranno sicuramente raccomandato al figlio: “Guarda che tu sei tutto ciò che tua madre può avere, sei il bastone della sua vecchiaia; il suo sostentamento: tua madre vive solo per te; se tu non fossi nato, lei sarebbe sicuramente morta”.
In pratica vediamo che l’ambiente circostante non fa altro che sottolineare, approvare in pieno il comportamento della madre e, conseguentemente quello del figlio, a condizione che lui la assecondi, a condizione cioè che lui viva per la madre, che rinunci alla sua vita per lei.
È evidente che se tutto il suo vicinato si comporta in questo modo, per il figlio diventa difficile, anzi impossibile, ribellarsi a questa mentalità.
Ma a questo punto arriva Gesù. E osserviamo attentamente quello che fa.
“Vedendola ne ebbe compassione” (Lc 7,12). Egli vede la madre e prova compassione per lei. Non prova compassione per il figlio morto, ma per la madre. È la madre che ha bisogno di amore, di compassione, di aiuto, di una cura energica; è lei che deve “guarire”. Per cui, da questo momento, tutto ciò che Gesù fa, lo fa per lei, per la madre, non per il figlio. I suoi gesti, le sue parole, sono esclusivamente per lei. Che il figlio risorga, dipende da lei: infatti egli “risorgerà” solo se la madre cambierà radicalmente mentalità, se farà in se stessa delle modifiche sostanziali, dei cambiamenti, delle trasformazioni radicali.
Prima di tutto, dunque, Gesù “vede”: i suoi sentimenti, la sua misericordia, la sua tenerezza, il suo sentimento d’amore, gli nascono dentro proprio perché “vede”. Ma vede non perché ha gli occhi, ma perché lungo la strada si lascia “toccare”, si lascia “colpire”, si lascia coinvolgere da ciò che lo circonda. Gesù non guarda soltanto, Egli “vede” e “sente”. È attento, un osservatore consapevole.
Noi spesso guardiamo, ma non vediamo: l’immagine si ferma sulla nostra retina ma non arriva nel nostro cuore. Non abbiamo cioè motivazioni per agire, emozioni che ci mettano in movimento. E per questo non facciamo nulla.
Gesù invece non ha paura di essere “scombussolato dentro”, di lasciare che quello che vede lo “commuova” profondamente. Gesù non “rimuove” l’emozione. La sua forza è nel suo sentire, nei sentimenti che egli vive. È questo che poi lo porta ad agire.
Luca evidenzia in altri due passi lo stretto legame che esiste tra “vedere” (orao) e “avere compassione” (splanchnizomai): lo fa nella parabola del buon Samaritano che vede il ferito abbandonato per strada e ne ha pietà (Lc 10,33), e in quella del padre misericordioso che vede da lontano il figliol prodigo ed è mosso a compassione (Lc 15,20).
Anche questi due brani sono riportati esclusivamente da Luca, che ci rende la vera immagine del Dio misericordioso, preso da passione per l’uomo, suo figlio ferito, perduto, morto.
Con la vedova di Nain come si comporta Gesù? Vediamolo nei particolari:
1) “Non piangere”. È l’invito che rivolge alla madre in lacrime, oppressa dal dolore. Ella piange per la separazione dal figlio. Ma forse il suo pianto è anche una richiesta di aiuto: è un chiedere qualcosa, un po’ come fanno i bambini, che improvvisamente le è stato tolto e che nessuno può più restituirle. Ma allora, il suo è un pianto di una donna o di una bambina?
Non è che questa vedova piange per la sua attuale condizione: “Che ne sarà di me? Chi penserà a me? Come farò senza di lui? Lui era tutto, tutta la mia vita: e ora?”. Forse non sono lacrime di un addio, ma lacrime di collera per l’impossibilità di continuare a tenere il figlio legato a sé.
In pratica Gesù le dice: “Smettila di piangere, non fare la bambina! Smettila di pensare, attraverso lui, soltanto alla tua persona. Tu non puoi dipendere esclusivamente da lui!”.
2) “Toccò la bara”: bisogna toccare ciò che è morto, ciò che non può più esistere, ciò che non è più vitale. Bisogna toccare, cioè mettere mano, a tutti quei comportamenti che ci distruggono, che ci imprigionano, che si soffocano, che ci ingabbiano. Anche se non è bello.
Facendo questo, Gesù entra là dove la vedova non vuole entrare: deve cioè imparare che questo “suo” figlio non è suo, e che quindi deve andare nella vita con le sue gambe.
3) “Ragazzo, dico a te, alzati”; al figlio in pratica dice: “svegliati, devi imparare un nuovo comportamento , c’è un passaggio che devi fare. Non puoi fare come prima: perché fare come prima vuol dire morire. Esci dalla tua illusione: tu vivi in funzione di tua madre, sei ancora legato a lei. “Alzati”, corrisponde a: “Levati in piedi” (era disteso), cammina con le tue gambe, smettila di farti portare dagli altri, cioè smettila di farti dire dagli altri (madre e ambiente) cosa sei, cosa devi fare, come devi comportarti, cosa devi pensare, cosa è giusto e cosa no, ecc. Diventa grande, prendi in mano la tua vita, muoviti sulle tue gambe.
4) “Il morto si mise seduto e cominciò a parlare”: Ora finalmente parla! Quindi prima non parlava. Ma chi è che lo zittiva? Chiaramente la madre (c’era solo lei!): “Guarda quanto lavoro per mandarti a scuola; non vedi i sacrifici che faccio? Non uscire questa sera perché mi sento sola; quando avrai la mia età, capirai”.
C’erano sempre i suoi pensieri, i suoi problemi, prima di quelli del figlio. L’attenzione era tutta su di lei: il figlio non aveva “voce”, non aveva spazio. Tutto veniva visto in funzione della madre, dei suoi bisogni e delle sue paure.
Ma ora c’è anche lui: anche lui ha i suoi desideri, le sue passioni, i suoi gusti, i suoi punti di vista. Ora c’è anche lui, e lei deve capirlo.
5) “Lo restituì a sua madre”: a questo punto Gesù restituisce alla madre un figlio vivo, non uno morto. Ma perché questo figlio ora è vivo mentre prima era morto? Cos’è che fa ora di diverso rispetto a prima? Si è alzato, vuol camminare sulle sue gambe: non è più, cioè, un bambino “mangiato, ingoiato” da sua madre, ma un piccolo uomo che sta iniziando a pensare con la sua testa, a scegliere con la sua mente e a vivere in funzione di sé, dei propri desideri, non di quelli di sua madre.
Questo figlio che torna alla madre non è più quello di prima: è un altro. La madre non lo perde (ce l’ha ancora) ma “lo perde”: il rapporto non sarà più quello di prima.
Così anche noi se non sappiamo “perdere”, cioè se non lasciamo andare i nostri figli, li perderemo, finiremo per rovinar loro la vita.
Prendiamo per esempio Maria, che ha dovuto “perdere Gesù” per “averlo”, per consentirgli cioè di seguire fino in fondo la sua missione.
Nelle culture antiche ad un certo momento i ragazzi venivano presi dai padri e portati nella foresta per confrontarsi con i pericoli e gli animali. Era un’esperienza difficile, pericolosa e tremenda. Ma perché? Perché essi avevano bisogno di “tirare fuori” il loro coraggio, il loro ardore, la loro libertà, la loro forza. Una madre non può bastare per suo figlio: può dargli l’amore (e questo è tantissimo) ma non può dargli tutto ciò di cui ha bisogno.
C’è un famoso proverbio che dice: “Ogni mattina in Africa, al sorgere del sole, la gazzella si sveglia, e sa che dovrà correre più veloce del leone per non rimanere uccisa. Ogni mattina in Africa, al sorgere del sole, il leone si sveglia e sa che dovrà correre più veloce della gazzella, o morirà di fame. Ogni mattina in Africa, non importa che uno sia leone o gazzella, deve comunque incominciare a correre”. Questo in sintesi è il comando che Gesù rivolge oggi anche a noi: “Alzatevi; muovetevi, correte e smettetela di piangervi addosso!”. Amen.



giovedì 26 maggio 2016

29 Maggio 2016 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo

«Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (Lc 9,11b-17).

Oggi la Chiesa celebra la festa del Corpo e Sangue di Cristo, la festa dell’Eucarestia: Gesù non c’è più fisicamente con noi, ma è presente ogni giorno nell’Eucaristia sotto le specie del Pane e del Vino e nel Tabernacolo nelle Ostie consacrate.
Storicamente la festa nasce a seguito del miracolo di Bolsena: un sacerdote dubitava della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino che lui consacrava nell’Eucaristia: un giorno, all’atto dello spezzare il pane, dalla piccola ostia sgorgò miracolosamente del sangue, che macchiò di rosso il corporale: l’importante reliquia, insieme all’ostia, sono esposte alla venerazione dei fedeli nel duomo di Orvieto, costruito per conservare appunto la memoria e la documentazione del miracolo. Dal 1264, la festa venne estesa a tutta la Chiesa.
Ma cosa è successo esattamente in quella serata, cui si riferisce il vangelo di oggi?
Sappiamo che Gesù durante la sua vita pubblica aveva toccato ripetutamente il tema della “cena”, del “pranzo” aperto a tutti: puri, impuri, giusti e peccatori; alla sua tavola c’era posto per tutti, perché essa era il segno dell’amore infinito, smisurato, illimitato, incondizionato di Dio.
Finché Gesù è in vita, tutti possono vedere e sperimentare queste sue iniziative: Egli però sa bene di avere poco tempo da dedicare alla catechesi; deve quindi preparare con cura la folla per il “dopo”, per quando Lui sarà ritornato al Padre.
Il suo gesto quindi è preparato, programmato, con un significato ben preciso: la cena che egli offre alla folla non è una cena come tante altre; è una cena speciale, una cena “simbolica”, in cui Egli anticipa delle azioni rituali che saranno poi definite per i discepoli nella famosa “cena pasquale” del Cenacolo, durante la quale istituirà appunto l’Eucaristia, il sacramento della sua reale presenza nel tempo. Gli esegeti sono in difficoltà nell’attribuire il “dove” e il “quando” di questa prima “cena”: ma non è questo il punto più importante. Ciò che conta è il suo significato, sono le sue parole. Egli in pratica delinea un rito in grado di riproporre un banchetto, quando lui non ci sarà più, intorno al quale tutte le genti potranno cibarsi del suo Corpo e godere della sua reale presenza: “Quando voi direte: Questo è il mio Corpo e questo è il mio Sangue io realmente sarò in mezzo a voi, vi nutrirò e la vostra tavola diverrà e sarà come la mia tavola finché io ero in vita”.
L’Eucarestia è pertanto l’amore di Dio che arriva a tutti, è la possibilità per tutti di ritrovare le forze necessarie ad affrontare gli inevitabili disagi della vita. L’eucarestia è Gesù: tutti hanno accesso alla sua tavola. Tutti possono mangiare con Lui e di Lui non perché ne abbiano i meriti, ma perché l’amore di Dio vuole scendere su ogni cuore e su ogni anima. È un amore gratuito, destinato a quanti ne hanno bisogno. “Sei un lebbroso? Nessuno ti vuole per il tuo caratteraccio? Tutti ti escludono perché sei soffocante, difficile, insopportabile? Vieni qui, mangiamo insieme; tu non sai quanto ti amo! Sei un pubblicano? Non sei in regola con le leggi? Sei lontano da Me? Vieni da me solo per interesse? Non importa, vieni qui, mangiamo insieme, rilassati e sappi che il mio amore è garantito e gratuito. Sei una prostituta? Hai tradito l’amore? Hai tradito la fedeltà? Hai venduto il tuo corpo? La tua anima? La tua mente? Hai perso la tua dignità di uomo? Vieni qui, mangiamo insieme, rilassati, qui sei a casa tua, io ti amo; il mio amore sarà la tua forza!”.
Ecco, l’Eucarestia è questo: un banchetto, un pranzo per tutti, aperto a tutti, perché tutti hanno fame di Dio e Dio vuol darsi a tutti, perché tutti sono e saranno sempre figli suoi.
E allora, quando ci accostiamo alla Comunione e prendiamo sulla nostra mano il corpo di Cristo, dobbiamo avere fede; dobbiamo essere certi che quel pane, quella piccola ostia, all’apparenza insignificante, riesce a sfamare milioni di persone. È il nostro pane, quel pane che placa la nostra fame d’amore, che inonda il nostro cuore arido, che rianima il nostro entusiasmo spento, che illumina il nostro buio, i nostri tunnel; è quella forza che ci permette di ritrovare il giusto cammino nel nostro inutile girovagare senza meta. Quel pane è Dio stesso che viene in noi; è Lui che vuole venirci a trovare, che non si vergogna di entrare nella nostra casa in disordine, che vuole incontrarci da soli, che vuole saziarci, amarci. È Lui che viene per primo da noi, è Lui che ci offre la sua amicizia, che ci prende per mano così come siamo, rallentati dalle nostre miserie, e dolcemente ci ripete: “Vai bene così. Mi piace stare con te, quando sei vero, autentico, umile, spontaneo, senza camuffamenti, senza incrostazioni, senza maschere, né uniformi, né paraventi. Sii sempre te stesso, vivi nella mia amicizia”. Allora finalmente ci sentiamo a casa nostra. Perché con Lui non abbiamo nulla da dimostrare, non abbiamo cambiali in scadenza, non abbiamo facciate da esibire, compromessi da salvare: con Lui possiamo essere tranquillamente noi stessi, e godere a piene mani del suo Amore.
Nei primi secoli della chiesa quando si parlava di “Corpo del Signore” si intendevano tre diversi “luoghi” in cui Gesù era presente: il suo corpo fisico di uomo, il pane consacrato nell’Eucarestia, il corpo delle persone, il suo corpus mysticum.
Questo pensiero mette in luce una grande verità: che Dio è visibile solo attraverso un corpo. Dio ha avuto bisogno del corpo di Gesù, per incarnarsi e per rendersi visibile al mondo; in ogni Eucaristia rivela il suo corpo, sotto le specie del pane e del vino, rendendosi presente a noi; e infine Egli vive nel corpo delle sue creature; vive cioè in Spirito nell’anima delle persone di ogni tempo. A questo proposito c’è da dire che per tanti secoli si è fatta una netta distinzione tra il corpo e l’anima dell’uomo. Il corpo era il contenitore dell’anima. Non aveva valore in sé ma solo perché conteneva la parte nobile della vita, lo Spirito, l’anima. Per cui tutto ciò che era corpo era insignificante, pericoloso o addirittura diabolico. Il corpo della donna per molto tempo è stato il simbolo del peccato, della tentazione; l’affettività è stata negata e repressa come infantilismo e la sessualità è stata catalogata come strumento del diavolo.
A ben vedere però non sono cose troppo lontane da noi. Quanti di noi nella loro infanzia hanno infatti sofferto per la mancanza di affettività: certo venivano assicurate tutte le attenzioni per il corpo: ma gli abbracci? Le coccole? Le carezze? Il contatto? I baci affettuosi della mamma? Quante persone sono rimaste analfabete di emozioni! Quante persone non hanno conosciuto il linguaggio delle emozioni!. Quante persone hanno poi vissuto con sospetto ogni manifestazione corporea! Un abbraccio? “Se la vuole portare a letto!”. Una carezza? “Ci sta provando!”. Un bacio sulla guancia? “Un approccio”. E la sessualità? Guai a parlarne, il solo argomento imbarazzava i genitori. Quando ne parlavano era solo per stabilire “cosa si poteva fare e cosa non si poteva fare”. Era vissuta come un peso, una vergogna, un tabù; e quanti sensi di colpa! Insomma tutto ciò che era corpo era pericoloso, negativo. Il modello spirituale era il monaco che si disinteressava completamente del proprio corpo e che notte e giorno era rivolto a Dio. Così il corpo si poteva fustigare, colpire, umiliare, e tutto questo era santità.
La festa di oggi ci dice invece, come ho detto, che Dio non è visibile senza un corpo. Non possiamo avvertirne la presenza. Il corpo non è un optional, un di più, un contenitore. Il corpo è la realtà visibile di Dio e contemporaneamente di ciascuno di noi. Non c’è un’anima “dentro” al corpo, una vita “dentro” un involucro di nome corpo; al contrario è l’anima che è corporea e il corpo che è animato. Infatti se l’anima sta male il corpo sta male. Tant’è che Gesù guariva i corpi, guarendo prima le anime.
Ma torniamo al nostro vangelo. Quella sera dunque avvenne la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Prima però di iniziare, Gesù vuole testare la fede dei suoi: essi dispongono solo di cinque pani e due pesci, e le persone da sfamare sono circa cinquemila: “Dategli voi stessi da mangiare” (9,13). Bella mossa. Gesù in pratica si defila: devono essere loro, personalmente, a rendersi conto della potenza dell’Amore di Dio: “Ma Gesù, cosa dici? Non vedi che abbiamo solo cinque pani e due pesci? Come facciamo?”. Essi non guardano ancora con gli occhi di Gesù; si fermano al presente, alla situazione concreta: non credono nelle loro possibilità, non hanno cioè gli occhi della fede.
Quante volte succede anche a noi di non credere, di non aver fiducia in noi stessi. Ci guardiamo e diciamo: “Non siamo capaci, non abbiamo energia, non ne abbiamo il coraggio!”. Quando ci guardiamo, vediamo soltanto i cinque pani e due pesci: un nulla. “Chi sono io, di cosa dispongo per poter costruire la mia vita?”.
Gesù ci insegna come fare: prende quel poco che ha, lo benedice, e avviene il miracolo: con cinque tozzi di pane riesce a sfamare migliaia di persone, tutti ne mangiano a sazietà e ne rimangono ancora dodici ceste! Egli sa per certo che partendo da quel poco, uscirà qualcosa di grande. Egli ha fede, vive credendo nei suoi poteri conferitegli dal Padre e con Lui condivisi: e così è stato. E così sarà per chiunque crede.
Il problema di base è dunque la fede: il problema è credere fermamente che, condividendo la Grazia di Dio, anche noi possiamo essere grandi, potenti, forti. E questo ci spaventa: perché la fede ci dimostra che la vita è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, che siamo noi a plasmarla.
Impariamo allora a credere sul serio in noi stessi, nel potenziale che abbiamo dentro; quel potenziale inespresso, che noi preferiamo tener sepolto, rinchiuso. Prendiamo in mano quello che siamo, e invece di lamentarci per ciò che non siamo, benediciamo, ringraziamo e accettiamo. È il nostro miracolo dei pani.
Infine, quando andiamo a fare la comunione, sentiamo il sacerdote che ci dice: “Corpo di Cristo”. Che vuol dire, riferendosi all’ostia:”Questo è il Corpo di Cristo”: ma lo dice riferendosi anche a noi: perché noi “siamo il Corpo di Cristo”. Se ci pensiamo un istante, percepiremo un fremito, un sussulto, una potenza nucleare dentro di noi. E se accettiamo questa forza, questa verità, questa realtà, veramente possiamo tutto; veramente può accadere nella nostra vita quella moltiplicazione dei pani, che è la moltiplicazione delle nostre possibilità. Se accettiamo e amiamo il poco che ci sembra di essere, e lo mettiamo tutto in gioco, scopriremo improvvisamente di essere il molto che non conosciamo. Amen.



giovedì 19 maggio 2016

22 Maggio 2016 – Ss. Trinità

«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità... Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-15).

La festa della Trinità ci dice che Dio è unico, ma non solitario: è un Dio solo in tre Persone, che non si dividono l'unica divinità, ma ciascuna di esse è Dio tutto intero. Spiega il Catechismo: «Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio…». Ognuna delle tre Persone è la stessa realtà, cioè la stessa sostanza, la stessa essenza o natura divina. Padre, Figlio e Spirito Santo non sono semplicemente nomi che indicano “modalità” dell'Essere divino; essi sono realmente tre persone, che sono distinte tra loro per le loro relazioni di origine: è il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede da entrambi come vincolo d’Amore.
Detta così, la Trinità potrebbe risultare di non facile comprensione, frutto di concetti, di filosofie, di argomentazioni, di tesi e di antitesi; uno sforzo speculativo, di alto equilibrismo teologico, che cerca di farci capire l’essenza di Dio. Nel suo concreto, però, la Trinità è piuttosto semplice: in parole povere altro non è che l’esperienza dell’amore e della comunione reciproca di Dio Padre con Dio Figlio: un amore che tramite lo Spirito si fa uomo, Verbo, Parola, e si rivela, diventando “comprensibile”, “accessibile”, all’umanità intera.
Per i primi discepoli è successo proprio questo: hanno capito che Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, non solo sosteneva di essere figlio di Dio, ma si comportava realmente come tale, da figlio di Dio. In quell’uomo cioè c’era veramente Dio, era Dio! In quell’uomo essi hanno sperimentato un mondo di amore, di comunione, di vita, infinitamente grande, profondo. E per dimostrare anche a noi questa essenza divina, hanno utilizzato l’immagine che più riusciva ad esprimere il concetto: l’immagine di una famiglia, con un Padre, un Figlio e il loro reciproco Amore, lo Spirito. Tre persone, dunque, unite strettamente tra loro, legate tra loro, ma comunque distinte, ognuna cioè con un proprio ruolo specifico.
Ebbene, questa “relazione” intra trinitaria è l’immagine esatta di come devono essere i nostri rapporti tra uomo e donna, tra mamma e figlio, tra amici, tra ogni appartenente al genere umano: rapporti cioè tra persone essenzialmente diverse, ma che sono unite, tenute insieme, da un unico Amore, da un unico elemento che fa da “collante”: lo Spirito di Dio. Tutti in fondo perseguiamo gli stessi obiettivi: viviamo insieme le gioie dello Spirito, sperimentiamo insieme la carità del Padre, progrediamo insieme sulle orme del Figlio, abbiamo progetti comuni di salvezza, creiamo famiglie e figli obbedendo al suo ordine, condividiamo tempo e aspirazioni; ci comportiamo cioè come se fossimo una grande, unica, entità; quando ciascuno di noi ha una sua individualità, una sua unicità di persona: ideali e progetti comuni, conseguibili ciascuno con la propria personalità, con la propria autonomia decisionale, con il proprio stile di vita.
Ci sono, è vero, molte persone che non tengono conto di questa realtà: pretendono cioè che quanti si relazionano con loro, annullino la loro personalità, si trasformino completamente, spersonalizzino il loro carattere, per diventare un loro alter ego, una loro copia esatta: esigono, per esempio, che tutti facciano solo ed esclusivamente ciò che fanno loro, come lo fanno loro, quando lo fanno loro; tutti devono comportarsi esattamente come vogliono loro. Sono persone, insomma, talmente egocentriche da non accettare alcuna divergenza a loro estranea, da non sopportare l’altrui diversità ed autonomia. Ma questo punto di vista è solo la vista da un unico punto: sono talmente limitati, da non rendersi conto che in questo modo annullano le persone, le rovinano, le derubano della loro personalità, rifiutando così a priori valide opportunità di collaborazione e di integrazione.
In molte comunità cristiane si parla tanto di unità, di comunione fraterna, di comprensione, di carità, ma molto spesso tutte queste belle espressioni si riducono ad una triste realtà: chi non si adegua al pensiero dei responsabili, chi segue eventuali vie alternative per raggiungere lo stesso risultato, chi insomma dimostra di avere un cervello e di saperlo usare, automaticamente è fuori, è escluso; viene messo al bando, ignorato, isolato. Anche qui non è ammessa alcuna pluralità interpretativa. Eppure la dottrina della Chiesa ci insegna che tutti i componenti del popolo di Dio, pur essendo un solo “corpo” e un solo “spirito”, hanno il diritto-dovere di mettere a frutto, nella insostituibile carità, quei doni, quei carismi che lo Spirito ha infuso in ciascuno, nella sua specificità, nella sua individualità, nella sua diversità. Perché ciò che unisce veramente, ciò che crea una unione indissolubile, non è l’assoluta, piatta, uniformità, nell’assenza più totale di qualunque apporto individuale, bensì la comune e reciproca condivisione di pensiero alla luce dell’Amore, ossia l’umile apporto personale, l’insieme delle disponibilità ad aprirsi e a darsi nella Carità che “unisce i cuori”.
Fare “unione” infatti non è fare le stesse cose, avere le stesse idee, fare tutti lo stesso cammino. Fare “unione” significa donare, reciprocamente, il proprio amore più profondo, donare il proprio Spirito, condividere quel quid che abbiamo di più prezioso e di più caro nel nostro cuore.
Senza l’amore, otterremmo solo una unione fisica, materiale, che è ben diversa dalla vera unione, da quella che nasce dalla carità. Certo, in questo modo, possiamo arrivare anche a dispensare amore, ma non l’Amore vero, quello che illumina la nostra vita, quello senza il quale noi stessi non siamo “Amore”.
Abbiamo detto che la festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, relazione, rapporto. In pratica ci fa capire che qualunque vita, priva di relazioni, non è degna di essere vissuta, non può essere considerata vita. È infatti attraverso le nostre relazioni che impariamo a vivere, sono esse l’unico strumento con cui possiamo tirar fuori, mettere concretamente a frutto, la Vita che abbiamo in noi.
Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa; cattive relazioni significano una vita difficile, carica di risentimenti. Ora, se avere relazioni è un fatto normale, semplice, naturale, altrettanto non lo è il “sapersi” relazionare. Impariamo allora a costruire i nostri rapporti, le nostre relazioni, sull’esempio dell’Amore interpersonale della Trinità: alla maggior parte della gente non verrà neppure in mente una cosa del genere; non sanno neppure cosa significhi “Trinità”, quale sia la forza della loro unione; non capiscono: pensano sicuramente che, sapendo parlare, sanno anche relazionarsi. 
Invece no: anzi dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso le “nostre” relazioni, senza l’elemento fondante della carità, sanno molto di egoismo, di pretestuosa ricerca del nostro tornaconto; perché in tal caso non siamo noi a gestire le nostre relazioni, ma sono le relazioni che gestiscono noi. 
Guardiamo allora nel profondo del nostro cuore, analizziamo la natura delle nostre relazioni, confrontiamole con le relazioni d’amore e di verità che intercorrono nella Trinità tra Padre, Figlio e Spirito Santo; e preghiamo perché anche nella nostra vita sia l’Amore a renderci sempre più autentici e credibili. Amen.



mercoledì 11 maggio 2016

15 Maggio 2016 – Solennità di Pentecoste

«Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,15-16.23-26).

Pentecoste è la solennità che si celebra, come dice la parola greca “cinquanta giorni” dopo Pasqua. Per gli ebrei questa festa all’inizio dell’estate, rievoca la consegna dei comandamenti sul Sinai, e segna l’inizio della raccolta del grano. Per i cristiani invece, ricorda l’effusione dello Spirito Santo: Gesù, risorto e asceso in cielo, ritorna su questa terra sotto la forma di Spirito di Dio.
Perché i cinquanta giorni: perché per gli antichi “cinquanta” era il numero della pienezza di un tempo; i cinquanta giorni della Pentecoste indicano quindi che un tempo è finito: si è concluso il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni, e si apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito.
Gesù se n’è andato, lasciando i discepoli nella paura, tra mille dubbi e tanta incertezza: “Cosa accadrà ora? Cosa faremo da soli? Che fine faremo?”. Possiamo capire tutta la loro preoccupazione: stanno vivendo un momento di crisi profonda, radicale, decisiva.
Li possiamo capire perché anche noi, molte volte, ci troviamo nella loro identica situazione. Tutto sembra andare per il meglio: stiamo vivendo tranquillamente la nostra vita, abbiamo un buon lavoro, una casa accogliente, una bella famiglia, tanti amici simpatici. In famiglia siamo molto presenti, e quando possiamo, aiutiamo volentieri anche il prossimo. Passiamo insomma per delle brave persone, ammirate e rispettate.
Ma c’è qualcosa che non va: nel profondo del cuore, ci sentiamo insoddisfatti perché ci rendiamo conto di non essere esattamente come sembriamo all’esterno: dentro di noi siamo spenti, svogliati, indolenti; procediamo solo per forza d’inerzia, per abitudine: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole cristiane, siamo generosi, ma non c’è slancio nella nostra fede, non c’è passione, non c’è partecipazione; quando parliamo di Dio, quando preghiamo, le nostre parole sono superficiali, fredde, non lasciamo trasparire né entusiasmo, né amore.
Come mai? Che ci succede? Ci sentiamo in crisi, ansiosi, abbattuti, esattamente come lo erano gli apostoli. Cosa dobbiamo fare allora in simili circostanze?
Dobbiamo scoprire dentro la nostra anima lo Spirito del Signore, dobbiamo lasciarci infiammare da Lui il nostro cuore intiepidito: in una parole dobbiamo vivere sul serio la nostra “Pentecoste”.
Per la vita degli apostoli questo giorno ha segnato un salto di qualità netto, determinante, definitivo: da un livello di superficie sono passati ad un livello di profondità, dall’esteriorità all’interiorità, dalla dipendenza all’autonomia, dalla schiavitù di se stessi alla libertà più assoluta.
Parlavano una lingua che tutti, anche se stranieri, riuscivano a capire perché avevano ristabilito il contatto con Dio, sceso in quel giorno dentro di loro. Quel Gesù con cui avevano vissuto giornate memorabili per le strade della Palestina, con cui avevano mangiato e parlato, proprio quel Gesù ora lo sentivano non più accanto a loro, all’esterno, ma dentro di loro: lo sentivano forte e chiaro, potente e presente. Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora erano certi che nessuno, mai, sarebbe riuscito a toglierlo dai loro cuori. Perché ciò che è dentro di noi, lo Spirito, nessuno può sottrarcelo.
La loro fu insomma una trasformazione totale, sconvolgente, un cambiamento che rovesciò il loro modo di pensare, di esprimersi, di agire, mettendo in crisi tutte le loro vecchie certezze.
Le due immagini “rombo come di vento” e “fuoco che si divideva” che Luca evoca negli Atti (At 2,3), sottolineano questo passaggio potente, destabilizzante, ma necessario, dello Spirito di Dio. Il “vento” infatti spazza via, purifica, scompiglia, sconvolge; deve cioè essere anche per noi un uragano che si abbatte (rombo), che ci libera dalle paure e dal dipendere dagli altri. Il “fuoco” dello Spirito, deve determinare il nostro salto di calore, di passione, l’essere “presi”, toccati nella nostra unicità di soggetti (ogni lingua assume una sua forma diversa per ogni soggetto su cui scende).
Vivere la nostra “Pentecoste” significa allora affrontare quel salto qualitativo che ci porta dall’essere freddi, insipidi, all’essere infiammati di senso e di passione. Sarà un contatto con Dio che permetterà di individuarci, di trovare la nostra forma, la nostra vera fisionomia, la nostra unicità. Solo in questo modo possiamo affrontare i grandi “passaggi” della vita: senza lo Spirito, se non c’è “vento” e “fuoco”, non andiamo da nessuna parte, non possiamo fare scelte mirate e determinanti. 
Solo lo Spirito esprime dunque la verità che Dio abita dentro di noi, che Dio è presente in noi. Ma cosa significa in particolare vivere “lo Spirito”?
Se noi chiediamo alla gente cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. 
E se non sa rispondere è perché non lo conosce, non ne ha esperienza, non lo ha mai vissuto.
Alcuni pensano che lo Spirito sia un’aggiunta alla nostra personalità, un qualcosa di accessorio, un optional di cui possiamo anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un “di più”, è un qualcosa di essenziale, un qualcosa che fa parte del nostro essere fin dalla sua creazione. Altri pensano che lo Spirito sia l’opposto della materia, per cui “spirituale” vuol dire disincarnato, fuori del mondo; quando, ad esempio, sentono parlare di una “persona spirituale”, immaginano un monaco che vive fuori dal mondo, che passa la vita pregando, odiando tutto ciò che c’è nel mondo. Queste persone dovrebbero leggere un po’ di più il vangelo; si renderebbero conto di quanto Gesù fosse “materiale”: nel senso che mangiava, beveva, faceva festa, si divertiva, abbracciava le donne. Eppure non possiamo certo dire che Gesù non fosse “spirituale”!
Lo Spirito dunque non entra in noi un giorno qualunque della nostra vita, ma abita già in noi, è parte di noi. Lo Spirito infatti altro non è che il “modo” con cui Dio abita in noi. Essere “spirituali” pertanto non è pregare molto, frequentare la chiesa, fare elemosine, riunioni sacre, pellegrinaggi. Essere “spirituali” vuol dire “vivere facendo vivere” Colui che è la nostra parte interiore. È in sintesi un modo di vivere, uno stile di vita.
Quando Gesù proclamava le beatitudini e diceva “beati i poveri, beati quelli che piangono, beati quelli che soffrono”, era forse pazzo? Da che mondo è mondo, nessuno ha mai accettato con piacere di soffrire, di essere perseguitato, deriso o imprigionato: e sicuramente nessuno mai, sano di mente, lo accetterà in futuro! E allora, come mai Gesù considerava tanto positivamente queste cose? Perché Lui le guardava in una prospettiva diversa dalla nostra.
Tutto infatti dipende da come noi guardiamo le cose: dipende cioè se entriamo dentro, nella loro essenza, oppure se ci fermiamo solo all’esterno, all’apparenza.
Gesù fu per eccellenza l’uomo che vedeva le cose “oltre” l’esteriorità, Lui le vedeva dentro, proiettate nei fatti, in quella realtà soprannaturale che Lui chiamava “Regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso, ma è qui, oggi, è quello che vedi adesso. Dipende solo dai tuoi occhi”. Gesù vedeva gli uccelli del cielo e i gigli del campo e vedeva Dio in essi, vedeva la luce, lo spirito di Dio, ed esclamava: “Che meraviglia, che libertà; chi può vestire e fare come loro?”. Gesù vedeva i fatti di cronaca e vi leggeva dentro la mano di Dio che insegnava. Vedeva i sofferenti, i poveracci, i malati, le donne peccatrici, e mentre tutti li evitavano, Lui li abbracciava, li incontrava, li baciava, li accarezzava, cogliendo nel loro sguardo un disperato bisogno d’amore. Gesù vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano all’apparenza: “Avete sbagliato, siete peccatori, lontani da Dio!”, Lui entrava dentro di loro. Lui sapeva cogliere la scintilla di luce, nascosta nel loro cuore, sapeva apprezzare anche quel minimo desiderio di Vita, di riscatto morale, che si nascondeva nella loro anima. Sulla croce, accanto a lui, c’era un ladrone, un peccatore incallito: e mentre tutti vedevano il malfattore, l’assassino, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Condannato a morte, mentre noi proviamo solo rabbia verso i suoi carnefici, Lui ha visto la flebile luce che filtrava dal nulla delle loro tenebre: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”. Gesù non si fermava all’aspetto esteriore, materiale; Gesù vedeva lo Spirito, vedeva la Luce che c’è dentro ogni cosa.
Questa è la grande lezione di vita che Gesù ci ha lasciato: affinché, prima di sputare sentenze e maldicenze sul prossimo, possiamo entrare in noi stessi per cogliere la Luce vera, la voce dello Spirito, del nostro Consigliere, Avvocato e Consolatore.
Oggi siamo incapaci di essere “spirituali”, non riusciamo ad affrancarci dalla nostra “materialità”. Per questo ci deve soccorrere lo Spirito di Dio, per questo dobbiamo imparare a viverlo. Il nostro vivere quotidiano è un continuo fare i conti con questa dicotomia tra “materia” e “spirito”. Anche nelle cose più comuni, più frequenti: così, per esempio, “materia” è il pane della domenica sull’altare, “spirito” è quando io vedo in quel pane Cristo stesso; “materia” è quando vedo nel prossimo solo uno che mi ostacola, che mi infastidisce, “spirito” è quando inizio a vedere in lui una persona che soffre, uno che ha un cuore e un’anima; “materia” è quando mi sveglio e di fronte al nuovo giorno, vedo solo un altro giorno di fastidioso lavoro, “spirito” è quando vedo una nuova opportunità che mi viene concessa da Dio per sperimentare la Vita; “materia” è quando ogni cosa mi fa innervosire, “spirito” è quando mi chiedo il perché, cosa devo imparare, cosa devo cambiare del mio comportamento, del mio modo di pensare; “materia” è quando guardo una donna solo per possedere il suo corpo, “spirito” è quando vedo in quella donna una creatura di Dio, con un cuore che batte e che pulsa, bisognoso magari di comprensione e di conforto; “materia” è udire il cinguettio mattutino degli uccelli, “spirito” è ascoltarlo, apprezzarlo, e trasformarlo in una preghiera che il creato innalza a Dio. Tutta la vita può essere insomma terribilmente materiale o terribilmente spirituale, piena cioè di buio o di luce; tutto può essere “materia”, tutto può essere “spirito”: trasformarlo nell’una o nell’altro dipende solo da noi, dai nostri occhi, dall’ascolto del divino che è in noi.  Amen.



giovedì 5 maggio 2016

8 Maggio 2016 – Ascensione del Signore

«Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». 
(Lc 24,46-53).

Oggi la chiesa celebra la festa dell’Ascensione, una ricorrenza liturgica annuale con cui facciamo memoria di come Gesù risorto sia “salito in cielo”.
Ma dove? Quando? In che modo? Non esiste in assoluto nessuna documentazione storica che attesti l’esistenza di testimoni “oculari” della risurrezione e ascensione in cielo di Gesù; e questo per il semplice motivo che si tratta di fatti metastorici, di fatti cioè che, essendo patrimonio di fede, vanno oltre la storia. Come mai allora Luca nel Vangelo e negli Atti, li descrive così minuziosamente, quasi volesse fare un pezzo di cronaca? Cosa vuol dire esattamente Luca con questi racconti?
Semplice: egli tenta di esprimere, mediante una descrizione fotografica degli avvenimenti, delle verità fondamentali e inoppugnabili della nostra fede, verità che altrimenti sarebbero incomprensibili alla maggior parte della gente: in altre parole egli cerca di spiegare “umanamente” delle realtà divine, in se stesse inspiegabili.
Per capire meglio questo proposito di Luca dobbiamo calarci, oltre che nelle usanze letterarie dell’epoca, anche e soprattutto nelle sue intenzioni di autore ispirato.
A monte di tutto, come presupposto irrinunciabile, Egli pone infatti una verità fondamentale: che Gesù, nonostante la sua morte in croce, vive e continua a vivere.
Per avallare ciò egli ricorre ad un genere letterario, allora molto comune, conosciuto come “ascesa in cielo”, con il quale i biografi descrivevano la “fine terrena” dei grandi uomini del loro tempo. Ci sono testi antichissimi, per esempio, che raccontano di personaggi celebri, quali Eracle, Empedocle, Alessandro Magno, Apollonio di Tiana, che per mantenere inalterata la loro fama, sono letteralmente “ascesi” nei cieli; lo stesso Tito Livio, nella sua “Storia di Roma”, scrive che Romolo, dopo un’assemblea col popolo, tenuta durante un forte temporale, fu avvolto improvvisamente da una coltre di nubi che, diradandosi e alzandosi nel cielo, lo portarono con sé: non essendo più su questa terra, egli da allora fu venerato pertanto come un Dio e come padre della città di Roma. Non va dimenticato infine che anche nell’Antico Testamento, libro rivelato e “canonico”, troviamo due celebri riferimenti al fenomeno “ascensione”: col rapimento in cielo di Elia (2Re 2,1-18) e con l’ascensione di Enoch (Gn 5,24).
In pratica, ricorrendo a questo genere letterario, si voleva dimostrare l’immortalità dell’eroe di turno che, per mantenere vivo il ricordo della sua vita esemplare e dei suoi insegnamenti, profondi e intramontabili, veniva rapito in cielo: in questo modo il suo corpo veniva risparmiato dalla morte e dal sepolcro, come tutti i comuni mortali: egli infatti doveva “vivere” per sempre, e la sua gloria brillare in cielo nei secoli avvenire, ad imperitura memoria.
Luca dunque, non fa altro che adattarsi all'usanza dei tempi: per testimoniare un Gesù, che è “un grande”, anzi “il più grande” di ogni tempo, che è vivo, e che ha assicurato la sua viva e continua presenza spirituale su questa terra fino alla fine dei tempi, tutte verità di cui i discepoli ne sono testimoni oculari attendibili, ricorre alla soluzione dell'ascesa in cielo: la verità che egli vuole sancire in maniera definitiva è che un uomo Dio, morto e risorto, è asceso “vivo” in cielo, continuando a vivere con il suo Spirito a fianco delle sue creature, lungo tutti i secoli a venire.
Nel descrivere l’ascensione di Gesù, pertanto, anche Luca parla di una “nube” che “lo sottrae” agli occhi dei discepoli. Una “nube” però che per lui non rappresenta come per gli altri biografi un comune fenomeno atmosferico ma, come del resto in tutta la Bibbia, è il segno rivelatore della presenza dinamica e misteriosa di Dio: è infatti la stessa nube (Dio) che avvolse Mosè una volta salito sul monte Sinai, ricoprendolo per sei giorni (Es 24,15-16); ed è sempre quella nuvola che riempì completamente il tempio di Salomone, allorquando venne collocata al suo interno l’arca dell’alleanza (1Re 8,10).
Una nube divina che, se da una parte rivela la presenza effettiva di Dio, dall’altra, come tutte le nubi, lo “nasconde” agli occhi dei suoi fedeli.
Ed è esattamente quello che succede da allora nel mondo : Dio è presente, ma non si vede; noi non lo vediamo, ma siamo sicuri che c’è.
Fino ad allora gli apostoli avevano potuto ammirarlo in carne ed ossa con i loro occhi; dopo l’ascensione, Egli continua ad esserci, ma noi ora lo possiamo vedere solo con “altri occhi”. La realtà della sua presenza si pone su due piani diversi. Per chi ha infatti gli “occhi della fede”, Dio è visibile ovunque, in ogni luogo; per chi invece non ha questi occhi, Dio è assente, sempre e ovunque. 
Credere, essere certi della presenza di Dio, dipende infatti soltanto da noi: “Dio c’è? No, non c’è! Dio c’è? Sì, c’è!” Entrambe le possibilità sono vere, solo che si pongono su livelli diversi: se noi infatti non vediamo  le cose nella realtà che ci circonda, non vuol dire che queste non ci siano, che non  esistano. Lo stesso con Dio: Egli è sicuramente presente in questo mondo, anche nella sua “assenza”, anche se noi non lo vediamo: la sua è una presenza misteriosa, rivelata, silenziosa, discreta. Una presenza che noi, pur arrivando miracolosamente a vederla, la possiamo in ogni caso contemplare e capire solo in maniera parziale.
Ricordate le ultime parole dell’Apocalisse? Concludono l’intera Bibbia con l’invocazione “Maràna-thà”: “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20). Ci fanno cioè capire che Dio è presente nel mondo, ma non in maniera totale, completa; non si è ancora rivelato del tutto: c’è già, ma non ancora in maniera aperta e definitiva; per cui preghiamo “Vieni, Signore Gesù!”. Anche nel Padre Nostro noi diciamo la stessa cosa: “Venga il tuo regno” (Mt 6,10). In pratica chiediamo a Dio: “Tu, o Padre, che non ti sei ancora rivelato del tutto, mostrati, renditi comprensibile alle nostre menti, renditi visibile ai nostri occhi”.
Questa è la nostra situazione: Dio quaggiù è misterioso: sappiamo che è presente, che ci è vicino, ma non lo possiamo ancora vedere del tutto, non lo possiamo capire del tutto, non lo abbiamo scoperto del tutto: perché lui stesso non si è ancora rivelato del tutto.
È proprio per questo motivo che la Chiesa attende la “Parusia”, la “piena manifestazione” del Signore. Verrà infatti un giorno (l’èskaton) in cui Dio sarà tutto in tutti in maniera evidente, un giorno in cui tutto sarà chiaro e splendente, in cui tutto brillerà della Sua luce e tutti lo potranno vedere per quello che è.
Oggi non è così. Siamo ancora nella fase della “nube”. E questo cosa ci comporta? Cosa ci impone? Che non dobbiamo mai smettere di cercare Dio. È vero: quando ci succede di trovarlo, ce ne riempiamo il cuore; ma Egli è sempre oltre, è sempre più grande, più profondo, più in là. Dio è desiderio costante, è anelito incessante: lo viviamo, lo sentiamo vicino, ma non riusciamo mai ad afferrarlo in pieno. I sacramenti, le preghiere, i riti, la chiesa stessa, sono solo i mezzi per arrivare a Lui: quando saremo di là, non ci sarà più bisogno di tutto questo perché saremo in maniera chiara e aperta in Lui.
Per ora non conosciamo granché di Dio: ma siamo in cammino. La nostra comprensione è in continua evoluzione, in continuo cammino. Per questo, cerchiamo di non assolutizzarci troppo, di non cristallizzarci sulle nostre posizioni: perché tutto quello che oggi sappiamo di Dio, forse domani si rivelerà diverso, imperfetto, o addirittura l’opposto. Non pretendiamo di possedere già la completa e perfetta formulazione della nostra fede. Ripeto, siamo in cammino, e Lui stesso non si è ancora rivelato del tutto. Siamo sulla buona strada che porta a Dio, ma non siamo ancora arrivati a Lui: non dobbiamo aver paura di professarLo per come noi lo conosciamo, con tutti i nostri limiti: dobbiamo però essere consapevoli che Dio è e sarà sempre nuovo, diverso da tutti i nostri schemi, da tutte le nostre teologie e da tutte le nostre idee. Lui è Più Grande.
Altra considerazione da tener sempre presente nella nostra vita: che se oggi Gesù non è più presente di persona tra noi, ci siamo noi qui a rappresentarlo, ci siamo noi che in qualche modo dobbiamo “sostituirlo”.
Prima di partire egli ha fatto un vero e proprio passaggio di poteri, ha fatto un'autentica investitura nei confronti dei discepoli: “Io non ci sono più, adesso ci siete voi; e voi avete tutti i poteri e la forza, per fare ciò che io ho fatto”.
Significativa in questo senso è la scenetta riportata da Luca, nella prima lettura proposta dalla liturgia di oggi, in cui due angeli chiedono agli apostoli: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” (At 1,11).
In pratica: “Cosa vi aspettate dal cielo? Forse la manna o un miracolo che cada dall’alto? State lì a guardare aspettando una magia? Non ci sono e non ci saranno magie;, basta con i miracoli: ora tocca a voi darvi da fare”. Ed è vero: ora Lui materialmente non c’è più: ma ci siamo noi, ci sono io, ci sei tu!.
Sono celebri le parole con cui un anonimo fiammingo del XIV secolo conferma questo concetto: “Cristo non ha più le mani, ha soltanto le nostre mani per fare oggi il suo lavoro. Cristo non ha più piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri. Cristo non ha più voce, ha soltanto la nostra voce per raccontare di sé agli uomini di oggi. Cristo non ha più forze, ha bisogno del nostro aiuto per condurre a sé gli uomini. Noi siamo l’unica Bibbia che i popoli leggono ancora; siamo l’unico messaggio di Dio scritto in opere e parole”.
Il vangelo ha una visione delle cose completamente diversa dalla nostra: Dio ci ha dato forza e poteri per superare tutte le prove, tutte le difficoltà. Ma noi non lo capiamo; preferiamo chiedere continuamente il suo intervento: “Signore, dammi questo, dammi quello, fa’ che succeda questo, fa’ che non accada quello”. Ma quando andremo di là e, arrabbiati, ci lamenteremo: “Ma perché Gesù non mi hai fatto questo? Perché non sei intervenuto quando ti ho chiamato? Perché mi hai lasciato solo?”, sarà Lui che ci dirà: “Perché ti lamenti? Ti ho dato la forza, ti ho dato la luce, ti ho dato tutto ciò che ti serviva. Perché non ne hai tenuto conto? Perché non ti sei comportato da operaio fedele? Ti sei disinteressato dei miei consigli, non mi hai onorato, hai lasciato morire il tuo matrimonio, non hai educato degnamente i tuoi figli, non hai soccorso con amore i tuoi fratelli bisognosi! Perché non hai fatto nulla di quanto ti avevo raccomandato? Per fare questo non c’era bisogno della mia presenza. Perché non ti sei mosso?”.
Ecco perché dobbiamo aver ben chiaro che se Lui non c’è più, ci siamo noi. Se come cristiani continuiamo a pregare Dio perché cambi questo mondo, vuol dire che non conosciamo bene Dio. Dobbiamo pregarlo certamente, ma non perché Lui cambi il mondo, ma perché dia maggior forza a noi per cambiarlo. Lui oggi vive attraverso di noi: le sue mani sono le nostre mani. Quindi non dobbiamo pretendere continuamente il suo intervento, perché è Lui ad aver bisogno del nostro intervento, perché in questo mondo, senza di noi, Lui non può far nulla.
Quando noi alla domenica andiamo in chiesa, lo ascoltiamo, lo cantiamo, lo viviamo, lo prendiamo nelle nostre mani, e Lui viene nel nostro cuore. Lui entra in noi e diventa la nostra forza per andare avanti. Ecco perché ogni volta che andiamo a messa dobbiamo fare “il pieno di Lui”: perché è Lui che ci dà quell’energia, quella vitalità, quel coraggio, quella passione, quella decisione, che ci serve per vivere, per scegliere, per essere veri, per compiere la nostra strada, per realizzare concretamente quel progetto che Lui ha fatto per noi. Amen.