Il vangelo inizia sottolineando che Gesù era passato di nuovo all’altra riva. Come abbiamo visto domenica scorsa, questo “passare” non indica semplicemente un cambiare luogo, ma un mutamento di vita: “Bisogna passare”. Cioè dobbiamo andare, dobbiamo crescere, dobbiamo evolvere, dobbiamo lasciare una situazione di stallo per andare verso un’altra completamente nuova, perché se non facciamo così ci ammaliamo, moriamo, cessiamo di vivere nell’animo e nel corpo.
I nostri problemi più gravi nascono infatti perché non vogliamo “passare dall’altra parte”, perché non vogliamo crescere, perché non vogliamo trasformare le nostre abitudini ormai anchilosate, perché non vogliamo abbandonare una riva, una fase della nostra vita, per dirigerci decisamente verso un’altra. Rimaniamo sempre lì: ma rimanere sempre lì, immobili, irrigiditi, per partito preso o magari per paura, è una sentenza di morte. Gli istanti della vita passano una sola volta, non si possono ripetere, né fermare: la vita è un continuo andare avanti. Con noi o senza di noi il tempo passa: fermarci significa inesorabilmente regredire.
Da giovani è difficile diventare adulti; affrancarci totalmente dall’infanzia è un passaggio impegnativo; a volte purtroppo rimaniamo acerbi, dipendenti, succubi, ostaggi del volere altrui.
Una volta adulti, non accettiamo di diventare anziani, di perdere le nostre posizioni di dominio, di constatare che altri ci superano, che altri sanno più di noi, che non abbiamo più la forza di imporci come un tempo. Diventare anziani vuol dire accettare che i ruoli ricoperti nella nostra vita, conquistati con tanta passione, passino lentamente e inesorabilmente ad altri: non è facile essere messi da parte, soprattutto se non riusciamo a capire che l’anzianità è l’età della saggezza, dell’esperienza: l’età in cui si è chiamati a diventare maestri di vita. Ma se non avviene così ci si sente solo delusi e amareggiati.
Il vangelo di oggi ci parla appunto di passaggi: di quei cambiamenti che le persone devono fare per vivere e per amare. Sì, perché per far vivere, per amare,talvolta è necessario lasciar andare, distaccarsi, anche da chi ci è caro, altrimenti rischiamo di soffocarlo, di ucciderlo.
Si presenta dunque da Gesù un uomo, Giairo: è il capo della sinagoga. Osserviamo bene le singole parole del vangelo: “Si recò da Gesù uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo”. Non dice: “Giairo, un capo della sinagoga, andò da Gesù”. C’è una differenza fondamentale: il testo cioè per prima cosa evidenzia il ruolo, la carica dell’uomo, e poi ne specifica il nome. Che significa? Che per certe persone il ruolo, la carica, la professione che uno svolge, è più importante della propria individualità, della propria persona. In altre parole è l’attività che determina l’importanza della persona, non la persona. E questo è un male.
Il grande pericolo che corriamo infatti quando abbiamo un “ruolo importante”, è quello di identificarci nel nostro ruolo. Allora non siamo più Tizio o Caio, ma siamo sempre e solo “il” capo, il professore, il politico: sempre e con tutti. Non avremo più la nostra umanità, i nostri limiti, i nostri desideri, ma continueremo ad essere il capo che comanda, il professore che insegna, il politico che legifera: diventeremo cioè prigionieri del ruolo, di questo vestito che ci siamo cuciti addosso. E sarà pertanto lui, il ruolo, che dopo aver progressivamente fagocitato il nostro essere persona, deciderà il nostro agire, il nostro pensare, il nostro pianificare la vita.
Nel caso del Vangelo, la figlia di Giairo, nel suo intimo, è una vittima appunto di questo “dio-ruolo”: non del suo, ovviamente, ma di quello del padre; nella sua normale crescita di figlia le manca cioè la figura paterna. Giairo praticamente è molto più “preso” dal suo ruolo di capo della sinagoga, che dai problemi di sua figlia. Non la vede, non la riconosce, non si accorge neppure che lei crescendo, giorno dopo giorno, si ripiega su se stessa, sfiorisce, si lascia morire: troppo proiettato sulle problematiche di una carriera lontana da lei, non scorge il suo bisogno disperato di avere un padre che la valorizzi, che le riconosca la sua giusta importanza, e soprattutto che l’ami come la cosa più preziosa.
Gesù, per guarire la figlia, deve pertanto “guarire” prima di tutto il padre, deve riportarlo nella sua dimensione di padre, deve ricollocarlo nella realtà temporale del suo essere padre: lui si è perduto nel passato e insiste a proiettare nel presente una visione della figlia riduttiva, anacronistica, impropria; continua cioè a vederla,a considerarla, a chiamarla ancora la sua “figlioletta”. Ma questa “bimba”, come la vede Giairo, ha dodici anni; una ragazza di quell’età, nella Palestina di duemila anni fa, è già una donna adulta, nel fiore della sua maturità; è per lei assurdo, gravemente riduttivo, sentirsi considerata dal padre una creatura infantile, una bimba, ancora insignificante come donna. Da qui la loro lacerante conflittualità: lei, donna matura, vuole essere considerata da suo padre come tale; ma lui non intende accettarla per quello che è; si rifiuta di vederla cresciuta, quasi terrorizzato dall’idea di doverla perdere da un momento all’altro. È un uomo troppo preso dal suo ruolo sociale, è un padre immaturo, gravemente “infermo”, che si ostina a voler ignorare l’ormai inevitabile ruolo della figlia, e non si accorge che questa sua miopia ha scatenato in lei un progressivo stato di ansia, di profonda insicurezza, di annullamento di ogni slancio vitale. Soprattutto non capisce che l’unica medicina che può salvare sua figlia è già a sua disposizione, senza dover ricorrere a terzi: farle finalmente sentire tutto il suo amore di padre: “Tu sei mia figlia, mi vai bene, mi piaci così come sei; apriti alla vita, fiorisci, io ti amo e continuerò sempre ad amarti, perché tu sei mia figlia!”.
A questo punto cosa fa Gesù per guarire il padre, l’unico vero responsabile dei problemi della figlia? Gli dice solo: “Non temere, ma solamente abbi fede”. Cosa significa?
Gesù sente la paura del padre, sente il suo terrore davanti all’eventualità di perdere la figlia: Egli sa che l’unico responsabile della malattia della figlia è proprio lui, il padre, che non vuole vederla crescere, non vuole lasciarla andare, non vuole accettarla come donna. E allora gli dice: “Devi aver fede, devi aver fiducia in lei; smettila di aver paura, di avere tutto questo terrore; devi capire che è proprio questa tua mancanza di fiducia in lei, questa assenza del tuo amore che la uccide; è questa tua paura di perderla che le impedisce di vivere. Se non ti liberi di queste ossessioni, tua figlia non potrà guarire e vivere”. “Abbi fede” vuol dire anche: “Sta’ tranquillo, ciò che domani succederà a tua figlia, sarà una cosa buona per lei e per te. So che hai paura, ma fidati: è importante che avvenga. Certo ci sarà anche un po’ da soffrire, ma da questa sofferenza nascerà la vita”.
Poi finalmente Gesù si rivolge anche alla figlia chiamandola: “Talità, ragazza, fanciulla”; per lui non è la bambina, la “figlioletta” del padre: per lui è ormai una donna. Sembra dirle: “Sei grande, matura, indipendente; ricordati che non appartieni a nessuno; non sei proprietà di tuo padre, appartieni solo a te stessa; non vivere quindi da dipendente, da schiava. Sei la regina, sei la padrona indiscussa della tua vita, vivi da regina!”.
E la esorta dicendo: “Èghèire, svegliati”; e la fanciulla immediatamente “anèste”, si alzò. L’evangelista usa qui gli stessi verbi tipici della risurrezione di Gesù. Ciò sta a significare che risurrezione non è solo passare dalla morte alla vita; ma è risurrezione anche ogni qualvolta noi “passiamo” da uno stile di vita ad un altro più armonico, più vitale, più appassionato, più libero, più vero. In pratica per noi è risurrezione ogni volta che guariamo, che diventiamo più consapevoli, che liberiamo gli altri dalle nostre proiezioni di morte. Risurrezione, fede, religione, significa allora far sprigionare dalla nostra vita, la Vita per eccellenza, il Dio che “dorme” in noi.
Allora, “ègheire!”, “svegliamoci!”: alziamoci, apriamo gli occhi; non ci accorgiamo che viviamo solo per compiacere gli altri? Che cerchiamo l’approvazione di tutti? Che mendichiamo agàpe, amore, da chi può darci solo eros? Non ci rendiamo conto che in noi si è perso “l’uomo” e viviamo solo del nostro “ruolo”? Non vediamo che ce la stiamo raccontando, che ci inganniamo da soli? Che confondiamo l’amore con il possesso? Non ci accorgiamo che siamo sempre di corsa, perché se ci fermiamo anche solo un istante, capiamo di non aver realizzato nulla? “Ègheire” è il nostro sonno che finisce, sono le nostre illusioni che cadono, per cui finalmente riusciamo a vedere la realtà: dura e terribile all’inizio, in quanto abituati a vedere ciò che non esisteva, ma poi vitale.
Anèste, è mettersi in piedi. Gesù, quando la alza, la prende per mano e le dice: “Riprendi contatto con la tua forza; fai la tua strada; tu hai tutte le risorse e le forze per vivere; libera l’amore e la luce che dorme assopita in te; diventa ciò che sei”. Gesù insomma le fa prendere coscienza della sua forza: “Tu sei forte; tu puoi stare sulle tue gambe; vivi, perché lo puoi!”.
Non possiamo aver voglia di vivere se viviamo la vita di altri. La voglia di vivere possiamo averla soltanto quando viviamo la nostra vita, il nostro cammino, la nostra vocazione: e ne abbiamo tanta voglia perché sono nostre. Altrimenti ci adattiamo, “tiriamo avanti”, ma non possiamo sentire né gustare la bellezza della vita.
Se guardiamo bene questo vangelo, possiamo cogliere, fin dalle prime parole, una grande verità: in una vita a due, in un rapporto, in un’amicizia, in una relazione, in un matrimonio, per appianare completamente gli inevitabili problemi, le difficoltà, le crisi, è necessario che entrambi i componenti guariscano, che entrambi “passino all’altra riva”. Amen.