Questo vangelo ci introduce nel mistero della vita di Gesù e di ogni vita. Dapprima Gesù, con l'immagine del seme che cade in terra, ci spiega le grandi leggi della vita: crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po' come morire. Per diventare “grandi”, adulti, dobbiamo morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e maturare. Una vita ha senso solo se è donata, spesa, impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Gesù stesso vive la fatica di andare fino in fondo alla sua missione; egli stesso vive la paura della morte; egli stesso è quel seme che cade in terra. Egli oggi ci dimostra di trovarsi al punto cruciale della sua vita: deve decidere se andare fino in fondo o fermarsi.
La vita ci pone davanti ogni giorno delle scelte: a volte sono semplici, a volte un po' più complesse. Ma prima o poi verrà un momento per tutti in cui la vita ci metterà di fronte alle nostre responsabilità: dovremo fare delle scelte senza ritorno. Verranno dei momenti in cui ci verrà chiesto di fare delle scelte definitive, e per questo ancor più coraggiose, difficili, ardue. Perché da certi incroci non potremo più tornare indietro.
Quel particolare treno non passerà più, quella particolare situazione ci capiterà solo una volta nella vita: sono occasioni che se le coglieremo, ci cambieranno radicalmente la vita. Certe direzioni vanno prese solo in quel preciso istante: non prima e non dopo. Certe scelte non si ripeteranno: vanno compiute in quel momento o mai più.
Gesù sa da sempre che deve andare a Gerusalemme: il momento è arrivato, ora deve decidere se andare o meno: Galilea è vivere, Gerusalemme è morire. Il bivio è davanti a Lui: e Lui va a Gerusalemme.
Quando arriva questo momento cruciale, lo sentiamo subito dentro di noi, lo avvertiamo distintamente: è arrivato il momento, quella decisione deve essere presa. Sono incroci, sono strade senza ritorno, cambiamenti radicali, e ci fanno paura.
Sono proprio un crocevia, una “via crucis”! Sono i momenti decisivi in cui noi plasmiamo la nostra vita, le diamo una forma: la “nostra” forma.
In questo testo Giovanni mette più volte in bocca a Gesù la parola “gloria” (doxa).
Noi, quando la leggiamo, le diamo un senso completamente diverso da quello di Giovanni; pensiamo infatti a tutto quello che ha a che fare con la fama, con l'essere famosi, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo ai divi della tv o ai campioni dello sport o della musica.
Ma per Giovanni noi siamo nella “gloria” quando nella nostra vita rendiamo Dio manifesto, visibile, trasparente. In questo senso quindi Gesù è la gloria di Dio: nessuno infatti ha reso più visibile Dio nella propria vita come Gesù; con il suo vivere, il suo agire e il suo morire, Gesù ci ha dimostrato chi è Dio. Pertanto è Gesù la “gloria di Dio” per eccellenza: egli lo fa vedere quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando vive la trasfigurazione o quando dice le beatitudini. Ma il culmine di questa gloria, dove cioè noi possiamo vedere Dio in Gesù in maniera assoluta, è la croce. Nella croce noi vediamo, in Gesù, Dio che non si sottrae alla morte, a quella morte; e lo fa perché ci ama, lo fa per starci vicino, per vivere fino in fondo la sua missione redentrice.
Allora, guardando la croce, non dobbiamo più aver paura: dobbiamo invece riconoscere: “Quanto bene mi deve voler Dio, se è arrivato a fare tutto questo per me. Dio mi ama veramente da morire. Anche se tutti mi odiano, se nessuno si cura di me, Lui è sempre pronto ad accogliermi, ad accettarmi; Lui non mi rifiuta mai”.
Gloria è dunque quando qualcosa di divino, qualcosa al di sopra della dimensione terrena, appare nella nostra vita. Gloria è ogni volta che noi seguiamo la Voce che ci ri-suona dentro e la seguiamo dovunque ci chiami.
Poi Gesù fa un esempio che ci illustra molto bene lo scopo della sua vita, e che pone come legge universale per la vita di ciascuno.
«Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Ora in ebraico “bar” significa sì “chicco di grano”, ma significa anche “figlio”: quindi possiamo anche dire che soltanto “se il Figlio muore produce molto frutto”. Ora Gesù, giorno dopo giorno, è sempre più consapevole della sua fine inevitabile: perché Egli sa che la sua fine non è solo un semplice morire, ma un portare molto frutto. È per questo che egli accetta e vuole la sua morte. Per noi invece è diverso: voler morire è da stupidi: significa solo voler mettere fine ad una vita che per noi non ha alcun senso. Come se la morte potesse dare “senso” ad una vita dissipata! Morire non può mai essere un valore da acquisire, un riscatto da pagare, un fine, una meta da raggiungere. Il morire può essere accettato e voluto solo per un motivo più grande, più alto, più nobile da conseguire, dove la meta della nostra morte non è il morire in sé, ma il portare frutto. In mancanza di alternative, la morte individuale è praticabile solo se serve a procurare un bene assoluto per la collettività. Gesù non voleva morire: Gesù voleva essere per tutti pane e vino, frutto di vita eterna per l’umanità: ed è unicamente questo che l'ha portato a morire.
Sono parole, dicevo, che pongono anche una legge universale: Dio è in me come un seme. Un seme che contiene in sé il principio di morte e di vita, perché deve morire, deve venir meno, per poter vivere e svilupparsi; eccola la legge universale: è la legge dell'evoluzione spirituale e umana: perché Lui nasca bisogna che io (che l'io) muoia. Lui è in me come un seme: un seme che può rimanere tale per sempre se non trova le giuste condizioni per crescere. Io posso vivere e lasciare che quel seme dorma e sonnecchi per tutta la vita. In tal caso io uccido Dio.
Ma il Vangelo, la buona notizia (in ebraico “basorah”) ci dice che possiamo far nascere Dio in noi, possiamo sviluppare il divino che Dio ha posto in noi; noi cioè possiamo creare (“barà”) dalla nostra carne (“bar”), dalla nostra vita, la parola (“dabar”) di Dio Amore.
È chiaro che dobbiamo far morire il nostro “io”, il nostro narcisismo, il nostro egocentrismo perché, giorno dopo giorno, possa nascere e crescere il nostro vero io, il D-io che ci abita e che vuole portare vita, fecondità e frutto in noi, e attraverso noi, negli altri.
Ogni giorno noi moriamo non perché sia bello morire (è sempre un evento tragico) ma perché con questo morire noi nasciamo nuovi e più vitali. In questa nostra morte c'è la vita: in questo morire dell'io (trasformazione) c'è la vita vera.
Perché Dio si manifesti in noi, si renda evidente in noi, dobbiamo avere il coraggio di morire, cioè dobbiamo avere il coraggio di affrontare, senza scappare, ciò che dobbiamo affrontare; dobbiamo avere il coraggio di lasciarci trasformare dalla vita, cioè di cambiare. Per vivere davvero, in profondità, dobbiamo morire (soffrire).
Questa, ripeto, è la grande legge della vita. Assurdo è il contrario: voler vivere a tutti i costi, non voler assolutamente morire (trasformarsi, cambiare, crescere attraverso la sofferenza) e per questo morire sul serio. In altre parole: non possiamo pensare di vivere senza mai soffrire, di poter evitare il dolore, i problemi, le tensioni, le difficoltà, i conflitti della vita. Morire significa allora scontrarsi con la dura realtà della vita, tornare con i piedi per terra, smettere di volare sulle nuvole: cadere a terra significa che dobbiamo fare i conti con gli altri, con quello che ci circonda; vuol dire confrontarsi con i problemi e con i limiti della vita, aiutare le persone che non sempre vivono come noi pensiamo; cadere a terra vuol dire rinunciare ad essere onnipotenti, di sapere tutto, di non aver bisogno di nessuno; cadere a terra vuol dire essere vulnerabili, sofferenti, piangere; cadere a terra vuol dire sbagliare, commettere errori e avere l'umiltà di riconoscerli.
Tutto questo ci fa male. È come morire. Distrugge l'immagine di “persone brave e buone” che ci siamo cucita addosso. Ma se non cadiamo a terra, non possiamo far nascere nulla di nuovo, di buono, di fruttuoso!
È il segreto della vita: solo se è spesa per qualcosa di grande ha un senso. Possiamo viverla in maniera narcisista, egoistica, ripiegata su di noi; oppure possiamo viverla come un dono, donandola e spendendola per gli altri e per la Vita. Una cosa è certa: in ogni caso noi moriremo. Arriverà il giorno dei bilanci, nessuno è in grado di evitarlo.
Allora, di fronte a questa ineluttabilità, come intendiamo impostare la nostra vita? Cosa vogliamo farne dei giorni che ancora ci rimangono? Molte persone vivono purtroppo solo per se stesse; non si preoccupano di nulla, il seme che è in loro muore senza portare frutto. La loro vita non serve a nessuno, non c’è nulla da imparare da loro, non hanno maturato nulla. Non hanno nessuna saggezza, nessuna profondità, non hanno mai osato, mai “ragionato” sulle cose. Passano nel tempo senza lasciare traccia: vite inutili, senza senso. Persone che non possono darci nulla, perché non hanno nulla da darci; i loro passi non lasciano impronte: se qualcosa lasciano, è solo rabbia, negatività, lamentele, acidità invidia. Hanno ricevuto la vita, ma non hanno saputo donarla. Non hanno saputo fare della vita ricevuta, un dono. Impiegano i loro giorni per cose futili, insignificanti, si impegnano solo per accrescere la loro immagine, il loro prestigio. Si credono abili e impegnati, ma in realtà sono narcisisti e pieni di paura. Sono “tiepidi”: e non sanno che Dio vomita i “tiepidi” (Ap 3,16). Moriranno tristi perché potevano essere un albero rigoglioso, ricco di frutti e di linfa vitale: hanno preferito invece non maturare: si sono rinsecchiti nelle loro sterili radici; hanno rinunciato a vivere, sono dei falliti!
La vita è felice solo se ha un senso, se ha un ideale da concretizzare, se si dedica a qualcosa di valido, altrimenti vivere non ha senso. Noi abbiamo un compito nella vita: mettere in circolazione quello che siamo dentro, perché diventi utile (frutto) per gli altri. Solo così ci sentiremo “compiuti”, realizzati; ci sentiremo parte della Vita. I frutti devono essere condivisi. Sono doni che vanno donati, dobbiamo continuare questa catena d’Amore.
Solo così, quando arriverà, la morte avrà un senso e non ci farà paura. Inutile illuderci, inutile non voler pensare a quel momento. Nessuno potrà allontanarla, nessuno potrà accompagnarci nella traversata. Saremo soli e una paura folle ci sommergerà: ci sentiremo scivolare inesorabilmente verso il nulla, verso il buio, verso il niente. Nessuno potrà salvarci. La morte non risparmia nessuno. È un conto che ognuno deve saldare da solo.
Solo la fede verrà in nostro soccorso: le nostre opere buone saranno il nostro lasciapassare; se alle nostre spalle ci sarà una vita vissuta con fiducia, con forza, con passione, con intensità, con carità e amore, allora ci sentiremo più leggeri, ci sentiremo sorretti da Dio, dalle sue braccia misericordiose. Sentiremo dentro di noi la sua voce rassicurante: “Coraggio, ci sono io con te, non temere”. Certo sarà comunque doloroso, difficile, separarci definitivamente da questa esistenza terrena, dai nostri cari, da quanto abbiamo conquistato con anni di lavoro e di sacrifici; ma quelle braccia paterne e insieme materne, protese verso di noi, ci daranno fiducia, coraggio, sicurezza, tranquillità: e in esse ci lasceremo andare, serenamente: “Sento che ci sei Tu, o mio Dio: rimani con me, ed io non temerò alcun male”. Amen.