Il Tempio di Gerusalemme non era l’equivalente delle nostre chiese. Era il luogo più santo della terra: era quello vero, l’autentico, l’unico in cui Dio si manifestava. La sua maestosità architettonica superava di gran lunga qualunque altra costruzione (fu distrutto dai soldati romani nel 70 d.C.): in esso si svolgevano le sacre liturgie, si bruciava l'incenso sacro a Jahweh, si offrivano i sacrifici cruenti: ogni ebreo vi doveva offrire il suo sacrificio pasquale.
Anche Gesù, in occasione della Pasqua, sale a Gerusalemme e va al tempio: si aspetta di trovare persone pie che adorano Dio, famiglie che si organizzano per un’offerta comune in vista della Pasqua ormai prossima (tutta la carne dell’animale offerto doveva essere consumata, per cui le famiglie poco numerose si aggregavano tra loro per fare un’unica offerta). E invece cosa vi trova? Affaristi, commercianti, cambiavalute, sensali, venditori di buoi, di pecore, di colombe. Da luogo sacro di preghiera era diventato un mercato, centro di guadagni sporchi e di indegni interessi. Per agevolare un costante introito di denaro, infatti, i sommi sacerdoti, d'accordo con gli scribi (i teologi del tempo), avevano introdotto l’obbligo per gli ebrei di recarsi al tempio, oltre che per le feste tradizionali, anche per riscattare qualunque loro colpa personale, mediante l’offerta di alimentari o di animali, debitamente descritta e quantificata caso per caso: in altre parole, avevi fatto peccato? Facevi la tua offerta ed estinguevi il tuo peccato. L'avidità di tali personaggi era inoltre agevolata da una Legge meticolosissima che prevedeva innumerevoli divieti e prescrizioni, oltre alle 613 della sola Torah; per cui, essendo impossibile la loro completa e costante osservanza, il povero peccatore era costretto a recarsi di continuo al tempio, per offrire a Dio (meglio: ai tenutari del tempio) il suo sacrificio di espiazione. Uno stratagemma che assicurava ai grandi sacerdoti e ai dirigenti un incasso enorme e continuativo di denaro. Di conseguenza il tempio era diventato anche il posto più sicuro in cui conservare i cospicui proventi di questo “sacro” commercio, incassi che consistevano in denaro, oro, pietre preziose: era diventato insomma la più grande banca del Medio Oriente, la cui sicurezza era oltretutto assicurata da oltre 200 guardiani sempre in servizio: chi mai avrebbe osato rubare “a Dio”? In tutto questo, la cosa più grave era che essi davano di Dio un’immagine completamente falsa: com’era possibile, infatti, che il popolo considerasse “amico” un Dio che si “offendeva” per qualunque stupidaggine? Come poteva il pio israelita contare sull'amore di un Dio implacabile che non perdeva occasione per farlo sentire in colpa per tutto? Un fatto era ormai consolidato: a quell’epoca il Dio adorato nel tempio, non era più Jahweh, il Dio di Israele, ma era Mammona, il Dio denaro, il Dio ricchezza.
A questo punto cosa fa Gesù? Si prepara una “sferza di cordicelle” (Gv 2,15),e con quella incalza e percuote tutta la gentaglia che staziona alle porte del tempio, compresi dirigenti e autorità, rovescia i loro banchi e li caccia tutti fuori! Un vangelo forte quello di oggi: conosciuto anche come “La purificazione del tempio” o “La cacciata dei venditori dal tempio”. Ma qui, a leggere attentamente tra le righe, il testo ci fa capire che Gesù non solo “purifica”, non solo “caccia” la gente indegna dal tempio, ma arriva addirittura ad eliminarlo: Gesù cioè “distrugge” il tempio del “Dio” di allora, e introduce un nuovo “tempio”, una nuova immagine di Dio, un Dio nuovo, un Dio che fino ad allora era sconosciuto a tutte le religioni: un Dio che non ha bisogno né di “offerte” né di sacrifici; un Dio che diventa lui stesso offerta e sacrificio a favore dell’uomo: pertanto non è più l'uomo che si toglie il pane per offrirlo a Dio, ma è Dio che si fa pane per nutrire l'uomo. Con il Dio di Gesù è finito il tempo della schiavitù, dei servi, del “servire”: Dio non vuole più essere servito; anzi sarà Lui stesso a servire l'uomo.
Quand'ero piccolo mia madre mi costringeva a compiere continui “fioretti” per fare contento Gesù, poiché, mi diceva, lui gradiva molto i miei sacrifici, li apprezzava, lo “consolavano”: ma io non ne ero convinto; non mi andava di amare un Gesù che mi impediva di giocare a pallone con gli amici, che mi privava della gioia di un gelato, del piacere di gustarmi una bella fetta di torta ecc., cioè di quelle innocenti soddisfazioni, piccole in sé, ma per me e per la mia infanzia molto importanti. Saranno stati anche “fioretti” meritori, ma a me un Dio così non era molto simpatico. Mi sembrava che ce l'avesse con me: tutto ciò che mi piaceva, che per me era bello, lo voleva lui e io dovevo darglielo!
Una mentalità che è rimasta ancora oggi in certe forme di “voti”: per avere una grazia, o per ottenere il successo di qualche evento, si rinuncia cioè a qualcosa di importante. In questo caso però è ancora peggio, perché trasformiamo Dio in una specie di “banchiere” esoso, un Dio che per accordarci qualcosa ci chiede in cambio sacrifici, privazioni e quant’altro. Ma Dio non è così; smettiamola quindi di “insultare” Dio con questo genere di voti: non ha bisogno di mercanteggiare con noi, non gli servono i nostri voti, le nostre promesse interessate: egli ha bisogno soltanto del nostro amore, di un amore vero, filiale, riconoscente, gioioso.
Tutto il libro del profeta Osea è una denuncia di Dio contro siffatte offerte e sacrifici: “Che mi importa dei vostri numerosi sacrifici; io sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di bestie ingrassate; il sangue dei tori, degli agnelli, dei capri, io non lo gradisco; quando venite a presentarvi davanti a me, chi vi ha chiesto di contaminare i miei cortili? Smettete di portare offerte inutili”. E poi Dio se la prende con tutto l'incenso, i sabati, le riunioni false fatte in suo nome, le liturgie vuote e vanesie, ecc.: Dio non le sopporta (se non le sopporta Dio, figuriamoci il popolo!); Dio non vuole e non ha chiesto tutto questo. “Voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os 6,6). E molte volte nel suo vangelo Gesù citerà proprio questa frase: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9,13; 12,7). E la misericordia che egli vuole, non è verso Dio ma verso il prossimo.
Gesù dunque “elimina” il tempio: del resto che senso avrebbe un manufatto in pietra, quando è Lui stesso il vero santuario, il nuovo tempio di Dio? A conferma di ciò Gesù, nel famoso dialogo con la Samaritana, alla sua domanda se “Dio va adorato sul Garizim o al tempio di Gerusalemme”, risponde: “Né qui né lì: è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24).
Gesù in pratica supera del tutto, con queste parole, la questione di dove Dio vada adorato. Dio è Spirito e per questo è dappertutto. Pregare e lodare Dio, raggiungendo la comunione con Lui, è prima di tutto un fatto che riguarda l’anima non un luogo materiale, ancorché sacro. Preferire una chiesa piuttosto che un'altra, che magari consideriamo più “miracolosa”, senza però unire mente e cuore a Dio, significa ridurre la nostra preghiera ad un culto puramente esteriore. Il vero fedele è colui che, cosciente di aver ricevuto attraverso il battesimo e i sacramenti quello Spirito vitale di Dio che lo rende figlio, alimenta questa sua condizione con la “verità”, con la Parola di Dio, che diventa per lui via di fede, lampada di carità. La nuova lode a Dio sale, pertanto, da questa “nuova creatura”, trasformatasi essa stessa in “tempio” dello Spirito santo.Nella sua azione purificatrice, Gesù poi se la prende in particolare con i venditori di colombe: “Portate via queste cose e non fate della casa del padre mio un luogo di mercato” (Gv 2,16). Come mai il suo unico rimprovero è per i venditori di colombe? Per due motivi: la colomba, da sempre, era immagine dell'azione creatrice di Dio, del suo Spirito e del suo amore. L'amore di Dio è assolutamente gratuito. Se invece l'amore viene comprato, perde la sua essenza, è un’altra cosa, è prostituzione. La casta sacerdotale ha prostituito infatti l'amore di Dio, perché pretestuosamente, con l’inganno, ha promosso i propri guadagni. Le colombe costituivano infatti l'offerta dei più poveri per ottenere il perdono delle loro colpe: e Gesù non accetta che, proprio i più poveri e i più bisognosi, siano costretti a svenarsi per conquistare quell'amore di Dio, che già è loro di diritto.
E concludo: cosa dice, cosa insegna in particolare questo vangelo ai cristiani del nostro tempo?
Ci fa capire soprattutto due cose. La prima, la più importante, è che il vero “culto” nei nostri templi, nelle nostre chiese, deve essere l'amore. Osservando la scarsa affluenza domenicale, viene spontaneo chiederci quanti cristiani sentano ancora il bisogno di venire in chiesa: ma più che preoccuparci del numero di presenze, dovremmo invece chiederci: “Tutti quelli che sono presenti, che frequentano le nostre liturgie, le nostre messe, fanno una personale esperienza dell’amore di Dio? Escono dalla chiesa “confortati”, con nuovi propositi, con nuova energia, con nuova voglia di vivere? In chiesa la gente si sente toccata nel profondo dall'amore di Dio? Quelli che vi capitano per caso, i lontani, sentono sbocciare nel loro cuore un bisogno nuovo di amare Dio e il prossimo? I frequentatori assidui, escono convinti di dover essere più misericordiosi, più compassionevoli, testimoni più credibili della loro fede e dell’amore di Dio?”.
A Gesù non interessano quelli che vanno in chiesa per apparire, e fanno l'elemosina guardandosi in giro, e quasi suonando la tromba sembrano dire: “Guardate che cos'ho fatto!” (Mt 6,1-4). L'elemosina, di qualunque genere e di qualunque entità, si fa esclusivamente per amore del povero, per amore di chi che soffre, di chi non è fortunato come noi.
Gesù non sopporta la gente che prega per ostentare la propria devozione, per farsi ammirare, per sbandierare ai quattro venti il proprio fervore cristiano: “Quando pregate non fatelo per essere visti... non sprecate parole come i pagani...” (Mt 6,5-8). Gesù non tollera quella gente che digiuna, che prega, che frequenta gruppi elitari di spiritualità per soddisfare il proprio amor proprio. La loro è una vita cristiana che non serve a nulla; Dio non vuole questo. Persone simili Gesù le chiama “ipocriti”, cioè commedianti, attori. Lui non si lascia ingannare dall’apparenza come gli uomini: lui capisce al volo quando una persona è veramente sincera e convinta nel profondo del suo cuore. Anzi in proposito è molto chiaro: “Se presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). Cioè: tutte le tue offerte, le tue preghiere, le tue liturgie, non servono a nulla, vengono completamente annullate se, invece di provare vero amore nei confronti dei tuoi fratelli, nutri addirittura anche solo verso uno di loro, odio, risentimento, rancore. Non è quindi la preghiera in se stessa che ci rende “divini”, ma è l'amore. Solo se la preghiera è amore, è una preghiera “divina”, gradita a Dio.
La seconda cosa che ci suggerisce questo vangelo sulla purificazione del tempio, è che il tempio siamo noi, è la nostra anima: dentro di noi, insieme a Gesù costretto ormai in un angolo, ci sono i mercanti, i cambiavalute, le pecore, i buoi, le colombe.
Siamo noi i “mercanti”, quando cerchiamo soltanto soluzioni di compromesso, a basso prezzo, quando preferiamo le vie facili e larghe del “così fan tutti”. Siamo i “cambiavalute”, quando facciamo sì la carità, ma in cambio di un tornaconto, di un utile, di un riconoscimento: anche se sappiamo che l’amore non si può mercanteggiare.
Siamo le “pecore”, quando ci comportiamo senza criterio, quando rinunciamo alla nostra identità, quando facciamo solo quello che ci viene detto. Obbediamo passivamente: “Cosa dice Tizio? Cosa dice Caio? Cosa è giusto?”. Siamo rimasti bambini: non c'è nessuna presa di responsabilità nella nostra vita. Rinunciamo a vivere: seguiamo la mandria. Sulla nostra epigrafe verrà scritto: “Ha vissuto tanto... ma per niente”. Oppure: “Non ha mai fatto male a nessuno... perché non ha mai fatto niente”.
Siamo i “buoi”, quando siamo testardi, ottusi, cocciuti; quando procediamo imperterriti senza guardarci intorno. “Perché fai quella cosa?” ci chiedono. “Non lo so!”. E continuiamo a farla. “Ma perché fai quella cosa?”. “Perché l'ho sempre fatta! Che vuoi da me?”.
Siamo infine le “colombe”: siamo cioè quelli che saltellano di ramo in ramo, che non si fermano mai, che sono perennemente scontenti e cercano sempre nuove esperienze, senza mai approfondire i segnali che la vita ci invia; facciamo la “ruota” e “tubiamo” per le nostre innumerevoli iniziative, ma tutto finisce per scivolarci addosso. Ci gonfiamo di superbia: “Io ho fatto il Corso di Liturgia, il Corso di Spiritualità biblica, ho frequentato impegnative catechesi sui Comandamenti, sul Padre Nostro, sul Credo; io Paolo lo conosco come le mie tasche”. Ci vantiamo di conoscere qualunque problematica di teologia e di ascetica, ma non ci accorgiamo che spiritualmente siamo sempre gli stessi: non solo non progrediamo, ma addirittura lentamente regrediamo. Come mai? Perché tutto quello che facciamo, lo affrontiamo superficialmente, senza renderci conto che forse tutta questa sete di “santità” individuale, è solo un pretesto, un alibi, per giustificare la nostra poca disponibilità, il nostro rifiuto ad inserirci concretamente nella comunità parrocchiale, e lavorare nel silenzio, nel nascondimento, nell’umiltà. Allora in questa quaresima di conversione, proponiamoci seriamente di cacciare tutte queste icone che deturpano la sacralità, la grandezza, la bellezza della nostra anima, del nostro tempio di Dio; affranchiamoci decisamente da tutto ciò che ci schiavizza interiormente, per tornare a vivere “liberi e immacolati” nell’amore di Dio. Amen.
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