«La barca intanto distava già
molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era
contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare.
Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un
fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo:
«Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,22-33).
Il
vangelo di oggi è un vangelo forte, potente. Il testo segue immediatamente
quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci di domenica scorsa. Ricordate?
Era stato un grande successo: con cinque pani e due pesci Gesù sfamò cinquemila
“uomini” (oltre ovviamente donne e bambini). Notizie così sensazionali
circolano con estrema rapidità, e quindi, molto probabilmente, Gesù temeva l’azione
degli sbirri di Erode, e ordina quindi ai discepoli di allontanarsi, di salire
in barca e di raggiungere in fretta la riva opposta del lago: Egli ha sempre
cercato infatti di evitare il più possibile noie e problemi con le autorità
costituite: meglio fuggire, scappare, piuttosto che affrontare un “confronto”
diretto, offrendo loro il pretesto per intervenire contro la sua persona e di
quanti lo seguivano. D’altronde Gesù e i suoi amici erano personaggi di giorno
in giorno sempre più famosi, stimati, ammirati e seguiti: tutti li volevano
vedere, li volevano seguire, facendo crescere il loro ascendente, il loro
successo, e questo non stava bene ai romani, sempre timorosi di insurrezioni.
E che
fa Gesù per evitare che questo delirio crescente della folla travolga i suoi?
Dopo la sbornia di “successo” condivisa con lui (erano stati i discepoli gli
incaricati della “distribuzione”), Gesù li sottrae da questo pericolo, li manda
in barca, e congeda la folla.
Bisogna
riportarli alla realtà. Dopo l’esperienza esaltante, su quella barca essi devono
sperimentare anche altre esperienze, quelle traumatiche e contrarie. Lì infatti
essi dovranno combattere contro i venti di burrasca, senza la presenza
rassicurante di Gesù. Saranno soli, in balia delle onde: e lì ciascuno dovrà
essere solo se stesso, ciascuno dovrà trovare in se stesso la forza e le
energie per combattere.
Un
chiaro insegnamento per tutti noi. Tutti, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo
bisogno di solitudine, di momenti in cui stare da soli con noi stessi, perché
ci sono cose che solo noi viviamo, situazioni e momenti della nostra vita in
cui nessuno può raggiungerci. Magari gli altri ci potranno stare anche vicini,
ma non potranno darci una mano, perché si tratta di esperienze che nessuno
potrà condividere. Saremo soli, e da soli dovremo trovare la soluzione.
È la
“notte fonda”, cui allude il vangelo: e prima o poi arriverà anche per noi: la
tempesta che si profilava da tanto tempo all’orizzonte, improvvisamente si
abbatterà su di noi: non avremo più alcuna possibilità di evitarla, saremo
costretti ad affrontarla, dovremo per forza entrarci dentro: e allora toccheremo
con mano tutta la fragilità della nostra “barca”: saremo in balia del vento
impetuoso, delle onde vertiginose, e saremo sbattuti senza sosta da marosi
violentissimi.
A
questo punto sarà impossibile far finta di nulla, inutile aspettare che altri
intervengano per noi: sono i nostri “mostri”, sono i nostri momenti decisivi
della vita, e solo noi potremo affrontarli; solo noi potremo e dovremo fare i
conti con la nostra coscienza; solo noi potremo conoscere e dominare le nostre
ansie, le nostre angosce, le nostre pulsioni. Dobbiamo imparare a gestirle, a
indirizzarle correttamente. Non possiamo scappare sempre (non è possibile). Non
c’è sempre l’amico di turno o lo psicologo pronti per noi, e non è neppure
giusto che ci siano. Non possiamo sempre “scaricare” tutto sugli altri. Non
possiamo sperare di risolvere tutto con pasticche, antidepressivi, tranquillanti.
Arriva il momento in cui dobbiamo stare soli con ciò che viviamo, con ciò che abbiamo
dentro. È la nostra vita! È quel particolare momento della nostra vita in cui tutto
sembra perduto, ci sentiamo persi, senza riferimenti, non sappiamo più dove
andare, dove sbattere la testa, tutto sembra crollarci addosso: non vediamo più
alcuna luce, non abbiamo più alcuna speranza. Come Pietro sentiamo solo l’infuriare
della tempesta, e la nostra fede, il nostro cristianesimo di facciata,
improvvisamente crolla, viene meno. Ci sentiamo impotenti, paralizzati, tutto
sembra inutile, tutto sembra irrecuperabile.
E
invece no. Oggi il vangelo ci fa capire qualcosa di incredibilmente consolante,
di assolutamente meraviglioso: “amate le vostre tempeste”. Guardatele in
positivo: certo le tempeste non sono mai belle, ma – ci sottolinea il vangelo –
sono decisamente utili, necessarie: sono dure, difficili, ma essenziali. Sono
come certe medicine o certe operazioni chirurgiche: amare, dolorose, però
indispensabili per la salute del paziente. Incontriamo le tempeste perché dobbiamo
cambiare assolutamente rotta: senza, noi continueremmo per la nostra strada,
nel nostro tragitto, nella direzione che ci siamo scelta, che spesso però non
coincide con la volontà di Dio, con la direzione che Dio vuole per noi: soltanto
una seria “tempesta” può farci cambiare direzione; solo una tempesta – momento
chiave della nostra vita - può offrirci un momento di autentico incontro con Dio;
un momento in cui finalmente nasce qualcosa di nuovo e ci rimette completamente
nelle sue mani, ci restituisce alla fede autentica. Benedetta tempesta, allora.
Ben venga!
Certo,
all’inizio, difficilmente capiremo che proprio in quella tempesta ci aspetta Dio:
invece di riconoscerlo, lo scambieremo per “un fantasma”, un mostro, un demonio,
una disdetta, una disfatta, un dramma. E avremo paura. Ma in realtà è Dio. È
Lui che sta dietro a tutto, ad ogni cosa che ci riguarda; è Lui che ci spinge
in questi “luoghi deserti”, in queste “tempeste”. E lo fa non perché ci vuole
male ma proprio perché ci vuole bene. Perché vuole che cambiamo. Perché vuole
che siamo più autentici, più sinceri, più convinti.
È in
questo senso dunque che il vangelo ci dice di amare le “tempeste”. Anche se fanno
paura, anche se sono pericolose, anche se sono drammatiche. Inutile
tergiversare, rimandare: non c’è cosa peggiore di vivere con la paura costante di
dover prendere in mano la propria vita, con il terrore di doverci confrontare
con il proprio “io”. Non ci rendiamo conto che così facendo rinunciamo a dare una
forma nostra, un tocco personale, alla vita; la subiamo soltanto, ci abbandoniamo
alla corrente, ci lasciamo fagocitare dagli eventi, siamo solo dei deficienti (nel senso di “deficere”, venir meno), siamo cioè dei parassiti.
Ad un
certo punto dobbiamo prendere il toro per le corna. Punto. Inutile piagnucolare:
“è difficile; è impossibile; non ce la posso fare”, e continuare a “pregare” Dio
di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare a nostra
disposizione con i miracoli in mano. Ma Dio non è lì per risolvere i problemi al
nostro posto; è lì per darci comunque la forza di risolverli da soli. Quando
siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase
importante quel “sono io”: il verbo eim° in greco indica sì un presente
ma anche un passato (“Io sono colui che è sempre stato”), e insieme un futuro (“Io
sono colui che sarà”). In altre parole, Lui è sempre presente: lo è sempre stato, lo è e lo sarà in futuro.
È
l’esperienza di Pietro: egli (come noi) non crede che “quel fantasma” sia il Signore: “Signore,
se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. Ed ecco il miracolo della fede:
Pietro riesce a camminare sopra la tempesta, la domina. Se abbiamo vera fede, ciò
che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa
affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un
miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci
toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza di affrontarle, perché Lui è
con noi. E noi ci crediamo. Ma la nostra deve essere una fede ferma, autentica,
incrollabile, per non ripetere l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui egli
distoglie lo sguardo da Gesù e guarda al pericolo, a quanto gli succede
attorno, gli viene meno la fede, e affonda. Nel momento in cui pone l’attenzione,
più che su Gesù, sulla forza del vento e del mare, egli cola a picco. Così nei
drammi della nostra vita: se noi guardiamo al pericolo, alla prova, affondiamo;
ma se guardiamo a Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver
paura. Affrontiamo tutto insieme, affidati a me”.
E
concludo. Ogni mattina quando ci alziamo, facciamo il segno della croce. Non
facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non
so cosa affronterò oggi ma so che tu Dio sei con me”. E sentiremo vibrare nel
cuore la sua risposta che ci tranquillizzerà: “Qualunque cosa oggi succeda, io
ci sono, non aver paura, sono al tuo fianco”. Un atto che non deve avere valore
scaramantico, fatto a scanso di eventuali problemi: ma una dimostrazione di assoluta
fiducia in Lui, per poter affrontare serenamente la vita. Poiché fintanto che Lui
è al nostro fianco, i nostri passi non vacilleranno.
Nella
vita del resto non abbiamo molte possibilità: o ci facciamo guidare dalla paura,
dall’insicurezza, dall’ansia, oppure ci lasciamo guidare dalla fiducia, dalla
fede in Dio. Con la paura non andiamo da nessuna parte: affondiamo immediatamente,
perché ci fa vedere nemici dappertutto, pericoli in ogni dove, ci insinua dubbi
sui fratelli, ci fa vedere solo nemici. Al contrario la fede è salvezza, è
camminare sicuri, è guardare avanti con cuore saldo. Diceva un saggio: «Bussarono
alla porta. La paura andò ad aprire e fu divorata. Bussarono alla porta. La
fede andò ad aprire: non c’era nessuno». “Si
Deus pro nobis, quis contra nos? – Se
Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rom 8,31). Ecco, questa sia la nostra certezza quotidiana. Amen.
«Dopo aver ordinato alla folla
di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al
cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i
discepoli alla folla» (Mt 14,13-21).
Di fronte
al pericolo di morte per mano di Erode, che lo credeva il Battista redivivo, Gesù
scappa in un luogo deserto, ma la gente, affrontando disagi e difficoltà, lo segue.
Gesù dona libertà e amore: le persone lo sanno e per questo lo seguono
dovunque. Non si può non seguire chi ti ridà il comando della tua vita! Ma un luogo deserto è pur sempre deserto. Gesù vede questa folla affaticata e ne ha
compassione (in greco: “ha viscere di
madre”); passa in mezzo a loro guarendo i malati per tutto il giorno; ma giunta
la sera i discepoli si pongono un problema: come e dove può andare a mangiare
tutta quella gente? E lo fanno presente a Gesù: il quale, alla loro preoccupazione,
risponde con una frase ambigua: “Date voi stessi da mangiare”. Parole che, a
ben vedere, contengono un significato che va oltre l’evidenza del momento: in realtà
Gesù non fa altro che anticipare quello che poi avverrà. Ma non allude solo
alla distribuzione materiale del cibo: con l’invito di “sfamare” loro stessi tutta
quella gente, Egli li invita a donare loro stessi, a mettersi cioè completamente
a disposizione del prossimo, a donare carità e amore, perché questo è l’unico alimento
che dà vita .
Possiamo
infatti donare agli altri tutto quello che di materiale abbiamo: tutti nostri
averi, i nostri soldi, i nostri servizi; ma l’unico vero, autentico dono, è
dare noi stessi, il nostro amore, la nostra disponibilità, la nostra
generosità, assicurando loro insomma l’esserci, il nostro essere lì, sempre
presenti. Ci sono persone “generose” infatti che donano agli altri di tutto, l’inimmaginabile,
ma esse rimangono sempre lontane, distaccate, in una parola non “si danno”.
Fare invece
di noi stessi un dono per i fratelli, è ciò che dà il vero senso alla nostra vita;
la rende utile, significativa, dona energie profonde a chi è in difficoltà, consentendogli
di affrontare ciò che è duro, ostile. Una vita non donata, risparmiata, trattenuta,
distaccata, è una vita sprecata.
Ma
torniamo al racconto del vangelo: Gesù dunque, fatta accomodare la folla, si trova
davanti ad una miseria di cibo: cinque pani e due pesci, per sfamare una quantità
di oltre cinquemila persone, fanno ridere, sono davvero un niente. Ma non è il
caso di scoraggiarsi, insegna Gesù: ciò che da solo sembra poco, se messo insieme
(a Lui), diventa molto, anzi moltissimo, diventa più che sufficiente per tutti.
Il poco, se è condiviso, se è messo in “comunione”, diventa sempre tanto. Verità sacrosanta!
Ma da
questo vangelo possiamo trarre anche altri insegnamenti pratici, concreti.
Prima
di tutto ci dice che ogni impresa,
piccola o grande che sia, inizia da poco, da niente (cinque pani e due
pesci!). Dobbiamo solo fidarci di noi e di Gesù, Vita per eccellenza. I grandi
fondatori, i grandi santi, hanno iniziato la loro missione da poco, partendo da
zero, nella solitudine più completa: poi le loro opere si sono affermate e
moltiplicate in tutto il mondo. Hanno avuto fede nella iniziativa divina:
invece noi quante volte abbiamo paura, rimaniamo paralizzati, ci ritraiamo di
fronte a ciò che dovremmo fare! Anche solo guardare avanti, proporsi di seguire
qualche buona ispirazione, al delinearsi di qualche minima difficoltà, ci
scoraggiamo immediatamente, ci perdiamo d’animo, ci blocchiamo, andiamo in tilt e rinunciamo a tutto. Purtroppo il nostro
dramma è che guardiamo sempre ciò che siamo nel presente, e non consideriamo mai
ciò che invece possiamo diventare. È come avere a disposizione una piccola
quantità di grano. Che ce ne facciamo di tanto poco? Giusto la farina per impastare
un po’ di pane: veramente poco, un nulla. Ma se noi quei pochi chicchi li
seminiamo, ben presto ci troveremo di fronte un’altra realtà, toccheremo cioè con
mano come da poco, da nulla, si possa ottenere tantissimo! Ecco: questa è anche
la realtà della nostra vita; noi non siamo soltanto ciò che siamo, ma siamo soprattutto
ciò che possiamo diventare: esattamente come un chicco di grano può diventare una
grossa spiga.
Altro
insegnamento: più si condivide e più le
cose si moltiplicano (è questo il senso della “moltiplicazione”). Più si
mette insieme e più i miracoli si avverano. Se ognuno fa la sua parte, l’impossibile
diventa possibile. Pensiamo per un attimo alle “maratone” televisive di
Telethon o di quando si raccolgono fondi per far fronte ad improvvise calamità
nazionali: un euro a testa e si raccolgono milioni di euro. Oppure più semplicemente
pensiamo a quel che succede quando organizziamo una cena tra amici, e ciascuno deve
portare qualcosa: c’è da mangiare sempre per tutti e quello che avanza è sempre
in grande quantità.
Lo
stesso vale per le persone: pensiamo infatti alle tantissime risorse personali disponibili
nelle nostre comunità: c’è chi ha capacità organizzative, chi ha spazi a
disposizione, chi sa lavorare manualmente, chi è più preparato culturalmente, chi
sa lavorare con il computer, chi sa parlare, insegnare: riusciamo a immaginare cosa
succederebbe se tutti mettessero realmente a disposizione degli altri le proprie
risorse, le proprie esperienze, ciò che ognuno sa fare? Veri miracoli. Ebbene: poiché
la società del benessere tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a
singolarizzarci per ridurci senza forza, noi al contrario dobbiamo sempre più unirci,
metterci insieme, aiutarci, condividere, mettere a disposizione degli altri ciò
che personalmente siamo e possiamo offrire. Perché è così che possiamo
veramente compiere veri miracoli: perché la condivisione di idee genera la moltiplicazione di soluzioni; la
condivisione delle nostre capacità genera la moltiplicazione delle iniziative; la condivisione dei sentimenti
genera la moltiplicazione della pace.
Quante volte invece sentiamo dire: “Non lo fanno gli altri, perché devo farlo io”.
Beh, forse per qualcuno può essere anche giustificabile, ma se continuiamo a
ragionare così, non si arriverà mai a nulla.
Infine
un ultimo insegnamento del vangelo di oggi: prendiamo
atto di ciò che siamo e ringraziamo Dio. Se accettiamo umilmente ciò che siamo,
siamo già sulla buona strada, perché da lì parte la nostra trasformazione.
Ogni
domenica a Messa, sentiamo ricordare i gesti e le parole del vangelo di oggi: “prese i pani, rese grazie e li distribuì”.
Ma l’importante è capire che ogni domenica, in chiesa, noi non prendiamo solo
il pane eucaristico, ma prendiamo nelle nostre mani anche la nostra vita così
com’è, e dobbiamo ringraziare Dio per questo grande dono.
Capita
spesso invece che, guardando alla nostra vita, ne rimaniamo delusi: “Non sono
proprio nulla! Cosa posso pretendere da me?”. Praticamente non accettiamo di
vederci chiamati a condividere i nostri cinque
pani e due pesci, con gli altri cinquemila
fratelli; non accettiamo di venire sollecitati magari dall’esempio degli altri,
da quanto fanno i nostri vicini, i nostri amici, tutti quelli che frequentano
la nostra parrocchia, in una parola tutte le persone che vivono con fede la
loro chiamata. Allora giustifichiamo la nostra inattività con i confronti: “Io
non ho il loro talento, non ho la forza, non ho la loro volontà, la simpatia, la
cultura; non ho la loro esperienza, la fantasia, il dinamismo, le loro
qualità...”. In pratica ci nascondiamo dietro un dito; giustifichiamo le nostre
paure, evidenziando le qualità che riconosciamo negli altri e non in noi stessi.
Alla fine però, il vero vincente non è colui che si ferma a guardare gli altri,
ma colui che, prendendo coscienza delle proprie potenzialità, impegna
seriamente i propri carismi, le proprie forze, costruendo la vittoria con i
fatti e non con le buone intenzioni.
Allora,
invece di lamentarci, pensiamo piuttosto a cosa potrebbe succedere se accettassimo
quel poco che siamo, se cominciassimo seriamente a benedirlo, a valorizzarlo, a
metterlo a frutto. Impariamo sul serio a valorizzare e ad amare ciò che siamo!
E ringraziamo comunque Dio!
Anche
i discepoli non credevano nelle loro possibilità: di fronte a quella folla e
all’invito di Gesù di sfamarla con la miseria che avevano tra le mani, sicuramente
si saranno messi a ridere; o avranno pensato: “Ma dai, Gesù, non prendiamoci in
giro!”. Ma poi… conosciamo il finale! Ebbene, pensiamo seriamente a quello che
succede ancora oggi, ogni volta che andiamo a Messa: Gesù ripete lo stesso miracolo
della “moltiplicazione”, trasforma la sostanza di quel pane, che è ben poca
cosa, nel suo Corpo, e lo divide fra tutti. Un niente che diventa “Tutto per
tutti”. E non basta: oltre al pane, Gesù trasforma anche noi, uno per uno, singolarmente:
perché, assumendolo, Egli ci tocca dentro, ci scuote, ci commuove: basta
saperlo ascoltare; il suo è un tocco d’Amore che ci cambia il cuore, ci
travolge l’anima, ci impedisce di essere quelli di prima, ci guarisce, ci
risana; insomma ci fa diventare “nuovi”, radicalmente diversi.
E se
crediamo, allora ci accorgeremo che quel niente, quel nulla che siamo, con Lui diventa
ogni volta davvero tantissimo, una immensità! Amen.
«Il regno dei cieli è simile a
un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di
gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è
simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla
di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,44-52).
Il
vangelo di oggi ci presenta tre piccole parabole: tesoro, perla e rete. La
prima e la seconda sono molto affini. Anche se Gesù le deve aver dette in
occasioni diverse, il tema è lo stesso: imbattersi in qualcosa di grande valore.
E su queste vorrei fissare l’attenzione.
L’uomo
della prima parabola è un contadino che un giorno, mentre ara un campo, trova un
tesoro prezioso, una grande fortuna: vende tutto quello che ha e compra quel
campo. La seconda parabola racconta invece di un commerciante alla ricerca di
perle preziose. Trovatane una particolarmente splendida, vende tutto pur di
comprarla
Il
primo uomo trova il tesoro casualmente; il secondo, la trova dopo una lunga e
accurata ricerca. Ciò che conta è che entrambi trovano qualcosa dal valore
assoluto, di fronte al quale tutto il resto svilisce. Non c’è prezzo per ciò
che trovano, non c’è niente che tenga di fronte alla scoperta, non c’è
confronto o paragone con nessun’altra cosa di fronte a quella perla e a quel
tesoro.
Entrambe
le parabole ci dicono in sostanza che Dio, il regno dei cieli, non è automaticamente
raggiungibile, è un tesoro che va comunque cercato, perché è un qualcosa di
meraviglioso, di incredibile, un qualcosa che non è paragonabile a niente: è talmente
importante che per ottenerlo è preferibile distaccarsi da tutto quello che
abbiamo. Insomma è una realtà talmente affascinante che ci assorbe e coinvolge completamente:
e quindi dobbiamo puntare e investire tutto in Lui.
Ma in
cosa consiste questo regno dei cieli?
È il Dio che ci abita dentro. Una volta che lo abbiamo incontrato, che lo
abbiamo sperimentato, sarà impossibile lasciarlo. Perché Lui ci stima, ci ama, ci
spinge ad osare, a diventare noi stessi, a realizzarci, a cercare. Ci fa sentire
vivi, vibranti; con Lui ritroviamo la nostra autonomia di vita e di pensiero,
diventiamo liberi, vinciamo le paure, ci incamminiamo nel sentiero dell’autenticità,
e sentiamo il fuoco della vita e dell’amore dentro di noi.
È
impossibile dimenticarlo, perché Dio imprime un segno indelebile dentro di noi.
Quando ci parlano di Lui, su come trovarlo e mantenerlo, sentiamo insistere
continuamente sulla necessità di preghiere, di riti, di liturgie appropriate: ma
Dio non è un qualcosa di statico, fermo, immobile, che aspetta le nostre
incensazioni. Dio è dinamismo, è un “incontro”. A volte casuale, a volte voluto
disperatamente. E, incontratolo, non è difficile seguirlo, non è affatto
impegnativo, non richiede da parte nostra un grande sacrificio: perché Lui con
la sua presenza ci riempie il cuore, la vita, ci inebria, ci fa innamorare, ci
dà ciò che nessun altro può darci. Lui è amore, è passione che travolge, è
necessità di vita. Perché gli apostoli lo seguivano? Perché lui era per loro come
l’aria, era la vita, era tutto.
Dio,
dunque, è il nostro tesoro nascosto: ma
noi? cosa cerchiamo noi? Lui è là che ci aspetta, ma a noi quanto importa? Certo,
se continuiamo a cercare soldi, sicurezza economica, piaceri, benessere, tranquillità, non
ci accorgeremo mai di Lui: il tesoro è lì vicino, ma non lo troveremo mai,
perché cerchiamo altro, siamo attratti da tante altre cose.
Scendiamo
nel concreto: chi o che cosa cerchiamo
noi in realtà? Meglio: dove cerchiamo?
Perché se pensiamo che la felicità risieda in qualche persona, o in qualcosa “fuori”
da noi, cercheremo invano, continueremo a cercare tutta la vita senza trovare nulla,
perché ciò che cerchiamo non è fuori
di noi ma dentro di noi. Il tesoro è nascosto
in noi; siamo noi stessi il tesoro: è
quell’immagine, quella somiglianza divina, impressaci da Dio fin
dalla nascita, che noi con la nostra vita dobbiamo scoprire e fare nostra ad
ogni costo. La perla siamo noi. Ecco perché dobbiamo cambiare metodo di
ricerca, ecco perché la nostra vita deve necessariamente cambiare. Anche se gli
altri ci deridono, anche se ci prendono per fuori di testa.
Anche
i due uomini del vangelo si comportano da folli, da pazzi, pur di entrare in
possesso del “tesoro”: lasciano il certo per l’incerto, vendono tutto quello
che hanno, si liberano di tutto, pur di arrivare a quel tesoro di cui ancora
non conoscono il valore. Cose da pazzi. Ma Dio è per i pazzi, per i folli,
perché non ci chiede qualcosa, ma pretende
tutto, ci chiede noi stessi. Dio non si accontenta di un nostro coinvolgimento parziale,
lo vuole tutto, lo vuole completo.
Tutte
le cose che possiamo conquistare durante la nostra vita, hanno certamente un
valore, ma è un valore legato alla provvisorietà:
ci coinvolgono sul momento, per poi dimostrarsi effimere, e cadere nell’indifferenza,
nella dimenticanza, nella caducità; perdono insomma la loro attrattiva, il loro
interesse, il loro richiamo. Ci sono anche eventi molto importanti che ci
segnano per tutta vita, è vero; fatti che ci cambiano intimamente, in
profondità: come l’amore sincero del partner, un matrimonio felice, la nascita
dei figli; ma anche queste realtà così vitali sono destinate, prima o poi, a finire,
a concludersi: i figli stessi, pur coinvolgendo profondamente tutta la nostra vita,
non sono per sempre: un giorno anch’essi
se ne andranno. Ebbene, Dio è molto di più di tutte queste cose “transitorie”: più
coinvolgente di un figlio, più importante di un partner, più impegnativo di un
matrimonio. Egli non esclude dalla nostra vita niente di tutto questo; Egli ci
lascia godere di tante cose belle, essenziali per la nostra vita: ma ciò che oggi
dobbiamo capire dal vangelo, è che Lui è la “cosa” più bella in assoluto: che
Lui viene al primo posto nella scala dei valori, è più importante di tutto, al
di sopra di tutto, perché Lui va oltre i nostri limiti: non esiste per Lui un
“termine” temporale, dopo il quale verrà meno, sparirà, lasciandoci soli. Una
volta che l’avremo trovato – e per trovarlo dobbiamo rinunciare a tutto - Egli rimarrà
per sempre nostro, nostro in assoluto,
continuerà ad essere sempre per ciascuno di noi il “tesoro prezioso”, anche oltre il tempo, oltre i nostri giorni
terreni.
Dio infatti
non è un qualcosa di esterno, di altro
da noi; ripeto: Dio non è una preghiera o una professione di fede; non è un credo
o un sistema di riti. Dio è Qualcuno che ci prende totalmente, che ci
coinvolge, che ci vuole trasformare, cambiare, che non ci farà più essere quelli
di prima, che cambierà radicalmente il nostro modo di pensare, di sentire, di
vivere. Dio non vuole un’ora di preghiera al giorno; Dio non vuole una parte
(magari anche grande) della nostra vita: lui la vuole tutta. Lui vuole “sposarsi”
con noi, vuol fare alleanza con noi, vuole
rapirci, prenderci, assorbirci completamente.
Però
per trovare questo Tutto, e concludo,
dobbiamo essere disposti a giocarci il tutto.
Si narra in proposito che un giovane monaco facesse ogni giorno la stessa
domanda al suo maestro: “Come posso trovare Dio, il “tesoro” del vangelo?”. E
ogni giorno riceveva la stessa risposta: “Devi desiderarlo”. “Ma io lo desidero
con tutto il mio cuore, eppure non lo trovo!” insisteva il discepolo. Un giorno,
mentre entrambi si stavano lavando nel fiume, il maestro prese la testa del
giovane tra le mani, la spinse sott’acqua, e ve la tenne con forza mentre il
poveretto si dibatteva disperatamente per liberarsi. Il giorno dopo fu il
maestro a domandare: “Perché ti dibattevi in quel modo quando ti tenevo la
testa sott’acqua?”. “Perché cercavo disperatamente l’aria!”, rispose. “Ebbene:
quando ti sarà data la grazia di cercare disperatamente Dio come cercavi l’aria,
allora l’avrai trovato!”. È tutto chiaro, vero? Se lo cerchiamo anche noi in
questo modo, sicuramente lo troveremo. Amen.
«Il regno dei cieli è simile a
un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti
dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne
andò.» (Mt 13,24-43).
È la
parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i
discepoli non l’abbiano capita, ma perché non vogliono capirla così com’è, non
sono cioè d’accordo con Gesù. Infatti, è una parabola scomoda, per certi
aspetti irritante, perché prospetta una realtà di difficile gradimento.
C’è un
uomo che ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico di notte semina
la zizzania. La zizzania è una graminacea - molto simile al frumento e quindi impossibile
da distinguere finché non arriva a maturazione - i cui grani nerastri sono
tossici e hanno un effetto narcotizzante. Il riferimento al male è evidente. È
naturale che la prospettiva dei buoni (i discepoli) di dover convivere con i cattivi
(i “nemici”di Gesù) non è condivisa dai primi. Sarebbe preferibile metterli immediatamente
fuori causa. Ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania)
a priori, sul nascere, si corre il
grosso rischio di estirpare anche il grano,
poiché le radici di entrambi gli elementi sono strettamente intrecciate l’un
l’altra. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo
tenere l’uno e l’altro”; e soprattutto “Non
sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va coltivato e cosa no.
Praticamente,
con questa parabola, Gesù mette in guardia gli apostoli dalla tentazione,
sempre presente in ogni comunità religiosa, da che mondo è mondo, di sentirsi gli
autentici rappresentanti della buona novella, i soli protagonisti, cioè, in
grado di formare un gruppo di eletti,
di gente superiore, di elementi migliori,che pensano di essere i soli meritevoli
della “salvezza”. Dio però, dice Gesù, non fa queste differenze, non divide i
buoni dai cattivi; Egli “fa sorgere il
suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra
gli ingiusti”.
Per
tutta la sua vita Gesù ha infatti combattuto contro questa “presunzione”, contro
quelli che si ritenevano giusti, bravi, buoni e che condannavano tutti gli
altri come peccatori, come gente persa, sbagliata, da convertire o da
condannare. Farisei, scribi e maestri della Legge erano davvero maestri in
questo: ma la stessa tentazione iniziava ad insinuarsi anche fra gli apostoli, proprio
perché, seguendo il maestro da vicino, si ritenevano in qualche modo superiori
agli altri, più degli altri, e rischiavano di cadere nello stesso errore.
Un
errore, questo, una ideologia, che ha avuto grande seguito nei secoli
successivi, con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, quanti “difensori”
della fede e di Dio hanno ucciso, condannato, fatto guerre per estirpare il
male, gli “eretici” del mondo? La fanatica volontà di fare il bene a tutti i
costi, di eliminare ogni male, ha creato guerre sante, rivoluzioni, epurazioni,
stermini razziali, camere a gas, inquisizioni, la caccia alle streghe e le
peggiori crudeltà. Una religione che si ritenga superiore alle altre è una
religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità crea inferiorità, crea
pregiudizi, condanne e divisioni: buoni e cattivi, gente salvata e gente
condannata. Ma Dio, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha mostrato un Dio come
questo; anzi Lui è venuto per tutti, per salvare tutti, proprio tutti.
Cosa suggerisce
allora, in particolare, questa parabola a noi, discepoli di oggi? Che quel campo siamo noi, e che nel nostro campo, nella nostra vita, convivono grano
e zizzania. È un dato di fatto. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di
essere soltanto grano scelto. Siamo purtroppo
anche zizzania, a volte della peggiore, e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci
e amarci anche nei nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di
non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo
predisporre la mietitura finale.
“Sei
grano e zizzania”, ci conferma Gesù. “Se vuoi essere solo grano ed estirpare tutto il non-bene che c’è in te, non ti rimarrà
niente di niente. Accettati con le tue potenzialità, con i tuoi doni, con le
tue risorse, ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Quindi,
non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in
assoluto”.
Gesù,
con questa parabola, vuole infatti rispondere a tutti i perfezionisti, a tutti coloro cioè che pretendono e cercano in loro
stessi il puro bene, il puro amore, la pura fede, la pura
preghiera: tutte cose che da sole, divise dal male, dalla debolezza, dalla
caducità umana, non esistono.
Per
questo motivo dobbiamo individuare bene in noi, quale tipo di perfezione stiamo cercando. È
importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la
volontà di Dio; un altro è mirare alla perfezione
(=“fare-per, fare-per-uno-scopo”) da
“perfezionista”, avendo cioè come
risultato, quello di soddisfare sempre più il nostro “ego”, aumentando a dismisura la nostra autostima, attraverso il
riconoscimento e l’ammirazione degli altri. Il perfezionista, peraltro, è monolitico: divide il mondo in buoni e
cattivi. Punto. Non ci sono mezze misure per lui. La sua vita è continuamente sotto
stress, in ansia; le sue vertiginose aspirazioni lo fanno sentire incompleto,
insoddisfatto, perché in ogni caso la sua ricerca è volta al finito, non all’infinito, a Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato solo all’esterno:
non si chiede mai cosa gli comanda la sua coscienza, cosa gli suggerisce il suo
cuore e, soprattutto, cosa gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
Perfezione, per noi cristiani, è dunque attuare,
concretizzare nella nostra vita, in semplicità e umiltà, quel progetto che Dio
ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma fatto a nostra
misura, che tiene conto di tutti i nostri difetti, di tutte le nostre miserie,
di tutte le nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio
da persone nient’affatto perfette: peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli
non teme i nostri errori; Egli teme invece
quando noi partiamo per la tangente e, insofferenti del nostro stato (un mix di
grano e zizzania), vogliamo diventare “perfetti” oltre ogni misura, pretendendo
di estirpare da subito la zizzania, stravolgendo la nostra “umanità”.
Un
santo monaco raccontava in proposito: «Un giorno anche il demonio volle provare
a creare un uomo. Disse: “Voglio creare un essere perfetto, bello, puro,
incontaminato dal male e dal negativo”. Ma dopo averlo creato lo guardò e
iniziò a dubitare. Aveva gli occhi e poteva vedere le nudità delle donne: “Oddio,
che pericolo”, disse tra sé. Così glieli tolse. Ma aveva anche le mani e
avrebbe potuto usarle per derubare i suoi simili, uccidere e ferire: “Oddio che
rischio”, e gliele tolse. Ma poi si accorse che aveva la mente: e la mente può
essere ancor più crudele, può ingannare, può essere menzognera, può organizzare
crudeltà immani. E così per sicurezza gliela tolse, e per essere sicuro e non
sbagliare gli tolse tutta la testa, “perché non si sa mai!”. Infine si accorse
che l’uomo aveva un cuore: “Oddio!”, questo era veramente il pericolo più
grande. “Un cuore!? Con il cuore può lasciarsi andare alle passioni, può
lasciarsi trasportare dall’ira, può innamorarsi di persone sbagliate, può amare
in modo perverso. È troppo pericoloso il cuore. Per il suo bene glielo devo
togliere”. E così glielo tolse, e dell’uomo non rimase nulla, proprio nulla.
Per salvarlo, l’aveva ucciso».
L’uomo
“perfetto” dunque non esiste: tutti noi siamo esposti ad ogni tipo di prova:
l’importante è superarle e trasformarle tutte in opere d’amore.
Dopo
la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò
le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli
sorrise, ma con un velo di tristezza gli disse: “È vero, ma sono anche vuote”.
Allora
non perdiamo tempo ad angustiarci per non essere puri, immacolati, senza ombra
alcuna. Accettiamo umilmente la nostra debolezza, la nostra imperfezione; concentriamoci
piuttosto sul nostro “grano” da coltivare
e far comunque crescere. Ecco, questo è l’importante; perché possiamo fare un
sacco di bene, possiamo mirare alla perfezione, anche se nella nostra vita, nel
nostro campo, c’è tanta, ma tanta “zizzania”!
Amen.
«Per questo a loro parlo con
parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…»
(Mt 13,1-23).
Siamo
nel capitolo 13 di Matteo, il capitolo cosiddetto “delle parabole”. Che succede
qui esattamente? Gesù parla in “parabole”, servendosi cioè di storielline
tratte dalla vita reale, dalla vita di ogni giorno, perché in questo modo gli
riusciva più facile (e gli riesce ancora oggi) far capire i suoi profondi
insegnamenti anche alla gente più umile e culturalmente sprovveduta: la
parabola infatti può essere giudicata puerile, un po’ stupida, da chi si
ritiene “superiore”, da chi la accantona a priori, non volendo lasciarsi coinvolgere;
ma è profondissima e comprensibilissima per chi vi entra dentro con il cuore; se
non la capiamo, vuol dire che il nostro cuore è chiuso, è ottuso: è perché non
la vogliamo capire. “Chi ha orecchi intenda”: c’è tanta luce per chi vuol
vedere, e tanto buio per chi non vuol vedere.
Per
ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo
dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci,
cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da
quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la
nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo: dobbiamo staccare la
spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo
su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo
decisi a regolare in esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene:
la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge
sul terreno la semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo è la
strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai
venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire. Il secondo
è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente
una protezione per quella parte di seme che cade sulla poca terra che li ricopre; ma in fretta il seme inaridirà; in realtà i sassi rappresentano
i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria;
sono le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta
una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto
da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una
vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente
forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse
pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere, ma ancora debole, viene
soffocato da tutta una serie di elementi esteriori. Infine c’è il quarto
terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto
in tutta la sua potenzialità.
Bene:
noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di
esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per
esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a
finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che,
nonostante tutto quello che ho fatto, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante
volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato,
ma non è successo assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne
rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo
gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero
che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è altrettanto vero che c’è
sempre una piccola parte che nasce, cresce, e col tempo matura. Quindi di
fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che
proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè essere certi che il
nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un
risultato consolante.
Possiamo
poi entrare nella stessa parabola mettendoci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo
chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno
sono nato? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno
su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà
destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi,
sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora:
“che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In che cosa devo crescere, cosa
devo far vivere, sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella che è
solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? Qual è il mio carisma?” È
molto importante conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo che non
si distingue dagli altri è soltanto una fotocopia, è la copia di un qualcosa
che già c’è: è quindi inutile.
Del
resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è
niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io
nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo infatti
dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare,
presente solo in alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un
seme per nascere deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo
nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una nostra risposta!
C’è
infine una terza possibilità nel leggere questa parabola: quella cioè di
metterci dalla parte del terreno. E allora le domande da porsi sono: “Che
terreno sono io?”. Che tipo di terreno penso
di essere?” Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme),
ciascuno di noi (il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo
per esempio questo principio a tutti coloro che si avvicinano a questo “commento”:
è impossibile che esso produca per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni
sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente
pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il
vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati, alleggeriti
in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno come prima:
vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene fatta alle
persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale?”.
Sono il terreno “sassoso”.
Altri ancora
saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero tanto poterle
adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, è troppo
forte e invadente: “Ma credi ancora a queste cose? Ma sì, è uno che parla tanto,
ma non tiene conto che la vita è un’altra cosa”. E così il mini germoglio
appena nato, morirà. È il terreno “con le
spine”.
Può
darsi infine che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo Spirito
di Dio, escano da questa pagina completamente rinnovati; in futuro non saranno
mai più come sono entrati. Il motivo? Perché hanno riconosciuto in queste povere
parole la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo stesso
testo di commento, lo stesso passo del vangelo, hanno ottenuto risultati
diversi: perché sono le persone a non
essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma le credenze, le chiusure, i
blocchi, i pregiudizi delle persone no. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno.
Il seme di Dio, uguale per tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del
terreno che lo accoglie. Ciò che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se
noi riconoscessimo di essere insieme tutti e quattro i terreni di questa
parabola? Allora essa ci aiuterebbe comunque ad affrontare e ad accettare,
oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti). Non
dobbiamo pensare di essere dei falliti, guardando ai frutti negativi prodotti
dalla nostra vita; perché i pochi risultati positivi sono già sufficienti a
dare un senso a tutta una vita.
E
concludo: Gesù ci accoglie e ci ama anche se non portiamo frutto in ogni settore
della nostra vita. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente aridi.
Dobbiamo certo provare continuamente a migliorare, ad essere più accoglienti,
ma non pretendiamo la perfezione in assoluto: perché anche una piccola parte
sana, una piccolissima parte fertile e fruttifera della nostra anima, deve bastare
ad infonderci coraggio, a farci guardare avanti con fiducia e umiltà: non
deprimiamoci, non rinunciamo a combattere: perché la nostra vita ha comunque un
senso, ha comunque uno scopo, nonostante i nostri fallimenti, i nostri insuccessi,
le nostre aridità. Una piccola fecondità (un terreno su quattro) - ci insegna
il vangelo - è già di suo una grande fecondità. Amen.
«Ti rendo lode, Padre, Signore
del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti
e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua
benevolenza… Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò
ristoro… imparate da me, che sono mite e umile di cuore…» (Mt 11,25-30).
In
queste parole possiamo cogliere un’esplosione di gioia di Gesù, un momento di
commozione, di illuminazione, di consapevolezza, di stupore, di giubilo. Succede così quando, nel dubbio, nel buio, nell'oscurità interiore, tutto improvvisamente ci diventa chiaro. Fino a poco prima non riuscivamo a capire nulla; poi in un istante, all’improvviso, tutto diventa comprensibile, semplice, alla nostra portata.
Il
contesto da cui è tratto il testo di oggi, ci dice che Gesù è triste, si trova in un momento di profonda delusione
per la diffidenza di chi gli stava vicino: fa trasparire il volto umano di
Gesù, che, come succede spesso a tutti noi, non capisce e non si dà spiegazione di certi
comportamenti.
Egli fa
il bene ovunque si trova, insegna ad amare, a non giudicare, porta accoglienza
e dignità soprattutto dove non sono mai state sperimentate, guarisce, libera,
aiuta ciascuno a ritrovare il proprio volto deturpato dalle ferite della vita,
a ritrovare il senso di una strada persa o mai trovata, a ritrovare la gioia, l’emozione
di vivere: e come risposta la gente lo rifiuta, gli gira le spalle, lo accusa, lo
attacca, gli si scaglia contro come se fosse il peggiore dei nemici.
Del
resto, ripeto, è una situazione molto comune, una situazione in cui viene naturale anche
a noi chiederci: “Cos’ho fatto di male?”. In realtà, nulla.
Ma è
proprio in tale situazione che a noi umani è richiesto un primo salto di qualità nel nostro cammino spirituale: dobbiamo
cioè passare dal fare ciò che facciamo, aspettandoci il riconoscimento degli
altri, al farlo come risposta ad una specifica chiamata di Dio, il cui campo di
esecuzione avviene nella riservatezza e nell’umile nascondimento del proprio io.
Consapevoli
di operare per la sola gloria di Dio, non dobbiamo dimenticare le parole che
Madre Teresa diceva a questo proposito: “Quando fai il bene, gli altri diranno
che lo fai per motivi egoistici, per secondi fini, ma tu continua a farlo.
Quando hai successo nel bene, ti fai dei falsi amici e dei veri nemici, ma tu
continua ad averlo. La sincerità e la franchezza ti rendono vulnerabile, ma tu
continua ad essere sincero e franco. Quel che hai costruito in anni di lavoro
può andare distrutto in una notte, ma tu continua a costruire. Del tuo aiuto c’è
realmente bisogno, anche se la gente ti attacca proprio quando l’aiuti; tu
però, aiutala ugualmente. Da’ al mondo il meglio di te; ti tratteranno a pesci
in faccia, ma tu continua a dare il meglio di te”.
Purtroppo,
al contrario, quando non abbiamo un motivo valido per vivere, quando sentiamo
che la nostra vita è inutile o quando, semplicemente, non siamo in grado di
reggere le difficoltà del cercare la verità, del trovarla di persona, succede
che ci vendiamo a qualche ideologia; troviamo cioè motivazioni pseudo religiose
che ci esaltano a livello umano, portandoci a condurre una vita che pensiamo
sia meritoria, nobile, retta e santa. E non ci accorgiamo che così facendo, gratifichiamo
soltanto il nostro amor proprio. S. Teresa d’Avila diceva: “Dio ci liberi da
quelli che vivono in un certo modo credendo di essere dei santi; se quei tizi non
fossero così fermamente convinti di essere santi, sarebbe molto più facile
convincerli del contrario!”.
Ciò
che stupisce nel vangelo di oggi è la reazione di Gesù: in una situazione di profonda
delusione, di scoraggiamento, lui – invece di recriminare - innalza un inno
alla vita e si lascia stupire da ciò che il Padre fa. Egli non cade nella
trappola del negativismo: vede il male, vede l’ottusità e l’oscurità della gente,
ma sa vedere soprattutto il bene e la meraviglia che comunque c’è nel mondo.
C’è il
male nel mondo? Certo, e più cerchiamo, più ne troviamo. C’è il bene nel mondo?
Certo, e più cerchiamo, più ne troviamo. C’è negatività nel mondo? Oh sì
tantissima, e più la cerchiamo, più la troviamo. C’è positività nel mondo? Oh
sì, tantissima, e più la cerchiamo, più la troviamo. Tutto quindi dipende dai nostri
occhi, da cosa vediamo. Cosa cerchiamo esattamente? Perché alla fine vedremo e troveremo
soltanto ciò che noi “vogliamo” vedere e trovare: nient’altro.
Quando
ci guardiamo allo specchio, cosa vediamo? Se pensiamo di riflettere un bel
sorriso con i denti allineati, una pelle perfettamente liscia e tonica, magari
non li troviamo. Ma se vogliamo cercare le rughe, le troviamo tutte. Quando
guardiamo nostro figlio cosa vediamo? Se vediamo che non si è laureato, che non
si è affermato come noi volevamo, ci sentiamo profondamente delusi e ci diciamo
che, come genitori, abbiamo fallito. Se guardiamo invece che sta crescendo con
sani principi, che affronta apertamente e con grande forza interiore le
contrarietà della vita, che fa con entusiasmo e in piena libertà le sue scelte,
allora non possiamo che gioire ed essere orgogliosi di quel nostro figlio. Perché
noi troveremo sempre ciò che cerchiamo.
Lo
stesso succede con quello che ci succede nella vita: una crisi, una malattia,
può essere un dramma, ma anche una grande occasione di riscatto. Niente è
veramente negativo; tutto dipende dai nostri occhi. L’essere pessimisti oppure ottimisti
non dipende da ciò che ci succede intorno, all’esterno, ma da ciò che noi abbiamo
dentro.
Una buona
fortuna? Una cattiva fortuna? Chi lo sa? Lasciamo fare alla Vita.
Ciò
che Gesù sta vivendo per colpa della gente non è affatto bello né tantomeno gratificante.
Eppure tutto questo non gli impedisce di tenere un cuore capace di stupirsi, di
meravigliarsi, di cantare, di gioire, di sorridere e di amare. Con l’aria che “tirava
attorno” non c’era poi tanto da ridere: eppure Gesù era capace di sorridere, era
capace di tenerezza, di abbracciare, di cantare, di stupirsi e di benedire.
Non
permettiamo che i fatti della vita induriscano o inacidiscano il nostro cuore.
Teniamolo vivo; teniamolo libero.
Fare esperienza
di Dio è una cosa talmente grande, così sublime, che l’unico sentimento che
possiamo trovare è lo stupore: “non ho parole…!”. “Mistica” infatti, dal greco miein, vuol dire proprio questo: “Non
ci sono parole, è troppo grande”. Ebbene, lo “stupore” è il poter vedere la
forza e la bellezza della vita, al di là di ciò che ci succede, al di là di ciò
che ci sembra. Lo stupore è una questione di fede: vediamo i problemi, le
difficoltà, il negativo, ma non permettiamo che tutto questo distrugga ciò che
siamo, la nostra felicità, la nostra serenità; soprattutto distrugga il Dio che
abita dentro di noi.
Lo “stupore”
è fare l’esperienza che c’è un di più che ci supera, e lasciare che questo di
più ci entri dentro. Non è il saperlo con la mente, ma il lasciarsi coinvolgere
con il cuore. I bambini vivono di questo.
I
bambini infatti non sanno che la mamma li ama, lo “sentono”. I bambini guardano
una foglia, le stelle, un gatto: e dietro tutte queste cose vedono un mistero: e si stupiscono, sorridono, e amano.
Un
giorno chiesero ad Einstein quale fosse la forza che lo aiutava nel suo
continuo studio. Rispose: “L’unica forza che mi spinge nella vita e nel lavoro,
è lo stupore, la meraviglia che trovo di fronte alla natura”. Una tradizione
araba dice che “il mondo non finirà, fintantoché ci sarà anche un solo uomo che,
alzandosi al mattino, guarderà il sole e loderà Dio per questo”.
Lasciamoci
stupire da quello che ci circonda! I mistici talvolta dicevano: “Signore sono
talmente pieno di gioia che potrei morire”. La vita, dono di Dio, è talmente bella,
grande, colma, ricca, entusiasmante che, anche quando a volte è tragica, merita
comunque di essere vissuta pienamente e con riconoscenza.
Se noi
lasciamo che il volto, il cuore di nostra moglie ci entri dentro, allora la
vita è amore. Se lasciamo che il cielo, le stelle, ci entrino nel cuore, allora
la vita è piena. Se lasciamo che la passione per una giusta causa ci invada,
allora la vita è significativa. Se ci lasciamo toccare dalle parole di un uomo,
allora sentiremo che la vita è comunione. Se ci lasciamo toccare dal pianto,
dalla sofferenza di un uomo, allora sentiremo che la vita è umana. Se ci lasciamo
toccare da ciò che vediamo, da ciò che sentiamo, da ciò che succede, allora certo
non capiremo Dio - perché nessuno lo può capire - ma sapremo che lui c’è. Se
viviamo così, ricevendo, accogliendo, imparando, allora la vita sarà sempre
ricca, sarà sempre piena, sarà sempre colma, sarà sempre leggera: e vivere sarà
decisamente bello.
Gesù,
con le parole di oggi, si rivolge a tutti gli affaticati e gli oppressi.
Chi erano? “Affaticati e oppressi” erano tutti quella povera gente che non
riusciva a sostenere il culto pesante della legge ebraica, con le sue
prescrizioni, le sue decime (per i poveri
era praticamente impossibile essere bravi religiosi). Ai nostri giorni “oppressioni”
possono essere tutte quelle false “costrizioni” religiose a cui ci siamo incatenati;
costrizioni che non ci lasciano amare, che dopo certi errori ci condannano inesorabilmente.
Ebbene, proprio perché siamo “oppressi” da tutte queste nostre “infatuazioni”
formali, proprio perché esse ci condannano, ci costringono, Gesù ci chiama per
andare da lui. E Lui ci accoglie, perché aspetta proprio noi, gli “oppressi”.
E
tutti in qualche modo siamo oppressi: per alcune persone, oppressione è il non
riuscire a venir fuori da certi tunnel. Un uomo, per esempio, non riesce a
smettere di bere: ci sta provando davvero, ce la mette tutta; per un po’ ce la
fa, ma alla prima frustrazione ci ricade. La sua volontà è inefficace, forse perché
troppo ferita. Allora si sente indegno di Dio. Ma Dio accoglie proprio tutti gli
affaticati e oppressi.
Per
altre persone, oppressione è il pretendere l’impossibile da se stessi. Una
donna è stata abbandonata dal marito, ha due figli adolescenti, e non è facile
educarli da sola. Lei ci prova ma si accorge che non ce la fa, si accorge che per
il suo carattere le è impossibile essere dura di fronte a certe scelte dei
figli. Allora si addossa tutte le colpe e si sente una cattiva madre; è
oppressa da questo peso; ma Gesù che la conosce e vede tutto il suo impegno, la
chiama a sé, perché non si giudichi troppo e sia contenta di tutto quello che
fa.
Gesù è
la casa di tutti quelli che faticano a vivere, di tutti quelli che si sentono
feriti, di tutti quelli che sono oppressi da pesi e dolori grandi.
E
allora, quando ci sentiamo così, andiamo da Gesù. Lui è sempre pronto ad
accoglierci; da Lui potremo trovare sempre un po’ di pace e di ristoro. Andiamo
da Gesù: urliamogli tutto il nostro sdegno, le nostre amarezze, le nostre
difficoltà. Andiamo da Gesù e sfoghiamo la nostra rabbia; urliamo il nostro
peso, piangiamo il nostro dolore, gridiamogli l’ingiustizia degli uomini. Lui ci
ascolterà; ci darà forza per andare avanti e luce per trovare altre soluzioni.
Amen.
«…Ma voi, chi dite che io sia?
Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt
16,13-19).
Oggi
la chiesa celebra la festa dei santi Pietro e Paolo, che furono le colonne portanti
della prima chiesa. La loro forza fu quell’incontro personale con Gesù, fatto
da Pietro sulle strade della Galilea e da Paolo sulla via di Damasco: lo videro
di persona, lo incontrarono, furono due innamorati di Dio.
Per
incontrare Dio, per essere anche noi innamorati di Lui, dobbiamo cercarlo,
averne bisogno, ritenere prioritario il suo incontro. Ritenere di non poter stare
senza di Lui perché Lui è la Vita, perché Lui è Tutto.
Il
motivo principale per cui non troviamo Dio è che non lo desideriamo
ardentemente. Le nostre vite sono piene di troppe cose “altre”, sono affollate
da tanti altri pensieri e, non nascondiamocelo, tutto sommato stiamo bene anche
senza Dio.
Diciamocelo:
per molte persone, nella quotidianità dell’esistenza, che Dio ci sia o che non
ci sia, non è poi così importante, non cambia poi molto, non ha molto peso.
Diventa importante solo quando ci troviamo in situazioni limite: quando stiamo
crollando o siamo ammalati, quando stiamo soffrendo, quando muore qualcuno a
noi vicino, quando siamo vuoti o depressi. Ma prima? Dov’era, prima, Dio per noi?
Il
vangelo ci dice che a Pietro e agli altri discepoli Gesù, ad un certo punto
della sua vita, pose una domanda centrale: “Chi sono io per voi?”. Bella
domanda: anche noi oggi possiamo chiederci tante cose su Gesù: “Cosa dice il
catechismo su di Lui?; cosa dicono gli esperti e i preti su di Lui?; cosa se ne
dice in giro?”. Possiamo giustificare la nostra “ignoranza” dicendo che non
abbiamo studiato, che non siamo esperti, che non ne sappiamo molto. Ma sono solo
giustificazioni, perché Gesù con quella domanda, in pratica vuol dirci: “Tu, personalmente,
in che misura vuoi lasciarti coinvolgere da me?”. È una domanda che non esige
tanto una risposta teologica, da catechismo, giusta e corretta: esige
semplicemente una nostra scelta di vita.
Vuole
che ci lasciamo coinvolgere totalmente, contagiare nel più profondo del cuore: “Tu
sei il Figlio di Dio, quello Vivente”. Cioè: “Tu sei colui che dà vita, che dà senso,
significato, pienezza, unità alla mia vita. Senza di te nulla ha senso. Tu sei
ciò che mi rende vivo. Senza di te sono morto”.
Quando
infatti chi ci ama ci chiede: “Chi sono io per te?”, è chiaro che non intende chiederci
se conosciamo i suoi dati anagrafici; ma ci chiede se lo amiamo, se siamo
felici di stare con lui, se siamo disponibili a fare con lui la strada della
nostra vita”.
Gesù
non chiede a nessuno se conosce il catechismo a memoria; ma soltanto: “Con la
tua vita, sei pronto a stare con me? Ti va di seguirmi? Ti va di mettere tutto il
tuo mondo in gioco insieme a me?”.
Pietro,
Paolo, e tutti gli apostoli, con il loro comportamento, con la loro vita, hanno
praticamente risposto alla domanda di Gesù più o meno in questo modo: “Beh, caro
Gesù, in effetti noi non ti conosciamo a fondo, non sappiamo bene neppure chi
tu sia. Però una cosa sappiamo molto bene: che prima eravamo morti, mentre adesso
viviamo. Prima vivevamo trascinando stancamente i nostri giorni, mentre ora ci
sentiamo pieni di vita, vibranti, entusiasti, intensi. Prima eravamo pieni di
paure, adesso con te siamo disposti ad affrontare qualunque cosa. Prima
temevamo il giudizio della gente, adesso con te niente e nessuno ci fa più
paura. Pertanto, secondo noi, tu vieni proprio da Dio, perché solo Dio può fare
queste meraviglie. Noi vogliamo vivere con te, perché solo con te abbiamo
sperimentato la vera vita”.
Questa
risposta non è frutto di ragionamenti, di sofismi, di elucubrazioni mentali,
dell’aver studiato molto o dell’aver fatto molto incontri. Questa risposta è il
frutto di persone che hanno fatto una scelta seria, ponderata, definitiva; di
persone che quotidianamente, con i fatti, continuano a mettere generosamente in
gioco la loro vita.
Le
grandi scelte non sono mai logiche: sono illogiche, sono contro la logica e il
ragionamento umano: si pongono su di un altro piano, sul piano del cuore, della
passione, dell’amore, dell’intensità.
Quando
Dio ci chiama, il cuore dice “Sì”, e si slancia con tutto l’entusiasmo che ha
dentro di sé. Mentre invece la mente: “Calma, fai attenzione! E se ti sbagli? E
se poi non ce la fai? Chi ti assicura che questa sia la scelta giusta, ecc.?”. In
genere, prima di una decisione importante, la nostra testa è portata a calcolare
le eventuali possibilità di errore, i vari rischi che una tale scelta comporta.
Ma il cuore non ragiona così: se si sente attratto, il cuore decide di andare.
Poi, con calma, studierà anche la strada da percorrere. E la trova sempre! Il
nostro raziocinio si preoccupa sempre di trovare l’obiettivo, la meta, perché pianificare
e sapere dove andare ci infonde sicurezza. Ma il cuore non segue la strada del
raziocinio; basta un impulso, una spinta, uno slancio, perché decida immediatamente
che quella è la sua strada: “Per di qua”. E lui va: a tutto il resto ci si penserà
dopo.
Pietro
ad un certo punto si rende conto che in quell’uomo, chiamato Gesù, c’è
veramente qualcosa di grande, di immenso, di divino. Non si tratta più dunque di
pensarci, di valutare, di ragionare, di fare un bilancio guadagni/perdite: si
tratta di fidarsi, di seguire l’intuizione e la vibrazione del cuore e di
seguirlo. Non fu una scelta logica quella dei discepoli di seguire Gesù. Tant’è
che dal punto di vista della gente, essi erano dei pazzi scatenati. Del resto pensiamo
solo un attimo: seguivano uno che era convinto di essere lui stesso Dio, visto che
si proclamava figlio di Dio! Noi oggi, gente come quella, la interneremmo tutta
in cliniche specializzate! Hanno abbandonato su due piedi casa, lavoro e
famiglia per andare dietro ad un esaltato, con idee rivoluzionarie, che si era messo
contro tutti quelli di buon senso. E
perché ci andarono? Perché avevano capito che Lui era il Vivente. Perché
sentivano che con Lui vivevano, con Lui avevano scoperto cos’era la passione
vera. Pietro e Paolo si buttarono, e non furono mai più li stessi. Mai più.
Quella fu la svolta determinante della loro vita. Puntarono tutto su di Lui, e
basta!
Questo
è fondamentale anche per noi: ad un certo punto, dobbiamo prendere una
decisione; dobbiamo cioè decidere cosa dobbiamo fare della nostra vita, se
seguire il cuore o la mente. Se seguire cioè i nostri ideali, lottare per essi,
pronti a pagare qualunque prezzo per tale scelta, oppure seguire la ragione, il
“buon senso”, la strada larga e rassicurante dei più. Ad un certo punto dobbiamo
avere il coraggio di salpare con decisione verso il mare aperto, anche di
fronte alla possibilità di naufragare; altrimenti continueremo a stare sempre fermi,
ancorati in porto.
Dio è
un incontro-scontro, è un’esperienza che ci avvolge, ci travolge, ci stravolge.
Non siamo più noi. Dopo l’incontro con Lui nessuno potrà mai più essere se
stesso. Simone divenne Pietro, Saulo divenne Paolo.
Penso
sia per questo che molti temono incontri personali e profondi con Dio. È più
facile “dare qualcosa” a Dio: una preghierina, un’offerta, un gesto, una buona
azione. Ma “darsi” (cioè donargli tutta la vita) è un’altra cosa; seguirlo
fedelmente, poi, è ancor più impegnativo!
Gesù
dice: “Beato te, Simone, perché il Padre
mio, che sta nei cieli, te l’ha rivelato”.
La
fede di Pietro non è il frutto di uno studio approfondito, sistematico,
analitico. Queste risposte non si danno perché si è intelligenti, perché si è esperti in teologia; si danno
perché si è entrati col cuore dentro al “mistero”. L’amore infatti ha ragionamenti,
risposte, modi di vedere e di considerare la vita, che non appartengono ad una
mente razionale: non li conosce, non li può avere. La fede di Pietro è frutto dell’amore:
“Io ti amo; tu mi fai vivere; tu sei l’aria che respiro; sono innamorato di te”.
La sua è una fede sicura, una roccia;
è per questo che Gesù può fondare su di lui la sua chiesa. Eppure, nonostante
ciò, Pietro tradirà più volte il Signore. Durante la passione, ad esempio, lo
tradirà tre volte e infine lo abbandonerà. Perché allora Pietro è considerato “roccia”?
Perché, al di là della sua debolezza umana, lui “sapeva”, aveva cioè sperimentato
personalmente e profondamente chi era il Signore. Gesù ha sentito tutta la sua sincerità, tutta la sua passione, l’intensità,
il ritmo impetuoso del suo cuore innamorato. L’entusiasmo, l’irruenza, talvolta
può farci anche cadere; ma ci fa anche immediatamente rialzare da qualunque caduta;
ci fa guardare nuovamente in avanti, ci fa ripartire con decisione, con la stessa passione
di prima. La tiepidezza invece, pur rimanendo nella “fedeltà”, nel “lecito”,
fuori da ogni sussulto, è un male molto pericoloso, perché spegne ogni slancio,
rende indifferenti, si limita al “minimo” previsto dalla legge, dimenticando il “massimo” dell’amore.
L’assuefazione,
la famigliarità, il camminare lenti e prudenti, l’essere calcolatori, è il
nostro peggior nemico. Perché nel corso degli anni siamo portati a trasformare la
nostra fede in una pratica religiosa amorfa, asettica, senza sussulti,
noiosamente ripetitiva: confessarsi tot volte all’anno, fare la comunione perché
tutti gli altri la fanno, scegliere solo cosa fare o non fare per essere considerati
dei cristiani “passabili”, ecc. Sarebbe come pensare “Fare un figlio? ma per
carità! È un impegno gravosissimo, ti fa perdere la serenità, la pace, il
sonno, non hai più la tua vita di prima”. È vero, è così! ma ci si dimentica
che fare un figlio è anche e soprattutto gioia, estasi, commozione, sorrisi,
realizzazione, completezza, ecc. La vera felicità è nemica del facile,
dell’ozio, dell’indifferenza.
Il
nostro andare in chiesa, deve quindi rispondere ad un nostro bisogno interiore,
al bisogno di ridare forza e vigore alla nostra vita, alla necessità di
riprendere “fiato”, di ritrovare pace e serenità; è il bisogno di incontrare e
di fermarsi a salutare un Amico importante, di ringraziarlo per i suoi favori;
dobbiamo andarci perché lì ci sentiamo a casa, ci stiamo veramente bene,
respiriamo la “nostra” aria, incontriamo i nostri fratelli, i nostri “compagni”
di viaggio e di avventura.
Vivere
la nostra fede è un’esperienza che ci riempie la vita, ci rende liberi, ci fa
uomini e donne veri fino in fondo;
perché la fede è fiducia in se stessi, nella Vita e negli altri. La fede ci
porta ad aprirci, a superare i nostri limiti; ci fa andare là dove abbiamo
paura di andare, affrontare ciò che abbiamo paura di affrontare. La fede è
vibrazione, intensità; è la sensazione di essere nelle grandi mani di Dio, al
centro dell’universo, dove nulla ci può spaventare, dove tutto acquista un
senso.
Dio ci
ha creati per qualcosa di veramente grande! Diventiamo consapevoli della
potenza che c’è in noi e della missione che Dio ci ha affidato. Chi ha
incontrato Dio veramente, anche solo per una volta, l’ha incontrato per sempre.
Dio non si può dimenticare. È continuamente al nostro fianco, ci guida, ci
sorregge, ci consola: sbagliamo? c’è Lui! Ci perdiamo? c’è Lui! Siamo un
fallimento? c’è Lui! Moriamo? c’è Lui! Chi ha trovato la Vita, sa che non
esiste la “morte”: sa che esistono i “passaggi”, le separazioni, gli “arrivederci”
ma non “la fine di tutto”. Il mistero
della Vita è semplice per chi ha incontrato Dio; mentre è complesso e tragico per
chi ne è fuori. Dio in questo mondo è talmente “visibile”, “evidente”, per quelli
che gli credono, quanto “oscuro”, “irriconoscibile”, per coloro che non l’hanno
mai incontrato, per coloro che non hanno fede in Lui, per chi non vuole
cercarlo. Dio è “tutto” per chi si lascia riempire; “niente” per chi ne ha
paura.
Solo dopo
aver incontrato Dio, capiremo a fondo la vita, le persone, noi stessi; solo
allora troveremo il senso autentico di ogni cosa e tutto ci sembrerà chiaro. Incontrare
Dio sarà allora come aprire una porta o una finestra in una camera buia, e
vedere finalmente il sole, la luce, la natura, il calore: in una parola tutto
ciò che prima non avevamo mai visto né provato. Amen.