La fede non è un miscuglio di preghiere, di salmi, di concetti religiosi. La fede è “movimento”. Dio mi chiama e io devo andare da Lui. C’è una chiamata (vocatus, vocazione), qualcosa che mi tocca, che mi interpella, che dice al mio cuore “Tu, vieni!”, e c’è una risposta (responsum, responsabilità) che per le logiche comuni è sempre una pazzia, ma che è la Vita per chi segue il Signore.
La fede è andare, muoversi, lasciarsi coinvolgere; fede è mettersi in gioco, scendere dal proprio “io” e aprirsi all’ascolto: “Eccomi! Non posso far finta di niente! Non posso tirarmi indietro! Non posso vivere e sottrarmi alle mie responsabilità! Vengo!”.
Quante persone, soprattutto giovani, a volte si chiedono: “Cosa devo fare nella vita?”. È una domanda che prima o poi tutti ci siamo posto: una domanda che richiede un profondo esame di noi stessi; che si attende da noi una risposta seria, una risposta convinta, propositiva: a volte invece riusciamo a trasformarla in un espediente per sfuggire dalle nostre responsabilità, per rinviare un necessario doversi coinvolgere.
Con la scusa di aspettare la “grande” chiamata, quella decisiva, quella fondamentale, quella che “vale”, continuiamo ad ignorare, ad accantonare quelle “piccole”, quelle di ogni giorno. Le chiamate “normali”, quelle che ci invitano a lasciarci coinvolgere nel quotidiano, nella scuola, nel lavoro, nel sociale: perché dobbiamo stare sempre zitti di fronte a ciò che vediamo? Fino a quando continueremo a dire: “Non mi riguarda?”; fino a quando possiamo tirarci indietro? Far finta di non sapere, di non aver visto?
Eppure intorno a noi c’è un enorme, un immediato, improrogabile bisogno di “opere”, di interventi! C’è bisogno di gente che si impegni, che lotti per un mondo meno corrotto e più vero; c’è bisogno di creare strutture e mentalità rispettose del prossimo, dei più deboli; c’è bisogno di gente che entri sul serio nel mondo della finanza e della politica per rovesciare quella rassegnazione che tanto ci avvilisce: “tanto è così, e andrà avanti sempre così”; c’è bisogno di persone che si schierino per l’umanità, che credano in qualcosa che vada oltre il denaro, la fama superficiale, l’autopromozione; c’è bisogno di persone che credano nell’uomo, che si possa costruire un mondo nuovo e diverso; c’è bisogno di persone profonde che sappiano dialogare, ma anche forti e determinate per difendere i nostri valori morali e religiosi; c’è bisogno di persone appassionate dell’anima, della fede e del profondo; c’è bisogno di persone che ascoltino il dolore e la sofferenza di milioni di persone emarginate, che sopravvivono nei meandri di dinamiche malsane e opprimenti.
Ma chi si deve muovere? Gli altri? Tutti pensiamo che tocchi a qualcun altro. Tutti siamo pronti a scaricare “il barile” ad altri: “La società dovrebbe... i politici dovrebbero... la chiesa... la scuola... le famiglie dovrebbero, ecc.”. D’altro canto i giornali, le tv, i discorsi, pullulano di “esperti”, di consulenti, di parolai urlanti, di bellimbusti che pretendono di convincerci che loro soltanto sanno come fare le cose, che hanno un sacco di idee, che se avessero carta bianca… Ma poi, chi si rimbocca veramente le maniche? Chi va? Chi si impegna? Chi lotta?
Ebbene: “avere fede” vuol dire, in concreto, che se c’è un problema, noi siamo disponibili, siamo pronti a farcene carico; “avere fede” vuol dire: “Io ci sono. Manda me”. Essere cristiani “adulti” vuol dire, insomma, mettersi in gioco sul serio. Altrimenti continueremo ad essere dei bambini piagnucoloni, perennemente in attesa che qualcuno corra in nostro aiuto, che qualcuno ci imbocchi.
È troppo comodo dire che la chiamata di Dio è una cosa riservata ai preti e alle suore. Quella certamente è un tipo “particolare” di chiamata. Ma Dio non chiama solo loro, Dio non chiama soltanto alcuni; Dio chiama tutti, noi compresi. Anche solo pensare, per esempio, che Dio esiste, è già una chiamata: percepirne anche solo l’esistenza, ci spinge automaticamente a conoscerlo meglio; ci spinge a percorrere un nostro cammino di approfondimento, di avvicinamento, con tutto quel che segue. Dio è un problema vitale; è troppo importante per ogni singolo uomo perché egli possa sistematicamente ignorarlo. Dobbiamo prima o poi conviverci: Madre Teresa diceva: “ Dio non ha mani, ha solo le nostre mani; non ha piedi, ha solo i nostri piedi... Lasciamoci usare da Lui e il mondo sarà ricolmo d’amore”.
Nel vangelo la chiamata non è mai un fatto privato. È individuale, nel senso che ogni chiamata è personalizzata; ogni chiamata è diversa per modalità, per il compito che propone, per il carisma particolare, per l’impegno che richiede. È insomma singolare, unica, personale. Ma ogni chiamata ha sempre una dimensione globale, mondiale, universale: “Andate in tutto il mondo”. Dio non è qualcosa da tener nascosto, di intimo, qualcosa da vivere chiusi nella nostra stanza, nel nostro cuore: neppure le monache recluse lo vivono in questo modo; non dimentichiamo che Santa Teresa di Lisieux è patrona delle missioni, pur non avendo mosso un piede fuori dalla clausura! Se la nostra fede è così, atrofizzata, statica, cristallizzata, vuol dire che non è fede; essa è semmai un ripiego, un’evasione da noi stessi, un pretesto per la nostra coscienza; è come una droga, è alienazione e basta.
Fede al contrario è agire, andare, muoversi, camminare; è azione, è relazionarsi. Attenzione però: agire non è fare. Il fare non necessariamente ci coinvolge in prima persona, può essere il risultato di un processo meccanico, passivo; l’agire invece è ciò stesso che noi viviamo, è l’energia che abbiamo dentro, il fuoco e la passione che coltiviamo nell’anima e che, insopprimibile, esplodendo all’esterno, crea e trasforma completamente la nostra vita, fa vivere la Vita. Se la fede pertanto non diventa trasformazione del mondo e della società, desiderio e impegno di lotta contro il male, quel male che ingabbia l’Amore, è una fede vuota, inutile, è un nulla, è vanità.
Gesù ha mandato gli apostoli (e poi i cristiani) a portare il vangelo nel mondo. Ma il vangelo è molto diverso da come pensa e vive il mondo. Da qui il loro impegno a cambiare questo mondo, a farlo nuovo, a renderlo diverso. La fede è trasformazione. E quando alla domenica assumiamo anche noi il pane e il vino trasformati in corpo e in sangue di Cristo, anche noi, come loro, dobbiamo trasformarci, dobbiamo batterci per trasformare il mondo. Dico “batterci”, perché non è un compito facile. Dobbiamo seguire la nostra fede, infischiarcene di cosa dice la gente; non curarci di cosa possa pensare; ciò che conta per noi è seguire la nostra strada, ascoltare i suggerimenti della nostra anima e scegliere di vivere sempre come Lui si aspetta da noi.
“Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Convertirsi non vuol dire “battersi il petto” o “diventare religiosi”, uomini di chiesa. Pentirsi non vuol dire commiserarsi, dirsi: “Mi faccio schifo, sono un essere immorale, un miserabile!”. Convertirsi, dal greco “meta-noèo”,vuol dire “cambiare mentalità”; dall’ebraico shub, vuol dire “cambiare direzione”.
Il concetto è semplice: se non cambi, se non ti converti, se nella tua vita non fai una conversione ad “U”, continuerai a ripetere sempre gli stessi errori. Non basta quindi pentirsi, riconoscere di aver sbagliato: fin tanto che continueremo per la nostra stessa strada - magari in tempi e con modalità diverse - ripeteremo inevitabilmente i nostri errori. L’essenziale, l’unica cosa necessaria, è “cambiare percorso”, tagliare col passato, tagliare con certe amicizie, con certe abitudini, con certi ambienti. Solo così la nostra fede potrà rispondere adeguatamente alla “nostra chiamata”.
Gesù, nel chiamare i primi discepoli, propone loro una soluzione drastica, una cosa da pazzi: lasciare immediatamente famiglia (base della società) e lavoro (certezza di sopravvivere). Questi uomini, di punto in bianco, hanno pertanto dovuto sconvolgere radicalmente le loro idee; hanno dovuto cambiare religione; mettersi in contrasto con ciò che tutta la gente diceva e pensava; hanno dovuto deludere le aspettative delle loro famiglie, dei loro cari; andare incontro a contrasti e persecuzioni. Su Gesù infatti circolavano dicerie terribili: che era figlio di una prostituta (Tertulliano), che era un fanfarone (Origene), che mendicava vergognosamente (Origene), che cercava gente stupida e deficiente (Celso).
Beh, per la verità, non è che i primi discepoli fossero, anche caratterialmente, un granché: Levi, Matteo l’evangelista, era impuro e traditore perché esattore delle imposte per conto degli odiati romani (non potevano essere perdonati e qualunque cosa toccassero era impura!). Simone, lo zelota (zelota in greco, cananeo in aramaico), era un fanatico. Zelota vuol dire appunto fazioso, esaltato! Simone, Pietro (petros=pietra), era chiamato così per il suo carattere duro e ostinato.
Giacomo e Giovanni sono chiamati dallo stesso Gesù i Boanerghes, gli assalitori, gli attaccabrighe per il loro orgoglio e il loro carattere collerico.
Le chiacchiere e i pettegolezzi su questo gruppo, non si contano più (vedi per es. il vangelo di Filippo e vari altri vangeli apocrifi). Il loro è un gruppo singolare, diverso, che gli altri non capiscono e apertamente commiserano.
Ma essi sono la futura Chiesa. Sì, perché chiesa, ec-clesia, letteralmente, non significa altro che “chiamati fuori”. La chiesa, secondo il pensiero di Gesù, è quello spazio in cui la gente vive in maniera diversa dagli altri.
In una società dove tutti pensano al lavoro, alla famiglia e ai figli, Gesù propone uno stile decisamente diverso: la cosa più importante per lui infatti non è tanto queste situazioni (lui non ebbe né famiglia, né compagna, né figli), ma vivere seguendo lo slancio del proprio cuore, vivere con compassione, con tenerezza, far uscire le potenzialità che abbiamo dentro, vivere con leggerezza, elasticità, entusiasmo, sorriso, umanità.
Nessuno viveva così a quel tempo (e neppure oggi!): e Gesù fu osteggiato non perché il suo messaggio fosse cattivo, ma proprio perché imponeva una vita diversa da quella di tutti gli altri; e questo spaventava la gente.
Eppure la chiesa è nata esattamente così: è l’insieme di quelli che vivono secondo la chiamata di Cristo (“i chiamati fuori”) e lo fanno in maniera diversa. Non perché credono di essere migliori degli altri, ma perché hanno scelto di seguire ideali e valori decisamente migliori; perché essi vogliono veramente seguire Cristo, vivere insomma per Lui, con Lui, in Lui. Amen.