«Sua madre Maria, essendo
promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò
incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18-24).
In
questo brano Matteo vuole rispondere ad una domanda molto complessa: “Di chi è
figlio Gesù?”. È figlio di Davide, di Giuseppe, di Maria, dello Spirito Santo?
L’episodio ruota intorno alla gravidanza di Maria e alla reazione incerta,
dubbiosa, indecisa di Giuseppe, quando ne viene a conoscenza.
Il testo
dice: «Maria promessa sposa di Giuseppe,
si trovò incinta». Più precisamente: “fu trovata incinta”. Giuseppe quindi trova
incinta la sua fidanzata e non capisce più niente, va nel pallone, come diremmo
noi oggi; ma è anche normale, non vi pare? Quante volte anche a noi, nella
nostra vita, sono capitati degli imprevisti, delle situazioni che non abbiamo
capito, di fronte ai quali i nostri schemi sono letteralmente saltati, i nostri
progetti sono andati in frantumi, tutte le nostre sicurezze, i nostri criteri
di riferimento sono venuti meno.
Anche
qui abbiamo un uomo in piena crisi; si trova improvvisamente di fronte ad una situazione
che non sa spiegarsi e ad una donna che non dice una parola a sua discolpa. Si
trova nel buio più fitto, nella notte di un dubbio tremendo. Ma è proprio nella
notte che avrà l’illuminazione decisiva, un sogno di salvezza. Nel buio, gli arriva
la luce nuova, che determinerà il suo cammino e la sua vita: «non temere di prendere con te Maria, tua
sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo».
Giuseppe,
ci sottolinea il vangelo, è “uomo giusto”;
ma giusto, qui, non sta ad indicare tanto
lo spessore morale di una persona (una persona onesta, corretta con tutti): i “giusti”,
per la Bibbia, erano i fedeli, gli attaccati alla Legge (per esempio Abramo,
Isacco, Giacobbe, Mosè, erano giusti).
In questo caso, essere “giusto” significa
essere pronto ad accettare e compiere puntualmente la volontà di Dio, chiedere
la sua illuminazione, e quindi comportarsi di conseguenza. Giuseppe in quel
preciso momento si trova ad un bivio: la legge del suo popolo gli dice: “Ripudiala;
anzi, poiché ti ha tradito, è giusto, è tuo dovere civile, condannarla,
lapidarla, ucciderla”. Ma Giuseppe, prima ancora che cittadino, è “timorato di Dio”, un “giusto” come abbiamo detto. Egli ama
Maria. È la sua donna, vorrebbe sposarla e le vuole bene. Si vede ingannato, certo,
perché la sua fidanzata ufficiale è incinta. Può condannarla, ma preferisce
gettarsi alle spalle il suo onore ferito. Egli sa che la legge di Dio è un’altra
cosa rispetto a quella degli uomini. Egli infatti è giusto
perché segue la legge di Dio, quella legge che è Amore.
Egli pertanto
non obbedisce alla legge umana; egli obbedisce al cuore: perché il cuore della
legge divina è la legge del cuore. Dio premia questa sua scelta, e lo
tranquillizza: «il bambino che è generato
in lei viene dallo Spirito Santo…». L’arcano è svelato: ora Giuseppe può
dedicarsi a difendere, contro tutto e tutti, le due gemme preziose che gli sono
state affidate da Dio: la vergine incinta, e il suo divino nascituro.
E
Matteo spiega: «Tutto questo è avvenuto
perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco,
la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di
Emmanuele”, che significa “Dio con noi”».
Il
profeta a cui l’evangelista fa riferimento è chiaramente Isaia, al quale, con
il suo oracolo, preme soprattutto sottolineare al destinatario l’importanza di
aver fede, di aver fiducia in Dio, di fidarsi di Lui. Quindi egli non intende
dare alcun significato messianico alle sue parole.
Allora
perché Matteo, citando questo testo, intende avvalorare il “concepimento verginale” di Gesù da parte
di Maria, ripiena solo di Spirito Santo?
Per
meglio capire i vari passaggi di questa doppia lettura, vale la pena di ricordarne
brevemente la storia.
Quando
Isaia rivolge questo oracolo ad Achaz re di Giuda, siamo in un particolare
momento della guerra siro-efraimita del 735 a.C.; il profeta comunica al re che
una “halmàh” gli avrebbe generato un
figlio, come segno dell'intervento
divino a favore della sua dinastia Davidica, messa seriamente in pericolo da
Rezin di Damasco e Pechak di Samaria, in procinto di cingere d’assedio
Gerusalemme, con l’intenzione di deporlo dal trono a causa del suo rifiuto di
allearsi contro la super potenza Assira.
Quindi, Achaz non aveva nulla da
temere: Dio lo avrebbe assistito.
Alla
nascita di questo bimbo, prova concreta della fedeltà di Dio nel mantenere le
sue promesse, il re, come accettazione di tale “segno”, avrebbe dovuto chiamare il bimbo Emmanuele, ossia “Dio con noi”:
un modo per riconoscere pubblicamente la realtà dell’intervento divino.
Il
termine ebraico “halmàh”, usato da
Isaia, significa però semplicemente “giovane
donna, ragazza” e non ha alcuna vicinanza con il significato di “vergine”.
Poi, questo
“segno” della nascita di un figlio - con
il passare degli anni e con le vicende della guerra siro-efraimita ormai remote
- gradualmente perde la sua valenza storica e viene interpretato come una
profezia straordinaria, un evento quindi non del passato, ma che si realizzerà
nel futuro, assumendo i colori del meraviglioso e dello straordinario.
E arriviamo
al III-II secolo a.C., epoca in cui la Bibbia ebraica viene tradotta in greco
dai LXX ad Alessandria d'Egitto: in tale occasione la parola ebraica “halmàh” viene tradotta in greco con “partnov” che, questa volta, vuol dire proprio
“fanciulla vergine”; ciò determina quindi,
già a partire dal 200 a.C., l’interpretazione di questo testo nella nuova
chiave messianica, considerandolo quindi come un compimento futuro.
Ma
perché Matteo, dopo aver presentato la nascita di Gesù dalla vergine Maria (Mt 1,18-21), riporta questa antica citazione
biblica a convalida dell’evento appena descritto? Come si spiega? Sappiamo infatti
che nel primo secolo, al tempo di Gesù, non esisteva in alcun modo l'idea che
il Messia sarebbe nato da una vergine, né tanto meno che ciò sarebbe avvenuto perché
Isaia aveva detto così. E allora come sono andati i fatti? Semplice: non è
stata la profezia di Isaia che ha fatto scrivere a Matteo il testo sulla “verginità” di Maria; ma è il fatto
storico, quello realmente accaduto, cioè il concepimento verginale di Gesù, che
ha fatto capire in tutta la sua portata il senso delle parole di Isaia. Forse è
un po' complicato da seguire, ma è un ragionamento molto importante, perché uno
potrebbe dire: “dal momento che in Isaia era
scritto così, l'evangelista Matteo ha inventato il concepimento verginale perché
tutto quadrasse”. Nulla di ciò. Matteo ha semplicemente applicato qui il
genere letterario “pesher”, a lui peraltro
molto congeniale, che consisteva nel cercare nei testi antichi le
attualizzazioni e le conferme dei fatti recenti: per cui, di fronte al parto
eccezionale di Maria egli, studiando Isaia, si imbatte in questo versetto che
allude ad una “partnov” (vergine), e lo collega al
concepimento verginale di Gesù: in questo modo è la nascita di Gesù da una
vergine, che spiega e illumina le parole di Isaia e non viceversa.
Dopo
il concepimento straordinario di Gesù, e grazie ad esso, gli studiosi hanno quindi
capito che le parole di Isaia non si esaurivano materialmente con i fatti del
suo tempo, ma avevano un significato molto più profondo.
Ci
troviamo pertanto di fronte ad una meraviglia della storia del testo; perché
Isaia, uomo storico, fortemente impegnato nel suo presente, in quell'anno 735
non sapeva di annunciare un evento grandioso che sarebbe avvenuto centinaia di
anni dopo; lui non lo sapeva; ma, pur utilizzando un linguaggio letterario dell’epoca,
egli parlava a nome di Dio. In altre parole Isaia, quando scrive, non sa che
valore abbia quello che dice; ma Dio, che lo ispira, sì; è per questo che il
testo sacro finale presenta una gamma di significati e di interpretazioni molto
più ampi ed estesi di quanto l’autore materiale fosse in grado di capire. Qui
sta l’evento meraviglioso: il testo biblico è portatore di una verità ispirata
da Dio che va al di là della consapevolezza e della comprensione dell’autore
stesso.
Noi,
quando ci accostiamo al testo sacro, è proprio questa meravigliosa realtà che
dobbiamo tenere sempre presente: dobbiamo cioè passare da Gesù alle Scritture, e
dalle Scritture ritornare a Gesù; solo così capiremo a fondo questi due
elementi, Gesù e le Scritture; solo così scopriremo anche noi nelle parole di
Isaia, l’autentico messaggio, la sua “buona notizia”, che ci parla sì di fede,
di fiducia, di garanzia di un Dio presente allora, ma soprattutto di un Dio che
continua ad essere anche per noi l’Emmanuele, il “Dio con noi”.
Del
resto, il figlio del re Achaz, ai tempi di Isaia, non fu chiamato Emmanuele, ma
Ezechia; e neppure il Messia fu chiamato con questo nome, ma Gesù. Tuttavia Matteo,
con grande finezza, alla fine del suo vangelo, ci fa notare che l'autentica
realizzazione di questa profezia, a parte il concepimento verginale di Maria, si
ha nel momento stesso in cui Gesù dice ai suoi discepoli, dopo la risurrezione,
mentre appare loro sul monte, «andate in
tutto il mondo, fate discepoli tutte le genti, battezzandole nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo insegnando a conservare tutto quello
che io vi ho insegnato». È in questo modo che Dio perpetua la sua presenza tra
noi nei secoli: «Ecco, io sono con voi
(l’Emmanuele) tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
L'Emmanuele è lì. In quel “Dio con noi”
c’è infatti la persona del Risorto che ci garantisce la sua continua presenza e
assistenza; l’Emmanuele è lui. Allora amiamolo, ricordiamo con gioia, tra
qualche giorno, la sua nascita terrena a Betlemme; e soprattutto confidiamo in
Lui. Sempre. Amen.
«I ciechi
riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi
odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui
che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,2-11).
Quando
Gesù con la sua predicazione conquista le folle, Giovanni Battista entra in
crisi; chiuso in carcere, inizia a dubitare. Dubita sull’efficacia della sua predicazione,
dubita che Gesù sia il Messia, dubita sul Dio che Gesù predica. Il Dio di Gesù,
infatti, non è il suo Dio: lui, Giovanni, è un uomo intransigente, tutto d’un
pezzo: uno che dice “no” all’ingiustizia, alla falsità, all’ipocrisia diffusa:
il suo Dio, quello che predica, è un Dio molto severo, un Dio che è
intransigente e giudica con severità; un Dio che, alla sua venuta, sistemerà le
cose per bene, secondo giustizia: premiando i giusti, ma soprattutto condannando
i corrotti; sarà fuoco che brucerà tutte le scorie del mondo; scure che taglierà
ed eliminerà inesorabilmente tutto ciò che è storto e guasto.
Giovanni,
di fronte alla novità della predicazione di Gesù, colma di amore e di misericordia,
non sa più cosa pensare, rimane sconcertato, smarrito. Per questo gli manda dei
discepoli per chiedergli: “Ma sei tu o no?”, perché lui non sa più cosa pensare.
Credeva che Dio, il Messia, fosse in un certo modo e ora si accorge invece che il
Dio di Gesù è completamente diverso. Sì, perché Gesù rivela un Dio della vita,
della libertà, della guarigione, del cambiamento; il Dio di chi vuole la vita
vera, di chi ama. È il Dio che vive in tutti gli uomini, perché tutti sono creati
a Sua immagine. È il Dio presente in ogni creatura umana: ogni essere è
fratello, ogni creatura è sorella. È il Dio che chiede a ciascuno di trasformarsi,
di realizzarsi, di convertire la sua aggressività interiore in amore universale;
di diventare lui stesso “tempio” vivente di Dio e “chiesa” dell’Altissimo. È il
Dio della Luce, della consapevolezza dei propri limiti. È comunque un Dio
impegnativo, perché chiede coinvolgimento, chiede di lasciarsi plasmare. È Amore
assoluto. E come tale, vuol trasformarci in amore. Lui è in noi, e noi, completamente
colmi di Lui, lo lasciamo trasparire, lo lasciamo emergere, lo lasciamo venire
fuori da noi, a beneficio di tutti.
È così
che gli altri si accorgono se abbiamo incontrato Gesù. Perché chi incontra Gesù,
cambia vita. Chi incontra Gesù, non può più essere lo stesso di prima.
“I
ciechi vedono”: quanta meraviglia ci circonda, e noi non la vediamo! Siamo
immersi nella bellezza, nella perfezione del creato, e non sappiamo coglierne i
particolari: le stelle silenziose della notte, il tramonto infuocato della
sera, i volti fiduciosi dei bambini, la gioia intima degli innamorati, le
lacrime consolatrici del ritrovarsi. Sfumature che i nostri occhi, ispessiti
dall’egoismo, non riescono a cogliere; ci lasciano indifferenti, non ci colpiscono,
non ci stupiscono! Se la folgorante luce di Cristo non ci illumina l’anima e il
cuore, nulla di ciò che vediamo potrà mai estasiarci. Senza di Lui siamo ciechi,
siamo famelici. Qualunque cosa guardiamo, la sviliamo; la guardiamo solo per
desiderarla, per prenderla, per possederla. Guardiamo ma non “vediamo”. Siamo
convinti di vedere, ma siamo completamente ciechi. Chi al contrario incontra Dio,
vede, ammira, apprezza e gusta tutto, senza pretendere di possedere nulla. Si sazia
e si disseta con ciò che ammira, senza calpestare niente e nessuno; entra nei
cuori e nei volti dei fratelli, come un raggio di sole che penetra nelle case attraverso
i vetri: lo fa gradualmente, con rispetto, con dolcezza. Entra e non si impadronisce
di nulla, non sporca, non crea disordine, non rovina nulla. Entra ed esce delicatamente,
senza alterare o sconvolgere nulla.
“Gli storpi camminano”: quanta strada possiamo
percorrere nella vita! Quanto possiamo camminare, quanto grandi e splendidi
possiamo diventare! Non sappiamo dove andremo, ma sappiamo che possiamo fare
molta strada. Non sappiamo dove andremo, ma sappiamo che sarà veramente appassionante.
Dobbiamo soltanto muoverci. Ma molti preferiscono l’immobilità: sanno che dovrebbero
seguire una certa direzione, fare determinate scelte, intraprendere quel
determinato viaggio o cammino, ma la paura, la pigrizia, blocca loro le gambe; rimangono
completamente paralizzati. Altri invece sono preda dell’irrequietezza, vorrebbero
sapere tutto e subito; vorrebbero soluzioni immediate, a basso prezzo;
vorrebbero conoscere come affrontare qualunque avversità della vita, in ogni
situazione. Ma la vita non offre scelte o ricette già pronte all’uso; non offre
soluzioni facili e in discesa da superare in un istante. La vita offre soltanto
delle strade ardue, delle opportunità impegnative: se uno vuole può percorrerle;
ma deve alzarsi e avanzare sulle proprie gambe, deve andare, camminare e
lasciarsi coinvolgere. Chi incontra il Signore e si lascia portare da Lui, va sicuro,
spedito e sereno. Chi si fida di Lui si alza in piedi e parte; sente dentro di
sé una forza che lo spinge e si mette in cammino; cresce, si evolve, matura, e
va lontano... molto lontano.
“I
lebbrosi sono mondati”: quanto possiamo veramente amare nella vita! È l’amore
che risana la nostra lebbra del cuore. Quanti abbracci possiamo scambiare,
quante carezze possiamo donare, quanti sguardi possiamo incrociare, quanta
tenerezza possiamo scoprire nelle nostre mani e nel nostro cuore. Con Dio,
tutto quello che tocchiamo, rinasce a nuova vita: i nostri contatti umani vengono
divinizzati.
“I
sordi odono”: quante cose possiamo “sentire” nella nostra vita! Con lui
ritroveremo la massima fiducia; potremo riascoltare tutto ciò che Lui ha da
dirci, potremo sentire ogni cosa, potremo capire il vero significato di tutto
quello che ci è successo, di tutto quello che ci è capitato; niente rimarrà all’oscuro,
niente ci rimarrà nascosto, incomprensibile. Chi incontra il Signore è in grado
di ascoltare anche le voci più flebili, le voci che gli vengono da dentro, come
i richiami della coscienza: sia quelli dolci e persuasivi, che quelli severi,
crudi, rigorosi. Chi incontra il Signore ha una tale forza, una tale fiducia, una
tale sensibilità che può percepire ogni cosa: l’amore che guida il creato, il
bisogno delle persone di aprirsi, la sofferenza dei cuori affamati d’amore, l’odio
che talvolta si annida negli sguardi e nelle parole. Chi incontra Dio sente
tutto: capirà immediatamente come comportarsi, e non potrà mai, in ogni caso, distruggere
gli altri o venire da essi distrutto. Diventa tetragono ad ogni avversità del mondo
e del maligno.
“I
morti risuscitano”: quanta vita possiamo vivere con Lui! La lieta notizia è che
con Lui siamo i più ricchi, i più fortunati di questa terra; possiamo vivere già
in questa vita una felicità che va al di là di ogni nostra aspettativa.
Possiamo vibrare, espanderci, amare, sentirci grati ed essere soddisfatti; e
tutto, in maniera così intensa, così esclusiva, da farci addirittura piangere
di gioia, da farci fremere, da farci mancare l’aria.
E
allora, chiediamoci: perché strisciare per terra, far di tutto per vivere come
dei vermi, quando Lui ci ha dotati di ali per volare, per librarci in alto? Chi
si fida di Dio vola tra le sue braccia, vola in alto, nel calore e nella luce
dell’Amore. Possiamo farlo anche noi! Non ci attrae ? Non ci affascina? Ma non è
esattamente così che vorremmo vivere? Ebbene: con Lui possiamo! Amen.
«Rallègrati, piena di grazia:
il Signore è con te» (Lc 1,26-38)
Un
angelo, un messaggero di Dio, si presenta in una casupola, meglio una grotta,
situata tra le montagne della sperduta Galilea, abitata da un’umile e povera
ragazza. E proprio qui la Parola di Dio, pur incomprensibile e inspiegabile,
trova da parte della fanciulla la massima accoglienza.
Dio
aveva già inviato il suo portavoce in una precedente occasione: nella
religiosissima Giudea, nella civilissima e celebre Gerusalemme; e lo aveva
mandato da un sacerdote del Tempio, Zaccaria, un “giusto”, un addetto alle
cerimonie sacrificali, uno che era in costante contatto col “divino”. Solo che
quel giusto, quel sacerdote, non gli aveva creduto, gli aveva argomentato che il
messaggio recapitatogli, vista la situazione, non poteva essere altro che una
“panzana”. Un sacerdote che non crede, però, non ha nulla da dire al popolo:
dice magari tante parole, racconta un sacco di cose, ma non trasmette nulla,
non è un portavoce (pro-feta) di Dio. Per questo, Dio lo ha reso muto. Eppure,
ciò che Dio attraverso il suo angelo gli proponeva, non doveva poi suonargli tanto
strano, visto che lui era uno che conosceva molto bene la Bibbia: tante altre
volte, infatti, Dio aveva fatto nascere figli da donne sterili: per esempio Sara,
prima di avere Isacco, era sterile; Rebecca prima di avere Esaù e Giacobbe era
sterile; i loro mariti erano Abramo e Isacco, personaggi famosissimi. Anche la
madre di Sansone era sterile; anche Anna, Michal, la donna Shunammita, ecc. Perché
non poteva succedere anche a sua moglie?
Zaccaria
insomma era un sant’uomo, uno che sapeva tutto di Dio, ma che, in pratica, non “aveva”
Dio. E a volte il troppo nasconde proprio la mancanza: uno cerca di sapere
tutto, proprio perché non “possiede” ciò che cerca: e non “possiede” perché cerca
con la mente ciò che invece va cercato con il cuore e con l’anima.
Leonardo
Boff un giorno parlava di Dio con sua madre, quasi analfabeta: lui, famoso
teologo, tentava di spiegarle chi è Dio. Lei ad un certo punto lo guardò e gli
disse: “Ma senti un po’ Leonardo, tu che sai tutte questo cose su Dio, tu che
conosci così bene Dio, perché sei sempre così triste?”. Leonardo, si fermò,
arrossendo, e appuntò nel suo diario: “Mia madre che non sapeva neppure
scrivere, che non era mai andata a scuola, ma che sapeva sorridere e aveva il
cuore pieno d’amore, conosceva Dio molto più di me”.
Dunque:
dopo aver fallito il primo tentativo (con Zaccaria), l’angelo Gabriele ci
riprova. Ma questa volta fa tutto in maniera completamente diversa. Prima era
andato nella Giudea, terra santa e fedele a Dio, protagonista della storia
della salvezza; ora va in Galilea, regione del nord, dove la popolazione si è
mescolata con i pagani; una regione marchiata dal profeta Isaia come “La terra
pagana”. Giuseppe Flavio, storico del tempo, aggiunge inoltre che i galilei erano
persone litigiose, piantagrane; erano i poveri e i diseredati del tempo, i
braccianti dell’epoca, sfruttati dai latifondisti della Giudea, e per questo
continuamente in ebollizione ed in rivoluzione. Al punto da far esclamare Natanaele:
“Cosa può venire mai di buono da Nazaret?”
(Gv 1,46). Erano considerati degli incivili, abitavano in case per la
maggior parte ricavate in caverne, nelle grotte; gente insomma da lasciar
perdere. In stridente contrasto con le pietre preziose, con la sontuosità e lo
splendore del tempio, questa volta l’angelo entra in una misera casupola, in
parte ricavata dalla roccia, con delle mura fatiscenti. Prima da un uomo e
adesso da una ragazza, da una donna: cosa riprovevole, bestemmia, eresia. La
nascita di una donna infatti era considerata una disgrazia, una punizione
lanciata da Dio contro determinati peccati; la nascita di una bambina veniva
vista come un fastidio che si poteva eliminare, addirittura sopprimere, senza
tanti problemi. Le donne non avevano nessun diritto, erano impure, e per
giustificare questo si chiamava in causa la Bibbia. Quindi, che Dio si potesse
rivolgere ad una donna era totalmente impensabile, fuori da ogni ragionamento.
Ma ciò
che è assurdo per gli uomini non lo è affatto per Dio! Dio non guarda ciò che
guarda l’uomo. Cosa fa allora l’angelo Gabriele?
«Nel sesto mese...». I numeri per la
Bibbia hanno sempre un valore ben definito. Per esempio nella creazione, Dio ha
lavorato per sei giorni: il settimo l’ha riservato a se stesso. Dopo la
quantità di sei sarebbe arrivato pertanto il giorno di Dio, un evento divino, un incontro con Dio. Così nella trasfigurazione
(Mt 17,1) si parla di “sei giorni dopo”: ci sono cioè i sei
giorni umani, ma nel settimo giorno c’è la visione del divino, un incontro con qualcosa
che sta su un altro livello. Per cui quando Luca dice qui “nel sesto mese” lascia già capire che arriverà qualcosa di divino.
Il numero dopo il sei riguarda infatti solo Dio.
E da
chi va Gabriele? Da una donna, promessa sposa, che si chiama Maria. Luca
inserisce volutamente il nome; ora, per noi, “Maria” è un nome soave; ma di
certo non lo era a quel tempo: nella Bibbia esiste una sola Maria, la sorella
di Mosè; una donna molto ambiziosa, che aveva cercato di fare le scarpe al
fratello Mosè. Per questo Dio la maledisse con la lebbra (la lebbra era la
maledizione di Dio). E il Talmud riporta che quando Maria muore e le vogliono
fare il funerale, Dio stesso interviene dicendo: “Perché state a piangere una
vecchia?”. Dopo quella Maria nessuna più si chiamerà con quel nome fino alla
madre di Gesù. Perché? Perché era un nome maledetto, oggetto di maledizione. Nessuno
di noi metterebbe nome a suo figlio “Giuda”, un nome che si collega ad un traditore.
Così era per Maria.
Quando
l’angelo entra le dice: «Ti saluto o
piena di grazia»: “Kekaritomène”, “riempita di grazia”; non si riferisce
alla bravura di Maria, ai suoi meriti, al fatto che nessuna donna era brava
quanto lei. No! Si riferisce all’azione di Dio. Lei è niente (vedi Galilea, Nazaret, donna, Maria, ecc.) eppure Dio la
riempie, la colma. È Lui che è tutto, è Lui che gratuitamente la colma. Questa
è la grandezza di Maria: Maria è grande non perché era santa o perfetta (come
viene descritta in certe litanie) ma perché è la prima ad accogliere senza
pretese l’amore gratuito di Dio. Mentre Zaccaria e soci volevano conquistarsi l’amore di Dio con le
preghiere, i riti e la santità, Maria non fa nient’altro che dirgli: “Sì”. L’amore
di Dio è immeritato, gratuito.
L’angelo
poi le dice: «Concepirai un figlio, lo
darai alla luce, e lo chiamerai Gesù». Ma le donne non mettono mai il nome
ai figli: sono sempre e solo i padri che mettono il nome ai figli! Questa volta
sta accadendo veramente qualcosa di straordinario: qui Dio rompe completamente
con ogni tradizione precedente, inizia un nuovo corso, qualcosa di completamente
nuovo.
È Dio che
si manifesta come il totalmente nuovo:
nessuno lo può controllare e nessuno può avere spiegazioni, rassicurazioni,
perché nessuno conosce questo “nuovo”.
Qual è allora l’unica cosa da dire? La stessa di Maria: “Non so dove... non so
come... non so perché... non so quando... ma mi fido di te”. Tutto qui.
E
Maria risponde: «Come è possibile? Non
conosco uomo!». Zaccaria era stato incredulo, Maria no. Lei vuole soltanto
sapere il come, come avverrà tutto questo. In passato qualcuno, appellandosi
proprio a questa frase, affermava che Maria avesse fatto voto di verginità. Ma
questa cosa è impossibile per il mondo ebraico. Noi invece sappiamo perché Maria
chiede spiegazioni: perché era nella prima fase del suo matrimonio: era cioè fidanzata,
già sposata, ma non ancora convivente.
E l’angelo
spiega: «Lo Spirito Santo scenderà su di
te». Emblematica questa frase; Luca mette qui in parallelo la discesa dello
Spirito Santo su Maria, con la discesa dello Spirito Santo sulla prima chiesa.
E chi c’è presente ora, come lo sarà allora? Sempre Maria (At 1,14)! Per il vangelo, dunque, Maria è la donna dello Spirito, è
colei che vive, dall’inizio alla fine, guidata sempre dallo Spirito. Lui la
guida e lei lo segue.
«Sono la serva del Signore, avvenga di me
quello che hai detto». I “servi del
Signore”, nella Bibbia, sono quelli che hanno obbedito ai comandi di Dio e
che lo hanno seguito. Maria è l’ultima serva
del Signore. È colei che chiude un tempo: dopo di lei nessuno sarà più “servo”, ma soltanto “figlio”.
Maria affida
all’angelo il suo “Sì” da riferire a Dio; ma non sa a cosa dice sì; perché dice
un sì totalmente nuovo, totalmente diverso da ciò che poteva pensare e capire. Ma
apre comunque il suo cuore, offre la sua piena disponibilità. Perché Lei si
fida di Dio. È per questo che apre un tempo nuovo, un nuovo corso storico: il tempo della fiducia. “Mi fido di te”.
Cosa
vuol dire allora essere uomini e donne “dello Spirito”? Vuol dire appunto fidarsi
di Dio: significa rispondere ad ogni sua chiamata con un “Sì” pieno e generoso.
Al
contrario noi ci chiudiamo ermeticamente, recalcitriamo, dubitiamo, non ci
fidiamo: siamo diffidenti perché guardiamo solo a noi stessi e non a Lui. Non
vorremmo avere problemi: ma i problemi li troviamo, e numerosi anche, se continuiamo
ad assecondare il nostro egoismo, se ascoltiamo solo noi stessi. Rinforziamo allora
la nostra fede. Perché sarà solo una fede sincera, disinteressata, umile, che
potrà far sgorgare, dal profondo del cuore, il nostro “si” a Dio: “Sì, mi fido!”. Sull’esempio
di Maria. Amen.
«Vegliate dunque, perché non
sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… tenetevi pronti perché, nell’ora
che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,37-44).
Con
questa domenica iniziamo il tempo liturgico dell’Avvento. Gesù nel vangelo ci
mette in guardia. “Aprite gli occhi, non vivete nella superficialità, come al
tempo di Noè, in cui mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli, ma
non si accorgevano di nulla”. Vivevano nella falsità, si ingannavano l’un l’altro,
ma il loro unico interesse era di disinteressarsi di tutto, non volevano aprire gli
occhi, perché aprirli significava cambiare.
Se
infatti noi “vediamo” una cosa, allora non siamo più gli stessi: sappiamo che c'è, e ci “scoccia” saperlo; ci “brucia” così tanto che, diciamo, era
meglio non saperlo. È vero: aprire gli occhi è doloroso. Molti preferiscono vivere nell’illusione
piuttosto che scoprire la realtà. Preferiscono ingannarsi. E questo ci dimostra
a sufficienza quanta falsità regni nella vita di certe persone. In questo
modo quando Dio verrà, molti non se ne accorgeranno. Molti, inghiottiti dalla
vita, diranno: “Ma che sfortunato sono stato! Che destino terribile!”. E
invece no! Dovevamo accorgercene prima. Avevamo tutto il tempo, lo sapevamo. Ma abbiamo preferito dormire, abbiamo
vegetato, ci siamo lasciati vivere.
La
gente mangia tutto, beve tutto, senza porsi mai nessuna domanda; la gente crede
a tutto e digerisce tutto. “State attenti, aprite gli occhi, non vivete nella
superficialità; non fatevi ingannare”, insiste dunque Gesù. E ce lo dice proprio
in Avvento, all’inizio del nuovo anno liturgico, nel tempo che da oggi
ci accompagnerà fino al 25 dicembre.
Sì, perché il 25 dicembre celebreremo il
Natale, la venuta di Dio sulla terra (ad-ventus).
Ma Dio
non viene il 25 di dicembre, Dio viene e ci incontra ogni giorno se noi lo
lasciamo entrare, se permettiamo alla sua luce, al suo Sole, di illuminare la
nostra vita, di riscaldarla, di svelarcela.
Quindi
non prendiamoci in giro e non raccontiamoci frottole: Cristo può nascere mille
volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai nato”, diceva
il mistico tedesco Silesius.
In
queste quattro settimane, noi accenderemo una candela a settimana (tradizione
molto antica): quattro domeniche, quattro candele d’Avvento. Per dire: è un
cammino di luce dove noi ogni giorno cerchiamo di accendere una luce nella nostra
vita, dove noi ogni giorno cerchiamo di far entrare la luce del Sole, di Dio, perché
ci possa rischiarare e illuminare.
Queste
quattro candele hanno un senso, però, solo se rappresentano il segno reale di
ciò che accade nella nostra vita. Altrimenti sono solo quattro ceri che
bruciano e basta. Hanno senso se esprimono la luce che lentamente entra nella nostra
vita e che rischiara il buio che ci opprime; se sono la luce che illumina le nostre
paure e le vince; se sono la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate
paura, nessun buio vi può vincere. Non lasciatevi prendere dall’insoddisfazione,
dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento”.
Il
richiamo costante e continuo dell’avvento è pertanto quello di vigilare, di
essere svegli, di non addormentarci. “Esci dal sonno; vieni alla luce;
svegliati; renditi conto che in certi giorni e in certe zone della tua anima
vivi nel buio”.
Per uscire
però dal sonno, dobbiamo prima accorgerci di dormire; per accendere una luce, dobbiamo
prima accorgerci che c’è il buio. Ed è proprio per questo che l’avvento è
difficile: perché aprirsi al Dio-che-viene,
vuol dire mettere in crisi certe nostre posizioni conquistate faticosamente e
alle quali ci aggrappiamo in tutti i modi.
Molti
di noi in questo periodo non fanno in realtà niente; aspettano il 25 di
dicembre come qualsiasi altro giorno, e basta. Dicono: “Ho tante altre cose,
troppe cose, da fare!”. Ma non è vero: è vero invece il contrario: facciamo tante
cose pur di evitare spazi di luce; così, in realtà, tutto rimane invariato, non
cambia nulla: ma con il nostro comportamento, con l’indifferenza, con il
dubbio, con il cinismo, con la banalizzazione, con il pessimismo, noi rifiutiamo
la Luce-che-viene-per-noi: tutti i modi
sono buoni per evitare il nostro coinvolgimento, per non consentire alla luce
di entrarci dentro.
La
parola “Eden”, il mitico giardino di Adamo ed Eva, significa “godimento, delizie”: per chi vive la propria verità (sono figlio di Dio), per
chi dà spazio alla propria anima, per chi libera la luce che porta in sé, anche
la vita attuale diventa un vero giardino di delizie e di godimento. Al
contrario per quelli che perdono contatto con la propria identità profonda, non
può che esserci insoddisfazione, noia, rabbia, depressione, risentimento,
angoscia.
Quante
persone, infatti, dopo aver perso ogni contatto con il Dio che è dentro di loro,
vivono di espedienti, di complessi di inferiorità, di ansie continue: pretendono
di essere chissà chi, vogliono sentirsi grandi, superiori agli altri, vogliono potere,
prestigio; sentendosi svuotati, si riempiono di zavorra; e finiscono col sostituire
il loro esistere per l’eterno, con il possedere il presente, il transitorio, il
deperibile, il caduco. Se capissero che sono figli di Dio, che ai suoi occhi sono
già grandissimi così come sono, che per Lui sono più preziosi di qualunque cosa
al mondo, che Lui li conosce singolarmente e li ama proprio perché sono così, sicuramente
non avrebbero nient’altro da desiderare, non avrebbero più nulla da dimostrare
a nessuno!
Purtroppo,
invece, chi ha perso il contatto con la Luce, con il calore dell’amore di Dio, è
costretto a combattere contro se stesso, contro i suoi complessi d’inferiorità:
si sente nessuno, vuoto, inutile; si distrugge confrontandosi con quelli che sono migliori di
lui, si affanna per emularli, per darsi un contegno, per sentirsi importante,
visto che per lui l’essere se stesso è semplicemente terribile: non si accetta,
non si vuole, è disposto a svendere ogni briciolo di dignità pur di raggiungere
dei traguardi, che comunque poi scoprirà fallimentari. Se sapesse invece che è figlio
di Dio, che l’Altissimo ha posto dimora in lui fin dalla sua nascita, che nel suo
cuore egli ospita il Re dei re, allora di certo si renderebbe conto chi egli
sia veramente. Si accorgerebbe che - aldilà della sua vita, dei suoi errori,
dei suoi fallimenti, di quello che non riesce a fare o ad essere – lui è sempre
e comunque “qualcuno”: una creatura importante, preziosa, unica, irripetibile; perché
lui – come ognuno di noi - è stato creato “grotta” di Dio, per custodire l’amore; “Maria” di Dio, per generare l’amore; “Giuseppe” di Dio, per
difendere l’amore, “angelo” di Dio, per
cantare l’amore.
Allora
Avvento significa vegliare per non perdere la nostra vera identità di figli
della Luce. Significa riconquistarla, se l’abbiamo persa. Avvento è rivestirci
della nostra dignità di figli di Dio. Avvento è prendere coscienza di Chi ci inabita
da sempre; è imparare a conoscere la nostra anima
che anima la nostra vita. Avvento è
cambiamento, luminosità, trasformazione, metamorfosi; perché come il bruco onnivoro, possiamo anche noi diventare
leggiadre farfalle che si librano in
alto nella luce del Sole eterno. Amen.
«In quel tempo, dopo che ebbero
crocifisso Gesù, il popolo stava a vedere…» (Lc 23,35-43).
Il
vangelo di oggi - festa di Cristo Re, Signore incontrastato dell’universo - ci
propone, contrariamente a quanto il titolo lascia supporre, non un’atmosfera di
grandioso trionfalismo, di fasti regali, ma la scena straziante del Calvario,
che di glorioso non ha proprio nulla: Gesù, sulla croce, sta vivendo gli ultimi
tragici istanti della sua vita umana. Fermiamoci su questa scena.
Attorno,
c'è molta gente: guarda, ma non dice nulla; il popolo non reagisce, non si
ribella, non si indigna, non chiede spiegazioni, non si muove. Eppure sta
assistendo ad una evidente ingiustizia; ha davanti a sé il figlio di Dio, una
delle situazioni più crudeli della storia, e non si scompone. Come se non stesse
succedendo nulla di anormale. Regna l'indifferenza più totale.
A molta
gente basta avere un po' da mangiare, qualche divertimento, “tirare avanti”, senza
essere disturbata. Non vuole essere coinvolta; non vuole avere problemi: non si
espone e non prende posizione. Ma in questo modo già ha preso una posizione.
Quando
di fronte a qualcosa di grave, di cui siamo testimoni, diciamo: “Io mi faccio
gli affari miei e non do fastidio a nessuno”, noi prendiamo una posizione che non
è giustificabile di fronte alla nostra coscienza, che non ci può assolutamente deresponsabilizzare.
Non solo chi ha ucciso Gesù ne è il responsabile ma anche chi potendo fare
qualcosa, anche solo alzando la voce, anche solo ribellandosi, anche solo
opponendosi in qualche modo, non lo ha fatto.
Quando
non ci indigniamo di fronte a ciò che succede, vuol dire che lo accettiamo.
Quando non prendiamo posizione di fronte a ciò che sta accadendo, vuol dire che
lo favoriamo. Quando ciò che vediamo non ci fa riflettere, non ci fa piangere e
cambiare, vuol dire che favoriamo il male. Quando ci sarà chiesto conto di
milioni di persone che muoiono di fame, per la voracità di chi già sta bene, come
risponderemo noi: “Io non ho rubato a nessuno?”. Non serve: vuol dire che ci
andava bene così! Quando di fronte alla moda, alla linea “unica” di pensiero, di
fronte alla nostra cultura imperante, carica di banalità, di ignoranza, di
stupidità, noi non solo non ci opponiamo, ma anzi ci adattiamo supinamente,
cosa risponderemo: “Beh, facevano tutti così”? Non abbiamo una testa nostra? Siamo
comunque colpevoli! Non opporsi, non fare nulla, adagiarsi sull’andazzo comune,
non ci esime dalle nostre responsabilità!
Ci
sono anche i capi del popolo e i soldati. I capi sbeffeggiano Gesù, si prendono
gioco di lui e lo disprezzano. I capi sono quelli che sfruttano a loro
vantaggio ogni situazione. Con abili manovre politiche, con una buona
comunicazione, riescono ad ottenere sempre ciò che vogliono.
I
soldati hanno le armi e la forza. Rappresentano quelle persone che sono
convinte di essere libere, di essere forti, di essere “qualcuno” (hanno le
armi) e, invece, non si accorgono di essere schiave del sistema; si ritengono
libere e fortunate perché possono permettersi “certe cose” e non si accorgono
di essere invece delle marionette senza midollo, in mano a poche lobbies che
gestiscono in tutto la loro vita.
Poi ci
sono i due malfattori. Uno dei due è arrabbiato con la vita, con Dio e con
tutti, come se tutti fossero colpevoli della sua sorte. Ciò che gli accade invece
è l’esatta conseguenza della sua vita. Se ne rende conto in cuor suo, e per
questo scarica addosso a Gesù tutto l'odio e la rabbia per la sua vita. “Salva
te stesso e noi”. Parole ironiche, sarcastiche. Ci rappresenta. Quante volte ci
troviamo in quella stessa situazione! Quello che lui dice a Gesù è quello che noi
dovremmo dire a noi stessi. Siamo noi che dobbiamo salvarci; siamo noi che dobbiamo
cambiare; siamo noi che non si rendiamo conto di essere i condannati, gli imprigionati,
i condizionati, gli schiavi. E non ce ne accorgiamo.
Dovremmo
dire: “Non sei tu che devi salvarti, ma noi!”. Crediamo di vedere uno
crocifisso e invece vediamo un uomo libero. Crediamo di essere liberi e invece
siamo crocefissi dalle nostre paure, dai nostri condizionamenti. Crediamo di
vedere e, invece, siamo ciechi. Crediamo di vivere e non ci accorgiamo di
essere morti dentro.
C'è però
anche un malfattore che capisce e accoglie Gesù. Anche in quella situazione di totale
impotenza è possibile fare qualcosa: dire di sì a Dio e accoglierlo.
Il
malfattore riconosce il suo errore e chiede perdono. Tutti guardano con sfida a
Gesù; solo lui guarda umilmente a sé, alle sue colpe. Salvezza è guardare a sé;
condanna è guardare agli altri; salvezza è riconoscere il proprio errore, la
propria non-luce, la propria cecità; salvezza è aprire gli occhi. Questo è
quello che ciascuno di noi può dire a Gesù: “Ho vissuto sempre così, ma da oggi
voglio cambiare. Oggi sono io che ti accolgo e ti faccio entrare in casa mia.
Oggi ti dico di sì. Oggi cambio direzione. Oggi inizio”.
Se
finora abbiamo vissuto nel disinteresse, oggi cambiamo. Se finora abbiamo
vissuto delegando, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo incolpato gli altri
della nostra infelicità, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo imprecato e
bestemmiato contro Dio per ciò che ci succede, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo
vissuto nella paura e nella difensiva, da oggi cambiamo. Perché questo è il
paradiso: e da oggi possiamo cambiare. Se finora è andata così, oggi possiamo cambiare.
Non è mai troppo tardi per iniziare. Mai!
Quelle
parole: “Salva te stesso e noi”, sono terribili. È come dire a Dio: “Mi servi
per il tuo potere!”. Ma per cosa serve Dio? Per niente di quello che vorremmo
noi! Se pensiamo che Dio serva a far soldi, a dare lustro alla nostra immagine
di brave persone, ad essere rispettati, a risolvere i nostri problemi di
relazione, a coprire le nostre insicurezze, a tappare i nostri buchi, Dio per
tutto questo non serve proprio a nulla. Rimarremo in ogni caso delusi da Lui.
Se pensiamo di chiamare in causa Dio per tutto ciò che non funziona nella nostra
vita o nel mondo, per tutte le disgrazie che succedono, rimarremo sempre molto
delusi. Perché non è per questo che Dio ci serve. Dobbiamo stare molto attenti
a non “usare” Dio! Dio è la forza delle nostre gambe: ma siamo noi che dobbiamo
camminare! Dio è l'amore del nostro cuore: ma sta a noi protenderci, per incontrare
e abbracciare. Dio è la voce che dalla coscienza sale alle nostre labbra: ma
sta a noi parlare, confessare, dire la verità. Dio è lo sguardo dei nostri
occhi: ma sta a noi aprirli, guardare e renderci conto sul da farsi. Non chiediamo
mai a Lui di fare ciò che spetta a noi. Non deleghiamo mai a Dio i nostri compiti.
Dio è forza ma non fa azioni di forza. Dio è luce ma non ci sbatte davanti la
verità. Dio è potenza ma non violenta nessuno. Dio è amore ma non “costringe”
nessuno ad amare.
Il
quadro dei due malfattori è una scena molto profonda. Sono due malfattori, due
uomini giustiziati giustamente (almeno secondo le leggi di quel tempo). Quello
che subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due
malfattori, hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno
fallito, che hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol
dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Ma uno dei due
lo ammette e può ricevere il perdono, l'altro no.
Non si
può ricevere nessun perdono se non si accetta di aver sbagliato. Nessuno ci può
perdonare se non accettiamo la nostra ferita o il nostro errore. Giuda era
morso dal senso di colpa per ciò che aveva fatto, ma non l'aveva accettato. E
si è ucciso. Così chi non sa accettare il proprio errore e non si sa perdonare
si uccide, non si concede nessun'altra possibilità di vita.
Di
fronte ai nostri errori abbiamo due possibilità: o ci ostiniamo a non vedere, o
accettiamo la realtà che ci fa male. Possiamo raccontarci qualunque favola
sulla nostra vita: che ce l’abbiamo messa tutta, che di più non potevamo fare.
Ma la nostra coscienza, nel profondo, sa perfettamente se ci siamo accontentati
o no, se ci siamo adattati o no, se abbiamo avuto paura di vivere, di osare e
di rischiare o no. E siccome a lei non possiamo mentire, lei sente la colpa.
Noi
possiamo imbrogliare chiunque, possiamo darla a bere a tutti, ma non alla
nostra coscienza che conosce ogni cosa e sa cos'abbiamo realmente fatto.
Accettare il perdono è accettare l’idea di esserle stati infedeli, è vederci
deboli, vulnerabili, fallibili. E non vorremmo mai vederci così. Non vorremmo
mai ammettere che noi, proprio noi, abbiamo agito così. Ma finché non lo ammetteremo,
continueremo a rimanere legati al nostro senso di colpa nascosto e non potremo
ricevere mai nessun perdono.
Il
nostro profondo, la nostra coscienza, il Dio in noi, conosce ogni cosa di noi.
A Lui non possiamo mentire. Anche se noi ce le nascondiamo, lui le sa. Anche se
noi ce le dimentichiamo lui le sa tutte. Il nostro profondo sa e conosce tutte
le nostre colpe, sa e conosce tutto di noi. Ammettere, quindi, riconoscere, “sentire”
il male che abbiamo fatto, è l'unica strada per il perdono, per ritornare a
vivere, è l’unica via per la salvezza. Amen.
Tre considerazioni
mi son subito sorte alla lettura del vangelo di oggi: probabilmente non c’entrano
nulla con il corretto messaggio del testo, ma voglio comunque condividerle, sperando
che diventino motivo di meditazione anche per altri.
La
prima: «alcuni parlavano del tempio, che
era ornato di belle pietre e di doni votivi…» (Lc 21,5). Sono parole che non si
adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori del
Tempio”, a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti (forse io per
primo) si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo esibire in
pubblico le nostre “gemme” spirituali, le nostre pratiche religiose, le nostre “buone”
opere: la nostra messa, i nostri rosari, le nostre “lodi”, le nostre elemosine,
ostentando in esse una fede e una carità che in realtà non abbiamo; quante
volte ci accontentiamo di una pietà ridotta a semplici orpelli esteriori, a corone,
a immagini e medaglie sacre in bella mostra, a preziosi crocifissi e madonne
d’oro al collo, piuttosto che consumare in umiltà e sincerità, nel segreto del nostro
cuore, il nostro intimo rapporto con Dio! Per molti, l’essere cristiani “praticanti”,
purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice Gesù, tutto quello che vedete, tutto
quello che è esteriore, tutto quello che è esibizione e amor proprio, tutto verrà
distrutto; tutto si rivelerà un nulla, senza nessun valore.
La
seconda: «Badate di non lasciarvi
ingannare. Molti verranno nel mio nome. Non andate dietro a loro!». Dobbiamo
veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con
tantissimi pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi
moderni, medium, guaritori, ciarlatani ecc.); con gente che pur di consolidare il
proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi, gloria
mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza venefica di
satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza melliflua,
affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e dispensatrice
dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente all’auto
affermazione.
Terza
considerazione: «Sarete traditi perfino
dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…; sarete odiati da tutti
a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto».
Capiterà che saremo traditi e abbandonati da tutti, ma noi non saremo mai soli.
Dio continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche
se noi lo rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque
terremoto, qualunque disgrazia: quello che ci deve tranquillizzare è la
certezza di avere ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà
mai succederci nulla di “male”.
Allora,
perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente nell’ansia,
nell’angoscia?
L’angoscia,
lo sappiamo, è un male mortale: è la sensazione di poter cadere ogni istante nel
baratro del male, senza che nessuno possa aiutarci. È un terrore costante che ci
priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci mette di fronte alla
nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un crollo improvviso e
totale di ciò che ci circonda.
È un
sentimento oggi molto diffuso: noi tutti, in qualche modo, viviamo nell’angoscia:
siamo angosciati per il nostro domani, per la possibilità di perdere il lavoro,
per non riuscire ad arrivare a fine mese. Siamo tutti ossessionati dalle
malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di nuove guerre mondiali, di
esplosioni atomiche, dal mostro del terrorismo islamico, dalla possibilità di
inondazioni o di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo,
quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la
drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti
nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo,
da tutto ciò che abbiamo.
Cosa dobbiamo
fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via dobbiamo
seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende invalidi?
Per
prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura di
scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole divino. Perché
più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci sentiamo in
colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo fatto e non
avremmo dovuto fare.
Gesù
nel vangelo dice: «Non v'è nulla di
nascosto che non debba essere svelato e di segreto che non debba essere manifestato.
Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce e quello che ascoltate
all'orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10,26ss).
Molte
persone sono angosciate dal doversi guardare dentro, dalla paura di scoprire nel
loro animo, emozioni di odio, di rabbia, di vergogna; temono di essere
sopraffatti da sensi di colpa e di inferiorità, da umiliazioni, da ferite. Ma
non è così.
Più abbiamo
zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più vivremo
nell'angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno vivremo angosciati.
Una
volta poi superato questo ostacolo, dobbiamo vivere nel presente, nella realtà.
Se iniziamo a pensare a quello che potrebbe succedere, a come potrebbero andare
le cose, al fatto che c'è sempre il peggio che incombe, al disastro che ci
potrebbe succedere, allora è davvero la fine.
La
maggior parte delle persone non sono angosciate da ciò che succede ma da ciò
che potrebbe succedere. Ciò che potrebbe succedere però non è ancora successo,
quindi non esiste. Dobbiamo pertanto vivere con i piedi per terra, stare a contatto
della realtà, convinti che il più forte antidoto all'angoscia è la fiducia. Sì,
perché la fiducia è il percepire, il sentire che Lui è con noi, che ci
accompagna, che non ci abbandona mai. La fede vera, la fiducia in Dio, sono l’esatto
opposto dell'angoscia: Lui c'è, Lui ci accompagna, Lui vuole il nostro bene,
Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà sempre forza e coraggio. E questo ci deve bastare.
Ma per
giungere a ciò, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio.
Del
resto, cos'ha fatto Gesù nei suoi momenti di profonda angoscia? Era nel
Getsemani e la prospettiva che aveva davanti era terribile: ebbene, Lui ha
pregato con tutto se stesso, e si è liberato, affidandola al Padre, di tutta la
sua angoscia, della sua paura; ha avuto bisogno di sentirlo vicino, di sentire che
Lui c'era anche in quel momento terribile. E quando l'ha sentito vicino, ha
trovato la forza per andare avanti a testa alta. Facciamo anche noi così. Amen.
«Si avvicinarono a Gesù alcuni
sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero
questa domanda: “Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di
qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia
una discendenza al proprio fratello”...» (Lc 20,27-38).
Questa
volta a fare i provocatori di turno sono i Sadducei, uomini dediti più alla politica che
alle problematiche religiose. Nonostante fossero i rappresentanti
dell’aristocrazia sacerdotale del Sinedrio, tra le altre cose negavano la
dottrina della risurrezione dei corpi, elemento basilare della cultura
giudaica.
La
loro chiara intenzione è quella di deridere Gesù, di metterlo alla prova, di prenderlo in giro; ma poi, come al solito, sarà Gesù che metterà in difficoltà questi
“saputoni”, grazie proprio alla stupidità, banalità e inconsistenza della loro richiesta .
Il
caso che pongono è infatti assurdo, inverosimile, perfino grottesco: “visto che la
legge mosaica dice: Se una vedova è senza figli maschi, può essere sposata dal
cognato per avere una discendenza” (Dt 25, 5), di chi sarà moglie, con quale
marito si congiungerà, dopo la risurrezione dei morti, una donna che in vita è
stata moglie senza figli di sette fratelli?” È evidente che qui essi esasperano il caso, proprio
per mettere in ridicolo Gesù.
Ma Gesù
che fa? Li ignora, ovviamente; non dà una risposta diretta, ma approfitta dell'occasione per
darci due insegnamenti forti.
Il
primo insegnamento: per parlare e discutere di ciò che succederà nell’al di là,
dopo la morte, non possiamo utilizzare le stesse categorie mentali con cui ci
esprimiamo in questo mondo. Tutte le nostre previsioni non sono altro che ipotesi,
allusioni, parabole, immagini. I Sadducei non fanno altro che questo: trasferire
immagini note, tratte da questa vita terrena, adattandole al mondo che verrà. Del resto ogni
religione fa esattamente così quando intende descrivere la vita dopo la morte: immagini
di fuoco, latte e miele che scorrono, pascoli erbosi, luce sfavillante, verdi
prati, non sono altro che idee tratte dal patrimonio comune della nostra esistenza attuale. Voler descrivere
quello che succederà nella vita futura è impossibile, perché ancora non abbiamo
alcuna esperienza in proposito: è come se un bimbo ancora nel grembo materno, volesse
descrivere il volto della mamma, la fredda lucentezza di un’aurora, la calda
evanescenza di un tramonto marino.
Noi
non sappiamo come sarà l'aldilà. Abbiamo dei presentimenti, delle intuizioni,
dei segnali, delle tracce: immagini come il “tunnel del grande passaggio”; il
fuoco dell'inferno; gli angeli con le ali; i diavoli con le corna; Adamo, Eva,
il giardino dell'Eden; i tormenti del fuoco; il paradiso, il purgatorio e l’inferno
e quant'altro, non sono che dei tentativi, delle previsioni che veicoliamo
dalla nostra fede, dai testi sacri, dalla letteratura cristiana; immagini che
ci producono delle emozioni, che ci rappresentano situazioni “celestiali”, è vero, ma che
non ci dicono assolutamente nulla di come sarà realmente l’aldilà.
Forse
un’idea più realistica la possiamo trarre dall’amore: quando siamo veramente innamorati,
ci sembra infatti di vivere l'eterno, l'infinito; quando qualcuno ci ama ci
sentiamo immortali, eterni, senza fine, immersi in una situazione di totale
appagamento, da cui nessuno potrà mai staccarci. Ecco, l’incontro con l’amore
di Dio, nella risurrezione dopo la morte, sarà sicuramente così; anzi, sarà così,
ma sarà anche tutt’altra cosa; sarà una cosa ancora più avvincente, ancora più
estasiante; vivremo una situazione indescrivibile, inimmaginabile, perché priva
in assoluto di alcun termine di paragone.
La
curiosità di sapere ad ogni costo come sarà la fine dei tempi, come sarà la
vita oltre la morte, quale sarà il destino delle anime, è spesso di origine morbosa:
ci rifugiamo nel futuro perché non sappiamo vivere bene il presente. Siamo insicuri,
scontenti, in ansia costante. Basterebbe invece non dimenticare mai una cosa
sola: che noi siamo figli di Dio, che siamo figli della Resurrezione, i
prediletti, gli amati, i riscattati da Cristo.
Se veramente
siamo certi di questo, di che altro dobbiamo preoccuparci? Dove sono ancora le
nostre angosce? Mettiamoci nelle mani di Dio e, non temendo il futuro, vivremo bene
anche il presente.
“Dio
non è il Signore dei morti, ma dei vivi; tutti devono vivere per lui e in lui”.
È il secondo insegnamento di oggi: quindi neppure la morte può spezzare questa
realtà, questo legame d’amicizia, di amore, di speranza; Dio stesso non si
sottrarrà mai a questo rapporto, perché lui è il Fedele. Avere fede nella
resurrezione, significa appoggiarsi a questa fedeltà, alla Sua fedeltà; perché Dio
è colui che non abbandona. Ogni giorno possiamo sperimentare che Lui è il
Fedele: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo da Lui, anche se in certi
giorni non accettiamo quanto Lui ci propone, anche se spesso gli siamo infedeli
e lo tradiamo, Lui rimane fedele. Lui è una roccia, Lui è il granito; Lui è la
mano che non si stacca mai da noi, che non se ne va, che ci tiene forte, che
non ci lascia.
Non
sapremo ancora con esattezza cosa voglia dire resurrezione, ma sappiamo che Lui
è Vita, è Amicizia, è Amore; è Colui che non abbandona mai chi lo ama.
Sappiamo
questo, e questo ci deve bastare.
Affidiamoci
a Lui, sicuri che non ci lascerà cadere nel buio. Se la nostra vita rimane appoggiata,
ancorata su di Lui, allora anche noi dureremo per sempre, perché Dio è per
sempre. Fidiamoci e non temiamo. Ma se Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, lontano
dalla nostra vita, allora sì che avremo tanta paura: “una paura da morire!”.
Quando
invece uno si fida ciecamente, tutto diventa facile e meraviglioso: non c'è più
niente da temere perché un angelo è con noi e ci conduce, ci protegge, ci
sostiene, ci dice dove andare e dove non andare. Potersi fidare di qualcuno e
abbandonarsi è straordinario. Ci si sente al sicuro, protetti, non c'è più
niente di cui aver paura. In certi giorni magari non “vediamo” Dio che ci
conduce, ma sentiamo comunque che Lui ci porta. E l’importante non è tanto dove
andiamo, ma che lui c’è.
Prima
di andare nell’aldilà avremo tanta paura, ma poi sarà una grande festa. Ciò che
incontreremo sarà molto diverso rispetto a quello che ci aspettiamo, a quello
che possiamo anche solo lontanamente pensare. È inutile pensarci; è inutile volersi
fare delle idee; è inutile voler sapere a tutti i costi. Tutto sarà compiuto,
tutto sarà in pienezza.
La
morte è la fine di questa vita, ma è anche inizio di un'altra vita. Si tratta
di cambiare casa. Molte persone credono che l'inferno o il paradiso sia un po'
come un terno al lotto: non possiamo farci nulla e speriamo che ci vada bene!
Ma l'inferno e il paradiso ce lo costruiamo noi. L'inferno o il paradiso ce lo
scegliamo noi; è nelle nostre mani. E quando andremo di là, Dio non farà
nient'altro che confermare le nostre scelte di quaggiù, quello cioè che noi abbiamo
voluto.
Scegliamo
la vita! Scegliamo il paradiso! Scegliamo l'amore! Dio non vuole che distruggiamo
la nostra vita. Dio non vuole che nessun uomo si annienti o si annulli, che
nessun uomo perda se stesso. Mai. Dio non è il Dio della morte. Dio è il Dio
della vita e vuole che tutti viviamo e che viviamo in pienezza, che viviamo
sviluppandoci, crescendo, e che raggiungiamo la massima vitalità possibile. Amen.