«Gesù prese la ferma decisione
di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per
preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo…» (Lc 9,51-62).
L’azione
didattica di Gesù nei confronti delle numerose persone che lo seguono continua
anche durante il viaggio che dalla Galilea lo porta a Gerusalemme, dove è
diretto per celebrare con i suoi la festa di Pasqua. Si muovono in gruppo e si
sa, quando ci si sposta in molti, è indispensabile un minimo di organizzazione.
Così Gesù manda avanti alcuni discepoli per predisporre dove pernottare e ristorarsi.
Succede però che una città della Samaria, regione attraverso cui deve
necessariamente passare, si rifiuta di accoglierlo e di dargli ospitalità.
È un
imprevisto sgradevole per chiunque l’essere rifiutati: Gesù non si aspettava un
trattamento di questo genere, anche se per lui il “rifiuto” non costituiva una
novità: già fin dalla nascita, nei suoi primi giorni di vita, egli viene
rifiutato dai “potenti” del luogo; viene poi praticamente rifiutato e
perseguitato durante tutta la sua missione terrena; scribi e farisei lo
contrastano continuamente, cercando in tutti i modi un pretesto per catturarlo,
condannarlo, ucciderlo; infine è rifiutato dal suo stesso popolo, che al
momento finale del processo-farsa cui viene sottoposto, gli preferisce un
delinquente, decretando per lui una morte straziante di croce.
Se
guardiamo insomma Gesù sotto questo profilo, l’impressione che ne possiamo trarre
è quella di trovarci di fronte ad uno che ha fallito completamente la sua
missione: ha fallito con quelli di casa sua perché non gli hanno creduto
(dicevano che era un pazzo); ha fallito con i capi del popolo, religiosi e
politici (dicevano che era figlio del diavolo, di Beelzebul); ha fallito con la
gente che non ha accettato il suo regno (e lo ha lasciato solo come un cane nel
pericolo); ha fallito con i suoi stessi amici (gli apostoli) che se la son data
a gambe proprio quando era ora di difenderlo e di sostenerlo; ha fallito anche
con suo Padre che non è intervenuto a salvarlo, né ha mosso un dito per
evitargli una morte atroce.
Del
resto la società consumistica in cui viviamo, con la sua pubblicità
martellante, ci ha ormai abituato a guardare all'uomo solo come ad un “vincente”,
ad ammirare solo colui che “riesce” in tutto; nella vita di oggi, infatti, l’unica parola
che conta è “riuscire”, “sfondare”. Bisogna “arrivare” a tutti i costi. La
felicità sta nel sentirsi “realizzati”: avere una bella famiglia, dei figli di
successo, vivere nel benessere, una situazione economica florida, essere al top
della scala sociale. Ma sono illusioni che hanno vita breve. Ben presto la vita
ci insegna che la realtà non è questa: le famiglie falliscono, i figli si
ribellano, le economie, anche le più floride, vanno in malora; le persone finiscono
per “scoppiare”, “danno di matto”; quelli che erano gli ideali sublimi e le
mete ambiziose da raggiungere, si rivelano un groviglio di falsità e di imbrogli.
La felicità, una amara chimera. È il fallimento dell’uomo di oggi, il
fallimento di una società che si ostina a rifiutare Dio. Un fenomeno, il fallimento
che, anche se per motivi completamente diversi, anche Gesù ha provato: anche
Lui ha fallito; anche Lui è stato e continua ad essere rifiutato dalla società;
anche lui ha dovuto in qualche modo ridimensionare, cambiare i suoi programmi:
questo suo “fallimento” lo ha messo infatti di fronte ad una dura realtà: non basta
la chiarezza della Sua verità, né la profondità del suo animo; non basta la bontà
delle sue idee, né l’amore che lo spinge, per convertire e salvare il cuore
degli uomini. Ci vuole anche la loro volontà. Se uno non vuol convertirsi, purtroppo,
non si converte, nonostante tutto. È per questo Gesù si sente “impotente”: Egli
sente cioè che tutto il suo amore, tutto quello che ha sofferto, tutto quello
che ha fatto e continua a fare per la salvezza dell’umanità, non basta. Non
basta il suo messaggio, il suo annuncio, il suo Vangelo; non basta la sua
Chiesa: gli uomini continuano e continueranno a non accoglierlo, a rifiutarlo:
il suo amore continuerà ad essere calpestato, rifiutato, volutamente ignorato.
È questo il “fallimento” del suo amore.
Quanti
fallimenti nell’amore! Eppure continuiamo a fallire, anche se ogni fallimento ci
offre una forte lezione di vita, che dovrebbe aprirci gli occhi. Solo se faremo
tesoro di tali esperienze e impareremo a non ripetere continuamente i nostri
errori, solo allora cresceremo. Altrimenti nuovi fallimenti si aggiungeranno ai
precedenti. È solo questione di tempo. Dobbiamo fare tesoro delle esperienze
vissute, fratelli; non trasformiamo mai il niente in tutto, perché questo tutto si dimostrerà ben presto niente. Attacchiamoci a Dio: guardiamo a
Lui: Egli non vuole che noi falliamo nel nostro cammino di sequela; non vuole
degli sconfitti. Dio vuole solo che noi ne usciamo vincitori. Nulla ci deve
abbattere: anzi, dobbiamo mettere in conto qualche fallimento; fanno parte della
vita; e ci deve consolare il pensiero che anche Gesù ha dovuto confrontarsi con
questa realtà. Ogni volta che falliamo, stendiamo le mani e diciamo umilmente: “È
così!”. Cioè, accettiamolo questo fallimento, accogliamolo come segno della
nostra debolezza, non nascondiamocelo. Cerchiamo di non vergognarci, non è una
condanna a morte. Essere dei perdenti, non riuscire, fallire, non è mai stato piacevole
per nessuno, in nessun campo; è anzi molto doloroso, perché si tratta di
perdere quella bella immagine patinata, di facciata, che con tanta cura ci eravamo
costruiti per l’ammirazione degli altri. Se ci capita di fallire, dobbiamo imparare
la lezione; solo in questo modo il fallimento diventa un fattore evolutivo e
creativo; e ripartendo dal basso, possiamo rinascere; soprattutto se ci rimettiamo
a Lui, al Suo Abbraccio: perché Lui è sempre pronto ad accoglierci!
Il
vangelo prosegue poi definendo alcune condizioni per seguire Gesù. Gesù non
chiede a quanti lo vogliono seguire, di fare i voti di povertà, castità,
obbedienza: chiede solo la nostra “libertà” d’animo, un affrancamento interiore.
Nei tempi passati si diceva che le parole di questo Vangelo riguardavano solo i
preti e le suore. Invece sono insegnamenti che riguardano tutti: seguire Gesù, andare
dietro a Lui, vuol dire seguire la voce più profonda, la nostra personale
“vocazione”, ascoltando non le voci e i desideri di superficie, ma i bisogni
profondi della nostra anima. E non possiamo fare questo, se non siamo
interiormente liberi di muoverci.
«Ti seguirò ovunque tu vada», gli dice un
uomo. L'uomo è molto motivato e ben disposto. Ma Gesù smaschera subito i facili
entusiasmi e la superficialità: «Le volpi
hanno le loro tane, ma io no». La tana è il rifugio, la sicurezza, la
certezza che lì si è al sicuro e protetti. Gesù non garantisce questo; Gesù
garantisce la vita non la protezione, la copertura totale; garantisce la
felicità, non la tranquillità. Gesù non si fa abbagliare dalla nostra subitanea
disponibilità. “Non solo se lo vuoi (è la prima condizione), ma se lo puoi”; in
altre parole, “non solo se ti piace, se sei innamorato della proposta, ma anche
se ne sei convinto interiormente, se ne hai la libertà interiore, allora
seguimi”. “Io vorrei seguire il Signore... ma se poi qualcuno trova da ridire?
E se poi entro in conflitto con le persone? E poi… vorrei essere certo di non
sbagliare strada, di fare la scelta giusta per me. E se mi inganno? Se non ce
la faccio? Se rimango solo?”. La risposta di Gesù brucia ogni velleità di certezze
inconsistenti e infondate: “Chi ha il nido vi ritorna; e chi ha la tana vi si
rifugia lì”. Per seguire il Signore invece bisogna mettere tutto in discussione;
tutto deve essere vagliato. Nulla può essere dato per certo, anche ciò che
prima ci sembrava assoluto. Per Lui deve essere messo in gioco tutto. Vivere
così è vivere senza certezze interiori, riferimenti assoluti, senza “case, nidi
o tane”.
Gesù
lungo il viaggio si rivolge poi ad un altro e gli dice: «Seguimi», ma riceve un altro fallimento, un altro rifiuto, come già
con il giovane ricco. “Aspetta un attimo!”. L'uomo non dice di no, ma rimanda,
posticipa: “Guarda Gesù, vengo sicuramente, ma prima devo sistemare alcune
cosucce; prima devo laurearmi, devo sposarmi, devo sistemarmi e poi verrò;
quando sarò diverso, quando avrò più possibilità, più tempo; quando saranno
cambiate un po' le cose, quando avrò risolto i miei problemi e superate le mie
paure, allora ti seguirò”.
La
risposta di Gesù è tremenda: «Lascia che
i morti seppelliscano i loro morti». Cioè: “Tu sta con la Vita, non con la
morte. Stai dove c'è la Vita e vivrai; se stai dove c'è la Morte, morirai.
Lascia quindi che quelli che sono morti dentro, spiritualmente, stiano e
trattino con le cose morte, con le persone e le esperienze di morte; tu va' per
la tua strada. Vivi e sta dove c'è la Vita, dove si sente l'amore, il pulsare e
la vibrazione dell'esistenza”.
Un
altro ancora dice a Gesù: “Ti seguo ma lascia che prima mi congedi da casa mia”.
Egli vorrebbe l'approvazione e l'accettazione dei suoi familiari. Ma non si può
vivere dipendendo dal giudizio degli altri; non si può permettere agli altri di
determinare la nostra vita. Se non ci sottraiamo alle aspettative dei
familiari, non solo non possiamo seguire il Signore, ma non possiamo vivere,
non possiamo diventare noi stessi, non possiamo scoprire chi siamo realmente.
La
frase: «Nessuno che si mette all'aratro e
poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» ci illumina su un’altra
questione del nostro vivere. L'aratura in Palestina è un lavoro duro e anche un
po' pericoloso. Se guardiamo a destra o a sinistra, o peggio ancora se guardiamo
indietro, rischiamo non solo di non andare dritti ma di farci male. Quindi
bisogna guardare avanti e non guardare mai indietro. Questo lo portiamo scolpito
nel nostro corpo: i nostri occhi sono posizionati sul viso in modo da guardare
sempre avanti, non per guardare indietro (altrimenti li avremo anche nella
nuca).
Il
passato blocca. Quante volte ci diciamo: “Se non avessi fatto quella cosa... se
avessi agito diversamente... se potessi tornare indietro... se lo avessi saputo!”,
e continuiamo a pensare e a rammaricarci su quanto abbiamo fatto. Ma il passato
è passato. Non giriamoci continuamente indietro; andiamo avanti e basta!
Nella
Bibbia c'è un bellissimo episodio (Gn 19,1-29): quando vennero distrutte Sodoma
e Gomorra fu detto a Lot di non voltarsi indietro e di non guardare. Sua
moglie, invece, scampata dalla distruzione, si voltò a vedere cos'era successo,
e divenne una statua di sale. Gli occhi possono guardare in avanti o indietro
ma non nello stesso momento. Se ci soffermiamo a guardare indietro, a quello
che poteva essere e non è stato, alle scelte che avremmo dovuto fare e non
abbiamo fatto, non andiamo più avanti, diventiamo statici, immobili, morti; come
una statua di sale. Qualunque cosa ci succeda nella vita, dobbiamo avere sempre
fiducia; non giriamoci mai indietro. Ciò che è stato, fa parte del nostro
bagaglio di vita, lo porteremo sempre con noi sulle nostre spalle; davanti a
noi ora si apre un nuovo tratto di strada da percorrere, libero; dobbiamo
proseguire, andare e guardare avanti, sempre: perché Lui è lì che ci aspetta:
di fronte, non alle nostre spalle. Amen.
«Se qualcuno vuole venire
dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.
Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita
per causa mia, la salverà» (Lc 9,18-24).
Luca
oggi ci rivela un piccolo spaccato di quotidianità: gli apostoli stanno a
scuola. Gesù è il maestro, è chiaro; ma altrettanto chiaro è che il suo scopo didattico
non è tanto quello di fare dei seguaci, dei proseliti, dei fedeli ad ogni costo;
di gente insomma che “pende” dalle sue labbra: Gesù vuole che le persone che lo
seguono siano invece adulte, autonome; vuol fare degli apostoli altrettanti
maestri come Lui. Per questo Egli li ha sottoposti ad un apprendistato di circa
tre anni.
C'è un
periodo nella nostra vita in cui dobbiamo imparare; un periodo in cui tutti dobbiamo
crescere e “divenire”; ma questo periodo non può essere eterno, non può essere
tutta la vita. È un periodo di maturazione necessaria, in cui dobbiamo “radicarci”
in ciò che crediamo, in ciò che viviamo, in modo da poter rispondere
personalmente delle nostre scelte, della nostra vita; in modo da decidere noi, autonomamente,
come vivere; in modo da non delegare a nessuno le responsabilità del nostro cammino.
Dobbiamo insomma imparare a vivere.
Il nostro
più grande peccato? Quello al quale Dio ci metterà di fronte, quando ci dirà:
“Sì, forse non avrai anche fatto niente di male, ma non hai vissuto. Non sei
stato te stesso. Hai sempre seguito gli altri, hai fatto quello che facevano
tutti; di tuo, di veramente personale, nella tua vita non c'è niente. L’hai interamente
sprecata la tua vita!”. E ci accorgeremo allora di tutta la nostra nullità, di tutta
la nostra codardia, del nostro “tiepidismo”, del non essere stati mai né caldi né
freddi, della nostra paura di crescere, di diventare adulti, di vivere coraggiosamente
e orgogliosamente la “nostra” vita cristiana. Ma allora sarà troppo tardi.
Ad un
certo punto della “lezione”, dunque, Gesù inizia a chiedere: «Le folle, chi dicono che io sia?». E gli
apostoli riportano alcune opinioni: “Giovanni Battista, Elia, un profeta”, cose
molto belle!; ma altrove ci sono anche altri che dicono: “Un mangione, un
beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori (un uomo, cioè, di malaffare,
pericoloso), un eretico, ecc.”.
Certo,
sapere cosa dice il catechismo su Dio è sicuramente importante; è importante
sapere cosa si crede in giro di Lui; è importante farci raccontare le altrui esperienze di Dio. Ma ciò che conta veramente non è questo. Decisiva è la Sua domanda: “Tu, cosa
pensi di me? Chi sono io per te? Come sono presente nella tua vita? Quanto vibra
il tuo cuore quando ci incrociamo? In pratica, quanto vivo Io in te e tu di me?
Di quanto ho cambiato la tua vita, il tuo modo di pensare, di sentire, di
amare, di dare priorità alle tue scelte?”. Ebbene: tutte le nostre risposte
preconfezionate, le nostre “belle rispostine” già pronte e imparate a memoria, le
frasi fatte, qui non c'entrano nulla. Nella nostra vita non possiamo
rifarci sempre a qualcun altro, non possiamo nasconderci dietro agli altri, non
possiamo giustificare il nostro immobilismo, chiamando in causa quello che dicono o fanno gli altri, il
modo con cui essi vivono la loro fede. Ripeto, quello che conta è: “Noi cosa viviamo di Dio? Cosa conserviamo di Lui nella
nostra anima? Siamo disposti a lasciarci coinvolgere da Lui?”. Non svicoliamo, amici miei;
non cerchiamo sostituti o panacee: siamo noi che dobbiamo dare una risposta convinta; noi soli, nessun
altro.
Dio ci
ama anche se gli diciamo di “no”. Dio ci accoglie anche se gli diciamo: “Non mi
interessi; non voglio avere a che fare con te”. L'importante è essere chiari e
veri con noi stessi, l’importante è non mentirsi. Non diciamo “Io credo in Dio”
per poi vivere in maniera opposta, falsificando platealmente il nostro "credo", relegando
Dio nel ripostiglio più buio o in una soffitta abbandonata della nostra vita; non esibiamo sfacciatamente una fede che non abbiamo, nascondendo in questo modo il nostro tragico vuoto.
L'esperienza
cristiana è un incontro tra noi e Lui. Leggiamo pure la vita dei santi, proponiamoli
all’attenzione degli altri, andiamo pure a fare esperienze spirituali e
religiose in giro per il mondo, facciamo pure pellegrinaggi, frequentiamo pure
corsi di alta spiritualità carismatica, ma per cortesia non assolutizziamo, non
idolatriamo queste nostre esperienze, non rendiamole la quintessenza della
spiritualità, l’unica via larga verso la santità. Perché tutto questo, preso in
sé, non significa nulla, non ha alcun valore: ciò che conta invece, è che queste
esperienze ci diano la forza e la possibilità reale di incontrare Lui, personalmente;
di sceglierlo, di fargli spazio in noi, di trasformarci radicalmente in Lui, per
poter noi stessi diventare poi dei protagonisti, dei partners di Dio.
E Pietro
qui risponde: «Tu sei il Cristo di Dio».
Questa frase condensa tutto ciò che era il Cristo per gli apostoli. Tutto ciò
che essi poi ci hanno trasmesso: Dio è Colui che ci accoglie in maniera
incondizionata, che ci ama al di là di ogni nostro errore, di ogni pecca, dal
quale potremo sempre ritornare con tutti i nostri fallimenti, le nostre pecche,
i nostri pianti: e ciò senza gesti eclatanti da parte nostra: non dovremo rimeritarci
l'amore; non dovremo fare qualcosa di eroico per dimostrargli che siamo ancora degni
del suo amore. Dovremo semplicemente stendere le nostre braccia e, consapevoli
e pentiti dei nostri limiti, farci abbracciare da Lui. Perché Lui ci ama nonostante
tutto. Questa è l'esperienza centrale della nostra fede. È l'esperienza che possiamo
vivere, osare, esporci, perché Lui per noi c'è sempre, e ci sarà sempre, in
ogni caso.
I
momenti delle difficoltà e delle prove sono inevitabili. Ci saranno addirittura
giorni in cui non ci piacerà essere amici e discepoli di Gesù; ci saranno
giorni in cui malediremo il momento in cui l'abbiamo incontrato; ci saranno
giorni in cui sarà rischioso seguirlo, in cui ci verrà chiesto di osare, di
buttarci, di smetterla con tutti i nostri calcoli, i nostri programmi logici
per ogni cosa; ci saranno giorni in cui saremo chiamati ad esporci e a metterci
in prima linea; ci saranno giorni in cui pagheremo il coraggio di seguirlo, di
credere alla forza dei nostri sogni e del nostro cuore; ci saranno giorni in
cui proprio i “genitori” dell'amore, della fede - gli “scribi”, i “sacerdoti”, cioè
proprio quelli che dovrebbero capirci, aiutarci, che dovrebbero sostenerci - si
rivolteranno contro di noi.
E che
faremo in quei giorni? Solamente chi è radicato in profondità, solamente chi ha
fatto un incontro trasformante e decisivo, solamente chi Lo sente vivo per
davvero nella propria vita, nel proprio cuore, resisterà e avrà il coraggio di
non tradire la propria fede, la propria coscienza, gli slanci del proprio
cuore. Solamente chi avrà fatto un incontro sconvolgente con Lui, e quindi
coinvolgente, rimarrà fedele a se stesso, alla propria anima e a Lui.
C'è un
proverbio russo che dice: “Con la menzogna puoi girare tutto il mondo, ma non troverai
mai la strada di casa”. Chi si piega alla paura del giudizio degli altri, chi
ha bisogno di essere continuamente “approvato” e non accetta di essere “riprovato”,
giudicato, considerato male, chi vive nella falsità, chi mostra al mondo una
facciata diversa da quella che ha nell'intimo, è uno che si allontana sempre
più da se stesso e da Dio.
Non abbiamo
altra scelta, fratelli: dobbiamo vivere seguendo ciò che Dio ha posto nel
nostro cuore; dobbiamo prendere le parti di ciò che è “vivo” in noi; dobbiamo trovare
il coraggio della verità e dell'amore, scoprendolo nella forza del nostro
cuore; dobbiamo soprattutto rinnegare tutte quelle maschere fasulle che ci
costruiamo per paura, per pusillanimità.
Le
persone in genere si augurano una vita piena di “serenità e salute”. È un modo
per dire che desiderano essere felici. Ma non c'è nessun supermercato che vende
la felicità; non c'è nessuna ricetta per essere veramente felici, per stare veramente bene:
nessun libro, nessun santone, nessuna formula magica, nessuna risposta decisiva.
Bisogna avere solo il coraggio e l’umiltà di vivere la propria vita in “sintonia”
con Lui; questo è tutto. Perché la felicità, deriva soltanto dal vivere la nostra vita
con la stessa intensità, con lo stesso amore, con la stessa dignità, con cui Lui
ha vissuto e ci ha insegnato a vivere.
Le
persone dicono: “Io mi amo”. Ma “amarsi” non è cosa da poco: è un’impresa ardua,
difficile. È difficile rinnegarsi, dirsi di “no”: perché “amarsi” è proprio
questo, rinnegare se stessi, cioè spogliarci di tutte quelle false maschere che
ci impediscono di vedere come e chi siamo realmente, che ci impediscono di
prendere la nostra croce, di seguire la nostra strada, la nostra vita. È
difficile dire “no” alla maschera del sorriso a tutti i costi; del sembrare sempre
generosi e buoni con tutti. È difficile dirsi di “no” e abbandonare certi
atteggiamenti di superiorità. È difficile dirsi di “no” e non reagire quando
gli altri ci fanno del male: non possiamo far sempre finta di niente e “passare”
sopra a tutto. È difficile dirsi di “no” e smettere di chiamare amore ciò che
non è amore, ciò che è solo sfruttamento, servilismo, dipendenza, morbosità. È
difficile dire di “no” alla superficialità e fingere di essere sempre felici e
che tutto ci va bene. È difficile dire di “no” a certe abitudini di vita, anche
se sappiamo benissimo che ci fanno male, ci distruggono, ci alienano, ci
allontanano dalle persone, ci rendono insensibili. È difficile dire di “no” al
nostro sentirci vittime a tutti i costi: ci piace tanto adagiarci nel compatimento, nella
tristezza, aggrapparci all'illusione che sono gli altri i responsabili della nostra
vita, della nostra felicità o infelicità; perché in questo modo manteniamo le
cose così come sono, evitiamo la fatica di crescere e di diventare adulti. No, fratelli:
smettiamola di buttare sugli altri ciò che è soltanto “nostro”; smettiamola di
fare come i bambini che accusano sempre gli altri. Basta. Guardiamo una buona
volta dentro di noi. Iniziamo ad accoglierci,
ad amarci, non perché siamo più degli altri, ma perché siamo semplicemente
“noi”. Certo, è difficile dirsi di “no”: nessuno ha mai detto che “amarsi” sia
facile. Ma ci renderemo conto che ogni “no”, prelude sempre ad un “sì”. Ogni “no”
a ciò che ci fa male, è sempre un “sì” a ciò che ci fa bene. Nostra madre ha dimostrato
di amarci molto dicendoci “sì”; ma ha dimostrato di amarci molto di più dicendoci
“no”. Così dobbiamo fare noi con noi stessi. Se ci vogliamo bene dobbiamo dire “no”
a tutto ciò che ci fa male, a tutto ciò che ci allontana da noi stessi e da
Lui.
Dobbiamo
imparare da Gesù il coraggio di vivere la “nostra” vita, quell'unica vita che
Dio ci ha destinato. Dobbiamo seguire l’esempio che Lui ci ha dato, affrontando
quel viaggio che ci porta a conoscere il nostro cuore, noi stessi, la nostra
missione e il Dio che abita in noi.
Caricarsi
della propria croce, non è farsi del male, non vuol dire imporsi sofferenze o punizioni; è
invece accogliere la propria vita in tutte le sue dimensioni, in tutta la sua
radicalità, in tutta la sua compresenza di luci e ombre, in tutti i suoi
richiami, in tutte le sue contraddizioni.
Prendere
la propria croce è accettare la dura croce della realtà della propria vita. E
chi non è disposto a fare questo, chi tenta di salvarsi per altre strade, irrimediabilmente si
perde. Chi vuol risparmiarsi, chi non vuole mettersi in gioco, chi vuole mantenere
tutti gli equilibri esistenti, conservare tutto, perderà la propria vita: è
ovvio, è inevitabile. È così! Chi vuol salvarsi dal crescere, dall'evolvere,
muore.
È proprio vero: di quante cose dobbiamo liberarci, se vogliamo raggiungere la salvezza!
Nella
prima parte della vita crediamo che “salvarsi” sia “ottenere”. Allora rincorriamo
la posizione sociale; accumuliamo soldi, denaro, posizioni, onorabilità; cerchiamo
di avere cose, case e quant'altro. Cerchiamo di salire nella scala sociale
dell'apprezzamento altrui. Ottenere, avere, raggiungere, arrivare, rappresentano
la nostra unica salvezza.
Ma
nella seconda parte impariamo (meglio: dovremmo imparare!) che tutto questo non
ci fa felici e che la salvezza è proprio il contrario: non “ottenere” ma “perdere”.
Dobbiamo perdere tutte le maschere e le facciate che ci siamo costruiti; dobbiamo
perdere le tante illusioni in cui ci siamo cullati; dobbiamo perdere i tanti
rivestimenti, le tante incrostazioni, per ritornare alla “nudità” originale, all'essenziale
della vita; dobbiamo spogliarci di tutto per ritrovare noi stessi.
E
allora finalmente capiremo che la vita più che un processo di acquisizione, di conquista,
è in definitiva un grande processo di rinuncia e di perdita. La piena felicità
della nostra vita poggia infatti sulla paradossale verità che per “trovare”
bisogna “perdere”. Amen.
«In quel tempo, uno dei farisei
invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a
tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si
trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso
i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con
i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,36-8,3).
Il
vangelo di oggi ci trasmette un messaggio profondo e consolante che ci invita
al ritorno a Dio, alla fiducia piena nella sua misericordia, al pentimento, ad
una nuova vita, al rientro nella sua grazia. L'uomo non è destinato a rimanere
nel male e nella morte, perché il Signore si è fatto vicino per salvarlo, per
rinnovargli la vita, per infondergli nuova fiducia, per elevarlo alla dignità
di figlio di Dio.
La
scena si svolge a casa di un fariseo, Simone, che aveva invitato Gesù a cena.
È
chiaro che questo suo invito è solo un pretesto: egli vuole farsi una sua idea
personale sul personaggio Gesù; vuole verificare di persona, stando faccia a faccia, se quel
predicatore itinerante, di cui ultimamente aveva sentito tanto parlare bene,
fosse realmente dotato di quelle qualità così straordinarie che gli venivano
attribuite. È un calcolatore, il fariseo: dai ragionamenti che egli fa in cuor suo, emergono evidenti i segni della sua ristretta mentalità: come cioè nel corso della sua vita egli si sia sempre lasciato
condizionare nei suoi giudizi, più dalla forma esteriore che dal contenuto, più dall’apparenza
che dalle reali motivazioni interiori del prossimo: uno insomma molto esigente
e severo sul comportamento morale degli altri, ma altrettanto permissivo e
benevolo con il proprio; né più né meno di come fanno anche oggi tantissimi
cristiani.
Così non
appena Gesù esce dallo schema di quello che per lui era “lecito”, il nostro fariseo vuole immediatamente
capirne le ragioni, rendersi conto del come e del perché.
E
a prima vista, i fatti sembrano confermare il suo pessimismo; sembra quasi che Gesù, lasciandosi avvicinare e facendosi toccare da una donna notoriamente peccatrice, si squalifichi da solo, offrendo spontaneamente il fianco alle sue critiche e mormorazioni: insomma, un errore “grossolano” quello di Gesù. «Se
costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo
tocca...!».
Simone
lo critica proprio per questo suo sprezzo delle convenienze sociali; e nel
contempo mette in dubbio la sua capacità di leggere dentro la coscienza altrui.
Ed è
proprio dal comportamento di questa donna peccatrice - una donna che senza dire una sola parola
entra piangendo e va dritta da Gesù, si getta ai suoi piedi, glieli bagna con
le lacrime, li unge con l’unguento e li asciuga con i capelli - che Gesù trae lo
spunto per il suo insegnamento.
È un
gesto importante quello della poveretta: un gesto con cui lancia un messaggio
disperato a Gesù: un grido che solo Lui afferra in tutta la sua gravità e importanza; e Lui
lo spiega a tutti, a partire dal padrone di casa: «Simone, ho da dirti qualcosa».
Nella
mentalità del fariseo l'interesse, la convenienza, ha sempre avuto la meglio
sull’amore, sulla comprensione, sulla generosità, ha sempre soffocato gli
slanci del cuore: perciò Gesù inizia a parlare partendo giustamente da un
esempio “economico”: quanto più grande è la somma in denaro condonata ad un
debitore, tanto maggiore sarà il debito di riconoscenza nei confronti del suo benefattore.
Così,
dopo il giudizio scontato sulla donna e quello sospettoso nei confronti sul
Signore, il fariseo è costretto a riformulare un giudizio di merito su se
stesso: non aveva accolto il Signore nella sua casa con sincerità e disponibilità
perché si riteneva superiore a Lui; inoltre aveva
ulteriormente dimostrato questo suo pregiudizio giudicando superficialmente i gesti della donna,
rivelando così un cuore totalmente sprovvisto di amore.
Un
fatto grave e preoccupante, perché soltanto l'amore è in grado di farci conoscere
la gravità delle nostre colpe e di predisporci, riconoscendoci peccatori, a
riceverne il perdono. Solo l'amore autorizza il Signore a rimettere i peccati
di chi se ne accusa contrito.
Ecco,
fratelli: con questo episodio Gesù non si riduce semplicemente a dirci che la
superbia è un peccato più pericoloso della sensualità; ma ci mostra soprattutto
cosa dobbiamo fare per liberarci sia dell'una che dell'altra.
«I suoi molti peccati sono perdonati, perché
ha molto amato». A Dio non importa la nostra devozione se non è sorretta
dalla “passione”, dall’amore; non cerca “giusti” ma “figli”, a lui non interessa
la nostra “immagine” ma quello che siamo realmente nel nostro cuore. Esige da
noi suoi discepoli verità, passione, forza, apertura, entusiasmo, anche a costo
di sbagliare.
La
mansuetudine con cui il Signore ha accolto la donna è solo il segno esteriore
della sua enorme misericordia per l’uomo, del suo amore infinito, con
cui attira a sé le anime umili e pentite. Il nostro perbenismo e la nostra morale
sterile non possono assolutamente competere con l'infinito amore di Dio.
Questo
la donna peccatrice l’aveva percepito immediatamente, e non si era sbagliata.
Nei
piedi del Signore che si muovono per terra, a contatto con le asperità del
suolo, ella aveva intravisto la sua bontà e la sua “apertura” misericordiosa
nei confronti dell’umanità; ed è partendo da essi che manifesta tutto il pentimento
per la sua condotta peccaminosa; e poiché davanti a tutti aveva peccato,
davanti a tutti si prostra a chiedere il Suo perdono. E sono proprio questi gesti,
con cui si rivolge al Signore, che lasciano intravvedere il suo impegno di
conversione: d'ora in poi avrebbe cambiato radicalmente la sua vita. Il profumo
del suo amore di donna si sarebbe sparso solo per la gloria di Dio.
Ora, nel
nostro cammino di discepolato, le ombre del nostro peccato, viste alla luce
dell'amore di Dio, devono continuamente distoglierci da qualunque forma di
superbia: siamo un nulla, ci distinguiamo soltanto per il nostro egoismo,
per la nostra ingratitudine: il Signore ci chiede al contrario uno sguardo
sereno sulle cose, facendoci capire che con un po’ di umiltà, contando sul suo
aiuto, possiamo fare ancora tanto bene.
Quando
Gesù pronuncia le parole di perdono, non sta parlando al presente, come di
qualcosa che avviene in quel momento. Gesù semplicemente ricorda alla donna, al
fariseo e a noi, che il perdono viene concesso nel momento stesso in cui
riconosciamo le nostre colpe; nell'umiltà: il perdono della donna è legato infatti proprio alla sua umile azione
di lavare, asciugare, baciare e profumare i piedi di Gesù.
Un'esperienza
del perdono ricevuto, questa della donna, che a questo punto la trasforma, e la rende
testimone per il mondo della sua grande bellezza interiore ritrovata: è in lei,
infatti, che – pur rimanendo agli occhi di Simone una disprezzabile prostituta,
una peccatrice da allontanare e punire - Gesù vede una donna rinnovata, una
donna che ora ama col cuore.
Due
punti di vista diversi, quello di Gesù e del fariseo: due punti di vista che ci
provocano a ripensare profondamente il nostro modo di vederci gli uni e gli
altri. Amen.
«Quando fu vicino alla porta
della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una
madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il
Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: Non piangere!» (Lc
7,11-17).
Una
madre che piange il proprio figlio. Una madre che, con il cuore lacerato dal
dolore, accompagna al sepolcro il suo unico figlio che è morto. Che tragedia la
morte! Solitudine assoluta. Niente ha più un senso, niente ha più valore: tutto
crolla intorno a noi.
“Non
piangere”, le dice Gesù. Ma come si fa a non piangere quando sopraggiunge colei
che per mestiere, imperterrita, ruba e rapina la vita, i nostri affetti più
cari? Guardiamoci intorno: chi non ha dovuto pagare uno scotto tremendo per
averla incontrata nel proprio cammino? Eppure i santi la chiamano “sorella
nostra morte corporale”. E ringraziano Dio perché con il suo passaggio accelera
il momento del loro ricongiungimento col Padre.
Già, i
santi. Ma noi? Siamo sempre pronti ad accogliere questo “ladro” che viene di
notte? C'è poco da scherzare: inutile divertirsi, distrarsi, drogarsi; inutile illudersi,
inutile cercare di dimenticare, inutile rifiutare di pensarci, inutile volerla ignorare
a tutti i costi!
La
verità è una sola: lei c’è e noi al suo arrivo non godiamo di preferenze. Il
nostro passaggio nel tempo è limitato, brevissimo, inconsistente, irrisorio:
eppure ci comportiamo come se fossimo i padroni assoluti del tempo! Pensiamo di
essere eterni, onnipotenti, inattaccabili. Ma poi improvvisamente arriva lei. A
volte improvvisa, a volte con un tragico preavviso. E allora le nostre lacrime.
Lacrime tardive di dolore, di sofferenza, di constatazione della nostra nullità,
dell’irrimediabile da rimediare. Subito. Immediatamente. Perché il domani per
noi non c’è più.
Ecco,
fratelli: questo è il traguardo cui tutti siamo incamminati. Allora, se lo
sappiamo, perché non prepararci? Se non siamo completamente corrosi
dall’indifferenza, dalla stupidità, fermiamoci un istante: scrutiamo dentro la
nostra anima, in fondo al nostro cuore: e vedrete che in fondo a quel tunnel, apparentemente
interminabile, della nostra incapacità, della nostra pochezza, c’è comunque una
luce che brilla, che ci può guidare, l’unica luce che può infonderci la forza per
non arrenderci, per non soccombere, per continuare ad andare avanti, per
migliorare, per vincere qualunque paura: è la luce di Cristo, la luce della
fede. Lui solo può consolare le nostre lacrime: lui ci conosce, sa come fare
per consolarci, per aiutarci, per sorreggerci.
Lui conosce
l’autenticità del nostro dolore. Lui solo è in grado di valutare la nostra
sincerità, la nostra buona volontà. Lui solo può prenderci in braccio quando
non riusciamo più a camminare. Lui solo può raccogliere le nostre lacrime, le
nostre sofferenze e tramutarle in gioia infinita.
Noi
siamo abituati nei nostri lutti a fare grande esibizione del nostro dolore,
delle nostre lacrime. Più sono plateali, più attirano attenzione e amicizia
posticcia in chi ci sta intorno. Ma quando piangiamo di noi stessi, non c'è
bisogno di versare lacrime. Non dobbiamo convincere nessuno. Lui ama il
silenzio e il raccoglimento, non le “conversioni” mediatiche.
È il nostro
cuore che si deve gonfiare di dolore, e anche se all’esterno sembriamo
impassibili, è la nostra anima che deve piangere. Perché sono proprio queste lacrime
silenziose, invisibili, che non passano inosservate agli occhi di Dio. Il
Signore, non ha bisogno di tante parole, di telecamere, di studi televisivi:
egli legge la nostra sincera conversione, la nostra decisione di cambiare vita,
direttamente dentro di noi. Ed è lì che Lui ci viene a consolare, aiutare,
guarire, resuscitare. Si, resuscitare: perché quando la nostra vita va a
rotoli, quando non sappiamo più dove sbattere la testa, quando non abbiamo più neppure
il coraggio di rivolgerci a Lui, quando arriviamo a calpestare anche le sue
offerte d’amore, quando arriviamo perfino a maledirlo, noi siamo decisamente “morti”,
ci comportiamo da “morti”, viviamo da morti: spiritualmente siamo peggio di tanti
zombi.
Ascoltiamo
allora la sua voce. E piangiamo. Piangiamo su noi stessi, sulla nostra
ingratitudine, sulla nostra cecità. E preghiamo: la preghiera che ha commosso
Gesù nel vangelo di oggi, è quella silenziosa, mossa da un dolore composto,
vero, intimo; come quella di una mamma che piange muta, impietrita dal dolore, il
proprio figlio.
Piangere
e pregare Dio non significa urlare, pretendere, imporre che una cosa sia come
vogliamo noi, magari proprio come non deve essere. Che diritti, che autorità abbiamo
per inveire? Ci è stato tutto donato: ampiamente, generosamente donato. Non c’è
alcun motivo di gridare la nostra rabbia; impariamo a trattare Dio solo con
rispetto, con umiltà, con gratitudine, con grande amore; e anche quando
trattiamo col nostro prossimo, facciamolo con l'amore della parola, la dolcezza
di un sorriso, l'esempio della Fede, trasmettendogli la convinzione che dove
non possiamo arrivare noi, ci penserà senz’altro Lui, il Signore.
A cosa
serve disperarsi, urlare, imprecare, dare in escandescenze? Serve solo a dare
cattivo esempio. Significa dimostrare a tutti la nostra debolezza, la nostra inconsistenza,
la nostra povertà mentale. Avere fede è ben altra cosa. È amorevole attesa,
nella convinzione che tutto è nelle Mani di Dio e sarà Lui a risolvere la
situazione come e quando lo riterrà opportuno.
La
fede è amore: quello stesso amore che Dio ha per noi, l'amore di una mamma, di
un padre, che con grande dolore assistono alla rovina del proprio figlio; vedono
il proprio figlio “morire” a poco a poco, fare cose non giuste, buttarsi via,
drogarsi, ribellarsi al bene; e nonostante tutto, gli stanno sempre pazientemente
vicino, continuano a camminare accanto a lui, sperando solo che Gesù passi
nella sua vita e gli accordi la “resurrezione”.
Alla
porta della città di Nain incontriamo due cortei: il corteo di Gesù che dona la
vita e il corteo del morto, di quelli che sono anch’essi morti, perché non
hanno fede, perché vivono con la morte nell’anima; di quelli che, pur avendo
compassione per il prossimo, pur volendolo, non sanno e non possono consolare, non
sanno e non possono guarire. Gesù, invece, che è Vita, sente una compassione diversa,
la vera compassione, quella che ha la potenza di risolvere tutti i problemi.
Egli è il solo che può portare concretamente la misericordia di Dio a coloro
che gemono e piangono.
La
risurrezione di questo ragazzo ne è infatti la chiara dimostrazione: Dio è
misericordia, è potenza: è la potenza della misericordia, la potenza dell’amore
messa al nostro servizio.
Quanta
strada dobbiamo ancora fare, Gesù, solo per iniziare a capire come sei! Ti
chiediamo perdono, Signore, per tutte le volte che nella nostra vita abbiamo pianto
la “morte”, senza mai rivolgere il nostro sguardo fiducioso a Te, l’unico che può
dare la Vita vera; per tutte le volte che abbiamo assistito alla caduta, alla “morte”
dei nostri cari, dei nostri fratelli; per tutte le volte che non abbiamo saputo
sostenere i fratelli più deboli, i fratelli feriti, magari già morti nell’anima,
ma che si fidavano di noi; per tutte le volte che non ci siamo fatti loro compagni
di strada, che non siamo stati solidali con loro; per tutte le volte che non abbiamo
condiviso il loro dolore; per tutte le volte che siamo stati insensibili e
indifferenti al nostro stesso di dolore, al dolore e alle lacrime della nostra
anima: e abbiamo volutamente ignorato il bisogno impellente di una sua
risurrezione. Amen.
«Egli prese i cinque pani e i
due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò
e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a
sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste» (Lc 9, 11b-17).
La
festa di oggi nasce dal miracolo di Bolsena a cui dobbiamo il duomo di Orvieto:
un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino. Così durante
una messa, quando spezza il pane, un po' di sangue scorre dalla piccola ostia.
Dal 1264 questa festa viene estesa a tutta la Chiesa. È la festa
dell’Eucaristia.
In tre
modi diversi il Signore è stato ed è presente tra noi: con il suo corpo reale,
vissuto oltre duemila anni fa; con il pane consacrato, nell'eucarestia (verum
Corpus): ogni volta che i cristiani vivono la Cena, Lui è presente in mezzo a
loro; infine è presente nel “corpo” delle persone, nella persona del nostro
prossimo, dei nostri fratelli (corpus mysticum).
Questa
presenza di Cristo mette in luce una grande verità: Dio è visibile solo
attraverso un corpo. Dio ha avuto bisogno del corpo di Gesù per incarnarsi e
per rendersi visibile personalmente al mondo. Dio ha bisogno di pane e vino per
rendersi presente ogni domenica a noi. Dio vive nel corpo e sangue delle
persone, di tutto ciò che esiste, che ha vita.
Per
tanti secoli si è diviso il corpo dall’anima. Il corpo era il “contenitore”
dell'anima. Non aveva valore in sé ma solo in quanto conteneva la parte nobile dell’uomo: l'anima. Per cui tutto ciò che
era corpo era insignificante, pericoloso o addirittura diabolico. Così per
esempio il corpo della donna per molti secoli è stato il simbolo del peccato,
della tentazione; l'affettività è stata negata e repressa come infantilismo e
la sessualità è stata catalogata come strumento del diavolo.
Non
sono cose così lontane da noi. Quanti di noi da piccoli hanno sofferto per
mancanza di affettività da parte di chi ci voleva bene? Si veniva presi in
braccio, ma solo per essere cambiati o zittiti dal nostro pianto. Ma gli
abbracci? Le coccole? Le carezze? Il contatto pelle a pelle? Il gioco? Quanti
di noi oggi sono analfabeti di emozioni! Il linguaggio delle emozioni era una
cosa sconosciuta: non sapevamo cosa provavamo, non riuscivamo a dare un nome a
ciò che vivevamo, certe emozioni ancora oggi non le conosciamo! Al di là di
"bene" e "male" non sapevamo andare!
La
rabbia? Ci hanno sempre insegnato che bisogna tenerla dentro, che non bisogna
esprimerla, che "non ci si deve arrabbiare". La tristezza? Ah no, non
si poteva essere tristi. Bisogna sempre sorridere, fare sempre la bella faccetta
e non mostrarci mai tristi, perché un "bravo bambino è sempre
felice". La gioia? Mai esprimerla troppo, sempre contenersi, mai
esagerare. Quanti di noi vivono ancora con sospetto ogni manifestazione troppo “corporea”
della propria gioia. Un abbraccio?: "Se la vuole portare a letto!".
Una carezza? "Ci sta provando!". Un bacio sulla guancia? "Un
approccio". Eppure, se non proprio san Paolo (Tt 1,15), almeno la scuola ci doveva tranquillizzare attraverso la
risposta data da padre Cristoforo di manzoniana memoria al buon fra Fazio, il
portinaio, che aveva assistito all’accoglienza notturna in convento di Lucia e
Agnese: “Omnia munda mundis”, “tutto
è puro per i puri di cuore”! Ma per noi, tutto ciò che era corpo, era comunque pericoloso o negativo. Qual'era allora il
modello dell'uomo spirituale? Era Il monaco; colui cioè che si disinteressava
completamente del proprio corpo e che, notte e giorno, era rivolto a Dio; colui
che fustigava il proprio corpo, lo colpiva, lo mortificava, lo umiliava: ciò era
visto come segno di autentica santità! E non si pensava che così facendo si
mortificava anche lo Spirito Santo che abitava in noi.
Ebbene,
la festa di oggi riabilita il “corpo”: ci dice, praticamente, che Dio stesso non
ha potuto farne a meno. Il corpo non è un optional, un di più, un contenitore,
un qualcosa da strapazzare. Il corpo è la realtà visibile di ciascuno di noi e
di Dio stesso che abita in noi. Noi non siamo un'anima rinchiusa dentro al
corpo, una vita dentro un involucro di nome corpo. Ma siamo un'anima “corporeizzata”, un corpo “animato”. Se l'anima sta male, il corpo
lo manifesta subito. Se l'anima sta male, anche il corpo sta male. Ce lo
insegna Gesù nei miracoli: a leggerli bene, scopriamo che Gesù guariva le
persone perché attraverso le malattie fisiche egli vedeva chiaramente le
malattie dell'anima. Gesù lavorava così: sapeva che il corpo è lo specchio
dell'anima. Guarendo il corpo, guariva l’anima.
Come possiamo
credere che nel “pane della domenica” ci sia Cristo se non crediamo che il
corpo riveli l'anima, il Dio dentro di noi? Come possiamo credere che un po' di
vino, che anche dopo la consacrazione sa sempre di vino come prima, sia il
corpo di Cristo se non crediamo che il mondo e tutto ciò che esiste, sia anch’esso
“corpo” di Dio, opera delle Sue mani?
Ma non
voglio divagare oltre. Torniamo al vangelo.
Dopo
una giornata passata interamente con Gesù, che continuava a predicare e a guarire,
i dodici si accorgono che si è fatto tardi, e si rendono conto che tutta quella
folla (cinquemila uomini) ha bisogno di rifocillarsi; sarebbe bello poterli sfamare
tutti, ma con cinque pani e due pesci la cosa è decisamente impossibile. Che si
fa? E Gesù tranquillo: "Dategli voi stessi da mangiare!". Anzi prende
lui ciò che c'era, lo benedice, lo spezza e lo da a tutti. È il miracolo; ciò
che sembrava assolutamente impossibile, accade.
Cosa
ci vuol dimostrare con tutto ciò?: che di fronte a certe situazioni apparentemente
senza via d'uscita (“erano cinquemila “uomini”,
senza contare donne e bambini!), non bisogna mai perdersi d’animo. Bisogna
invece lasciarsi coinvolgere ("date
voi stessi da mangiare"), partire da quello che c'è, dalla realtà,
anche se è poco o sembra insignificante ("cinque
pani e due pesci"). Dobbiamo accettare la situazione, prenderla per
quello che è, accettare il fatto che se ciascuno fa qualcosa, forse… Se ognuno
fa la sua parte (mette quello che ha)
può accadere anche l'impossibile". Può succedere il miracolo. Garantito!
Troppo
spesso invece, guardando ciò che dobbiamo affrontare, ci lasciamo subito scoraggiare;
non abbiamo fede, non abbiamo fiducia in Dio.
Ci guardiamo
e diciamo: "Ma non vedi che faccio schifo? Cosa vuoi che riesca a fare?
Non sono capace!". Insomma non crediamo in noi, e non credendo in noi, non
crediamo in Dio che ci ha creati grandi, unici e figli suoi. Invece dobbiamo
prendere quello che siamo, anche se ci sembra poco, anche se ci sembra niente,
e fidarci di Lui: siamo convinti di non valere tanto? Ci sembra di non aver
grandi doti? Ci sembrano impossibili certe cose? Bene: siamo esattamente nella
stessa situazione in cui si trovano gli apostoli nel vangelo di oggi.
E
allora facciamo come Gesù: prendiamo quello che siamo (cinque pani e due pesci), e benediciamolo. Benedire in questo caso vuol
dire che "diciamo bene" di noi, che crediamo nelle nostre possibilità
nascoste e nelle nostre risorse non ancora realizzate, compiute o sviluppate.
Credere
in Dio è poter dire: "Questo è quello che sembra e che si vede. Partiamo
da quello che siamo, accettiamolo, benediciamo e vedrete che quantità di pane e
di pesci c'è dentro di noi!".
Infatti,
se Dio è capace di fare di un pezzo di pane il suo Corpo, cosa può fare di noi?
Quando andiamo a fare la Comunione e prendiamo nella nostra mano il corpo di
Cristo, raccogliamoci nel silenzio e pensiamo: «Quante cose fa un po' di pane!
Sembra niente e invece sfama migliaia di persone. Placa la fame d'amore degli
uomini, disseta i cuori aridi, indirizza gli sguardi ciechi, trova delle ragioni
per vite senza senso, illumina il buio e i tunnel di tanti disperati.
Questo
piccolo pane è Dio stesso che viene in noi, che non si vergogna di entrare
nella nostra casa, che ha voglia di venirci a trovare, che vuole incontrarci,
che vuole saziarci, che vuole amarci. Quando mangiamo questo pane ci sentiamo a
casa: Lui viene in noi ma in realtà siamo noi che andiamo da Lui. Lui ci prende
così come siamo, senza maschere, né uniformi, né paraventi e ci dice: “Vai bene
così. Io sto bene con te quando sei quello che sei, quando ti mostri per quello
che sei, senza nasconderti”. Allora tiriamo un grande respiro e sentiamoci
finalmente a casa. Infatti se siamo veramente quello che siamo, non abbiamo nulla
da dimostrare e da temere.
Quel
pane è una forza enorme per noi, è il Signore stesso; il Signore che è dentro
di noi; noi stessi siamo Lui. Siamo la stessa cosa: Lui in noi e noi in Lui. E con
Lui noi possiamo tutto.
Così
quando scappiamo, quando rinunciamo, quando ci rassegniamo, quando facciamo le
vittime, non potremo più accampare scuse. Magari pensiamo ancora di non potercela
fare, ma Lui è in noi. E continuare a non credere in noi, significa non credere
in Lui.
"Corpo
di Cristo", ci dice il sacerdote offrendoci la comunione. E non si
riferisce solo all’ostia che tiene in mano, ma anche a noi, alle persone che
gli stanno di fronte. Pensiamoci, fratelli: e certamente in quel momento sentiremo
dentro di noi un fremito, un sussulto, una potenza enorme. E finalmente
capiremo che con Lui possiamo veramente qualunque cosa. Amen.
«Quando verrà lui, lo Spirito
della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma
dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi
glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-15).
Oggi
la chiesa celebra la festa della Trinità: un Dio che è comunione, relazione,
famiglia. Un Dio che non è un'entità di solitudine ma una realtà dinamica, viva,
relazionale.
La
Trinità non è un problema matematico (come conciliare che Dio sia contemporaneamente
Uno e Trino: Padre, Figlio e Spirito Santo) ma è la suprema espressione
dell'esperienza che tutti facciamo dell'amore e della comunione umana.
Ciò
che importa nell'amore infatti è che si resti uniti e non che ci si “fondi”
insieme. È importante donarsi senza perdersi. È quindi importante che rimaniamo
uniti senza uniformarci, e divisi senza essere separati. L'amore vero è quello
trinitario: unito ma non uniforme, separato ma non diviso.
Dietro
alla Trinità, ma anche a tutte le dottrine e i dogmi, c'è l'esperienza di Dio.
Cioè: prima viviamo l'esperienza di Dio e poi capiremo chi è. Non scervelliamoci
per capire cos'è la Trinità, quando non conosciamo Dio. Perché Dio non è un
pensiero, una filosofia, una psicologia, un frutto della ragione, ma Dio è
Vita, cammino, esperienza.
La
chiesa prima ha vissuto l'esperienza di Dio e poi ha capito cosa voleva dire
tutto questo. La Trinità non è frutto di concetti, di filosofie, di “elucubrazioni”;
non è uno sforzo di equilibrismo speculativo, che porta la mente a capire chi è
Dio. Ma è l'esperienza che si fa parola, comprensione. La Trinità è
l'esperienza dei primi discepoli: Gesù, loro amico, loro compagno e loro
maestro, si proclamava figlio di Dio e agiva di conseguenza, da figlio di Dio.
In quell'uomo c'era Dio! In quell'uomo i discepoli sperimentarono un mondo
d'amore, di comunione, di vita così grande, così profonda da non vederne la “fine”.
E utilizzarono l'immagine che più poteva esprimere tutto questo: l’immagine di una
famiglia, con un Padre, un Figlio e il loro amore rappresentato dallo Spirito.
Questa
è la Trinità: la definizione, il dogma e la religione, sono solo la scala per arrivare a quella meta che è
Dio. Quando siamo arrivati alla sommità, lasciamo la scala, perché non ci serve
più. Definizioni, dogmi, teologie, sono solo la strada che ci deve condurre alla meta. Non confondiamo mai la
strada con la meta. Non assolutizziamo mai nessun mezzo, nessuna pratica,
nessuna disciplina. Ogni pratica è buona solo se ci porta a Lui. Se si ferma su
se stessa è assolutamente inutile. La religione può essere di grande aiuto
finché non la poniamo ad un livello superiore a quello di Gesù Cristo.
Quando
diciamo che Dio è Trinità, diciamo dunque l'esperienza dell'amore e della
comunione. Cioè: siamo distinti, e allo stesso tempo uniti; ma mai fusi. Ciò che conta è che lo Spirito ci
tenga uniti, che lo stesso Spirito ci abiti, che ci sia qualcosa che ci leghi.
I
rapporti fra un uomo e una donna, fra una mamma e un figlio, fra amici,
dovrebbero essere così: uniti, ma distinti; diversi, ma non separati. E
l'amore, lo spirito, il profondo, dovrebbero essere la “colla” che li unisce.
Uniti
dunque, ma distinti. Viviamo la gioia dell'amore, facciamo cose insieme,
progetti, figli, condividiamo tempo, ma non fondiamoci, fratelli. Non siamo, né
saremo mai, un'unica cosa. Io sono io e tu sei tu... L'amore, infatti, è la
forza che unisce le nostre due sponde e i nostri due argini.
Ci
sono tante persone che pretendono che gli altri facciano come loro, che si
comportino esattamente come loro hanno stabilito; li vogliono uguali, simili in
tutto, non riescono ad accettare che gli altri siano invece entità diverse o
siano fatti diversamente. Ma un punto di vista rimane sempre e solo la “vista”
da un solo punto di osservazione!
Così molti
genitori pretendono che i figli diventino la loro stessa copia, o come loro li
pensano. Ma se questo accade li rovinano; li derubano della loro personalità.
Se un genitore vuole che il figlio viva per lui (che lo accudisca cioè nella
vecchiaia; che raggiunga i successi che lui non ha ottenuto; che faccia da
genitore ai loro genitori) inverte il rapporto genitore-figlio: è il genitore
che deve accudire e prendersi cura del figlio, non viceversa.
In
molte comunità si parla di unità, di comunione, di fraternità, ma questo, a
volte, vuol dire che chi non fa come gli altri, chi non fa come il capo o come fanno
tutti, è fuori, è escluso.
Dobbiamo
essere sicuramente uniti, ma assolutamente distinti. Io sono io e tu sei tu:
siamo distinti, due vite diverse. Ma siamo uniti perché ciò che unisce è ciò
che condividiamo insieme, è il nostro aprirci e il nostro darci. Se c'è comunione,
se c'è dialogo, se c'è profondità, se c'è apertura, allora qualunque divisione
viene colmata dai nostri cuori, dal nostro amore, dal nostro spirito.
L'unità
pertanto non dipende dal fatto che facciamo le stesse cose insieme, che apparteniamo
ad uno stesso gruppo. L'unità è il frutto del nostro amore, del darci reciprocamente
il nostro spirito, del condividere ciò che di più prezioso e caro abbiamo
dentro.
La
chiesa, le nostre famiglie, le nostre comunità, dovrebbero essere esattamente come
la Trinità: tutti diversi ma uniti. Dovremmo amare esperienze diverse, cammini
non omologati, strade non identiche per tutti. Dovremmo favorire l'unione dei
cuori, degli spiriti, delle anime, non l'uniformità. Dio è così!
La
festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, che è relazione, rapporto.
Una
vita senza relazioni non è degna di essere vissuta; una vita senza relazioni
non si può definire vita. Le relazioni sono lo strumento con cui impariamo a
vivere; le relazioni sono lo strumento con cui noi “portiamo
fuori” la vita che abbiamo in
noi. Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa. Cattive relazioni
vogliono dire una vita sempre risentita.
Inoltre:
avere relazioni è normale, essere capaci di relazionarsi no.
La
festa della Trinità ci invita allora a portare luce sui nostri rapporti e sulle
nostre relazioni. La maggior parte delle persone, invece, non si interroga mai
sulle proprie relazioni. Sono convinte che per il solo fatto di saper parlare, sappiano
anche relazionarsi. Ma non è così.
Alcune
relazioni infatti sono dominate dalla paura; altre sono cariche di troppe aspettative;
molte sono egoistiche, possessive, dettate dalla paura.
Il
vangelo dice: «Ho molte cose ancora da
dirvi, ma per ora non siete capaci di portarne il peso». Sì, ci sarebbero
molte altre cose da dire, ma per ora va bene così. E continua: «Lo Spirito di verità vi guiderà alla verità
tutta intera». È importante che portiamo verità, luce, carità nelle nostre
relazioni, altrimenti i nostri legami di vita diventano i nostri legacci di
morte, le nostre relazioni d'amore, un cappio al collo; altrimenti sono le
relazioni che gestiscono noi, e non noi che gestiamo le nostre relazioni. E
conclude: «Quando verrà lo Spirito di
verità vi guiderà alla verità tutta intera».
Guardiamo
allora, fratelli, alle relazioni d'amore e di verità della Trinità tra Padre,
Figlio e Spirito Santo; specchiamoci in esse; e preghiamo perché anche nella nostra
vita le nostre relazioni siano sempre più vere. Amen.
«Io pregherò il Padre ed egli
vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre… Lui vi insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto » (Gv 14, 15-16. 23-26).
La
Pentecoste non è una festa qualunque dopo la Pasqua: ne è invece l'esplosione nel
mondo. È la festa dello Spirito Santo: Dio non è più presente in carne ed ossa,
non è visibile, ma è presente con il suo Spirito. Dio si è fermato in questo
mondo per sempre: e lo ha fatto “scendendo”.
Prima considerazione: Dio scrive
la nostra storia, scendendo... Dio
scrive la parola eternità, scendendo...
Dio, amore infinito, si mette a disposizione della nostra pochezza, scendendo… Noi invece pensiamo di fare notizia,
di scarabocchiare i nostri nomi nella storia, “salendo”; arrampicandoci, conquistando
visibilità, importanza, potere, popolarità... poveri noi! Quanto è diverso Dio
da noi!
Dio ha
promesso di rimanere per sempre con noi, e c'è realmente! Siccome però non lo vediamo
con gli occhi, molti pensano che non ci sia, che sia tutta una montatura dei
preti; oppure, ammesso anche che ci sia, si comportano come se fosse l’ultima
preoccupazione della loro vita.
La
festa di oggi ci ricorda invece una grande verità, quella verità che Dio ha impresso
nel nostro DNA nell’attimo stesso del nostro concepimento: che Lui è in noi,
che abita stabilmente in noi; proprio Lui, lo Spirito. Lo Spirito, il coordinatore, l’animatore,
il soccorritore, il consigliere, è infatti l'Anima del mondo.
Anima
vuol dire “soffio vitale”. Spirito è una parola che deriva dal greco pneÂma che vuol dire appunto “vita”,
tutto ciò “che respira”. L'uomo quindi ha un'anima perché lo Spirito abita in
lui. L'uomo, come Adamo, è “soffiato” da Dio: è questo il motivo per cui
esiste. Il giorno in cui cesserà di essere “pneuma”, in cui esalerà il suo
ultimo respiro in questa vita, passerà ad una vita puramente “spirituale”, rimarrà cioè
solo “spirito”, “vita”.
Oggi purtroppo,
in questa nostra società, abbiamo completamento perso l’orientamento, non ci curiamo
neppure di sapere ciò che è bene o male, ciò che dobbiamo fare o evitare. Oggi,
più che mai abbiamo assoluto bisogno di Spirito Santo.
Oggi,
abbiamo assoluto bisogno di una nuova Pentecoste, nella Chiesa e nel mondo!
I
potenti della terra sono sempre più assetati di potere, e pensano solo ad aumentarlo,
prevaricando su tutto e tutti; i ricchi mirano soltanto ad accrescere a
dismisura la loro ricchezza, non curandosi in alcun modo dei miserabili che non
hanno di che sfamarsi; i genitori non capiscono più i loro figli e ai figli non
interessa più quel che dicono i genitori; nella famiglia e nella coppia il
dialogo non c’è più, perché ciascuno usa un proprio linguaggio, diverso e
intraducibile; tra un piano e l'altro dello stesso palazzo, o da un lato
all'altro della stessa strada, si aprono voragini incolmabili: al punto che
spesso finiamo per sapere dalla Televisione quello che succede a pochi metri
dal nostro salotto...
Nella
Chiesa stessa, le parole e i gesti dei pastori non scaldano più il cuore, sono
meccanici, consunti dall’uso, e non invogliano più nessuno alla conversione. A chi
è ancora lontano dalla fede, non arrivano più le parole di amore e di vita del
Vangelo, perché affidate a testimoni sempre più frettolosi, freddi, distaccati,
invischiati nel “mestiere”, e diventati irriconoscibili a Cristo stesso...
C'è
bisogno che lo Spirito Santo scenda dal cielo, e come fuoco bruci tutte le
sterpaglie che soffocano il mondo; e soprattutto ripeta ancora una volta il
miracolo delle lingue! Sì, perché in questa nostra società, nonostante i
potentissimi mezzi di comunicazione, non c’è più colloquio, non c’è più
condivisione di gioia, di bellezza, di bontà. Siamo bombardati incessantemente
da sopraffazioni, da cattiveria, da odio, da fango.
Per
questo serve in fretta che si ripeta dal cielo il miracolo dell'Amore, come in
quel lontano giorno di Pentecoste, in cui i pochi Apostoli uscirono dal
cenacolo e fecero capire a tutto il mondo le parole di Gesù e le grandi opere
di Dio.
Ma
torniamo al vangelo di oggi, che ci indica nello Spirito Santo la sua
prerogativa di “Consolatore”.
Consolare,
dal greco parakalo, vuol dire “mandare a chiamare”,
invitare, invocare aiuto, incoraggiare, dire una buona parola.
Ma in
che modo lo Spirito è per noi Consolatore? Semplicemente perché Lui, Dio, è
sempre vicino a noi. Non si distrae, è sempre attento, a nostra completa disposizione.
È discreto, non ci condiziona, non è invadente: aspetta sempre che siamo noi a
fare la prima mossa. Certo, Dio non è, come vorremmo noi, la soluzione ai
nostri limiti, ai nostri problemi. Dio non è un talismano che ci toglie fuori
da ciò che non possiamo risolvere noi. Dio non ci toglie il dolore: ma ci aiuta
a superarlo: saperlo lì, al nostro fianco, saperlo sempre presente, pronto a
darci una mano, beh, questo, se vogliamo, è per noi grande motivo di
consolazione.
E
allora, fratelli, quando soffriamo, quando il dolore sembra insopportabile, non
preghiamo Dio perché ce lo tolga; ma preghiamolo per poter sentire la Sua
presenza accanto a noi, la sua condivisione al nostro dolore; preghiamolo perché
lui possa consolarci come sa fare lui: e vedrete che così il nostro dolore sarà
subito più affrontabile.
Ci sono
infatti momenti della nostra vita in cui nessuno può raggiungerci, in cui siamo
di fronte a scelte strettamente personali, scelte che spettano solo a noi, per
le quali nessuno può sostituirci; scelte in cui ci sentiremo completamente soli
con noi stessi. Ma noi, soli per davvero, non lo siamo mai; perché Lui, il
Consolatore, è sempre al nostro fianco. Ripeto: non prenderà alcuna decisione
al nostro posto, ma sappiamo che lui è lì vicino. Non ci toglierà la solitudine,
ma ci prenderà la mano: perché Lui è il Consolatore.
Quando
viviamo una perdita, quando riceviamo una sconfitta o una ferita, quando c'è
qualcosa che ci fa male, quando una persona ci ha offeso senza motivo, quando
una persona amata ci viene sottratta dalla morte, è allora, in particolare, che
noi abbiamo bisogno di “consolazione”; abbiamo bisogno di aiuto. Perché è in
queste situazioni che perdiamo il nostro equilibrio, la nostra stabilità, il nostro
sostegno; ci sentiamo spazzare via, ci sentiamo un fuscello in preda alle onde
in tempesta, alle mareggiate. È in questi momenti che abbiamo un bisogno particolare
di vera consolazione; abbiamo bisogno cioè di qualcuno che ci ridia solidità ed
equilibrio. Di qualcuno che con le sue parole e soprattutto con il suo silenzio,
calmi tutte le nostre tempeste; di qualcuno che non ci dica niente ma che ci
assicuri con la sua presenza, con il suo abbraccio, con il suo ascolto; di
qualcuno che non ci giudichi, ma che ci incoraggi.
Molti
pensano che “consolare” significhi esprimere parole di compassione, qualche bella
frase di circostanza. Spesso, soprattutto in certi funerali di “Stato”, sentiamo
rivolte ai familiari dei caduti, frasi importanti, bellissime parole; ma sono
espressioni che sanno di posticcio, di non convinto, di retorica; frasi
diligentemente preconfezionate, che lasciano il tempo che trovano. Consolare invece
significa essere presente nel bisogno, essere di sostegno. Se dobbiamo dire qualcosa,
diciamolo col cuore, da cuore a cuore, trovando le parole giuste nella nostra
anima, perché solo così vanno dritte al cuore dell’altro. Spesso è meglio non
dire niente, ma stare semplicemente con lui, condividere ciò che vive, ciò che
sente: siamo consolatori sinceri e convincenti, solo se siamo vicini alle sue
sofferenze. Condividendole. Non potendo eliminare la sofferenza, possiamo però sempre
dire: “Io ci sono e ci sarò! Forse non ti sarò di aiuto, non potrò toglierti il
dolore, non avrò parole giuste da dirti, forse avrò paura anch’io di ciò che ti
succederà, ma sappi che io sono qui con te e ci rimarrò!”.
Ricordiamoci
e ricordiamogli sempre, che dentro di noi c’è già un Consolatore, il nostro
Consolatore. Quello vero. Quello sempre presente, quello attento. Aspetta solo
che noi ci facciamo vivi. Aspetta un nostro cenno d’intesa, di apertura.
Per
questo, fratelli, quando abbiamo qualche gioia, lodiamolo e ringraziamolo;
quando abbiamo qualche dolore, qualche problema, qualche difficoltà, qualche preoccupazione,
qualche malattia... quando dobbiamo fare delle scelte... quando abbiamo bisogno
di pace, di grazia, di forza, non dimentichiamoci di Lui, ma invochiamolo con
fede, con perseveranza, con fiducia: Egli è il Consolatore potente, la forza;
Egli è l'amore, la tenerezza di Dio, presente e operante nei nostri cuori. È
Lui che ci aiuta a vivere. È Lui che ci aiuta ad affrontare tutti i problemi
dell'esistenza. È Lui infine che ci dà una mano per costruire il ponte che ci
consente di unirci a Lui nell’amore perfetto col Padre e il Figlio. Amen.