«Egli prese i cinque pani e i
due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò
e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a
sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste» (Lc 9, 11b-17).
La
festa di oggi nasce dal miracolo di Bolsena a cui dobbiamo il duomo di Orvieto:
un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino. Così durante
una messa, quando spezza il pane, un po' di sangue scorre dalla piccola ostia.
Dal 1264 questa festa viene estesa a tutta la Chiesa. È la festa
dell’Eucaristia. In tre modi diversi il Signore è stato ed è presente tra noi: con il suo corpo reale, vissuto oltre duemila anni fa; con il pane consacrato, nell'eucarestia (verum Corpus): ogni volta che i cristiani vivono la Cena, Lui è presente in mezzo a loro; infine è presente nel “corpo” delle persone, nella persona del nostro prossimo, dei nostri fratelli (corpus mysticum).
Questa presenza di Cristo mette in luce una grande verità: Dio è visibile solo attraverso un corpo. Dio ha avuto bisogno del corpo di Gesù per incarnarsi e per rendersi visibile personalmente al mondo. Dio ha bisogno di pane e vino per rendersi presente ogni domenica a noi. Dio vive nel corpo e sangue delle persone, di tutto ciò che esiste, che ha vita.
Per tanti secoli si è diviso il corpo dall’anima. Il corpo era il “contenitore” dell'anima. Non aveva valore in sé ma solo in quanto conteneva la parte nobile dell’uomo: l'anima. Per cui tutto ciò che era corpo era insignificante, pericoloso o addirittura diabolico. Così per esempio il corpo della donna per molti secoli è stato il simbolo del peccato, della tentazione; l'affettività è stata negata e repressa come infantilismo e la sessualità è stata catalogata come strumento del diavolo.
Non sono cose così lontane da noi. Quanti di noi da piccoli hanno sofferto per mancanza di affettività da parte di chi ci voleva bene? Si veniva presi in braccio, ma solo per essere cambiati o zittiti dal nostro pianto. Ma gli abbracci? Le coccole? Le carezze? Il contatto pelle a pelle? Il gioco? Quanti di noi oggi sono analfabeti di emozioni! Il linguaggio delle emozioni era una cosa sconosciuta: non sapevamo cosa provavamo, non riuscivamo a dare un nome a ciò che vivevamo, certe emozioni ancora oggi non le conosciamo! Al di là di "bene" e "male" non sapevamo andare!
La rabbia? Ci hanno sempre insegnato che bisogna tenerla dentro, che non bisogna esprimerla, che "non ci si deve arrabbiare". La tristezza? Ah no, non si poteva essere tristi. Bisogna sempre sorridere, fare sempre la bella faccetta e non mostrarci mai tristi, perché un "bravo bambino è sempre felice". La gioia? Mai esprimerla troppo, sempre contenersi, mai esagerare. Quanti di noi vivono ancora con sospetto ogni manifestazione troppo “corporea” della propria gioia. Un abbraccio?: "Se la vuole portare a letto!". Una carezza? "Ci sta provando!". Un bacio sulla guancia? "Un approccio". Eppure, se non proprio san Paolo (Tt 1,15), almeno la scuola ci doveva tranquillizzare attraverso la risposta data da padre Cristoforo di manzoniana memoria al buon fra Fazio, il portinaio, che aveva assistito all’accoglienza notturna in convento di Lucia e Agnese: “Omnia munda mundis”, “tutto è puro per i puri di cuore”! Ma per noi, tutto ciò che era corpo, era comunque pericoloso o negativo. Qual'era allora il modello dell'uomo spirituale? Era Il monaco; colui cioè che si disinteressava completamente del proprio corpo e che, notte e giorno, era rivolto a Dio; colui che fustigava il proprio corpo, lo colpiva, lo mortificava, lo umiliava: ciò era visto come segno di autentica santità! E non si pensava che così facendo si mortificava anche lo Spirito Santo che abitava in noi.
Ebbene, la festa di oggi riabilita il “corpo”: ci dice, praticamente, che Dio stesso non ha potuto farne a meno. Il corpo non è un optional, un di più, un contenitore, un qualcosa da strapazzare. Il corpo è la realtà visibile di ciascuno di noi e di Dio stesso che abita in noi. Noi non siamo un'anima rinchiusa dentro al corpo, una vita dentro un involucro di nome corpo. Ma siamo un'anima “corporeizzata”, un corpo “animato”. Se l'anima sta male, il corpo lo manifesta subito. Se l'anima sta male, anche il corpo sta male. Ce lo insegna Gesù nei miracoli: a leggerli bene, scopriamo che Gesù guariva le persone perché attraverso le malattie fisiche egli vedeva chiaramente le malattie dell'anima. Gesù lavorava così: sapeva che il corpo è lo specchio dell'anima. Guarendo il corpo, guariva l’anima.
Come possiamo credere che nel “pane della domenica” ci sia Cristo se non crediamo che il corpo riveli l'anima, il Dio dentro di noi? Come possiamo credere che un po' di vino, che anche dopo la consacrazione sa sempre di vino come prima, sia il corpo di Cristo se non crediamo che il mondo e tutto ciò che esiste, sia anch’esso “corpo” di Dio, opera delle Sue mani?
Ma non voglio divagare oltre. Torniamo al vangelo.
Dopo una giornata passata interamente con Gesù, che continuava a predicare e a guarire, i dodici si accorgono che si è fatto tardi, e si rendono conto che tutta quella folla (cinquemila uomini) ha bisogno di rifocillarsi; sarebbe bello poterli sfamare tutti, ma con cinque pani e due pesci la cosa è decisamente impossibile. Che si fa? E Gesù tranquillo: "Dategli voi stessi da mangiare!". Anzi prende lui ciò che c'era, lo benedice, lo spezza e lo da a tutti. È il miracolo; ciò che sembrava assolutamente impossibile, accade.
Cosa ci vuol dimostrare con tutto ciò?: che di fronte a certe situazioni apparentemente senza via d'uscita (“erano cinquemila “uomini”, senza contare donne e bambini!), non bisogna mai perdersi d’animo. Bisogna invece lasciarsi coinvolgere ("date voi stessi da mangiare"), partire da quello che c'è, dalla realtà, anche se è poco o sembra insignificante ("cinque pani e due pesci"). Dobbiamo accettare la situazione, prenderla per quello che è, accettare il fatto che se ciascuno fa qualcosa, forse… Se ognuno fa la sua parte (mette quello che ha) può accadere anche l'impossibile". Può succedere il miracolo. Garantito!
Troppo spesso invece, guardando ciò che dobbiamo affrontare, ci lasciamo subito scoraggiare; non abbiamo fede, non abbiamo fiducia in Dio.
Ci guardiamo e diciamo: "Ma non vedi che faccio schifo? Cosa vuoi che riesca a fare? Non sono capace!". Insomma non crediamo in noi, e non credendo in noi, non crediamo in Dio che ci ha creati grandi, unici e figli suoi. Invece dobbiamo prendere quello che siamo, anche se ci sembra poco, anche se ci sembra niente, e fidarci di Lui: siamo convinti di non valere tanto? Ci sembra di non aver grandi doti? Ci sembrano impossibili certe cose? Bene: siamo esattamente nella stessa situazione in cui si trovano gli apostoli nel vangelo di oggi.
E allora facciamo come Gesù: prendiamo quello che siamo (cinque pani e due pesci), e benediciamolo. Benedire in questo caso vuol dire che "diciamo bene" di noi, che crediamo nelle nostre possibilità nascoste e nelle nostre risorse non ancora realizzate, compiute o sviluppate.
Credere in Dio è poter dire: "Questo è quello che sembra e che si vede. Partiamo da quello che siamo, accettiamolo, benediciamo e vedrete che quantità di pane e di pesci c'è dentro di noi!".
Infatti, se Dio è capace di fare di un pezzo di pane il suo Corpo, cosa può fare di noi? Quando andiamo a fare la Comunione e prendiamo nella nostra mano il corpo di Cristo, raccogliamoci nel silenzio e pensiamo: «Quante cose fa un po' di pane! Sembra niente e invece sfama migliaia di persone. Placa la fame d'amore degli uomini, disseta i cuori aridi, indirizza gli sguardi ciechi, trova delle ragioni per vite senza senso, illumina il buio e i tunnel di tanti disperati.
Questo piccolo pane è Dio stesso che viene in noi, che non si vergogna di entrare nella nostra casa, che ha voglia di venirci a trovare, che vuole incontrarci, che vuole saziarci, che vuole amarci. Quando mangiamo questo pane ci sentiamo a casa: Lui viene in noi ma in realtà siamo noi che andiamo da Lui. Lui ci prende così come siamo, senza maschere, né uniformi, né paraventi e ci dice: “Vai bene così. Io sto bene con te quando sei quello che sei, quando ti mostri per quello che sei, senza nasconderti”. Allora tiriamo un grande respiro e sentiamoci finalmente a casa. Infatti se siamo veramente quello che siamo, non abbiamo nulla da dimostrare e da temere.
Quel pane è una forza enorme per noi, è il Signore stesso; il Signore che è dentro di noi; noi stessi siamo Lui. Siamo la stessa cosa: Lui in noi e noi in Lui. E con Lui noi possiamo tutto.
Così quando scappiamo, quando rinunciamo, quando ci rassegniamo, quando facciamo le vittime, non potremo più accampare scuse. Magari pensiamo ancora di non potercela fare, ma Lui è in noi. E continuare a non credere in noi, significa non credere in Lui.
"Corpo di Cristo", ci dice il sacerdote offrendoci la comunione. E non si riferisce solo all’ostia che tiene in mano, ma anche a noi, alle persone che gli stanno di fronte. Pensiamoci, fratelli: e certamente in quel momento sentiremo dentro di noi un fremito, un sussulto, una potenza enorme. E finalmente capiremo che con Lui possiamo veramente qualunque cosa. Amen.
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