«Quando fu vicino alla porta
della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una
madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il
Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: Non piangere!» (Lc
7,11-17).
Una
madre che piange il proprio figlio. Una madre che, con il cuore lacerato dal
dolore, accompagna al sepolcro il suo unico figlio che è morto. Che tragedia la
morte! Solitudine assoluta. Niente ha più un senso, niente ha più valore: tutto
crolla intorno a noi.
“Non
piangere”, le dice Gesù. Ma come si fa a non piangere quando sopraggiunge colei
che per mestiere, imperterrita, ruba e rapina la vita, i nostri affetti più
cari? Guardiamoci intorno: chi non ha dovuto pagare uno scotto tremendo per
averla incontrata nel proprio cammino? Eppure i santi la chiamano “sorella
nostra morte corporale”. E ringraziano Dio perché con il suo passaggio accelera
il momento del loro ricongiungimento col Padre.
Già, i
santi. Ma noi? Siamo sempre pronti ad accogliere questo “ladro” che viene di
notte? C'è poco da scherzare: inutile divertirsi, distrarsi, drogarsi; inutile illudersi,
inutile cercare di dimenticare, inutile rifiutare di pensarci, inutile volerla ignorare
a tutti i costi!
La
verità è una sola: lei c’è e noi al suo arrivo non godiamo di preferenze. Il
nostro passaggio nel tempo è limitato, brevissimo, inconsistente, irrisorio:
eppure ci comportiamo come se fossimo i padroni assoluti del tempo! Pensiamo di
essere eterni, onnipotenti, inattaccabili. Ma poi improvvisamente arriva lei. A
volte improvvisa, a volte con un tragico preavviso. E allora le nostre lacrime.
Lacrime tardive di dolore, di sofferenza, di constatazione della nostra nullità,
dell’irrimediabile da rimediare. Subito. Immediatamente. Perché il domani per
noi non c’è più.
Ecco,
fratelli: questo è il traguardo cui tutti siamo incamminati. Allora, se lo
sappiamo, perché non prepararci? Se non siamo completamente corrosi
dall’indifferenza, dalla stupidità, fermiamoci un istante: scrutiamo dentro la
nostra anima, in fondo al nostro cuore: e vedrete che in fondo a quel tunnel, apparentemente
interminabile, della nostra incapacità, della nostra pochezza, c’è comunque una
luce che brilla, che ci può guidare, l’unica luce che può infonderci la forza per
non arrenderci, per non soccombere, per continuare ad andare avanti, per
migliorare, per vincere qualunque paura: è la luce di Cristo, la luce della
fede. Lui solo può consolare le nostre lacrime: lui ci conosce, sa come fare
per consolarci, per aiutarci, per sorreggerci.
Lui conosce
l’autenticità del nostro dolore. Lui solo è in grado di valutare la nostra
sincerità, la nostra buona volontà. Lui solo può prenderci in braccio quando
non riusciamo più a camminare. Lui solo può raccogliere le nostre lacrime, le
nostre sofferenze e tramutarle in gioia infinita.
Noi
siamo abituati nei nostri lutti a fare grande esibizione del nostro dolore,
delle nostre lacrime. Più sono plateali, più attirano attenzione e amicizia
posticcia in chi ci sta intorno. Ma quando piangiamo di noi stessi, non c'è
bisogno di versare lacrime. Non dobbiamo convincere nessuno. Lui ama il
silenzio e il raccoglimento, non le “conversioni” mediatiche.
È il nostro
cuore che si deve gonfiare di dolore, e anche se all’esterno sembriamo
impassibili, è la nostra anima che deve piangere. Perché sono proprio queste lacrime
silenziose, invisibili, che non passano inosservate agli occhi di Dio. Il
Signore, non ha bisogno di tante parole, di telecamere, di studi televisivi:
egli legge la nostra sincera conversione, la nostra decisione di cambiare vita,
direttamente dentro di noi. Ed è lì che Lui ci viene a consolare, aiutare,
guarire, resuscitare. Si, resuscitare: perché quando la nostra vita va a
rotoli, quando non sappiamo più dove sbattere la testa, quando non abbiamo più neppure
il coraggio di rivolgerci a Lui, quando arriviamo a calpestare anche le sue
offerte d’amore, quando arriviamo perfino a maledirlo, noi siamo decisamente “morti”,
ci comportiamo da “morti”, viviamo da morti: spiritualmente siamo peggio di tanti
zombi.
Ascoltiamo
allora la sua voce. E piangiamo. Piangiamo su noi stessi, sulla nostra
ingratitudine, sulla nostra cecità. E preghiamo: la preghiera che ha commosso
Gesù nel vangelo di oggi, è quella silenziosa, mossa da un dolore composto,
vero, intimo; come quella di una mamma che piange muta, impietrita dal dolore, il
proprio figlio.
Piangere
e pregare Dio non significa urlare, pretendere, imporre che una cosa sia come
vogliamo noi, magari proprio come non deve essere. Che diritti, che autorità abbiamo
per inveire? Ci è stato tutto donato: ampiamente, generosamente donato. Non c’è
alcun motivo di gridare la nostra rabbia; impariamo a trattare Dio solo con
rispetto, con umiltà, con gratitudine, con grande amore; e anche quando
trattiamo col nostro prossimo, facciamolo con l'amore della parola, la dolcezza
di un sorriso, l'esempio della Fede, trasmettendogli la convinzione che dove
non possiamo arrivare noi, ci penserà senz’altro Lui, il Signore.
A cosa
serve disperarsi, urlare, imprecare, dare in escandescenze? Serve solo a dare
cattivo esempio. Significa dimostrare a tutti la nostra debolezza, la nostra inconsistenza,
la nostra povertà mentale. Avere fede è ben altra cosa. È amorevole attesa,
nella convinzione che tutto è nelle Mani di Dio e sarà Lui a risolvere la
situazione come e quando lo riterrà opportuno.
La
fede è amore: quello stesso amore che Dio ha per noi, l'amore di una mamma, di
un padre, che con grande dolore assistono alla rovina del proprio figlio; vedono
il proprio figlio “morire” a poco a poco, fare cose non giuste, buttarsi via,
drogarsi, ribellarsi al bene; e nonostante tutto, gli stanno sempre pazientemente
vicino, continuano a camminare accanto a lui, sperando solo che Gesù passi
nella sua vita e gli accordi la “resurrezione”.
Alla
porta della città di Nain incontriamo due cortei: il corteo di Gesù che dona la
vita e il corteo del morto, di quelli che sono anch’essi morti, perché non
hanno fede, perché vivono con la morte nell’anima; di quelli che, pur avendo
compassione per il prossimo, pur volendolo, non sanno e non possono consolare, non
sanno e non possono guarire. Gesù, invece, che è Vita, sente una compassione diversa,
la vera compassione, quella che ha la potenza di risolvere tutti i problemi.
Egli è il solo che può portare concretamente la misericordia di Dio a coloro
che gemono e piangono.
La
risurrezione di questo ragazzo ne è infatti la chiara dimostrazione: Dio è
misericordia, è potenza: è la potenza della misericordia, la potenza dell’amore
messa al nostro servizio.
Quanta
strada dobbiamo ancora fare, Gesù, solo per iniziare a capire come sei! Ti
chiediamo perdono, Signore, per tutte le volte che nella nostra vita abbiamo pianto
la “morte”, senza mai rivolgere il nostro sguardo fiducioso a Te, l’unico che può
dare la Vita vera; per tutte le volte che abbiamo assistito alla caduta, alla “morte”
dei nostri cari, dei nostri fratelli; per tutte le volte che non abbiamo saputo
sostenere i fratelli più deboli, i fratelli feriti, magari già morti nell’anima,
ma che si fidavano di noi; per tutte le volte che non ci siamo fatti loro compagni
di strada, che non siamo stati solidali con loro; per tutte le volte che non abbiamo
condiviso il loro dolore; per tutte le volte che siamo stati insensibili e
indifferenti al nostro stesso di dolore, al dolore e alle lacrime della nostra
anima: e abbiamo volutamente ignorato il bisogno impellente di una sua
risurrezione. Amen.
«Egli prese i cinque pani e i
due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò
e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a
sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste» (Lc 9, 11b-17).
La
festa di oggi nasce dal miracolo di Bolsena a cui dobbiamo il duomo di Orvieto:
un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino. Così durante
una messa, quando spezza il pane, un po' di sangue scorre dalla piccola ostia.
Dal 1264 questa festa viene estesa a tutta la Chiesa. È la festa
dell’Eucaristia.
In tre
modi diversi il Signore è stato ed è presente tra noi: con il suo corpo reale,
vissuto oltre duemila anni fa; con il pane consacrato, nell'eucarestia (verum
Corpus): ogni volta che i cristiani vivono la Cena, Lui è presente in mezzo a
loro; infine è presente nel “corpo” delle persone, nella persona del nostro
prossimo, dei nostri fratelli (corpus mysticum).
Questa
presenza di Cristo mette in luce una grande verità: Dio è visibile solo
attraverso un corpo. Dio ha avuto bisogno del corpo di Gesù per incarnarsi e
per rendersi visibile personalmente al mondo. Dio ha bisogno di pane e vino per
rendersi presente ogni domenica a noi. Dio vive nel corpo e sangue delle
persone, di tutto ciò che esiste, che ha vita.
Per
tanti secoli si è diviso il corpo dall’anima. Il corpo era il “contenitore”
dell'anima. Non aveva valore in sé ma solo in quanto conteneva la parte nobile dell’uomo: l'anima. Per cui tutto ciò che
era corpo era insignificante, pericoloso o addirittura diabolico. Così per
esempio il corpo della donna per molti secoli è stato il simbolo del peccato,
della tentazione; l'affettività è stata negata e repressa come infantilismo e
la sessualità è stata catalogata come strumento del diavolo.
Non
sono cose così lontane da noi. Quanti di noi da piccoli hanno sofferto per
mancanza di affettività da parte di chi ci voleva bene? Si veniva presi in
braccio, ma solo per essere cambiati o zittiti dal nostro pianto. Ma gli
abbracci? Le coccole? Le carezze? Il contatto pelle a pelle? Il gioco? Quanti
di noi oggi sono analfabeti di emozioni! Il linguaggio delle emozioni era una
cosa sconosciuta: non sapevamo cosa provavamo, non riuscivamo a dare un nome a
ciò che vivevamo, certe emozioni ancora oggi non le conosciamo! Al di là di
"bene" e "male" non sapevamo andare!
La
rabbia? Ci hanno sempre insegnato che bisogna tenerla dentro, che non bisogna
esprimerla, che "non ci si deve arrabbiare". La tristezza? Ah no, non
si poteva essere tristi. Bisogna sempre sorridere, fare sempre la bella faccetta
e non mostrarci mai tristi, perché un "bravo bambino è sempre
felice". La gioia? Mai esprimerla troppo, sempre contenersi, mai
esagerare. Quanti di noi vivono ancora con sospetto ogni manifestazione troppo “corporea”
della propria gioia. Un abbraccio?: "Se la vuole portare a letto!".
Una carezza? "Ci sta provando!". Un bacio sulla guancia? "Un
approccio". Eppure, se non proprio san Paolo (Tt 1,15), almeno la scuola ci doveva tranquillizzare attraverso la
risposta data da padre Cristoforo di manzoniana memoria al buon fra Fazio, il
portinaio, che aveva assistito all’accoglienza notturna in convento di Lucia e
Agnese: “Omnia munda mundis”, “tutto
è puro per i puri di cuore”! Ma per noi, tutto ciò che era corpo, era comunque pericoloso o negativo. Qual'era allora il
modello dell'uomo spirituale? Era Il monaco; colui cioè che si disinteressava
completamente del proprio corpo e che, notte e giorno, era rivolto a Dio; colui
che fustigava il proprio corpo, lo colpiva, lo mortificava, lo umiliava: ciò era
visto come segno di autentica santità! E non si pensava che così facendo si
mortificava anche lo Spirito Santo che abitava in noi.
Ebbene,
la festa di oggi riabilita il “corpo”: ci dice, praticamente, che Dio stesso non
ha potuto farne a meno. Il corpo non è un optional, un di più, un contenitore,
un qualcosa da strapazzare. Il corpo è la realtà visibile di ciascuno di noi e
di Dio stesso che abita in noi. Noi non siamo un'anima rinchiusa dentro al
corpo, una vita dentro un involucro di nome corpo. Ma siamo un'anima “corporeizzata”, un corpo “animato”. Se l'anima sta male, il corpo
lo manifesta subito. Se l'anima sta male, anche il corpo sta male. Ce lo
insegna Gesù nei miracoli: a leggerli bene, scopriamo che Gesù guariva le
persone perché attraverso le malattie fisiche egli vedeva chiaramente le
malattie dell'anima. Gesù lavorava così: sapeva che il corpo è lo specchio
dell'anima. Guarendo il corpo, guariva l’anima.
Come possiamo
credere che nel “pane della domenica” ci sia Cristo se non crediamo che il
corpo riveli l'anima, il Dio dentro di noi? Come possiamo credere che un po' di
vino, che anche dopo la consacrazione sa sempre di vino come prima, sia il
corpo di Cristo se non crediamo che il mondo e tutto ciò che esiste, sia anch’esso
“corpo” di Dio, opera delle Sue mani?
Ma non
voglio divagare oltre. Torniamo al vangelo.
Dopo
una giornata passata interamente con Gesù, che continuava a predicare e a guarire,
i dodici si accorgono che si è fatto tardi, e si rendono conto che tutta quella
folla (cinquemila uomini) ha bisogno di rifocillarsi; sarebbe bello poterli sfamare
tutti, ma con cinque pani e due pesci la cosa è decisamente impossibile. Che si
fa? E Gesù tranquillo: "Dategli voi stessi da mangiare!". Anzi prende
lui ciò che c'era, lo benedice, lo spezza e lo da a tutti. È il miracolo; ciò
che sembrava assolutamente impossibile, accade.
Cosa
ci vuol dimostrare con tutto ciò?: che di fronte a certe situazioni apparentemente
senza via d'uscita (“erano cinquemila “uomini”,
senza contare donne e bambini!), non bisogna mai perdersi d’animo. Bisogna
invece lasciarsi coinvolgere ("date
voi stessi da mangiare"), partire da quello che c'è, dalla realtà,
anche se è poco o sembra insignificante ("cinque
pani e due pesci"). Dobbiamo accettare la situazione, prenderla per
quello che è, accettare il fatto che se ciascuno fa qualcosa, forse… Se ognuno
fa la sua parte (mette quello che ha)
può accadere anche l'impossibile". Può succedere il miracolo. Garantito!
Troppo
spesso invece, guardando ciò che dobbiamo affrontare, ci lasciamo subito scoraggiare;
non abbiamo fede, non abbiamo fiducia in Dio.
Ci guardiamo
e diciamo: "Ma non vedi che faccio schifo? Cosa vuoi che riesca a fare?
Non sono capace!". Insomma non crediamo in noi, e non credendo in noi, non
crediamo in Dio che ci ha creati grandi, unici e figli suoi. Invece dobbiamo
prendere quello che siamo, anche se ci sembra poco, anche se ci sembra niente,
e fidarci di Lui: siamo convinti di non valere tanto? Ci sembra di non aver
grandi doti? Ci sembrano impossibili certe cose? Bene: siamo esattamente nella
stessa situazione in cui si trovano gli apostoli nel vangelo di oggi.
E
allora facciamo come Gesù: prendiamo quello che siamo (cinque pani e due pesci), e benediciamolo. Benedire in questo caso vuol
dire che "diciamo bene" di noi, che crediamo nelle nostre possibilità
nascoste e nelle nostre risorse non ancora realizzate, compiute o sviluppate.
Credere
in Dio è poter dire: "Questo è quello che sembra e che si vede. Partiamo
da quello che siamo, accettiamolo, benediciamo e vedrete che quantità di pane e
di pesci c'è dentro di noi!".
Infatti,
se Dio è capace di fare di un pezzo di pane il suo Corpo, cosa può fare di noi?
Quando andiamo a fare la Comunione e prendiamo nella nostra mano il corpo di
Cristo, raccogliamoci nel silenzio e pensiamo: «Quante cose fa un po' di pane!
Sembra niente e invece sfama migliaia di persone. Placa la fame d'amore degli
uomini, disseta i cuori aridi, indirizza gli sguardi ciechi, trova delle ragioni
per vite senza senso, illumina il buio e i tunnel di tanti disperati.
Questo
piccolo pane è Dio stesso che viene in noi, che non si vergogna di entrare
nella nostra casa, che ha voglia di venirci a trovare, che vuole incontrarci,
che vuole saziarci, che vuole amarci. Quando mangiamo questo pane ci sentiamo a
casa: Lui viene in noi ma in realtà siamo noi che andiamo da Lui. Lui ci prende
così come siamo, senza maschere, né uniformi, né paraventi e ci dice: “Vai bene
così. Io sto bene con te quando sei quello che sei, quando ti mostri per quello
che sei, senza nasconderti”. Allora tiriamo un grande respiro e sentiamoci
finalmente a casa. Infatti se siamo veramente quello che siamo, non abbiamo nulla
da dimostrare e da temere.
Quel
pane è una forza enorme per noi, è il Signore stesso; il Signore che è dentro
di noi; noi stessi siamo Lui. Siamo la stessa cosa: Lui in noi e noi in Lui. E con
Lui noi possiamo tutto.
Così
quando scappiamo, quando rinunciamo, quando ci rassegniamo, quando facciamo le
vittime, non potremo più accampare scuse. Magari pensiamo ancora di non potercela
fare, ma Lui è in noi. E continuare a non credere in noi, significa non credere
in Lui.
"Corpo
di Cristo", ci dice il sacerdote offrendoci la comunione. E non si
riferisce solo all’ostia che tiene in mano, ma anche a noi, alle persone che
gli stanno di fronte. Pensiamoci, fratelli: e certamente in quel momento sentiremo
dentro di noi un fremito, un sussulto, una potenza enorme. E finalmente
capiremo che con Lui possiamo veramente qualunque cosa. Amen.
«Quando verrà lui, lo Spirito
della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma
dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi
glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-15).
Oggi
la chiesa celebra la festa della Trinità: un Dio che è comunione, relazione,
famiglia. Un Dio che non è un'entità di solitudine ma una realtà dinamica, viva,
relazionale.
La
Trinità non è un problema matematico (come conciliare che Dio sia contemporaneamente
Uno e Trino: Padre, Figlio e Spirito Santo) ma è la suprema espressione
dell'esperienza che tutti facciamo dell'amore e della comunione umana.
Ciò
che importa nell'amore infatti è che si resti uniti e non che ci si “fondi”
insieme. È importante donarsi senza perdersi. È quindi importante che rimaniamo
uniti senza uniformarci, e divisi senza essere separati. L'amore vero è quello
trinitario: unito ma non uniforme, separato ma non diviso.
Dietro
alla Trinità, ma anche a tutte le dottrine e i dogmi, c'è l'esperienza di Dio.
Cioè: prima viviamo l'esperienza di Dio e poi capiremo chi è. Non scervelliamoci
per capire cos'è la Trinità, quando non conosciamo Dio. Perché Dio non è un
pensiero, una filosofia, una psicologia, un frutto della ragione, ma Dio è
Vita, cammino, esperienza.
La
chiesa prima ha vissuto l'esperienza di Dio e poi ha capito cosa voleva dire
tutto questo. La Trinità non è frutto di concetti, di filosofie, di “elucubrazioni”;
non è uno sforzo di equilibrismo speculativo, che porta la mente a capire chi è
Dio. Ma è l'esperienza che si fa parola, comprensione. La Trinità è
l'esperienza dei primi discepoli: Gesù, loro amico, loro compagno e loro
maestro, si proclamava figlio di Dio e agiva di conseguenza, da figlio di Dio.
In quell'uomo c'era Dio! In quell'uomo i discepoli sperimentarono un mondo
d'amore, di comunione, di vita così grande, così profonda da non vederne la “fine”.
E utilizzarono l'immagine che più poteva esprimere tutto questo: l’immagine di una
famiglia, con un Padre, un Figlio e il loro amore rappresentato dallo Spirito.
Questa
è la Trinità: la definizione, il dogma e la religione, sono solo la scala per arrivare a quella meta che è
Dio. Quando siamo arrivati alla sommità, lasciamo la scala, perché non ci serve
più. Definizioni, dogmi, teologie, sono solo la strada che ci deve condurre alla meta. Non confondiamo mai la
strada con la meta. Non assolutizziamo mai nessun mezzo, nessuna pratica,
nessuna disciplina. Ogni pratica è buona solo se ci porta a Lui. Se si ferma su
se stessa è assolutamente inutile. La religione può essere di grande aiuto
finché non la poniamo ad un livello superiore a quello di Gesù Cristo.
Quando
diciamo che Dio è Trinità, diciamo dunque l'esperienza dell'amore e della
comunione. Cioè: siamo distinti, e allo stesso tempo uniti; ma mai fusi. Ciò che conta è che lo Spirito ci
tenga uniti, che lo stesso Spirito ci abiti, che ci sia qualcosa che ci leghi.
I
rapporti fra un uomo e una donna, fra una mamma e un figlio, fra amici,
dovrebbero essere così: uniti, ma distinti; diversi, ma non separati. E
l'amore, lo spirito, il profondo, dovrebbero essere la “colla” che li unisce.
Uniti
dunque, ma distinti. Viviamo la gioia dell'amore, facciamo cose insieme,
progetti, figli, condividiamo tempo, ma non fondiamoci, fratelli. Non siamo, né
saremo mai, un'unica cosa. Io sono io e tu sei tu... L'amore, infatti, è la
forza che unisce le nostre due sponde e i nostri due argini.
Ci
sono tante persone che pretendono che gli altri facciano come loro, che si
comportino esattamente come loro hanno stabilito; li vogliono uguali, simili in
tutto, non riescono ad accettare che gli altri siano invece entità diverse o
siano fatti diversamente. Ma un punto di vista rimane sempre e solo la “vista”
da un solo punto di osservazione!
Così molti
genitori pretendono che i figli diventino la loro stessa copia, o come loro li
pensano. Ma se questo accade li rovinano; li derubano della loro personalità.
Se un genitore vuole che il figlio viva per lui (che lo accudisca cioè nella
vecchiaia; che raggiunga i successi che lui non ha ottenuto; che faccia da
genitore ai loro genitori) inverte il rapporto genitore-figlio: è il genitore
che deve accudire e prendersi cura del figlio, non viceversa.
In
molte comunità si parla di unità, di comunione, di fraternità, ma questo, a
volte, vuol dire che chi non fa come gli altri, chi non fa come il capo o come fanno
tutti, è fuori, è escluso.
Dobbiamo
essere sicuramente uniti, ma assolutamente distinti. Io sono io e tu sei tu:
siamo distinti, due vite diverse. Ma siamo uniti perché ciò che unisce è ciò
che condividiamo insieme, è il nostro aprirci e il nostro darci. Se c'è comunione,
se c'è dialogo, se c'è profondità, se c'è apertura, allora qualunque divisione
viene colmata dai nostri cuori, dal nostro amore, dal nostro spirito.
L'unità
pertanto non dipende dal fatto che facciamo le stesse cose insieme, che apparteniamo
ad uno stesso gruppo. L'unità è il frutto del nostro amore, del darci reciprocamente
il nostro spirito, del condividere ciò che di più prezioso e caro abbiamo
dentro.
La
chiesa, le nostre famiglie, le nostre comunità, dovrebbero essere esattamente come
la Trinità: tutti diversi ma uniti. Dovremmo amare esperienze diverse, cammini
non omologati, strade non identiche per tutti. Dovremmo favorire l'unione dei
cuori, degli spiriti, delle anime, non l'uniformità. Dio è così!
La
festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, che è relazione, rapporto.
Una
vita senza relazioni non è degna di essere vissuta; una vita senza relazioni
non si può definire vita. Le relazioni sono lo strumento con cui impariamo a
vivere; le relazioni sono lo strumento con cui noi “portiamo
fuori” la vita che abbiamo in
noi. Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa. Cattive relazioni
vogliono dire una vita sempre risentita.
Inoltre:
avere relazioni è normale, essere capaci di relazionarsi no.
La
festa della Trinità ci invita allora a portare luce sui nostri rapporti e sulle
nostre relazioni. La maggior parte delle persone, invece, non si interroga mai
sulle proprie relazioni. Sono convinte che per il solo fatto di saper parlare, sappiano
anche relazionarsi. Ma non è così.
Alcune
relazioni infatti sono dominate dalla paura; altre sono cariche di troppe aspettative;
molte sono egoistiche, possessive, dettate dalla paura.
Il
vangelo dice: «Ho molte cose ancora da
dirvi, ma per ora non siete capaci di portarne il peso». Sì, ci sarebbero
molte altre cose da dire, ma per ora va bene così. E continua: «Lo Spirito di verità vi guiderà alla verità
tutta intera». È importante che portiamo verità, luce, carità nelle nostre
relazioni, altrimenti i nostri legami di vita diventano i nostri legacci di
morte, le nostre relazioni d'amore, un cappio al collo; altrimenti sono le
relazioni che gestiscono noi, e non noi che gestiamo le nostre relazioni. E
conclude: «Quando verrà lo Spirito di
verità vi guiderà alla verità tutta intera».
Guardiamo
allora, fratelli, alle relazioni d'amore e di verità della Trinità tra Padre,
Figlio e Spirito Santo; specchiamoci in esse; e preghiamo perché anche nella nostra
vita le nostre relazioni siano sempre più vere. Amen.
«Io pregherò il Padre ed egli
vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre… Lui vi insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto » (Gv 14, 15-16. 23-26).
La
Pentecoste non è una festa qualunque dopo la Pasqua: ne è invece l'esplosione nel
mondo. È la festa dello Spirito Santo: Dio non è più presente in carne ed ossa,
non è visibile, ma è presente con il suo Spirito. Dio si è fermato in questo
mondo per sempre: e lo ha fatto “scendendo”.
Prima considerazione: Dio scrive
la nostra storia, scendendo... Dio
scrive la parola eternità, scendendo...
Dio, amore infinito, si mette a disposizione della nostra pochezza, scendendo… Noi invece pensiamo di fare notizia,
di scarabocchiare i nostri nomi nella storia, “salendo”; arrampicandoci, conquistando
visibilità, importanza, potere, popolarità... poveri noi! Quanto è diverso Dio
da noi!
Dio ha
promesso di rimanere per sempre con noi, e c'è realmente! Siccome però non lo vediamo
con gli occhi, molti pensano che non ci sia, che sia tutta una montatura dei
preti; oppure, ammesso anche che ci sia, si comportano come se fosse l’ultima
preoccupazione della loro vita.
La
festa di oggi ci ricorda invece una grande verità, quella verità che Dio ha impresso
nel nostro DNA nell’attimo stesso del nostro concepimento: che Lui è in noi,
che abita stabilmente in noi; proprio Lui, lo Spirito. Lo Spirito, il coordinatore, l’animatore,
il soccorritore, il consigliere, è infatti l'Anima del mondo.
Anima
vuol dire “soffio vitale”. Spirito è una parola che deriva dal greco pneÂma che vuol dire appunto “vita”,
tutto ciò “che respira”. L'uomo quindi ha un'anima perché lo Spirito abita in
lui. L'uomo, come Adamo, è “soffiato” da Dio: è questo il motivo per cui
esiste. Il giorno in cui cesserà di essere “pneuma”, in cui esalerà il suo
ultimo respiro in questa vita, passerà ad una vita puramente “spirituale”, rimarrà cioè
solo “spirito”, “vita”.
Oggi purtroppo,
in questa nostra società, abbiamo completamento perso l’orientamento, non ci curiamo
neppure di sapere ciò che è bene o male, ciò che dobbiamo fare o evitare. Oggi,
più che mai abbiamo assoluto bisogno di Spirito Santo.
Oggi,
abbiamo assoluto bisogno di una nuova Pentecoste, nella Chiesa e nel mondo!
I
potenti della terra sono sempre più assetati di potere, e pensano solo ad aumentarlo,
prevaricando su tutto e tutti; i ricchi mirano soltanto ad accrescere a
dismisura la loro ricchezza, non curandosi in alcun modo dei miserabili che non
hanno di che sfamarsi; i genitori non capiscono più i loro figli e ai figli non
interessa più quel che dicono i genitori; nella famiglia e nella coppia il
dialogo non c’è più, perché ciascuno usa un proprio linguaggio, diverso e
intraducibile; tra un piano e l'altro dello stesso palazzo, o da un lato
all'altro della stessa strada, si aprono voragini incolmabili: al punto che
spesso finiamo per sapere dalla Televisione quello che succede a pochi metri
dal nostro salotto...
Nella
Chiesa stessa, le parole e i gesti dei pastori non scaldano più il cuore, sono
meccanici, consunti dall’uso, e non invogliano più nessuno alla conversione. A chi
è ancora lontano dalla fede, non arrivano più le parole di amore e di vita del
Vangelo, perché affidate a testimoni sempre più frettolosi, freddi, distaccati,
invischiati nel “mestiere”, e diventati irriconoscibili a Cristo stesso...
C'è
bisogno che lo Spirito Santo scenda dal cielo, e come fuoco bruci tutte le
sterpaglie che soffocano il mondo; e soprattutto ripeta ancora una volta il
miracolo delle lingue! Sì, perché in questa nostra società, nonostante i
potentissimi mezzi di comunicazione, non c’è più colloquio, non c’è più
condivisione di gioia, di bellezza, di bontà. Siamo bombardati incessantemente
da sopraffazioni, da cattiveria, da odio, da fango.
Per
questo serve in fretta che si ripeta dal cielo il miracolo dell'Amore, come in
quel lontano giorno di Pentecoste, in cui i pochi Apostoli uscirono dal
cenacolo e fecero capire a tutto il mondo le parole di Gesù e le grandi opere
di Dio.
Ma
torniamo al vangelo di oggi, che ci indica nello Spirito Santo la sua
prerogativa di “Consolatore”.
Consolare,
dal greco parakalo, vuol dire “mandare a chiamare”,
invitare, invocare aiuto, incoraggiare, dire una buona parola.
Ma in
che modo lo Spirito è per noi Consolatore? Semplicemente perché Lui, Dio, è
sempre vicino a noi. Non si distrae, è sempre attento, a nostra completa disposizione.
È discreto, non ci condiziona, non è invadente: aspetta sempre che siamo noi a
fare la prima mossa. Certo, Dio non è, come vorremmo noi, la soluzione ai
nostri limiti, ai nostri problemi. Dio non è un talismano che ci toglie fuori
da ciò che non possiamo risolvere noi. Dio non ci toglie il dolore: ma ci aiuta
a superarlo: saperlo lì, al nostro fianco, saperlo sempre presente, pronto a
darci una mano, beh, questo, se vogliamo, è per noi grande motivo di
consolazione.
E
allora, fratelli, quando soffriamo, quando il dolore sembra insopportabile, non
preghiamo Dio perché ce lo tolga; ma preghiamolo per poter sentire la Sua
presenza accanto a noi, la sua condivisione al nostro dolore; preghiamolo perché
lui possa consolarci come sa fare lui: e vedrete che così il nostro dolore sarà
subito più affrontabile.
Ci sono
infatti momenti della nostra vita in cui nessuno può raggiungerci, in cui siamo
di fronte a scelte strettamente personali, scelte che spettano solo a noi, per
le quali nessuno può sostituirci; scelte in cui ci sentiremo completamente soli
con noi stessi. Ma noi, soli per davvero, non lo siamo mai; perché Lui, il
Consolatore, è sempre al nostro fianco. Ripeto: non prenderà alcuna decisione
al nostro posto, ma sappiamo che lui è lì vicino. Non ci toglierà la solitudine,
ma ci prenderà la mano: perché Lui è il Consolatore.
Quando
viviamo una perdita, quando riceviamo una sconfitta o una ferita, quando c'è
qualcosa che ci fa male, quando una persona ci ha offeso senza motivo, quando
una persona amata ci viene sottratta dalla morte, è allora, in particolare, che
noi abbiamo bisogno di “consolazione”; abbiamo bisogno di aiuto. Perché è in
queste situazioni che perdiamo il nostro equilibrio, la nostra stabilità, il nostro
sostegno; ci sentiamo spazzare via, ci sentiamo un fuscello in preda alle onde
in tempesta, alle mareggiate. È in questi momenti che abbiamo un bisogno particolare
di vera consolazione; abbiamo bisogno cioè di qualcuno che ci ridia solidità ed
equilibrio. Di qualcuno che con le sue parole e soprattutto con il suo silenzio,
calmi tutte le nostre tempeste; di qualcuno che non ci dica niente ma che ci
assicuri con la sua presenza, con il suo abbraccio, con il suo ascolto; di
qualcuno che non ci giudichi, ma che ci incoraggi.
Molti
pensano che “consolare” significhi esprimere parole di compassione, qualche bella
frase di circostanza. Spesso, soprattutto in certi funerali di “Stato”, sentiamo
rivolte ai familiari dei caduti, frasi importanti, bellissime parole; ma sono
espressioni che sanno di posticcio, di non convinto, di retorica; frasi
diligentemente preconfezionate, che lasciano il tempo che trovano. Consolare invece
significa essere presente nel bisogno, essere di sostegno. Se dobbiamo dire qualcosa,
diciamolo col cuore, da cuore a cuore, trovando le parole giuste nella nostra
anima, perché solo così vanno dritte al cuore dell’altro. Spesso è meglio non
dire niente, ma stare semplicemente con lui, condividere ciò che vive, ciò che
sente: siamo consolatori sinceri e convincenti, solo se siamo vicini alle sue
sofferenze. Condividendole. Non potendo eliminare la sofferenza, possiamo però sempre
dire: “Io ci sono e ci sarò! Forse non ti sarò di aiuto, non potrò toglierti il
dolore, non avrò parole giuste da dirti, forse avrò paura anch’io di ciò che ti
succederà, ma sappi che io sono qui con te e ci rimarrò!”.
Ricordiamoci
e ricordiamogli sempre, che dentro di noi c’è già un Consolatore, il nostro
Consolatore. Quello vero. Quello sempre presente, quello attento. Aspetta solo
che noi ci facciamo vivi. Aspetta un nostro cenno d’intesa, di apertura.
Per
questo, fratelli, quando abbiamo qualche gioia, lodiamolo e ringraziamolo;
quando abbiamo qualche dolore, qualche problema, qualche difficoltà, qualche preoccupazione,
qualche malattia... quando dobbiamo fare delle scelte... quando abbiamo bisogno
di pace, di grazia, di forza, non dimentichiamoci di Lui, ma invochiamolo con
fede, con perseveranza, con fiducia: Egli è il Consolatore potente, la forza;
Egli è l'amore, la tenerezza di Dio, presente e operante nei nostri cuori. È
Lui che ci aiuta a vivere. È Lui che ci aiuta ad affrontare tutti i problemi
dell'esistenza. È Lui infine che ci dà una mano per costruire il ponte che ci
consente di unirci a Lui nell’amore perfetto col Padre e il Figlio. Amen.
«Poi li condusse fuori verso
Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da
loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi
tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando
Dio» (Lc 24,46-53).
Questa
mattina sono rimasto un po' più a lungo con il naso all’insù. Scrutavo il cielo
e pensavo al vangelo di oggi; pensavo a Betania, a quell'ultimo saluto di Gesù ai
suoi, a quella benedizione, a quel suo stacco verso il cielo, a quei pochi particolari
che Luca ci racconta nell’ultima pagina del suo Vangelo. Sono in tutto un paio
di versetti nei quali, in estrema sintesi, egli intende dirci: “Gesù è asceso
al cielo: da questo momento non c'è più; ma ora ci siete voi. Quindi voi, la
chiesa, non state lì a fissare il cielo imbambolati, non continuate a guardare in
alto con le mani in mano; datevi da fare! Lui non c'è più, va bene; ma ha
lasciato voi a continuare la sua opera! In tre anni non si è certo risparmiato
nel ripetervi cosa dovete fare”.
È
proprio così, fratelli: Gesù ci ha lasciato. Ma noi siamo qui. C’è la sua
Chiesa. Tocca decisamente a noi, a me, a voi, e non “agli altri”, trovare le
soluzioni ai problemi, come faceva lui per le strade della Palestina. Non continuiamo
a perder tempo chiedendoci per chi suona la campana: la campana suona per noi. Punto.
È ora di muoverci.
Non
dobbiamo temere: non siamo soli: noi, come già gli apostoli, Gesù ce l’abbiamo
sempre nel cuore, dentro di noi. Quando Luca dice che gli apostoli “stavano
sempre nel tempio lodando Dio”, non intendeva dire che giorno e notte essi se
ne stavano rintanati nel tempio: “stare nel tempio” vuol dire rimanere in
contatto con Lui, vuol dire desiderarlo, cercarlo, percepirlo, vederlo, ascoltarlo,
amarlo: dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo.
Anche
Gesù ha passato l’intera sua vita terrena “rinchiuso” nel tempio, dall'inizio
alla fine. Non perché fosse sempre lì. Ma perché era in continuo contatto con il
Padre; lo sentiva, gli parlava. Del resto, possiamo anche essere in chiesa, ma
non per questo siamo nel tempio di Dio; come pure trovarci in qualunque posto di
questo mondo, continuando ad essere nel suo tempio. L’essenziale è rimanere
strettamente “collegati” con Lui.
Purtroppo
gran parte della gente oggi ha perso il collegamento con Dio, è “sconnessa”: lavora,
corre, è affaccendata in mille cose, fa sport, fa palestra, si muove, ride,
canta, sistema la casa, paga le bollette; eppure non c'è. È sempre altrove, non
è mai veramente presente. È sempre lontana da sé, è distante. Fa tantissimo, ma
non sente, è sorda a qualunque richiamo della Vita.
In una
parola è “scollegata” da Dio.
Noi
viviamo illudendoci di poter fare da soli qualunque cosa, indipendentemente da
Dio.
Ma nulla
è lasciato al caso; nulla di ciò che ci riguarda è lontano dal suo sguardo amoroso
di Padre. Egli non ci lascia mai soli: ci conosce troppo bene: Egli conosce perfettamente
tutta la nostra fatica davanti a quel bivio; Lui conosce la nostra gioia per
l'amore ritrovato, Lui conosce la nostra delusione per quel tradimento, Lui
conosce le nostre lacrime ogni volta che passiamo davanti a quel letto vuoto,
Lui conosce il subbuglio del nostro cuore, Lui sa la fatica della distanza, Lui
sa la gioia e lo slancio di questa nuova scelta di vita, Lui sa...
Fratelli,
che Dio stupendo ci ha rivelato Gesù durante la sua permanenza su questa terra!
E che missione impegnativa ci ha affidato prima di salire al cielo!
Sì,
perché ora siamo noi che dobbiamo rendere presente quel Suo Volto, sottratto
alla nostra vista con l'ascensione, a tutto il mondo.
L'annuncio
del Vangelo a tutte le genti, non è stato un suo optional esclusivo, non è
stato riservato soltanto a Gesù. Ma “andate e predicate a tutte le genti…”.
Quindi,
all’interno del nostro tempio, con lo sguardo verso il cielo, noi dobbiamo imparare
a valutare questo mondo, e nell'amore del Signore risorto, dobbiamo impegnarci
a costruirlo in tutto corrispondente al Suo progetto di vita nuova.
Nello
specifico noi, i nuovi discepoli di Gesù, non siamo chiamati a cose eclatanti, ad
abbandonare la terra per guardare solo le cose di lassù; ma dobbiamo vedere
quelle di lassù abitando sulla terra, continuando a camminare su di essa. In
altre parole dobbiamo sì vedere Gesù nella sua gloria, ma dobbiamo anche vedere
l'uomo come figlio di Dio; vedere l'umanità intera come un’unica famiglia;
vedere nel futuro di ogni persona non la morte, ma una vita per sempre... È
questo lo sguardo, fratelli, che l'ascensione del Signore ci sollecita a
coltivare nella nostra vita quotidiana. Nella luce dello Spirito, noi oggi possiamo
finalmente spalancare completamente i nostri occhi, guariti dall'amore di
Cristo; anche se rimangono ancora deboli, fragili e bisognosi di tempo per
abituarsi a questa luce intensissima.
Noi
vediamo Gesù vivere glorioso nel cielo, e vivere misterioso sulla terra. Vive
per mezzo della grazia nell'intimo di ogni cristiano; vive nel sacrificio
eucaristico, e nei tabernacoli del mondo prolunga la sua presenza reale e
redentrice. Vive ed è rimasto con noi nella sua Parola, che risuona nell'intimo
delle coscienze. È rimasto e si fa presente nel papa, nei vescovi, nei
sacerdoti che lo rappresentano davanti agli uomini, che lo prolungano con le
loro labbra e con le loro mani.
È una presenza
reale che ci conforta, ci consola, ci dà pace, ci motiva. Cristo è rimasto con
ciascuno e con tutti noi. La sua è una presenza reale ed efficace, anche se non
è visibile e palpabile. Una presenza di amico che sa ascoltare i nostri segreti
e le nostre intimità con affetto, con pazienza, con bontà, con misericordia e
con amore; che sa allo stesso modo ascoltare le nostre piccole cose di ogni
giorno, benché siano le stesse, benché siano cose senza importanza; che sa
perfino ascoltare le nostre ribellioni interiori, i nostri sfoghi d'ira, le
nostre lacrime di orgoglio, i nostri spropositi in momenti di passione...
Questa
è la consolante realtà: Cristo è rimasto con noi, al nostro fianco, per
ascoltarci. È il nostro compagno di cammino quando tutto va bene, quando il
trionfo corona il nostro sforzo, quando la grazia va conquistando terreno nella
nostra anima. Ma sta con noi anche nel momento della caduta, nella disgrazia
del peccato, per aiutarci a riflettere, per darci una mano al momento di
alzarci. Cristo insomma è rimasto con noi per salvarci. È rimasto con noi,
costruendo con il suo Spirito, dentro di noi, l'uomo interiore, l'uomo nuovo, la
sua “immagine vivente” nella storia.
Noi infatti
siamo chiamati ad essere i "Gesù" di oggi: dobbiamo cioè far conoscere
e sperimentare l'amore di Dio Padre a tutte le persone che incontriamo, alle
persone con le quali viviamo, e soprattutto a quelle che dobbiamo andare a
cercare, per aiutarle nelle cose importanti della fede e della vita.
È
questa la nostra missione: è questo il bello della nostra vita. Una missione,
una grande opera, che non è riservata al Papa, ai vescovi, ai preti o alle
suore; ma è “nostra”, di tutti i cristiani, di tutti i battezzati. Non deve
essere quindi un peso per noi, ma un onore, una gioia; deve essere la “nostra” grande
e unica possibilità, di essere i “sosia” di Gesù Risorto, di poter portare il
suo Volto in tutte le strade del mondo.
È una missione
che, pur se bellissima, noi spesso sentiamo superiore alle nostre forze. È
naturale. Tante volte siamo assaliti dalla paura, ci scoraggiamo, sentiamo tutto
il peso della nostra debolezza, delle nostre deficienze, dei nostri peccati: e ci
ritroviamo poveri di fede e di amore.
Ma non
dobbiamo abbatterci; in questo, lo ripeto, non saremo mai soli: Gesù è sempre
accanto a noi, con la sua promessa, la sua presenza di amore, di perdono, di
fiducia, di incoraggiamento; è con noi con la sua Parola e con la sua
Eucarestia. È inoltre con noi con lo Spirito Santo, che è la potenza, l'amore
infinito del Padre e del Figlio infuso nei nostri cuori, è l’anima e la forza
della Chiesa. E con la forza dello Spirito, credetemi, tutto è possibile.
Allora,
durante questa settimana che ci separa dalla Pentecoste, rifugiamoci tutti nel
cenacolo con Maria, per attendere questo Spirito, questo Consolatore, questo
Avvocato che il Padre ci ha promesso di mandare. È lui che, oltretutto, contribuisce
a mantenere sempre viva in noi la speranza di poter un giorno raggiungere Gesù in
cielo, in quel posto che lui stesso è andato a preparaci. Amen.
«Vi ho detto queste cose mentre
sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre
manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che
io vi ho detto… Vado e tornerò da voi»( Gv 14, 23-29).
Cosa
sta succedendo? Gesù durante il lungo discorso dell’ultima cena, prepara i
discepoli alla sua partenza. Annuncia che se ne va; ma sa che i discepoli sono
turbati e hanno paura. Per questo aggiunge subito: «Vi lascio la pace... Non sia turbato il vostro cuore e non abbia
timore».
Il
dolore degli apostoli è grande, ma Gesù dice: “Tranquilli, amici miei, perché dopo
la mia morte sentirete una presenza dentro di voi che vi sosterrà e che vi darà
forza. Voi adesso soffrite ma la vostra sofferenza sarà cambiata in una gioia
indicibile”. Le parole di Gesù, oltre che a consolare gli apostoli, a
rassicurarli, anticipano l’impensabile che succederà dopo la sua partenza: Egli
sarà sempre con loro, in maniera diversa ma sarà con loro; una nuova realtà
nascerà in loro: lo Spirito di Dio che li proietterà verso una nuova vita.
Anche
noi a volte diciamo tante belle parole: ma le nostre “belle” parole non riescono
a toccare le persone. Scivolano via, non sono convinte, sono solo di
convenienza. A volte basterebbe invece fare silenzio, non dire nulla, ma
esserci. Far sentire la nostra presenza.
“Consolare”
deriva da cum-solus, stare cioè con
chi è solo. Affiancarci. A volte infatti non c'è niente da dire. Non c'è niente
da fare. Si tratta solo di esserci. Di assicurare la nostra “consolante” presenza.
Del resto il dolore, la fatica, l'angoscia, le separazioni, fanno parte della
vita. Ne sono il corollario. Non si possono eliminare. Ma consolare, non è
minimizzare. Consolare non è far finta di niente. Consolare è aiutare ad
affrontare la vita.
Nel
vangelo, il mondo sta per crollare addosso agli apostoli; tutto quello per cui
avevano lottato e vissuto, improvvisamente finisce. L'angoscia li sommerge! Ma
Gesù: “Non abbiate paura amici miei, non sia turbato il vostro cuore. Io
fisicamente non ci sarò più ma continuerò a starvi vicino dentro. Avvertirete
la mia presenza dentro di voi; non vi sentirete mai soli. Credetemi sarà così”.
E fu così.
«Se uno mi ama osserverà la mia
parola; chi non mi ama non osserva le mie parole».
“Osservare”
vuol dire non perdere mai di vista. È proprio del pastore non perdere mai di
vista le sue pecore, perché esse sono tutto ciò che lui ha. Le osserva, le
guarda sempre, le sorveglia dagli attacchi dei lupi e dei predatori.
Qui,
allora, non si parla di “osservanza” nel senso “obbedienza”, di fare cioè
giusto o sbagliato. Si vuol dire: “abbiamo scoperto una verità? Abbiamo trovato
qualcosa che ci riscalda il cuore? Abbiamo finalmente trovato cibo per la
nostra anima? Abbiamo trovato ciò che ci fa vivere? Non perdiamolo! Custodiamolo
con tutto il nostro amore”.
Dobbiamo
proteggere ad ogni costo ciò che è prezioso. Proteggiamo i nostri tesori o ci
verranno rubati. Le parole che Gesù aveva pronunciato durante la sua missione
con gli apostoli, avevano riscaldato il loro cuore, la loro anima; erano state
il loro nutrimento vitale. Ora, se lo amano ancora, le osserveranno; le
custodiranno come un tesoro prezioso e unico.
Rimanere
fedeli a se stessi significa che, stante l’impossibilità di scegliere tutto,
non dobbiamo mai perdere di vista ciò che ci prende l'anima, che ci appassiona
il cuore, che è centrale per la nostra vita. Non facciamoci distrarre. Dobbiamo
invece chiederci sempre: “Noi cosa vogliamo? Di che cosa siamo affamati? Che
cosa ci fa sentire vivi?”.
L'anima
non si accontenta di quello che le passa davanti. L'anima vuole il suo nutrimento, il suo cibo. E una volta che abbiamo individuato ciò che per lei è
vitale, dobbiamo “osservarlo”, conservarlo; dobbiamo custodirlo, fare in modo che
non vada perso.
Oggi il
mondo ci offre migliaia di cose da fare. Se guardiamo a tutto ciò che potremmo
fare, ci scoraggiamo. Il rischio è di essere tirati a destra e manca, di voler fare
di tutto e di più, senza poi arrivare a nulla di concreto. Per questo è
fondamentale conservare sempre per bene il nostro tesoro (ciò che ci fa vivere)
e stare attenti di non finire mai fuori strada. Per questo dobbiamo ogni tanto
fermarci, pregare, e ripartire, avendo ben chiara dentro di noi la direzione
del nostro andare.
Conserviamo
gelosamente le nostre intuizioni: non perdiamole! Quante persone si sono perse,
quante persone hanno dimenticato ciò che appassionava la loro anima. È così che
si muore dentro. Diventando sordi ai suggerimenti della nostra anima.
Conserviamo
anche le nostre relazioni umane: ci sono delle persone che sono per noi come
dei porti, delle ancore di salvezza, dei salvagente nel pericolo. Mai perderle,
mai lasciarle; conserviamole con tutto l'amore possibile, perché esse ci
aiutano a vivere.
Conserviamo
i nostri incontri: ci sono delle esperienze che ci ricaricano, ci fanno
rientrare in noi stessi, ci danno forza ed energia per andare avanti. A volte
la fatica, la stanchezza, ci distolgono da ciò che per noi è vitale. Conserviamo
ciò che riscalda il nostro cuore, ciò che è il sangue e la linfa dell'anima.
Conserviamo
le nostre parole. In certi momenti della vita tutti noi abbiamo percepito dei
richiami, delle parole che ci hanno svegliato, che ci hanno scosso, risuonato
dentro, rimbombato, che abbiamo sentito come nostre. Conserviamole, accarezziamole,
ritorniamoci sopra, custodiamole perché sono il dono di Dio per ciascuno di noi,
sono le indicazioni di chi siamo e di dove andiamo.
Ci
rendiamo conto allora, fratelli, cosa vuol dire avere il Consolatore dentro di noi?
Quando
il mondo ci cade addosso, quando ci ritroviamo di fronte ad una difficoltà
insuperabile, ad un errore colossale, quando dobbiamo fare una scelta che
nessun altro può fare per noi, ed è una scelta difficile o dolorosa, dove andiamo?
Andiamo dentro di noi, rientriamo in noi e cerchiamo, cerchiamo, cerchiamo.
Perché da qualche parte c'è Lui: il Consolatore.
Ecco,
fratelli: il vangelo di oggi ci proietta esattamente dentro di noi, nella
nostra intimità. Perché è lì che abbiamo la nostra forza: lì c'è lo Spirito, lì
c’è il Paraclito, il “Dio in noi”.
La
forza di un uomo è infatti in ciò che ha dentro. A che servirebbe essere forti
all’esterno, belli, grandi, se poi non abbiamo la forza di vivere, di reggere,
di sostenere la nostra vita?
Purtroppo
la società del mondo è preoccupata solo dell’apparenza, dell’esteriore: di essere
più belli, più ricchi, più acclamati, più degli altri. È un'illusione però che
avvelena la vita di milioni di persone. La vera forza, fratelli, sta dentro di
noi: la forza dell’uomo sta nella sua capacità di resistere al dolore, al
rifiuto, all'abbandono, senza evitarli. Per la società invece è “forte” chi non
prova nulla, chi non sente la paura, chi non soffre mai. La forza di un uomo è
l'intensità del suo sguardo, la profondità e la vibrazione del suo tocco. Per
la società è “forte” chi è ammirato e chi ha tutti ai suoi piedi. La forza di
un uomo è la capacità di ascoltarsi, di conoscersi, di seguire cosa accade
dentro di sé, di non vergognarsene, di chiamare per nome ogni cosa. Per la
società è “forte” chi fa sempre il furbo, chi se la cava sempre, chi sa
mascherare e mascherarsi. La forza di un uomo è inchinarsi e chiedere perdono
quando sbaglia; senza scendere a compromessi con la propria coscienza, con la
propria dignità e integrità. Per la società è “forte” chi come il camaleonte si
adatta a tutto e ne viene sempre fuori bene.
Quando
guardiamo un albero diciamo: “Che belle foglie; com'è alto! E che fiori! E che
frutti meravigliosi!”. Ma in realtà dobbiamo dire: “Le sue radici sono profonde
e ben radicate; la linfa scorre senza ostacoli e senza barriere; dentro è vivo
e pieno di vita che emerge ed esce all’esterno”. Ed guardiamo anche la nostra
vita. Sapendo bene che ciò che vediamo al di fuori è la conseguenza esatta di
ciò che abbiamo dentro. E se non ci piace il fuori, l’unica cosa da fare è cambiare
il dentro. Amen.
«Vi do un comandamento nuovo:
che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi
gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete
amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 31-33a. 34-35).
Sono parole
che Gesù pronuncia durante l'Ultima Cena in un contesto di grande intimità: ma
anche di tradimento. Gesù si apre con i suoi discepoli, e comunica loro ciò che
più gli sta a cuore. Sono le sue ultime parole, e come spesso accade, le ultime
parole di una persona racchiudono tutta la sua vita, sono il centro della sua vita.
Il
contesto di questo vangelo ci aiuta a capire che non c'è intimità senza la
possibilità del tradimento. Il tradimento mentale è molto più del semplice
tradimento fisico.
Anche
Gesù sperimentò il tradimento: Giuda (uno dei suoi) lo consegnò ai nemici;
Pietro lo rifiutò, lo rinnegò, lo disconobbe quando era il momento di
difenderlo; le folle lo seguivano e lo acclamavano, ma quando venne l’occasione
per sorreggerlo, lo lasciarono solo.
C'è un
intimo legame tra “confidarsi” e “tradire”, tra amore e vulnerabilità.
Non possiamo conoscere l'intimità se
non vinciamo la paura di rimanere feriti
nell’anima.
Tutti
noi vorremmo una garanzia per la nostra intimità: tutti sappiamo quanto sia
difficile aprirsi, farsi vedere per quello che si è veramente, svelare le
nostre zone di luce e le nostre zone d’ombra. Vorremmo pertanto essere certi
che quando lo faremo, non saremo traditi.
Ma
nessuno può garantirci questo. Fa parte dell'aprirsi, la possibilità di essere derisi, svergognati, traditi, non
compresi, giudicati.
Se ci
apriamo possiamo dunque essere feriti. Ma qual è l'alternativa? Rimanere chiusi
per sempre? Ma essere adulti, essere come Gesù, vuol dire però aprirci; concederci
agli altri, dare fiducia agli altri; renderci vulnerabili, correndo anche il
rischio del tradimento.
Non
c'è amore senza apertura. E ogni
apertura vuol dire “spazio aperto”
dove qualcuno ci può anche pugnalare alle spalle.
Ogni
volta che recitiamo il Padre Nostro noi apriamo le mani; è un gesto con un significato
molto profondo: vivere, aprirsi, mostrarsi, far entrare qualcuno nel nostro intimo
e nella nostra vulnerabilità, è un rischio, ma ne vale la pena; per questo
chiediamo a Dio di avere il coraggio e la forza per farlo.
Poi, il
vangelo, in due versetti, usa per ben cinque volte il termine “gloria” (dçxa).
Per
noi è incomprensibile questa parola. Quando pensiamo a “gloria” normalmente pensiamo
a personaggi famosi, a quelli che hanno notorietà, potere e riconoscimenti. Gloria è fare qualcosa per cui saremo ricordati
per sempre, non saremo mai dimenticati; gloria
è essere conosciuti da tutti; gloria
è essere ammirati da tutti; gloria è
arrivare molto in alto.
Ma “gloria” (da dokw) vuol dire letteralmente “mostrarsi,
farsi vedere”. La gloria è quando Dio si fa vedere nella nostra vita. Dio non si
fa vedere materialmente, ma può “rivelarsi”,
e noi in questo modo lo possiamo riconoscere. Noi viviamo le nostre giornate,
ma in certe situazioni Dio ci si mostra: questa è “gloria”. Viviamo le nostre giornate, ma in certe nostre parole, in
certi nostri comportamenti, in certe nostre scelte, Dio si dà a vedere.
Gesù “glorifica” Dio, perché la sua vita è
stata trasparente: in Lui Dio si è reso visibile. L'uomo è “gloria” di Dio quando nella sua vita
autentica Dio emerge.
Talvolta
succede che nella vita di tutti i giorni, si apra una finestra sull'invisibile,
sulla luce vera del mondo; e i raggi dello spirito entrano nella nostra vita
materiale.
Allora
accade che l'Oltre si fa presente in maniera indelebile nella nostra vita e
lascia un segno che non possiamo assolutamente cancellare.
Questa
è gloria: sentire anche solo per un
attimo la Voce e vedere anche per un solo istante la Luce. La gloria umana è
sentirsi Dio, divino, potente, immortale. Ma questa non è gloria, è idolatria. La vera gloria
non è sentirsi Dio, ma sentire Dio, vederlo, percepirlo, riconoscerlo. Ci entra
dentro qualcosa che non potrà mai più uscire, qualcosa che non ci lascerà mai
più.
Poi il
vangelo prosegue dicendo: “Vi do un
comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. È un comandamento
nuovo? Un po' sì perché per un ebreo l'amore era riservato a quelli della
propria famiglia o al massimo a quelli della propria gente. È una piccola
novità, in effetti. Ma non è questa la vera novità.
La
vera novità è contenuta nella riga successiva: “Come io vi ho amato”. Questo è il criterio: amare, come Gesù ci ha
amati. Questo determina, mostra, rivela l'essere o meno discepoli di Gesù: “Da questo sapranno che siete miei discepoli:
se avrete amore gli uni gli altri, come io vi ho amati”.
I
primi cristiani erano testimoni di questo: si amavano in maniera diversa da
tutti gli altri. C'era un di più, un diverso, una libertà maggiore, un perdono
più vero e profondo, una gioia non comune. Quando la gente comune li guardava
diceva: “Quelli si amano proprio, per
davvero!”.
Con
queste parole Gesù capovolge le nostre categorie religiose. Per noi è “cristiano”,
cioè “di Cristo”, chi è battezzato, va a messa, rispetta certe regole e certe
norme.
Ma per
Gesù è “cristiano”, è “suo discepolo”, chi ama
come Lui ha amato.
“Dio è amore”, dice Giovanni: dove c'è
qualcuno che ama nella verità, lì c'è Dio. Ma possiamo anche dire il contrario:
“L'Amore è Dio”. Andare dove qualcuno
ama veramente, è andare da Dio.
Con
l'espressione “per il tuo bene” o “per amore” si sono compiute le peggiori
atrocità.
Attenzione
allora alla parola “amore”: può comprendere
tutto e il contrario di tutto.
Gesù
non fece grandi discorsi sull'amore. Gesù si focalizzò sulle persone. Mentre
l'ebreo di fronte a certe persone si chiedeva: “Questo lo devo amare o no?”,
Gesù non si fece mai questo problema. Quando vedeva le persone, se ne prendeva
cura e basta.
A
volte le amò e cambiò loro la vita; altre volte le guarì dai loro mali fisici e
spirituali; altre volte semplicemente le accettò per quello che erano,
riconoscendo che più di quello non potevano dare.
L'amore
è fare sempre il vero bene dell'altro. Amore è prendere l'altro dov'è, e
aiutarlo nella sua situazione. Amare non è “fare nuovi cristiani, convertire”;
Madre Teresa diceva: “Esiste un solo Dio, ed egli è il Dio di tutti. Perciò è
importante vedere tutti gli uomini come uguali davanti a Dio. Io ho sempre
detto che dobbiamo aiutare un indù a diventare un indù migliore, un musulmano a
diventare un musulmano migliore, e un cattolico a diventare un cattolico
migliore”.
L'amore
si impara vivendo nell'incontro con i volti delle persone; l'amore s'impara
amando. A ben pensarci nessuno di noi sa amare. Possiamo imparare cos'è,
maturando sempre di più con la vita ciò che altrimenti è solo un concetto.
Quando nasce, il bambino “ama” sua madre, ma non è amore: è bisogno assoluto,
dipendenza totale, egoismo (senza di lei muore). Molte persone sono rimaste a
questo livello di amore.
L'amore
è passione, sentimento: per Gesù l'amore è passione per la vita fino alla
morte. Gesù entrava dentro ad ogni cosa con tutto se stesso e con la forza di
tutte le sue emozioni. Quando c'era da essere felice lo era pienamente; quando
era toccato dal dolore della gente, lo era profondamente; quando amava, amava
così autenticamente che l'altro guariva; in ogni cosa era dentro del tutto. Per
il cristianesimo amore è dare, donare, donarsi, lasciarsi toccare da ciò che si
vede. Se non c'è gratuità non c'è amore. Se tutto viene misurato in base a ciò
che si dà e in base a ciò che si riceve, allora c'è economia: ti do questo e tu
mi dai questo. Ma non c’è amore. L'amore vero non fa soldi (infatti fa felici)
perché in sé è sprecone. Dà e non gli interessa il ritorno.
L'amore
è ciò che non muore, è la non-morte (a-mors).
L'amore fa vivere oggi e ci farà vivere domani. È l'unica cosa che ci fa vivere
perché è la non-morte. L'amore è la Vita, è ciò che non può morire e che
resterà per sempre.
Ecco,
fratelli: queste sono soltanto alcune delle dimensioni dell'amore. Ma in fin
dei conti non conta neppure conoscerle tutte. Non conta, infatti, sapere tanto cos'è
l'amore, ma amare tanto. Viviamo la forza dell'amore: amiamo, guardando a Gesù.
Solo così sapremo e conosceremo l'amore. Amen.