«Io pregherò il Padre ed egli
vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre… Lui vi insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto » (Gv 14, 15-16. 23-26).
La
Pentecoste non è una festa qualunque dopo la Pasqua: ne è invece l'esplosione nel
mondo. È la festa dello Spirito Santo: Dio non è più presente in carne ed ossa,
non è visibile, ma è presente con il suo Spirito. Dio si è fermato in questo
mondo per sempre: e lo ha fatto “scendendo”.
Prima considerazione: Dio scrive
la nostra storia, scendendo... Dio
scrive la parola eternità, scendendo...
Dio, amore infinito, si mette a disposizione della nostra pochezza, scendendo… Noi invece pensiamo di fare notizia,
di scarabocchiare i nostri nomi nella storia, “salendo”; arrampicandoci, conquistando
visibilità, importanza, potere, popolarità... poveri noi! Quanto è diverso Dio
da noi!
Dio ha
promesso di rimanere per sempre con noi, e c'è realmente! Siccome però non lo vediamo
con gli occhi, molti pensano che non ci sia, che sia tutta una montatura dei
preti; oppure, ammesso anche che ci sia, si comportano come se fosse l’ultima
preoccupazione della loro vita.
La
festa di oggi ci ricorda invece una grande verità, quella verità che Dio ha impresso
nel nostro DNA nell’attimo stesso del nostro concepimento: che Lui è in noi,
che abita stabilmente in noi; proprio Lui, lo Spirito. Lo Spirito, il coordinatore, l’animatore,
il soccorritore, il consigliere, è infatti l'Anima del mondo.
Anima
vuol dire “soffio vitale”. Spirito è una parola che deriva dal greco pneÂma che vuol dire appunto “vita”,
tutto ciò “che respira”. L'uomo quindi ha un'anima perché lo Spirito abita in
lui. L'uomo, come Adamo, è “soffiato” da Dio: è questo il motivo per cui
esiste. Il giorno in cui cesserà di essere “pneuma”, in cui esalerà il suo
ultimo respiro in questa vita, passerà ad una vita puramente “spirituale”, rimarrà cioè
solo “spirito”, “vita”.
Oggi purtroppo,
in questa nostra società, abbiamo completamento perso l’orientamento, non ci curiamo
neppure di sapere ciò che è bene o male, ciò che dobbiamo fare o evitare. Oggi,
più che mai abbiamo assoluto bisogno di Spirito Santo.
Oggi,
abbiamo assoluto bisogno di una nuova Pentecoste, nella Chiesa e nel mondo!
I
potenti della terra sono sempre più assetati di potere, e pensano solo ad aumentarlo,
prevaricando su tutto e tutti; i ricchi mirano soltanto ad accrescere a
dismisura la loro ricchezza, non curandosi in alcun modo dei miserabili che non
hanno di che sfamarsi; i genitori non capiscono più i loro figli e ai figli non
interessa più quel che dicono i genitori; nella famiglia e nella coppia il
dialogo non c’è più, perché ciascuno usa un proprio linguaggio, diverso e
intraducibile; tra un piano e l'altro dello stesso palazzo, o da un lato
all'altro della stessa strada, si aprono voragini incolmabili: al punto che
spesso finiamo per sapere dalla Televisione quello che succede a pochi metri
dal nostro salotto...
Nella
Chiesa stessa, le parole e i gesti dei pastori non scaldano più il cuore, sono
meccanici, consunti dall’uso, e non invogliano più nessuno alla conversione. A chi
è ancora lontano dalla fede, non arrivano più le parole di amore e di vita del
Vangelo, perché affidate a testimoni sempre più frettolosi, freddi, distaccati,
invischiati nel “mestiere”, e diventati irriconoscibili a Cristo stesso...
C'è
bisogno che lo Spirito Santo scenda dal cielo, e come fuoco bruci tutte le
sterpaglie che soffocano il mondo; e soprattutto ripeta ancora una volta il
miracolo delle lingue! Sì, perché in questa nostra società, nonostante i
potentissimi mezzi di comunicazione, non c’è più colloquio, non c’è più
condivisione di gioia, di bellezza, di bontà. Siamo bombardati incessantemente
da sopraffazioni, da cattiveria, da odio, da fango.
Per
questo serve in fretta che si ripeta dal cielo il miracolo dell'Amore, come in
quel lontano giorno di Pentecoste, in cui i pochi Apostoli uscirono dal
cenacolo e fecero capire a tutto il mondo le parole di Gesù e le grandi opere
di Dio.
Ma
torniamo al vangelo di oggi, che ci indica nello Spirito Santo la sua
prerogativa di “Consolatore”.
Consolare,
dal greco parakalo, vuol dire “mandare a chiamare”,
invitare, invocare aiuto, incoraggiare, dire una buona parola.
Ma in
che modo lo Spirito è per noi Consolatore? Semplicemente perché Lui, Dio, è
sempre vicino a noi. Non si distrae, è sempre attento, a nostra completa disposizione.
È discreto, non ci condiziona, non è invadente: aspetta sempre che siamo noi a
fare la prima mossa. Certo, Dio non è, come vorremmo noi, la soluzione ai
nostri limiti, ai nostri problemi. Dio non è un talismano che ci toglie fuori
da ciò che non possiamo risolvere noi. Dio non ci toglie il dolore: ma ci aiuta
a superarlo: saperlo lì, al nostro fianco, saperlo sempre presente, pronto a
darci una mano, beh, questo, se vogliamo, è per noi grande motivo di
consolazione.
E
allora, fratelli, quando soffriamo, quando il dolore sembra insopportabile, non
preghiamo Dio perché ce lo tolga; ma preghiamolo per poter sentire la Sua
presenza accanto a noi, la sua condivisione al nostro dolore; preghiamolo perché
lui possa consolarci come sa fare lui: e vedrete che così il nostro dolore sarà
subito più affrontabile.
Ci sono
infatti momenti della nostra vita in cui nessuno può raggiungerci, in cui siamo
di fronte a scelte strettamente personali, scelte che spettano solo a noi, per
le quali nessuno può sostituirci; scelte in cui ci sentiremo completamente soli
con noi stessi. Ma noi, soli per davvero, non lo siamo mai; perché Lui, il
Consolatore, è sempre al nostro fianco. Ripeto: non prenderà alcuna decisione
al nostro posto, ma sappiamo che lui è lì vicino. Non ci toglierà la solitudine,
ma ci prenderà la mano: perché Lui è il Consolatore.
Quando
viviamo una perdita, quando riceviamo una sconfitta o una ferita, quando c'è
qualcosa che ci fa male, quando una persona ci ha offeso senza motivo, quando
una persona amata ci viene sottratta dalla morte, è allora, in particolare, che
noi abbiamo bisogno di “consolazione”; abbiamo bisogno di aiuto. Perché è in
queste situazioni che perdiamo il nostro equilibrio, la nostra stabilità, il nostro
sostegno; ci sentiamo spazzare via, ci sentiamo un fuscello in preda alle onde
in tempesta, alle mareggiate. È in questi momenti che abbiamo un bisogno particolare
di vera consolazione; abbiamo bisogno cioè di qualcuno che ci ridia solidità ed
equilibrio. Di qualcuno che con le sue parole e soprattutto con il suo silenzio,
calmi tutte le nostre tempeste; di qualcuno che non ci dica niente ma che ci
assicuri con la sua presenza, con il suo abbraccio, con il suo ascolto; di
qualcuno che non ci giudichi, ma che ci incoraggi.
Molti
pensano che “consolare” significhi esprimere parole di compassione, qualche bella
frase di circostanza. Spesso, soprattutto in certi funerali di “Stato”, sentiamo
rivolte ai familiari dei caduti, frasi importanti, bellissime parole; ma sono
espressioni che sanno di posticcio, di non convinto, di retorica; frasi
diligentemente preconfezionate, che lasciano il tempo che trovano. Consolare invece
significa essere presente nel bisogno, essere di sostegno. Se dobbiamo dire qualcosa,
diciamolo col cuore, da cuore a cuore, trovando le parole giuste nella nostra
anima, perché solo così vanno dritte al cuore dell’altro. Spesso è meglio non
dire niente, ma stare semplicemente con lui, condividere ciò che vive, ciò che
sente: siamo consolatori sinceri e convincenti, solo se siamo vicini alle sue
sofferenze. Condividendole. Non potendo eliminare la sofferenza, possiamo però sempre
dire: “Io ci sono e ci sarò! Forse non ti sarò di aiuto, non potrò toglierti il
dolore, non avrò parole giuste da dirti, forse avrò paura anch’io di ciò che ti
succederà, ma sappi che io sono qui con te e ci rimarrò!”.
Ricordiamoci
e ricordiamogli sempre, che dentro di noi c’è già un Consolatore, il nostro
Consolatore. Quello vero. Quello sempre presente, quello attento. Aspetta solo
che noi ci facciamo vivi. Aspetta un nostro cenno d’intesa, di apertura.
Per
questo, fratelli, quando abbiamo qualche gioia, lodiamolo e ringraziamolo;
quando abbiamo qualche dolore, qualche problema, qualche difficoltà, qualche preoccupazione,
qualche malattia... quando dobbiamo fare delle scelte... quando abbiamo bisogno
di pace, di grazia, di forza, non dimentichiamoci di Lui, ma invochiamolo con
fede, con perseveranza, con fiducia: Egli è il Consolatore potente, la forza;
Egli è l'amore, la tenerezza di Dio, presente e operante nei nostri cuori. È
Lui che ci aiuta a vivere. È Lui che ci aiuta ad affrontare tutti i problemi
dell'esistenza. È Lui infine che ci dà una mano per costruire il ponte che ci
consente di unirci a Lui nell’amore perfetto col Padre e il Figlio. Amen.
«Poi li condusse fuori verso
Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da
loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi
tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando
Dio» (Lc 24,46-53).
Questa
mattina sono rimasto un po' più a lungo con il naso all’insù. Scrutavo il cielo
e pensavo al vangelo di oggi; pensavo a Betania, a quell'ultimo saluto di Gesù ai
suoi, a quella benedizione, a quel suo stacco verso il cielo, a quei pochi particolari
che Luca ci racconta nell’ultima pagina del suo Vangelo. Sono in tutto un paio
di versetti nei quali, in estrema sintesi, egli intende dirci: “Gesù è asceso
al cielo: da questo momento non c'è più; ma ora ci siete voi. Quindi voi, la
chiesa, non state lì a fissare il cielo imbambolati, non continuate a guardare in
alto con le mani in mano; datevi da fare! Lui non c'è più, va bene; ma ha
lasciato voi a continuare la sua opera! In tre anni non si è certo risparmiato
nel ripetervi cosa dovete fare”.
È
proprio così, fratelli: Gesù ci ha lasciato. Ma noi siamo qui. C’è la sua
Chiesa. Tocca decisamente a noi, a me, a voi, e non “agli altri”, trovare le
soluzioni ai problemi, come faceva lui per le strade della Palestina. Non continuiamo
a perder tempo chiedendoci per chi suona la campana: la campana suona per noi. Punto.
È ora di muoverci.
Non
dobbiamo temere: non siamo soli: noi, come già gli apostoli, Gesù ce l’abbiamo
sempre nel cuore, dentro di noi. Quando Luca dice che gli apostoli “stavano
sempre nel tempio lodando Dio”, non intendeva dire che giorno e notte essi se
ne stavano rintanati nel tempio: “stare nel tempio” vuol dire rimanere in
contatto con Lui, vuol dire desiderarlo, cercarlo, percepirlo, vederlo, ascoltarlo,
amarlo: dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo.
Anche
Gesù ha passato l’intera sua vita terrena “rinchiuso” nel tempio, dall'inizio
alla fine. Non perché fosse sempre lì. Ma perché era in continuo contatto con il
Padre; lo sentiva, gli parlava. Del resto, possiamo anche essere in chiesa, ma
non per questo siamo nel tempio di Dio; come pure trovarci in qualunque posto di
questo mondo, continuando ad essere nel suo tempio. L’essenziale è rimanere
strettamente “collegati” con Lui.
Purtroppo
gran parte della gente oggi ha perso il collegamento con Dio, è “sconnessa”: lavora,
corre, è affaccendata in mille cose, fa sport, fa palestra, si muove, ride,
canta, sistema la casa, paga le bollette; eppure non c'è. È sempre altrove, non
è mai veramente presente. È sempre lontana da sé, è distante. Fa tantissimo, ma
non sente, è sorda a qualunque richiamo della Vita.
In una
parola è “scollegata” da Dio.
Noi
viviamo illudendoci di poter fare da soli qualunque cosa, indipendentemente da
Dio.
Ma nulla
è lasciato al caso; nulla di ciò che ci riguarda è lontano dal suo sguardo amoroso
di Padre. Egli non ci lascia mai soli: ci conosce troppo bene: Egli conosce perfettamente
tutta la nostra fatica davanti a quel bivio; Lui conosce la nostra gioia per
l'amore ritrovato, Lui conosce la nostra delusione per quel tradimento, Lui
conosce le nostre lacrime ogni volta che passiamo davanti a quel letto vuoto,
Lui conosce il subbuglio del nostro cuore, Lui sa la fatica della distanza, Lui
sa la gioia e lo slancio di questa nuova scelta di vita, Lui sa...
Fratelli,
che Dio stupendo ci ha rivelato Gesù durante la sua permanenza su questa terra!
E che missione impegnativa ci ha affidato prima di salire al cielo!
Sì,
perché ora siamo noi che dobbiamo rendere presente quel Suo Volto, sottratto
alla nostra vista con l'ascensione, a tutto il mondo.
L'annuncio
del Vangelo a tutte le genti, non è stato un suo optional esclusivo, non è
stato riservato soltanto a Gesù. Ma “andate e predicate a tutte le genti…”.
Quindi,
all’interno del nostro tempio, con lo sguardo verso il cielo, noi dobbiamo imparare
a valutare questo mondo, e nell'amore del Signore risorto, dobbiamo impegnarci
a costruirlo in tutto corrispondente al Suo progetto di vita nuova.
Nello
specifico noi, i nuovi discepoli di Gesù, non siamo chiamati a cose eclatanti, ad
abbandonare la terra per guardare solo le cose di lassù; ma dobbiamo vedere
quelle di lassù abitando sulla terra, continuando a camminare su di essa. In
altre parole dobbiamo sì vedere Gesù nella sua gloria, ma dobbiamo anche vedere
l'uomo come figlio di Dio; vedere l'umanità intera come un’unica famiglia;
vedere nel futuro di ogni persona non la morte, ma una vita per sempre... È
questo lo sguardo, fratelli, che l'ascensione del Signore ci sollecita a
coltivare nella nostra vita quotidiana. Nella luce dello Spirito, noi oggi possiamo
finalmente spalancare completamente i nostri occhi, guariti dall'amore di
Cristo; anche se rimangono ancora deboli, fragili e bisognosi di tempo per
abituarsi a questa luce intensissima.
Noi
vediamo Gesù vivere glorioso nel cielo, e vivere misterioso sulla terra. Vive
per mezzo della grazia nell'intimo di ogni cristiano; vive nel sacrificio
eucaristico, e nei tabernacoli del mondo prolunga la sua presenza reale e
redentrice. Vive ed è rimasto con noi nella sua Parola, che risuona nell'intimo
delle coscienze. È rimasto e si fa presente nel papa, nei vescovi, nei
sacerdoti che lo rappresentano davanti agli uomini, che lo prolungano con le
loro labbra e con le loro mani.
È una presenza
reale che ci conforta, ci consola, ci dà pace, ci motiva. Cristo è rimasto con
ciascuno e con tutti noi. La sua è una presenza reale ed efficace, anche se non
è visibile e palpabile. Una presenza di amico che sa ascoltare i nostri segreti
e le nostre intimità con affetto, con pazienza, con bontà, con misericordia e
con amore; che sa allo stesso modo ascoltare le nostre piccole cose di ogni
giorno, benché siano le stesse, benché siano cose senza importanza; che sa
perfino ascoltare le nostre ribellioni interiori, i nostri sfoghi d'ira, le
nostre lacrime di orgoglio, i nostri spropositi in momenti di passione...
Questa
è la consolante realtà: Cristo è rimasto con noi, al nostro fianco, per
ascoltarci. È il nostro compagno di cammino quando tutto va bene, quando il
trionfo corona il nostro sforzo, quando la grazia va conquistando terreno nella
nostra anima. Ma sta con noi anche nel momento della caduta, nella disgrazia
del peccato, per aiutarci a riflettere, per darci una mano al momento di
alzarci. Cristo insomma è rimasto con noi per salvarci. È rimasto con noi,
costruendo con il suo Spirito, dentro di noi, l'uomo interiore, l'uomo nuovo, la
sua “immagine vivente” nella storia.
Noi infatti
siamo chiamati ad essere i "Gesù" di oggi: dobbiamo cioè far conoscere
e sperimentare l'amore di Dio Padre a tutte le persone che incontriamo, alle
persone con le quali viviamo, e soprattutto a quelle che dobbiamo andare a
cercare, per aiutarle nelle cose importanti della fede e della vita.
È
questa la nostra missione: è questo il bello della nostra vita. Una missione,
una grande opera, che non è riservata al Papa, ai vescovi, ai preti o alle
suore; ma è “nostra”, di tutti i cristiani, di tutti i battezzati. Non deve
essere quindi un peso per noi, ma un onore, una gioia; deve essere la “nostra” grande
e unica possibilità, di essere i “sosia” di Gesù Risorto, di poter portare il
suo Volto in tutte le strade del mondo.
È una missione
che, pur se bellissima, noi spesso sentiamo superiore alle nostre forze. È
naturale. Tante volte siamo assaliti dalla paura, ci scoraggiamo, sentiamo tutto
il peso della nostra debolezza, delle nostre deficienze, dei nostri peccati: e ci
ritroviamo poveri di fede e di amore.
Ma non
dobbiamo abbatterci; in questo, lo ripeto, non saremo mai soli: Gesù è sempre
accanto a noi, con la sua promessa, la sua presenza di amore, di perdono, di
fiducia, di incoraggiamento; è con noi con la sua Parola e con la sua
Eucarestia. È inoltre con noi con lo Spirito Santo, che è la potenza, l'amore
infinito del Padre e del Figlio infuso nei nostri cuori, è l’anima e la forza
della Chiesa. E con la forza dello Spirito, credetemi, tutto è possibile.
Allora,
durante questa settimana che ci separa dalla Pentecoste, rifugiamoci tutti nel
cenacolo con Maria, per attendere questo Spirito, questo Consolatore, questo
Avvocato che il Padre ci ha promesso di mandare. È lui che, oltretutto, contribuisce
a mantenere sempre viva in noi la speranza di poter un giorno raggiungere Gesù in
cielo, in quel posto che lui stesso è andato a preparaci. Amen.
«Vi ho detto queste cose mentre
sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre
manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che
io vi ho detto… Vado e tornerò da voi»( Gv 14, 23-29).
Cosa
sta succedendo? Gesù durante il lungo discorso dell’ultima cena, prepara i
discepoli alla sua partenza. Annuncia che se ne va; ma sa che i discepoli sono
turbati e hanno paura. Per questo aggiunge subito: «Vi lascio la pace... Non sia turbato il vostro cuore e non abbia
timore».
Il
dolore degli apostoli è grande, ma Gesù dice: “Tranquilli, amici miei, perché dopo
la mia morte sentirete una presenza dentro di voi che vi sosterrà e che vi darà
forza. Voi adesso soffrite ma la vostra sofferenza sarà cambiata in una gioia
indicibile”. Le parole di Gesù, oltre che a consolare gli apostoli, a
rassicurarli, anticipano l’impensabile che succederà dopo la sua partenza: Egli
sarà sempre con loro, in maniera diversa ma sarà con loro; una nuova realtà
nascerà in loro: lo Spirito di Dio che li proietterà verso una nuova vita.
Anche
noi a volte diciamo tante belle parole: ma le nostre “belle” parole non riescono
a toccare le persone. Scivolano via, non sono convinte, sono solo di
convenienza. A volte basterebbe invece fare silenzio, non dire nulla, ma
esserci. Far sentire la nostra presenza.
“Consolare”
deriva da cum-solus, stare cioè con
chi è solo. Affiancarci. A volte infatti non c'è niente da dire. Non c'è niente
da fare. Si tratta solo di esserci. Di assicurare la nostra “consolante” presenza.
Del resto il dolore, la fatica, l'angoscia, le separazioni, fanno parte della
vita. Ne sono il corollario. Non si possono eliminare. Ma consolare, non è
minimizzare. Consolare non è far finta di niente. Consolare è aiutare ad
affrontare la vita.
Nel
vangelo, il mondo sta per crollare addosso agli apostoli; tutto quello per cui
avevano lottato e vissuto, improvvisamente finisce. L'angoscia li sommerge! Ma
Gesù: “Non abbiate paura amici miei, non sia turbato il vostro cuore. Io
fisicamente non ci sarò più ma continuerò a starvi vicino dentro. Avvertirete
la mia presenza dentro di voi; non vi sentirete mai soli. Credetemi sarà così”.
E fu così.
«Se uno mi ama osserverà la mia
parola; chi non mi ama non osserva le mie parole».
“Osservare”
vuol dire non perdere mai di vista. È proprio del pastore non perdere mai di
vista le sue pecore, perché esse sono tutto ciò che lui ha. Le osserva, le
guarda sempre, le sorveglia dagli attacchi dei lupi e dei predatori.
Qui,
allora, non si parla di “osservanza” nel senso “obbedienza”, di fare cioè
giusto o sbagliato. Si vuol dire: “abbiamo scoperto una verità? Abbiamo trovato
qualcosa che ci riscalda il cuore? Abbiamo finalmente trovato cibo per la
nostra anima? Abbiamo trovato ciò che ci fa vivere? Non perdiamolo! Custodiamolo
con tutto il nostro amore”.
Dobbiamo
proteggere ad ogni costo ciò che è prezioso. Proteggiamo i nostri tesori o ci
verranno rubati. Le parole che Gesù aveva pronunciato durante la sua missione
con gli apostoli, avevano riscaldato il loro cuore, la loro anima; erano state
il loro nutrimento vitale. Ora, se lo amano ancora, le osserveranno; le
custodiranno come un tesoro prezioso e unico.
Rimanere
fedeli a se stessi significa che, stante l’impossibilità di scegliere tutto,
non dobbiamo mai perdere di vista ciò che ci prende l'anima, che ci appassiona
il cuore, che è centrale per la nostra vita. Non facciamoci distrarre. Dobbiamo
invece chiederci sempre: “Noi cosa vogliamo? Di che cosa siamo affamati? Che
cosa ci fa sentire vivi?”.
L'anima
non si accontenta di quello che le passa davanti. L'anima vuole il suo nutrimento, il suo cibo. E una volta che abbiamo individuato ciò che per lei è
vitale, dobbiamo “osservarlo”, conservarlo; dobbiamo custodirlo, fare in modo che
non vada perso.
Oggi il
mondo ci offre migliaia di cose da fare. Se guardiamo a tutto ciò che potremmo
fare, ci scoraggiamo. Il rischio è di essere tirati a destra e manca, di voler fare
di tutto e di più, senza poi arrivare a nulla di concreto. Per questo è
fondamentale conservare sempre per bene il nostro tesoro (ciò che ci fa vivere)
e stare attenti di non finire mai fuori strada. Per questo dobbiamo ogni tanto
fermarci, pregare, e ripartire, avendo ben chiara dentro di noi la direzione
del nostro andare.
Conserviamo
gelosamente le nostre intuizioni: non perdiamole! Quante persone si sono perse,
quante persone hanno dimenticato ciò che appassionava la loro anima. È così che
si muore dentro. Diventando sordi ai suggerimenti della nostra anima.
Conserviamo
anche le nostre relazioni umane: ci sono delle persone che sono per noi come
dei porti, delle ancore di salvezza, dei salvagente nel pericolo. Mai perderle,
mai lasciarle; conserviamole con tutto l'amore possibile, perché esse ci
aiutano a vivere.
Conserviamo
i nostri incontri: ci sono delle esperienze che ci ricaricano, ci fanno
rientrare in noi stessi, ci danno forza ed energia per andare avanti. A volte
la fatica, la stanchezza, ci distolgono da ciò che per noi è vitale. Conserviamo
ciò che riscalda il nostro cuore, ciò che è il sangue e la linfa dell'anima.
Conserviamo
le nostre parole. In certi momenti della vita tutti noi abbiamo percepito dei
richiami, delle parole che ci hanno svegliato, che ci hanno scosso, risuonato
dentro, rimbombato, che abbiamo sentito come nostre. Conserviamole, accarezziamole,
ritorniamoci sopra, custodiamole perché sono il dono di Dio per ciascuno di noi,
sono le indicazioni di chi siamo e di dove andiamo.
Ci
rendiamo conto allora, fratelli, cosa vuol dire avere il Consolatore dentro di noi?
Quando
il mondo ci cade addosso, quando ci ritroviamo di fronte ad una difficoltà
insuperabile, ad un errore colossale, quando dobbiamo fare una scelta che
nessun altro può fare per noi, ed è una scelta difficile o dolorosa, dove andiamo?
Andiamo dentro di noi, rientriamo in noi e cerchiamo, cerchiamo, cerchiamo.
Perché da qualche parte c'è Lui: il Consolatore.
Ecco,
fratelli: il vangelo di oggi ci proietta esattamente dentro di noi, nella
nostra intimità. Perché è lì che abbiamo la nostra forza: lì c'è lo Spirito, lì
c’è il Paraclito, il “Dio in noi”.
La
forza di un uomo è infatti in ciò che ha dentro. A che servirebbe essere forti
all’esterno, belli, grandi, se poi non abbiamo la forza di vivere, di reggere,
di sostenere la nostra vita?
Purtroppo
la società del mondo è preoccupata solo dell’apparenza, dell’esteriore: di essere
più belli, più ricchi, più acclamati, più degli altri. È un'illusione però che
avvelena la vita di milioni di persone. La vera forza, fratelli, sta dentro di
noi: la forza dell’uomo sta nella sua capacità di resistere al dolore, al
rifiuto, all'abbandono, senza evitarli. Per la società invece è “forte” chi non
prova nulla, chi non sente la paura, chi non soffre mai. La forza di un uomo è
l'intensità del suo sguardo, la profondità e la vibrazione del suo tocco. Per
la società è “forte” chi è ammirato e chi ha tutti ai suoi piedi. La forza di
un uomo è la capacità di ascoltarsi, di conoscersi, di seguire cosa accade
dentro di sé, di non vergognarsene, di chiamare per nome ogni cosa. Per la
società è “forte” chi fa sempre il furbo, chi se la cava sempre, chi sa
mascherare e mascherarsi. La forza di un uomo è inchinarsi e chiedere perdono
quando sbaglia; senza scendere a compromessi con la propria coscienza, con la
propria dignità e integrità. Per la società è “forte” chi come il camaleonte si
adatta a tutto e ne viene sempre fuori bene.
Quando
guardiamo un albero diciamo: “Che belle foglie; com'è alto! E che fiori! E che
frutti meravigliosi!”. Ma in realtà dobbiamo dire: “Le sue radici sono profonde
e ben radicate; la linfa scorre senza ostacoli e senza barriere; dentro è vivo
e pieno di vita che emerge ed esce all’esterno”. Ed guardiamo anche la nostra
vita. Sapendo bene che ciò che vediamo al di fuori è la conseguenza esatta di
ciò che abbiamo dentro. E se non ci piace il fuori, l’unica cosa da fare è cambiare
il dentro. Amen.
«Vi do un comandamento nuovo:
che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi
gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete
amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 31-33a. 34-35).
Sono parole
che Gesù pronuncia durante l'Ultima Cena in un contesto di grande intimità: ma
anche di tradimento. Gesù si apre con i suoi discepoli, e comunica loro ciò che
più gli sta a cuore. Sono le sue ultime parole, e come spesso accade, le ultime
parole di una persona racchiudono tutta la sua vita, sono il centro della sua vita.
Il
contesto di questo vangelo ci aiuta a capire che non c'è intimità senza la
possibilità del tradimento. Il tradimento mentale è molto più del semplice
tradimento fisico.
Anche
Gesù sperimentò il tradimento: Giuda (uno dei suoi) lo consegnò ai nemici;
Pietro lo rifiutò, lo rinnegò, lo disconobbe quando era il momento di
difenderlo; le folle lo seguivano e lo acclamavano, ma quando venne l’occasione
per sorreggerlo, lo lasciarono solo.
C'è un
intimo legame tra “confidarsi” e “tradire”, tra amore e vulnerabilità.
Non possiamo conoscere l'intimità se
non vinciamo la paura di rimanere feriti
nell’anima.
Tutti
noi vorremmo una garanzia per la nostra intimità: tutti sappiamo quanto sia
difficile aprirsi, farsi vedere per quello che si è veramente, svelare le
nostre zone di luce e le nostre zone d’ombra. Vorremmo pertanto essere certi
che quando lo faremo, non saremo traditi.
Ma
nessuno può garantirci questo. Fa parte dell'aprirsi, la possibilità di essere derisi, svergognati, traditi, non
compresi, giudicati.
Se ci
apriamo possiamo dunque essere feriti. Ma qual è l'alternativa? Rimanere chiusi
per sempre? Ma essere adulti, essere come Gesù, vuol dire però aprirci; concederci
agli altri, dare fiducia agli altri; renderci vulnerabili, correndo anche il
rischio del tradimento.
Non
c'è amore senza apertura. E ogni
apertura vuol dire “spazio aperto”
dove qualcuno ci può anche pugnalare alle spalle.
Ogni
volta che recitiamo il Padre Nostro noi apriamo le mani; è un gesto con un significato
molto profondo: vivere, aprirsi, mostrarsi, far entrare qualcuno nel nostro intimo
e nella nostra vulnerabilità, è un rischio, ma ne vale la pena; per questo
chiediamo a Dio di avere il coraggio e la forza per farlo.
Poi, il
vangelo, in due versetti, usa per ben cinque volte il termine “gloria” (dçxa).
Per
noi è incomprensibile questa parola. Quando pensiamo a “gloria” normalmente pensiamo
a personaggi famosi, a quelli che hanno notorietà, potere e riconoscimenti. Gloria è fare qualcosa per cui saremo ricordati
per sempre, non saremo mai dimenticati; gloria
è essere conosciuti da tutti; gloria
è essere ammirati da tutti; gloria è
arrivare molto in alto.
Ma “gloria” (da dokw) vuol dire letteralmente “mostrarsi,
farsi vedere”. La gloria è quando Dio si fa vedere nella nostra vita. Dio non si
fa vedere materialmente, ma può “rivelarsi”,
e noi in questo modo lo possiamo riconoscere. Noi viviamo le nostre giornate,
ma in certe situazioni Dio ci si mostra: questa è “gloria”. Viviamo le nostre giornate, ma in certe nostre parole, in
certi nostri comportamenti, in certe nostre scelte, Dio si dà a vedere.
Gesù “glorifica” Dio, perché la sua vita è
stata trasparente: in Lui Dio si è reso visibile. L'uomo è “gloria” di Dio quando nella sua vita
autentica Dio emerge.
Talvolta
succede che nella vita di tutti i giorni, si apra una finestra sull'invisibile,
sulla luce vera del mondo; e i raggi dello spirito entrano nella nostra vita
materiale.
Allora
accade che l'Oltre si fa presente in maniera indelebile nella nostra vita e
lascia un segno che non possiamo assolutamente cancellare.
Questa
è gloria: sentire anche solo per un
attimo la Voce e vedere anche per un solo istante la Luce. La gloria umana è
sentirsi Dio, divino, potente, immortale. Ma questa non è gloria, è idolatria. La vera gloria
non è sentirsi Dio, ma sentire Dio, vederlo, percepirlo, riconoscerlo. Ci entra
dentro qualcosa che non potrà mai più uscire, qualcosa che non ci lascerà mai
più.
Poi il
vangelo prosegue dicendo: “Vi do un
comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. È un comandamento
nuovo? Un po' sì perché per un ebreo l'amore era riservato a quelli della
propria famiglia o al massimo a quelli della propria gente. È una piccola
novità, in effetti. Ma non è questa la vera novità.
La
vera novità è contenuta nella riga successiva: “Come io vi ho amato”. Questo è il criterio: amare, come Gesù ci ha
amati. Questo determina, mostra, rivela l'essere o meno discepoli di Gesù: “Da questo sapranno che siete miei discepoli:
se avrete amore gli uni gli altri, come io vi ho amati”.
I
primi cristiani erano testimoni di questo: si amavano in maniera diversa da
tutti gli altri. C'era un di più, un diverso, una libertà maggiore, un perdono
più vero e profondo, una gioia non comune. Quando la gente comune li guardava
diceva: “Quelli si amano proprio, per
davvero!”.
Con
queste parole Gesù capovolge le nostre categorie religiose. Per noi è “cristiano”,
cioè “di Cristo”, chi è battezzato, va a messa, rispetta certe regole e certe
norme.
Ma per
Gesù è “cristiano”, è “suo discepolo”, chi ama
come Lui ha amato.
“Dio è amore”, dice Giovanni: dove c'è
qualcuno che ama nella verità, lì c'è Dio. Ma possiamo anche dire il contrario:
“L'Amore è Dio”. Andare dove qualcuno
ama veramente, è andare da Dio.
Con
l'espressione “per il tuo bene” o “per amore” si sono compiute le peggiori
atrocità.
Attenzione
allora alla parola “amore”: può comprendere
tutto e il contrario di tutto.
Gesù
non fece grandi discorsi sull'amore. Gesù si focalizzò sulle persone. Mentre
l'ebreo di fronte a certe persone si chiedeva: “Questo lo devo amare o no?”,
Gesù non si fece mai questo problema. Quando vedeva le persone, se ne prendeva
cura e basta.
A
volte le amò e cambiò loro la vita; altre volte le guarì dai loro mali fisici e
spirituali; altre volte semplicemente le accettò per quello che erano,
riconoscendo che più di quello non potevano dare.
L'amore
è fare sempre il vero bene dell'altro. Amore è prendere l'altro dov'è, e
aiutarlo nella sua situazione. Amare non è “fare nuovi cristiani, convertire”;
Madre Teresa diceva: “Esiste un solo Dio, ed egli è il Dio di tutti. Perciò è
importante vedere tutti gli uomini come uguali davanti a Dio. Io ho sempre
detto che dobbiamo aiutare un indù a diventare un indù migliore, un musulmano a
diventare un musulmano migliore, e un cattolico a diventare un cattolico
migliore”.
L'amore
si impara vivendo nell'incontro con i volti delle persone; l'amore s'impara
amando. A ben pensarci nessuno di noi sa amare. Possiamo imparare cos'è,
maturando sempre di più con la vita ciò che altrimenti è solo un concetto.
Quando nasce, il bambino “ama” sua madre, ma non è amore: è bisogno assoluto,
dipendenza totale, egoismo (senza di lei muore). Molte persone sono rimaste a
questo livello di amore.
L'amore
è passione, sentimento: per Gesù l'amore è passione per la vita fino alla
morte. Gesù entrava dentro ad ogni cosa con tutto se stesso e con la forza di
tutte le sue emozioni. Quando c'era da essere felice lo era pienamente; quando
era toccato dal dolore della gente, lo era profondamente; quando amava, amava
così autenticamente che l'altro guariva; in ogni cosa era dentro del tutto. Per
il cristianesimo amore è dare, donare, donarsi, lasciarsi toccare da ciò che si
vede. Se non c'è gratuità non c'è amore. Se tutto viene misurato in base a ciò
che si dà e in base a ciò che si riceve, allora c'è economia: ti do questo e tu
mi dai questo. Ma non c’è amore. L'amore vero non fa soldi (infatti fa felici)
perché in sé è sprecone. Dà e non gli interessa il ritorno.
L'amore
è ciò che non muore, è la non-morte (a-mors).
L'amore fa vivere oggi e ci farà vivere domani. È l'unica cosa che ci fa vivere
perché è la non-morte. L'amore è la Vita, è ciò che non può morire e che
resterà per sempre.
Ecco,
fratelli: queste sono soltanto alcune delle dimensioni dell'amore. Ma in fin
dei conti non conta neppure conoscerle tutte. Non conta, infatti, sapere tanto cos'è
l'amore, ma amare tanto. Viviamo la forza dell'amore: amiamo, guardando a Gesù.
Solo così sapremo e conosceremo l'amore. Amen.
«Le mie pecore ascoltano la mia
voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non
andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (Gv 10, 27-30).
La
maggior parte delle persone fa confusione tra “udire” e “ascoltare”. Udire è
percepire un suono: è un fenomeno fisiologico e non coinvolge l’emotività. Ascoltare
invece è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle
emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo e intorno a noi. Ascoltare
è porre attenzione, è un atto consapevole, implica il cuore e l’intelligenza. Possiamo
udire,ma non per questo ascoltiamo.
Ne
consegue che come uno “ascolta” così anche
agirà; come uno ascolta, così
camminerà, canterà, parlerà. Da come noi parliamo, ma ancor più da come noi
ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo. Mio nonno diceva: “Non fidarti mai
di chi non sa ascoltarti”.
Non possiamo
diventare adulti, maturi, cresciuti, senza la capacità di ascoltare: prima di
tutto noi stessi e poi gli altri. Dall’ascolto dipende la nostra maturazione,
la nostra crescita: è ciò che ascoltiamo
che ci “costruisce” dentro.
Dio ci
ha forniti di due orecchi e di una sola bocca: sicuramente perché dovremmo
ascoltare molto di più, e parlare molto meno. Abbiamo due orecchi e una bocca sola,
perché abbiamo bisogno almeno del doppio di cibo dell'anima (gli orecchi)
rispetto al cibo del fisico (la bocca). Se vogliamo imparare, pertanto, non abbiamo
alternative: dobbiamo ascoltare! Non è un caso, allora, se si dice che la “fede
nasce dall'ascolto”: dall'ascolto, non dall'aver udito tante parole religiose!
Una delle espressione più usate nella Bibbia è infatti: “Hanno orecchi per
udire, ma non odono” (Ez 12,2).
Ogni
giorno noi udiamo milioni di suoni, ma quanti ne ascoltiamo? Alcuni santi si sono addirittura convertiti in seguito
ad una parola ascoltata. Quasi tutti
noi, invece, abbiamo letto l’intera Bibbia più volte e il Vangelo migliaia di
volte, senza che in noi scattasse qualcosa. Perché? Perché ci fermiamo alla
percezione del suono delle parole; ascoltarle invece significa farle risuonare in
noi, significa far vibrare le corde della nostra anima.
Nella
realtà è difficile che qualcuno ascolti
gli altri. Neppure noi, ascoltiamo noi stessi.
Se ci
ascoltassimo potremmo scoprire che dentro di noi c’è una folla di personaggi
parlanti, che vivono nella scena della nostra anima, e sono tutti da ascoltare, da conoscere. Se ci
ascoltassimo di più, avremmo molto meno bisogno di cercare fuori di noi le risposte
per la nostra vita: le troveremmo direttamente in noi. Ovviamente è molto più comodo
trovare qualcuno che ci dia risposte già confezionate,
piuttosto che doverle elaborare da noi: ci costa molto meno fatica! Ma quelle risposte
vengono da estranei, mentre le domande sono le mie. Vogliamo qualcosa? Cerchiamola!
Se ascoltassimo di più, potremmo non solo ascoltare le parole degli altri, ma
entrare anche in contatto con la loro anima. Se ascoltassimo di più, potremmo
percepire che il anche il silenzio parla. Se ascoltassimo di più potremmo
accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo noi, ma è quella che viviamo
realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non
condurremmo una vita così assurda. Gli uomini conducono una vita assurda
(ab-surdus) perché non si ascoltano, perché non sentono più le esigenze
dell'anima, i richiami del profondo, i richiami delle esigenze fondamentali
della vita: sono sordi! E se uno è sordo, può succedere di tutto! Così, se
sapessimo ascoltare, sentiremmo la profondità e la forza del Vangelo; sentiremmo
l'energia e la potenza vulcanica di queste parole.
E
invece noi udiamo tutto: sono voci
che entrano e che escono; ma sono voci che non si fermano, che non creano
vibrazioni, che non si sedimentano.
Siamo chiusi. Quando siamo stati battezzati,
il sacerdote ha fatto un gesto: ci ha toccato le orecchie e le labbra: è il rito
dell'Effatà, Apriti!; che in pratica significa: “Fa' in modo che le tue orecchie
siano sempre aperte, perché se saranno chiuse, tutte le mie Parole non
serviranno a niente”.
Se non
c'è l'ascolto siamo come Pietro che colpisce con una spada l'orecchio del servo
del sommo sacerdote e gliela recide (Gv
18,10-11). Se non ascoltiamo e se non ci
ascoltiamo, se non comprendiamo gli eventi, se non abbiamo l'intelligenza
spirituale della situazione, non vediamo il senso profondo delle cose, e allora
“tranciamo” giudizi superficiali su fatti e persone; parliamo a sproposito: il
vaniloquio,è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare
per niente, solo perché si ha una bocca ma non un'anima. Chi non ascolta,
giudica e giudicherà sempre; e più un uomo giudica, più sarà incapace di
ascoltarsi e di ascoltare gli altri.
«Io le conosco ed esse mi
seguono».
Conoscere, per noi, significa sapere chi è un tizio, dove abita,
quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma che conoscenza
è questa? È una raccolta di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità.
Per la
Bibbia, invece, conoscere è fare
un'esperienza, incontrare, sentire, percepire. Quando un uomo conosce una
donna, nella Bibbia, nasce un figlio: hanno cioè, un incontro sessuale.
Conoscere è sperimentarsi, incontrarsi. Ci
conosciamo non perché sappiamo chi siamo o dove abitiamo o cosa facciamo nella
vita. Ci conosciamo se “ci” sentiamo,
se avvertiamo ciò che siamo dentro, ciò che proviamo, ciò che vibra in noi. Ci
conosciamo se ci incontriamo, se cogliamo ciò che ci abita dentro, ciò che sta
in noi, ciò che vive in noi.
Le
persone pensano di conoscere solo
perché hanno un sacco di informazioni su di sé o sugli altri. È come dire:
conosco cos'è un liquore perché ho letto la sua marca sulla bottiglia. Ma
conoscere un liquore è berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore.
Allo
stesso modo possiamo dire di conoscere la parola di Dio, non se l’abbiamo
imparata a memoria; ma solo se ne sentiamo le vibrazioni in noi, se avvertiamo
in noi la sua potenza e la sua forza, se ci coinvolge e, penetrandoci, ci
cambia. Perché è solo questa la conoscenza
che ci cambia.
«Le
mie pecore non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano».
In
greco rpzw vuol dire “rapire, strappare
via, prendere, rubare”: tutti noi siamo percorsi da questa paura. È la paura e
l'angoscia di perdere la nostra vita, di essere strappati via dai nostri cari;
la paura di uscire di casa, la paura che qualcuno entri di nascosto in casa
nostra; la paura che qualche malintenzionato faccia del male, rapisca i nostri figli; la paura di
perdere la faccia, la fama, il prestigio, i soldi. In certi giorni abbiamo
paura perfino di quello che potrà dire il nostro capo, gli amici, la gente, gli
altri. In certi giorni abbiamo paura anche di noi stessi, di aver sbagliato
tutto.
Ma se ci
abbandoniamo a Dio, se ci ancoriamo in Lui, cosa mai può farci paura?
Se ci
ancoriamo ai soldi, prima o poi ce li sottrarranno. Se ci ancoriamo all’amore
dei figli, un giorno o l’altro, da grandi, potrebbero non darcene più. Se ci
ancoriamo a quello che gli altri possono o non possono dire di noi, ci
costringiamo a vivere nell'ansia, a controllare ogni nostro movimento, a
chiederci sempre: “Andrà bene? Piacerà?”, e in ogni caso, continueremo ad avere
sempre dei nemici. Se ci ancoriamo alla salute, sul fatto che oggi non abbiamo
bisogno di niente e di nessuno, facciamo attenzione, perché verrà il giorno in
cui non basteremo più a noi stessi e avremo bisogno degli altri. Se ci ancoriamo
alla vita, di sicuro prima o poi la morte ce la strapperà.
Allora
dov'è che possiamo ancorarci in sicurezza? Dov'è che possiamo trovare una
roccia che tenga, che non frani sotto i nostri piedi, facendoci precipitare nel
buio e nel vuoto?
Solo
in Lui. Dio infatti non vuole la nostra fine, la nostra morte: la permette solo
perché attraverso lei, impariamo che è Lui l’unica nostra certezza; perché la
morte ci metta in contatto con ciò che di più bello Lui vuol darci, con ciò che
non abbiamo saputo o voluto imparare durante la vita: il suo immenso amore; un
amore che possiamo provare solo abbandonandoci completamente, senza riserve, a
Lui.
Verrà
un giorno in cui non potremo più contare su di noi, in cui non potremo più
controllare tutto e tenere tutto sotto controllo; un giorno in cui non ci
rimarrà altro da fare che stendere le nostre mani e lasciarci accogliere nel
suo abbraccio. Per molti quel giorno è “morire”, un’esperienza negativa,
distruttiva. Ma per noi credenti la morte non è così; per noi è un ritorno, un
incontro, un'esperienza religiosa: “Non ho più nulla, se non Te, Signore. Mi
fido di Te e mi lascio avvolgere dal tuo amore”.
Per
trovare la felicità, fratelli, per trovare la vita vera, dobbiamo rinunciare alla
tentazione di possedere, di trattenere qualcosa per noi; perché
tutto ci sarà strappato: perderemo tutto, proprio tutto. Seguire Gesù, significa
quindi spogliarsi dell’illusione di possedere
le cose di questo mondo. Il mondo non sarà mai nostro; non avremo mai alcun
potere su di lui; qui tutto è aleatorio, passeggero, deteriorabile. Solo Dio
resta: e noi siamo stati creati solo per Dio. Nulla appartiene a noi, ma noi
apparteniamo a Lui, e questo ci deve bastare.
Se
comprenderemo a fondo questa verità, ci sentiremo al sicuro, rannicchiati nel
palmo della mano di Dio; capiremo che quello è l'unico posto in cui potremo avere
riposo e felicità; che quella è l’unica nostra ricchezza e salvezza.
Chi ha
paura di vivere è perché ha paura di morire; e chi ha paura di morire è perché ha
paura di vivere, perché è attaccato a qualcosa che teme di perdere. Chi ha
paura di morire è perché non conosce Dio, non ha ancora capito chi Lui sia
veramente.
I
primi cristiani dicevano: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci,
considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio,
la nostra vera Vita, la vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia
sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la
nostra dignità: perché noi siamo Suoi. Nessuno può strapparci dalle Sue mani”.
Chi
vive così, fratelli, vive davvero. Chi vive così, cosa può temere? Chi vive
così non avrà mai alcun timore, perché per quanto una situazione sia
drammatica, dura, straziante, egli è nelle mani di Dio, nel palmo delle Sue mani.
Se
abbiamo paura, è perché in fondo non ci fidiamo poi così tanto di Dio. Se viviamo
nell'ansia è perché, in fondo in fondo, non consideriamo Dio nostro Padre e Pastore.
E non ci rendiamo conto con quale e quanta libertà potremmo invece vivere, se
solo ci fidassimo di più, se ci abbandonassimo di più in Lui. Amen.
«Disse Simon Pietro: “Io vado a
pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono
sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù
stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù...» (Gv 21,
1-19).
Se
leggiamo questo vangelo come un racconto “storico”, come una cronaca di quanto è successo nei
fatti, non riusciamo a venirne fuori. Sono troppe le stranezze, troppe le cose
che non tornano. Per esempio: i discepoli, che erano pescatori e conoscevano perfettamente
il loro mestiere, pescano tutta la notte senza prendere nulla; ma poi, quand'è
mattina - e tutti sanno che non si pesca di mattina! – stando a pochi metri
dalla riva, prendono una quantità enorme di pesci! Gli stessi discepoli, che
erano stati tre anni con Gesù, quando lo vedono, non lo riconoscono; com'è
possibile? Praticamente quando hanno il Signore lì davanti a loro, non si
accorgono che è lui; solo Giovanni, e da lontano, se ne accorge; eppure avevano
rischiato la vita, avevano abbandonato tutto e tutti per lui, figurarsi se non
lo conoscevano! Altro particolare: Pietro è nudo, ma prima di buttarsi in acqua
per raggiungere Gesù, si cinge la veste, si mette cioè il vestito; forse che
noi quando andiamo a fare il bagno ci vestiamo prima di buttarci in acqua? Che
senso ha? Inoltre, perché devono buttare la rete proprio dal lato destro? Quando
scendono poi a terra, trovano già il fuoco acceso con tanto di pesci alla
brace: ma se tutto è già pronto, che bisogno c’era che Gesù chiedesse se avevano
qualcosa da mangiare? E la rete? I discepoli tutti insieme non riescono a
trascinarla a riva, tanto è piena di pesci; ma poi Pietro, da solo, la scarica
dalla barca e la porta a riva! E la quantità del pescato? Centocinquantatre
pesci: avevano per caso contato i pesci uno per uno, per conoscerne il numero
esatto?
Un
racconto insomma che è tutto un problema. Ma tralasciamo i particolari:
fermiamoci piuttosto al messaggio che ne possiamo trarre.
“Vado a pescare”, dice Pietro; e tutti dicono: “Veniamo anche noi!”. Una risposta di automatica,
di routine, quella degli apostoli,
una risposta senza iniziativa, senza entusiasmo, una risposta “rassegnata”. Quella
per loro è una mattina grigia, fiacca, senza entusiasmo, senza passione. Un po’
come lo sono tante nostre mattine.
Infatti, eccoci qua: noi siamo esattamente come gli apostoli. C'è da andare a
pescare, e nessuno ne ha voglia. Ma lavorare bisogna; vivere bisogna; fare
questo bisogna; come pure fare quell'altro. E continuiamo ad andare avanti
così, perché “bisogna”: ma, fratelli miei, che vita è questa? Dov'è il gusto,
la gioia di vivere, l’iniziativa e l’inventiva personale? Che tristezza: uno fa
una cosa e tutti lo seguono; uno si comporta in un certo modo, e tutti a
imitarlo. Qualcuno si pavoneggia per qualche ritrovato d’avanguardia? E noi a
fare altrettanto. Gli altri hanno il navigatore, l’iphone, il tablet di una
certa marca? Detto fatto, ce l’abbiamo anche noi!
Si,
perché noi non solo dobbiamo essere sempre “come” gli altri, ma addirittura “sopra”
gli altri: “ma come!? tuo figlio non va in palestra? Ma come!? non avete ancora
la tv satellitare? Ma come!? non conoscete ancora quel nuovo congegno, quella
nuova marca, non indossate ancora quell’accessorio all’ultima moda?
Purtroppo,
oggi il modello di vita è uno solo; uno “status” a cui tutti ambiscono arrivare:
lavorare lui e lei, avere una bella casa, uno o al massimo due figli, una vita
tranquilla, avere disponibilità economica per le vacanze; potersi permettere, lui
una “buona” auto, e lei dei “buoni” vestiti.
Beh,
fratelli: è proprio questo livellamento che tutti i sacrosanti giorni ci rende
tristi: sogniamo, desideriamo, facciamo tutti le stesse cose. Siamo tutti
omologati sullo stesso standard.
Noi stiamo
bene, ci sentiamo tranquilli, solo quando siamo esattamente “come tutti”:
perché solo se facciamo come tutti, la società, il branco, ci accetta;
altrimenti ci esclude, ci giudica, ci mette al bando.
Ma
fare come tutti significa essere
nessuno; fare come tutti significa rinunciare a noi stessi, alla nostra
individualità, al nostro volto, alla nostra personalità. Fare come tutti ci
protegge dal giudizio e dall'essere sotto i riflettori, è vero, ma produce in
noi un vuoto tremendo.
I discepoli,
quella notte, “non presero nulla”. Una
constatazione che ci fa percepire la nullità, il vuoto assurdo, appunto, di una
vita “trascinata”, di una vita senza entusiasmo, amorfa. Facciamo una prova: chiediamo
alle persone: “Perché vivi?”. Vedremo che alcuni non sapranno cosa risponderci e
staranno zitti. Altri ci daranno delle risposte a cui neppure loro credono.
Pochissimi ci diranno: “vivo per realizzare il potenziale che Dio ha messo
dentro di me; vivo e metto tutte le mie energie per fare questo mondo migliore,
più vero di quello che è; vivo perché la gente possa essere se stessa; vivo per
fare del bene, per disseppellire l'anima delle persone; vivo perché mi sento un
balsamo per molti cuori sofferenti (Etty
Hillesum); perché sono una matita nelle mani di Dio (Madre Teresa); perché voglio essere per gli uomini l'amore (Teresa di Lisieux)”.
La
gente oggi non crede più che si possa essere felici. Crede che “bisogna tirare
avanti”, che “bisogna accontentarsi”, che “bisogna prendere quello che viene”. Quanta
tristezza, fratelli, si nasconde dietro queste parole: solo rassegnazione,
vuoto, sconforto.
“Gesù stette sulla riva, ma i
discepoli non si erano accorti che era Gesù”. È sempre così: Dio c'è già, ma noi non lo vediamo,
quindi non c'è.
Lui
chiede: “Figlioli, non avete nulla da
mangiare?”. Ebbene, facciamo per un istante mente locale: noi, abbiamo qualcosa
che veramente “nutra” la nostra vita? Se siamo onesti, dobbiamo ammettere: “No”.
Dobbiamo cioè ammettere che in fondo non siamo affatto felici; che ci sentiamo
vuoti, depressi, frustrati; che “svegliarci” la mattina è faticoso, che preferiamo
andare avanti “dormendo”, rimanendo tranquilli, senza sussulti.
Beh,
fratelli, non possiamo risolvere un problema che non vogliamo ammettere, di cui
non accettiamo l’esistenza. La prima cosa da fare è puntare i piedi e dirci: “Così
non va!”. E vi assicuro, per fare questo, ci vuole coraggio. Perché è più
facile illuderci, è più facile fingere che tutto vada bene: “Abbiamo il lavoro,
abbiamo la casa, abbiamo dei figli: non ci manca niente”, e ci trastulliamo in questa
illusione. Dimenticando volutamente cos’è la vera felicità. Preferiamo indossare
la maschera del “Mulino Bianco”, della famiglia spensierata e felice. Quando invece
dentro di noi moriamo di solitudine, di insoddisfazione, di rabbia, di vuoto.
No,
fratelli: dobbiamo ammettere che siamo noi gli ammalati; che siamo noi quelli
che devono guarire, non gli altri. Dio non ci cambia la vita come pensiamo noi.
Ce la cambia, ma non come noi la vogliamo.
«Gettate la rete dalla parte
destra della barca e troverete».
Gesù rimanda i suoi nel mare: ma come, c'erano già stati fino a poco fa e non
avevano combinato nulla! È vero: ma ora li manda con un compito ben preciso.
Esattamente
come rimanda anche noi nello stesso mare della nostra vita: non ci dice infatti
di cambiare lavoro, di cambiare residenza, di andare in Africa o chissà dove. Ci
dice semplicemente di fare le stesse cose di prima, ma di farle ora in un altro
modo, in maniera “consapevole”. Non possiamo più permetterci di vivere senza un
obiettivo “valido” da raggiungere; non possiamo più vivere con la testa fra le
nuvole; dobbiamo invece farci domande, dobbiamo osservarci, dobbiamo studiarci;
dobbiamo guardarci come reagiamo, dobbiamo chiederci cosa ci appassiona, cosa vogliamo
esattamente da noi, dalla vita.
Noi
illudiamoci che tutto quello che ci serve, che ci soddisfa pienamente, stia al
di fuori di noi. Nossignori: tutto ciò che riempie
le nostre reti, cari fratelli, ciò che ci fa cantare dalla gioia, che ci fa
sentire tutti uniti e amati dallo stesso Dio; ciò che ci rende così felici e vivi
da ringraziarlo giorno dopo giorno; ciò che fa esplodere tutta la nostra
energia interiore, bene: tutto questo non esiste fuori, ma soltanto dentro di
noi.
Ecco
perché dobbiamo ripristinare il “contatto” con noi stessi; dobbiamo tornare ancora dentro il nostro mare, dentro di
noi, se vogliamo che le nostre reti (l'anima) tornino piene, colme, di Dio. Dobbiamo
imparare a conoscerci bene: non possiamo più fuggire di fronte ai nostri “mostri”,
alle nostre debolezze, ma dobbiamo familiarizzare con loro; non possiamo più nascondere
i nostri istinti, ma dobbiamo farceli amici; dobbiamo essere in grado di padroneggiare
quel mare burrascoso che è dentro di noi, se vogliamo che la nostra vita si
riempia di Vita, di Dio.
È
stato proprio questo il miracolo degli apostoli. Trovarono Dio nella loro vita
ordinaria, di tutti i giorni. E la loro vita non fu più la stessa, tutto
cambiò.
Giovanni,
colui che lo riconosce, è il discepolo che Gesù amava: se non amiamo Gesù, se
non amiamo e non siamo attratti da ciò che abbiamo dentro, se non riusciamo a
fare “bonaccia” dentro di noi, se non desideriamo fare chiarezza nel nostro
cuore, non potremo mai “vedere” il Signore. Non servono programmi strabilianti:
Giovanni si è reso conto improvvisamente che “È il Signore!”, mentre faceva quello che aveva sempre fatto: il
pescatore. Ma da lì, la sua vita è cambiata.
Il
giorno in cui, pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di sorpresa,
potremo finalmente esclamare: “È il
Signore!”, allora anche la nostra vita inizierà a cambiare.
Potremo
“vederlo” (non pensarlo), potremo percepirlo, proprio attraverso quei piccoli
eventi che accompagnano la nostra vita di tutti i giorni: quando riusciamo a
dare una “risposta” diversa dalle solite; un “no” che prima non dicevamo; una fragilità
che riusciamo ad ammettere; uno “scusami!” che finalmente riusciamo a pronunciare;
un lasciarci andare alle piccole emozioni della vita: per un incontro che non ci
aspettavamo, per un tramonto o una passeggiata solitaria, per uno sguardo o un
sorriso rasserenante di una persona cara, per una complicità con i fratelli,
con chi ci sta a cuore, con chi soffre, ecc. Ecco, è anche in questi casi che potremo
veramente dire: “È il Signore!”.
Noi pretendiamo
invece di incontrare Dio nelle visioni, nelle apparizioni, nelle estasi, negli
eventi soprannaturali: per questo lo cerchiamo “fuori”. È invece nella nostra
vita che Egli si lascia “vedere” continuamente. Nell’umiltà, nel silenzio, nell’autenticità.
A
volte invece, noi siamo presi dall’eccezionalità, dalla ricerca affannosa di
esperienze forti, decisamente “mistiche”: vaghiamo da un’apparizione all’altra,
da un santuario all’altro, senza renderci conto che forse tutto questo nostro cercare
proviene più da un nostro bisogno di sensazionale, di estemporaneo, piuttosto
che da una nostra convinta, intima necessità, di “vedere”, di “incontrare” il
Signore.
Dio
c'è dove noi siamo in grado di “poterlo vedere”, cioè col cuore puro e con la
mente retta. Altrimenti è una “idea” vaga di Dio, quella che noi inseguiamo, un’idea
che noi ci siamo costruiti solo nella nostra testa: nient’altro. Se viviamo con
questa illusione, ricordiamocelo, sarà molto difficile, se non impossibile,
incontrarlo veramente.
Lui è
più vicino a noi di quanto pensiamo. Gli apostoli hanno fatto la loro pesca
eccezionale a cento metri dalla riva. Non in alto mare!
Ascoltiamo
piuttosto la sua voce. È una voce intima, non un urlo! Egli ci chiede
insistentemente, ma sommessamente, quanto noi siamo disponibili ad amarlo. Non
per mari, non per monti. Ma nella nostra quotidianità. Quello che conta è la
nostra risposta, perché Egli non chiede altro che amore. E solo allora, solo quando
gli avremo assicurato tutta la nostra adesione, Egli ci dirà, come già a Pietro:
“Seguimi!”. Seguirlo, significa
camminare dietro a Lui, seguire i suoi passi, non correre a destra o a sinistra,
da un posto all’altro, seguendo le nostre voglie del momento.
Ecco,
fratelli: lasciamo che sia Dio a portarci, anche se non sappiamo dove stiamo
andando, anche se non vorremmo andarci, anche se a volte gli resistiamo con
tutte le nostre forze. È vero: ciascuno di noi vorrebbe essere lui a decidere
per la propria vita, a tenerla in pugno ed essere lui a stabilire dove andare. Ma
seguiamolo lo stesso! Avere “fede”, amare Dio, significa infatti lasciare
spazio a Dio: lasciare che sia Lui a condurci, a portarci, a dirigere la nostra
vita.
Chi
dice che Dio infatti non voglia proprio rovesciare la nostra vita? Chi dice che
Dio non voglia qualcosa di grande da noi? Chi dice che Dio non stravolga tutte
le nostre sicurezze, le nostre idee, per seguirlo? Chi dice che Dio non ci
aspetti anche nel dolore, nelle avversità della vita, per consentirci di cambiare
radicalmente il nostro carattere, di trasformarci in persone completamente
diverse? Chi dice insomma che Dio non scombini questa nostra vita, che noi ci sforziamo
invece di costruire secondo i nostri calcoli? Noi continuiamo a vederci sempre come
siamo ora: continuiamo a fare progetti senza pensare mai che la nostra vita
potrebbe invece cambiare radicalmente dall’oggi al domani!
In
ogni caso, Signore, qualunque sia il tuo progetto su di noi, dovunque vorrai condurci,
te lo assicuriamo sin d’ora, noi ti seguiremo. Sempre. Perché sappiamo che
tutto quello che fai, lo fai per il nostro bene. Amen.
«Mentre erano chiuse le porte
del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù,
stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani
e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di
nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto
questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui
perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non
saranno perdonati». (Gv 20,19-31).
Il
Vangelo di oggi cerca di spiegare cosa vuol dire “vedere” il Signore, il
Risorto, nella vita di tutti i giorni. È la domanda che tutti noi ci facciamo: “Come
possiamo vedere Dio? Come possiamo incontralo?” Dove e quando? Pensiamo che incontrarlo
significhi vederlo fisicamente: “Se lo vedessi... Se avessi una visione... Se
mi facesse un miracolo, allora sì crederei!”. Ma Dio non lo possiamo incontrare
così, fisicamente, come vorremmo noi. Fisicamente Dio si è incarnato una volta,
si è manifestato in Gesù: ma Gesù è morto duemila e più anni fa e la cosa, dopo
alcune apparizioni ai suoi, nei giorni precedenti l’ascensione, è finita li.
Ma
allora come, dove, quando, noi possiamo fare esperienza, incontrare il Signore
della Vita?
Lo
possiamo solo attraverso gli occhi della fede: accostandoci all’Eucaristia, avvicinando
il nostro prossimo, il fratello sofferente, il fratello ferito nel cuore, il
fratello calunniato, insultato, deriso… È così che possiamo oggi vedere Gesù in
carne e ossa. Beh, a parole è semplice, ma non nei fatti, anche perché talvolta
questo “fratello” è proprio il nostro “peggior nemico”, uno che ce ne ha fatte
passare di tutti i colori! Come dobbiamo comportarci allora? Dotando la nostra
vita di amore, di carità, di perdono; virtù che possiamo trarre dall’Eucaristia.
Dobbiamo amare, perdonare, perdonare sempre. La vita di Gesù è costruita tutta sul
perdono, sull’amore. Ricordate i momenti tragici vissuti dai discepoli subito
dopo l’uccisione del Maestro? Ce lo suggerisce Giovanni, facendoci intravvedere
i pensieri che opprimono il cuore dei discepoli in queste ore, subito dopo
l’uccisione di Gesù.
È una
situazione molto difficile la loro. Si sono rinchiusi per la paura. Il loro
cuore è carico di preoccupazioni, di ansia: “ciò che è successo a Lui, può
succedere anche a noi”. Sono pieni di tristezza, ma sono anche pieni di rabbia
per come ciò è accaduto: l’hanno ucciso come un malfattore, un ladro, un
delinquente. Ed essi sanno che l’hanno fatto ingiustamente, per invidia, in
maniera crudele, pretestuosa, falsa.
Per
questo, quando Gesù appare loro, la prima cosa che dice è: “Pace a voi”. Egli sa che la loro anima è nella tempesta, che il
loro cuore è stravolto soprattutto dalla rabbia e dall'odio.
Gesù infatti,
augurando la “pace”, vuol dire: “Perdonate, lasciate andare (“rimettere”, in
greco f°jmi, è “lasciar andare, lasciar
perdere”). Il senso delle parole di Gesù è molto semplice, e Giovanni, il
discepolo dell’amore, il “discepolo che
Gesù amava”, ce lo sottolinea di proposito; anzi lo pone come
“ambientazione”, come condizione essenziale per poter vedere Gesù: “Perdona,
lascia andare, piuttosto ama”. “Perdonare i fratelli” vuol dire allora “buttar
fuori” tutti i risentimenti che coviamo dentro (odio, rabbia, dolore, vergogna,
ecc.), svuotare completamente il nostro cuore; liberarlo, rinnovarlo. Vuol dire
non trattenere niente dentro di tutto ciò che ci turba, e accettare la realtà,
vivere la vita così com'è, con i suoi alti e i suoi bassi, con le sue soddisfazioni
e le sue contrarietà. Se non perdoniamo rimarremo ancorati tutti i giorni alle
ferite del nostro cuore; e tutti i giorni ci sentiremo traditi, oltraggiati,
uccisi.
Non
perdonare significa “trattenere”: e in questo caso la vita, fratelli miei, non
scorre più.
Se noi
“tratteniamo” le emozioni, la rabbia, l'odio, ponendole come una diga verso
l’esterno, non potremo più alimentare il nostro cuore con la vitalità, la
carità, l’amore. Diventiamo aridi, secchi, avvelenati. È per questo che spesso
siamo infuriati, arrabbiati, nervosi: perché non perdoniamo, tratteniamo tutto
e non c’è più posto per l’amore.
Gesù
diceva agli apostoli: “Se entrate in una
città e non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatene una questione
personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquillamente”
(Lc 10,11). Cosa vuol dire? Vuol dire: “Perdonate!”. Non facciamone una
questione personale: ci hanno rifiutato, ci hanno detto di no? esprimiamo il
nostro dolore, la nostra rabbia ma lasciamo quel dolore lì, non portiamocelo dietro.
Lasciamo andare.
Del
resto, altra verità, l'amore nasce proprio dalla nostra vulnerabilità,
dall'incontro con le nostre ferite.
La
prima volta che Gesù appare non c'è Tommaso. Tommaso non crede. Per credere
deve toccare le ferite: mani e costato. Deve fare esperienza diretta col
dolore. Tommaso, chiamato “Didimo” (in greco significa “gemello”), rappresenta
tutti noi: c'è una parte di noi che crede e una parte che non crede; in
ciascuno di noi ci sono due persone gemelle, ma contraddittorie.
E qui
Giovanni ci dice proprio che per incontrare Gesù dobbiamo “incontrare” le
nostre ferite; dobbiamo mettere il dito nelle piaghe del nostro cuore. Dobbiamo
cioè “separare” semplici sensazioni dall’amore vero. Dobbiamo fare un passaggio
decisivo dall’io al noi. Mi spiego.
Per
Maddalena Gesù era tutto: lei era totalmente “dipendente”, da Lui: grazie a Lui
era guarita da sette demoni. È chiaro che Gesù era il suo “amore”: lei era
morta, era pazza, era indemoniata, e Lui l'aveva guarita. È ovvio anche per noi
attaccarci a chi ci ha dato la vita; è ovvio che non possiamo non amare chi ci
ha ridato dignità; è ovvio che non possiamo non essere per sempre grati a chi ci
ha salvato e guarito. Lo siamo per i genitori che ci hanno dato la vita fisica,
lo siamo altrettanto per chi ci dà la vita del cuore.
Lei ha
amato Gesù, lo ha toccato, lo ha abbracciato. Certamente fra lei e Gesù c'è
stato un rapporto particolare, speciale, un rapporto d'amore vero e puro. Poi “glielo”
hanno portato via: così va comunque al sepolcro, e se non può stare con il
corpo vivo del “suo amore”, ci starà con il corpo morto. Ma là non trova più neppure
quello! Lei infatti sente Gesù come cosa “sua”: “Hanno portato via il mio Signore”: quando amiamo, sentiamo l'altro
come nostro; lui ci appartiene e noi gli apparteniamo. Sentiamo di non poter vivere
senza di lui; sentiamo che la vita non ha senso senza di lui, senza quel
rapporto, senza quell'amore. Ebbene: quello che vuol indicarci Giovanni è Il
grande passaggio di Maddalena: il suo
è un passare dall'amore perché “sei mio”,
all'amore “sei di tutti”, “sei della
Vita”; dall'amore “ce l'ho vicino”
(l'amore fisico, esterno, di presenza, di vita), all'amore “ce l'ho nel cuore” (l'amore interno,
dell'anima).
E se
fuori i nostri amori ci possono essere sottratti, dal nostro cuore nulla ci può
essere rubato. Dentro di noi non perdiamo mai chi amiamo, nulla potrà mai esserci
veramente sottratto, mai!. È questo il grande passaggio: dall'amore di attaccamento all'amore di libertà. Gesù le dirà: “Non mi trattenere”: “Lasciami andare,
non sono tuo, sono mio e della Vita. Non ti attaccare”. Amiamo le persone ma
non attacchiamoci ad esse perché non sono nostre; godiamo di loro e viviamo
dell'amore, ma non facciamo del nostro legame un idolo e un possesso. Quando la
Maddalena, dopo la sua “conversione interiore”, torna dai discepoli, dice: “Ho visto il Signore”; non dice più “il mio Signore”. Lei continuerà ad
amarlo dentro di sé, ma non è più suo:
lo ha lasciato andare. È il grande passaggio: ma se muore l'amato, non muore
l'amore.
Così,
quando arriva la Maddalena e annuncia ai discepoli la scomparsa di Gesù, Pietro
e Giovanni corrono a vedere. Non è la
corsa dei due discepoli che Giovanni vuol farci rimarcare. Egli vuol dire appunto
qualcos'altro di molto più profondo.
Pietro
è la testa, l'intelligenza, la razionalità, la concretezza, la praticità delle
azioni e dei pensieri. Arrivati al sepolcro, lui entra e vede “le bende per terra e il sudario”, ma
non ci capisce nulla. Per Giovanni è diverso: di lui dice infatti che “vide e
credette”; di Pietro dice semplicemente che “vide”, ma non che “credette”. Credere
è amare. Pietro la razionalità, Giovanni l’amore: egli giunge per primo, ma dà
la precedenza al secondo, alla “razionalità”: a lui basta un colpo d’occhio
dall’esterno; vede e crede. Non è un caso il suo; egli rappresenta il cuore,
l'amore, il sentire, la sensibilità, colui che è vicino al cuore di Gesù, della
Vita. È colui che è in grado di percepire con “l'interno”.
Ecco,
questo è il messaggio di Giovanni. Azzardo una sintesi: nessuno potrà mai
vedere Dio, se il suo cuore non è vivo, non è in grado di percepire, di
sentire, di vibrare alla Vita. Anche qui c’è dunque un “passaggio”: Pietro, dopo
la sua conversione, diventerà quello che Giovanni è; Giovanni invece è già
quello che Pietro sarà. Il grande passaggio è aprire il proprio cuore all’amore,
è tornare a sentire il palpito della Vita. Il Vangelo non ha dubbi: se vuoi “vedere
il Signore” il tuo cuore deve essere vivo.
Altra
considerazione: l’importanza delle “ferite”, del dolore. Quando la nostra anima
grida di dolore, noi cosa facciamo? Abbiamo paura: cerchiamo di non sentirla. Abbiamo
dei bisogni? cerchiamo di ignorarli. Abbiamo subito un trauma? meglio lasciarlo
da parte. C'è qualcosa da affrontare? meglio non farlo, perché poi nascono problemi.
Ma Giovanni
dice: “Bisogna toccare le ferite;
bisogna mettere il dito sulla piaga, bisogna curarla; perché finché una ferita
è viva, continua a sanguinare, ci fa urlare, ci impedisce di vivere e soprattutto
ci impedisce di amare”.
Le
ferite ci rendono vulnerabili. Nessuno di noi vuole soggiacere, nessuno di noi
accetta di essere ferito; siamo tutti diffidenti; e lo saremo finché non scopriremo
l’Amore, il più grande, quell’Amore che ha sopportato le più strazianti ferite,
che ha affrontato perfino la morte per amore nostro.
Rifugiamoci
anche noi, allora, nel “cenacolo”: predisponiamoci ad incontrarlo veramente.
Andiamo in chiesa, con il nostro cuore ferito: chi di noi non ha ferite? Chi di
noi a sua volta non ha ferito? Andiamo in chiesa con le nostre mani ferite: sono
state legate, inchiodate, paralizzate, è vero; ma le “nostre” mani hanno anche colpito,
umiliato e ferito i fratelli.
Andiamo
in Chiesa a incontrare Gesù, perché si posi nella nostra mano e ci guarisca (la
comunione). E poi mangiamolo, Gesù, perché entri nel nostro cuore, lo guarisca
e lo risani. Ecco, fratelli, la Pasqua domenicale, l’Eucaristia è proprio
questo incontro che ci ridà la forza di guardare a ciò che ci fa male, a ciò
che non va, a ciò che non ci piace, a ciò che metteremo in un angolo, che non
vorremmo mai vedere.
L'Eucarestia
ci dà la forza per toccare le nostre ferite, per metterci mano, per guardarle
in faccia. In questo senso l'Eucarestia è terapeutica, risanatrice, curativa,
lenitiva, trasformativa.
Giovanni
vuol dire proprio questo: che l'incontro con l’Amore, con l’Eucarestia, è un incontro
che ci salva, che ci guarisce. E ci offre tante allusioni all'Eucarestia con le
parole di oggi: “il primo giorno dopo il
sabato”, è la domenica, è il giorno del Signore, il giorno dell'Eucarestia.
“Pace a voi” è il saluto di Gesù, è
il saluto delle prime comunità cristiane che si ritrovavano per il banchetto
eucaristico. Il “toccare” è il segno domenicale
del toccare/ricevere il corpo di Cristo. “Mio
Signore e mio Dio!” è ciò che ci deve succedere in ogni eucarestia:
un'esperienza, un incontro vivo. In ogni messa noi dobbiamo far esperienza del
Risorto, toccarlo, sentirlo.
Tommaso
non rappresenta colui che dubita, ma colui che deve fare esperienza per poter
credere. Del resto, vale per tutti: non possiamo credere in qualcosa che non abbiamo
conosciuto, sentito, visto, toccato, percepito.
“Beati quelli che pur non
avendo visto crederanno”:
dalla morte di Gesù, come abbiamo detto, non è più possibile vederlo
fisicamente: ma possiamo vederlo e sentirlo interiormente sia nell’eucarestia, come
nei nostri fratelli.
Ma
dobbiamo fare attenzione: non confondiamo il fine con i mezzi.
I “mezzi” - il canto, le letture, la
celebrazione, le parole, i bei riti, la liturgia - ci devono servire solo per
arrivare ad incontrare il “fine”,
Gesù in persona. Ma se la messa non è un'esperienza, un vero incontro, se noi non
usciamo dalla messa con la sensazione chiara, netta, definita, di averlo
sentito vivo in noi e in quella comunità, la nostra messa è stata inutile, non è
servita a nulla. Come facciamo a ricaricarci, trasformarci in Amore? Cosa
riusciremo poi a trasmettere nella carità ai fratelli? Penso che a questo punto
dobbiamo farci delle serie domande: perché, fratelli, l'Eucarestia, è rendere
vivo, incontrare un Vivo, non un morto! L'eucarestia non è il semplice ricordo di
un fatto storico, ma è fare esperienza del Risorto oggi. L'eucarestia è
un'esperienza sanante, guaritrice, un incontro con Colui che è la Vita e che ci
fa vivere. E se un incontro c'è, si vede, si sente, si percepisce anche all’esterno,
perché ci cambia. Altrimenti non c'è incontro, ovvio!
Allora
chiediamoci: le nostre Messe sono esperienze di Vita, esperienze del Signore
Risorto? Oppure rispondono ad un’usanza, a un qualcosa che “dobbiamo” fare perché
gli altri lo fanno? Quando usciamo ci sentiamo trasformati? Parlano al nostro cuore,
lo fanno vivere, lo fanno vibrare? Quando ci accostiamo all'Eucarestia cosa
cerchiamo? Il corpo vivo e palpitante di Cristo cosa rappresenta per noi? Un'esperienza,
un anestetico, un calmante oppure la vera Vita? Possiamo dire dopo un'Eucaristia:
“Sì, o Signore, io ti ho visto, ti ho toccato, ti ho incontrato, ho sentito la
tua voce parlare al mio cuore?”. È questo incontro, fratelli, che accresce la nostra
Vita. Perché Lui è la Vita, e incontrarlo significa vivere veramente e far
vivere di più. Amen.