«Il popolo era in attesa e
tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il
Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene
colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei
sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16.21-22).
Giovanni
Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione
è molto attuale ed efficace e la gente lo segue con attenzione. In molti si
chiedono addirittura se non sia lui il Messia, il Cristo, l'Aspettato da sempre:
lo sentono parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi
perché la fine è vicina!”; di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel
condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente corre da lui in massa per
farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmette è certamente quella di
un Dio che ama; ma è anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice
imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce
e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in
maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio
– ci fa capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua
pazienza ha un limite. Dobbiamo pertanto, prima che sia troppo tardi, correre
ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige solo la perfezione, non fa sconti, ma opera
con giustizia, rigore,intransigenza: ricompensa i giusti con il premio del
paradiso, e castiga i malvagi con la condanna all'inferno, allontanandoli dalla
sua presenza. È un Dio che non prevede la spensieratezza, la gioia gratuita, il
divertimento, ma incita ad un impegno continuo, massimo e progressivo; con Lui bisogna
essere sempre in presa diretta, guardando continuamente in alto, bravi,
perfetti, in regola.
Farsi battezzare
nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima con
l’immersione nell’acqua, è quindi per chi lo segue l’unica soluzione per
liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente
alla realizzazione di quel progetto che Lui ha previsto per ogni creatura.
Ebbene,
anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio,
il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti,
anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile
attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il
perdono per i loro peccati; ma al momento della sua discesa nelle acque del fiume,
tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile,
straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”,
assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù,
che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto
di quanto egli valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende subito
conto che il “suo” Dio, che è poi il
Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di
Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu
non sei così! Non c'è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno
insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando,
ti conosco veramente per quello che sei”.
È così
che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”, diventa
un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà
in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi
infatti, più che al battesimo di Gesù
(egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito
“paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol qui descrivere, pertanto,
va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di routine; il suo è invece
un tentativo di esprimere una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima
di Gesù; un cambiamento interiore innegabile, che repentinamente si è reso visibile,
riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua
stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile”
da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che
tutti hanno avuto modo di percepire:
«Cieli aperti», sottolinea Luca: il mondo del
cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta, indissolubile comunione,
in costante collegamento; e sono aperti
per rendere possibile qualunque comunicazione.
«Discese sopra di lui lo
Spirito Santo in forma corporea, come una colomba»: non che ci fosse una colomba
in carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di
soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in
grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente
sentito entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante
osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all'inizio della storia del
mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso però
(in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha funzionato:
l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è il nuovo
inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo nuovo che
ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo Spirito
divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il garante. E
- come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di profeti, di
sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù la
particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale,
indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile.
«Venne una voce dal cielo»: non si tratta di una voce
esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in preghiera); ma è una voce silenziosa,
interiore; ciò che Gesù sente, lo sente dentro di sé; sono parole rassicuranti,
che lo mettono di fronte a se stesso: “Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio
Padre; gli piaccio (si compiace); io sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto
così: sono il suo prediletto, il suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi
ha inviato qui su questa terra, per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”
Il
centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi, come ho detto, la “purificazione”
da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza”
inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella
Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei
grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me,
non ti abbandonerò, non mi sfuggirai dalla mia mano, nessuno ti rapirà da me;
tutto ciò che esiste l'ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; mi
appassiono a te, sei nei miei pensieri, non cadrai mai al di fuori dal mio
sostegno; non mi devi dimostrare nulla, io ti amo già per il solo fatto che sei
mio figlio; per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre,
e tu sarai sempre mio figlio; tu sei per me come nessun altro; sei unico per me:
ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene…”.
È proprio
l’assorbimento intimo da parte di Gesù di tali concetti “messianici”, il suo
riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella vita di
Gesù: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio
obbligatorio da superare, durante il quale Egli prende chiaramente coscienza di
chi è e di cosa è chiamato a vivere e ad annunciare.
Che cosa
poi in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo
sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai
più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente
di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere
nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare
le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le
altre.
Una
vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato
attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice
chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti
ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno
distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una speciale chiamata di Dio:
forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta
di una chiamata tramite cellulare e neppure per “sms”. Ma per tutti, una tale
occasione, è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza
che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da
cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci
sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione
(ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa
e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci.
“Essere chiamati da Dio” significa percepire
un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che
ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e
bello. Per inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati,
nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome. Era un modo per indicare
una verità molto più profonda e personale: “da quando ho detto sì alla tua
chiamata, Dio, non sono più io; sono un'altra persona, ho un altro nome”.
Ecco, fratelli;
se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”, viverla con
l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori,
limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni,
perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci
conto del non fatto, dell'incompiuto, delle occasioni perse, degli errori
ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutta la nostra
miseria, con il nostro niente di fatto, con tutte le situazioni peccaminose e
mortali che rendono asfittica la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai
ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare e lavare. Dobbiamo
tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra
casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così
potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: lo Spirito d’Amore che
solo ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a
noi, fratelli, se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti
di essere delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun
Giordano; guai a noi, lo ripeto, perché così non arriveremo mai a incontrare e
a conoscere l'amore di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore
gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale”
delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun
diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in
obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre
presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra
presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore, fratelli, non si
“contrappone”, non è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo a
servizio, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente,
come “risposta” alla “chiamata/amore”
di Dio!
Ascoltiamola
dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata, fratelli: ascoltiamo la
Voce dell'Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene
così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la
voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire
comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo,
laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
In
questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste consolanti
sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita, tocchino il
profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d'ombra, nelle zone buie,
ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una musica celestiale
confortevole. E infine fidiamoci, fratelli, di questa Voce; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente a questa
“chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là
dove Egli ci aspetta. Amen.
«Alcuni Magi vennero da oriente
a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo
visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,1-12). Il
brano del vangelo di oggi è tratto da Matteo e appartiene a quella serie di racconti
riportati da Luca e Matteo sui primi anni di vita di Gesù, denominata appunto “Vangeli
dell’infanzia”. Uno giustamente potrebbe chiedersi che cosa rappresentino questi “vangeli dell’infanzia”,
se cioè siano un’antologia di fatterelli, di storielle per sprovveduti, di favolette
per bambini. Niente di tutto questo. In realtà si tratta di veri e propri
trattati teologici, con un pò di storia, ma soprattutto con tanta teologia. Non intendono,
cioè, documentare eventi storici, fare una scrupolosa cronistoria di come Gesù abbia vissuto i suoi primi anni, anche se oggi la quasi totalità dei critici è
concorde nel riconoscere a queste pagine una certa verità storica. Luca e Matteo si
preoccupano piuttosto di spiegare che cosa significhi per l’umanità intera la
nascita di Gesù come uomo, il perché della sua venuta su questa terra, i messaggi che ha voluto trasmettere all'uomo attraverso i piccoli avvenimenti della vita terrena del Dio-bambino. E lo
fanno a modo loro. In questo senso potremmo infatti cogliere il messaggio della pagina del vangelo di oggi definendolo come “la caduta
delle illusioni”.
I
singolari personaggi chiamati in causa come involontari artefici di questo rivoluzionario cambio di valori, sono i “Magi”: una
presenza imbarazzante, inammissibile, figure considerate sempre in negativo, con disprezzo, dalla
Bibbia; basti pensare alla condanna della magia nel Levitico (19,26), ai maghi dell’Esodo diretti
antagonisti di Mosè, al famoso Simon mago degli Atti ecc. Il significato del
termine “maghi”, in greco, non è peraltro molto accattivante: significa “imbroglioni,
ciarlatani, coloro che predicono menzogne”.
Perché
allora Matteo, unico tra tutti gli evangelisti, introduce questi “ceffi” al cospetto
del Dio Bambino? Come mai da “maghi” diventano “Magi”? Come mai da truffatori e
impostori vengono qui trasformati in persone rispettabilissime, studiosi,
cercatori della verità, Re di popoli, con i nomi altisonanti di Gaspare,
Melchiorre e Baldassarre?
È
chiaro che la loro storia è proposta qui soprattutto per l'universalità del suo significato simbolico.
Il loro apparire segna infatti l’inesorabile tramonto di quella antichissima illusione, che
fino ad allora costituiva la certezza e il vanto del popolo ebraico: Dio non è più una loro esclusiva. La prova? Ci viene dal
significato stesso dei doni che i Magi portano a Gesù. Doni che non sono
assolutamente casuali.
Il
primo è l’oro: un dono regale, un dono di grande rilievo, riservato ad un eminente
personaggio (1Re 9,11.28), in quanto
espressione di potenza e di regalità. Un dono degno di Dio. Ma in
questo caso, e qui sta la novità assoluta, coloro che offrono questo
metallo prezioso al Re Gesù, riconoscendolo quindi come Sovrano dei popoli, non
sono gli ebrei, i giudei, coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, riconoscerlo
come Messia, acclamarlo; sono al contrario dei pagani, anzi dei maghi, degli
odiati, eretici sapientoni, gente della peggior specie: e sono proprio loro che, venuti da lontano,
lo riconoscono e lo adorano come re dell’universo. Si avvera cioè quello che Gesù stesso avrà
modo di confermare: “Ora io vi dico che
molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo,
Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). Questa è la caduta della
prima illusione: Dio non è più il re esclusivo degli ebrei, ma di tutti quelli
che lo riconoscono e lo accolgono.
Il
secondo dono è l’incenso. L’incenso era l’elemento specifico dell’uso
liturgico, utilizzato soprattutto nei momenti più importanti e nelle offerte di
ringraziamento (Lv 2,1-2; 1Sam 2,28).
Ma cosa succede questa volta? Non sono più i puri sacerdoti del tempio, quella
casta di ebrei purosangue che unici, nel culto, potevano rivolgersi alla
divinità; ora, ad offrire incenso, sono dei pagani, dei maghi infedeli. È la
fine della seconda illusione: è finito cioè il tempo del popolo “eletto”, Dio
non è più privilegio esclusivo di Israele, popolo sacerdotale per eccellenza:
Dio è di tutti gli uomini, di tutta l'umanità.
Il
terzo dono è la mirra. La mirra è una resina che ha una fragranza molto intensa,
un profumo penetrante; è il segno dell’amore coniugale, il profumo con cui l’innamorata
conquista il suo amato: “Ho profumato il mio giaciglio di mirra” leggiamo in Pr 7,17. Ma anche in questo caso, chi è che offre al suo innamorato la
mirra, segno di intimità, di amore? Non è più Israele il popolo eletto, la
sposa fedele di Jahweh, ma sono dei pagani, dei lontani da Dio, gente che
appartiene a popoli condannati dagli stessi ebrei. E cade la terza illusione: viene
meno la certezza di un Dio-sposo, si spezza l'indissolubilità di quel vincolo di
fedeltà coniugale tra Dio e il suo popolo: Dio cioè non ama più soltanto Israele,
il popolo eletto; Dio ama tutti i popoli, di ogni razza e nazione.
L’arrivo
dei Magi, dunque, sancisce la fine delle più forti, delle più grandi illusioni
di Israele: illusioni legate alla certezza di essere l’unico, il “prescelto”,
il solo popolo “di Dio”. Una constatazione veramente sconvolgente per una cultura improntata ad un rigido monoteismo. La fine di
una mentalità religiosa elitaria.
Beh,
fratelli, penso che anche per noi, uno dei momenti più difficili da
superare nella nostra vita, coincida proprio con la caduta delle nostre illusioni più
radicate. La realtà e la verità purtroppo sono sempre difficili da accettare,
da accogliere, da sentire e da vivere. Lo è per tutti. Sembra un gioco di
parole, ma l’illusione, quando cade,
crea sempre grande delusione. Solo la
disillusione ci permette di vedere la
realtà per quello che è.
Quando
ci imbattiamo in un aspetto della vita che ci è difficile far nostro,
da accettare, inconsciamente noi, quasi per proteggerci, ci rifugiamo nella illusione; ci costruiamo cioè
una protezione fittizia che ci tranquillizzi, che ci difenda da quella realtà che noi riteniamo pericolosa e dolorosa. Chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere la
realtà: magari tutti gli altri la vedranno anche, ma noi no.
L’illusione
è la nostra sicurezza, ad essa ci attacchiamo visceralmente; per essa
accettiamo qualunque compromesso, facciamo di tutto perché non cada. È una fortezza,
un muro che ci protegge, un porto che ci tranquillizza.
È
quindi inevitabile che nel momento stesso in cui essa cade, qualcosa di profondo si
spezza dentro di noi. Rimaniamo ammutoliti, attoniti, senza fiato. Mai avremmo potuto anche
solo pensare che ciò potesse accadere. Perché il punto è proprio questo: ogni
illusione spezzata ci costringe a cambiare “credo”, a rivedere i cardini della
nostra fede, a riformulare, ricreare il nostro pantheon di certezze. Sono momenti che richiedono tanta fede; fede autentica, e non solo: autentica umiltà,
autentica volontà, autentico carattere: con le illusioni se ne vanno, oltre alle nostre
certezze, anche i nostri entusiasmi, i nostri presunti traguardi vittoriosi; quindi bisogna ripartire da zero.
Quando cade una nostra illusione, fratelli, pur se fittizia e irreale, non è mai
un momento liberante, un’occasione di vittoria, ma sempre una circostanza dolorosa,
difficile. Ci accorgiamo improvvisamente di aver vissuto, lungamente e
convintamente, in funzione di qualcosa di aleatorio, di irreale, di inesistente. Dobbiamo
riacquistare la vista, l’equilibrio, la vita: in altre parole dobbiamo rientrare in noi
stessi, dobbiamo “cambiare” rotta, dobbiamo “convertire” il nostro senso di
marcia; perché solo così la “verità ci
farà liberi” (Gv 8,32), solo così potremo guardare il domani con rinnovata
fiducia. Detto così è facile: invece, fratelli miei, com’è difficile il cammino
nella verità! Ci vuole tanto tempo e fatica per ricostruire ciò che in
un solo istante ci è crollato addosso. La delusione è sempre dietro l'angolo. Le basta poco per ghermirci, anche una piccola notizia. Come è
successo a Gerusalemme: dice Matteo che “rimane turbata” (2,3), terrorizzata, nel sentire dai Magi che il Messia è venuto, e lo ha fatto in
maniera diametralmente opposta da come lei se l'aspettava. Erode va fuori di
testa quando gli viene sottratta l’illusione di essere lui il vero e unico re. E
gli ebrei poi condanneranno a morte Gesù, proprio perché aveva mandato in frantumi le loro certezze religiose.
Guardiamo
allora con fiducia soltanto a Dio, fratelli: perché è Lui l’unica realtà immutabile, incrollabile; il
resto è solo illusione. Amiamo questa Realtà, attacchiamoci ad
essa, perché amare ciò che non esiste (l’illusione) non serve a nulla. Viviamo
in questa Realtà, perché vivere in ciò che non esiste, è non vivere. E se venisse a cadere una nostra illusione, ringraziamo Dio per averci scosso da quel fuoco
fatuo, portandoci più vicino a Lui, vero fuoco d’amore autentico. Amen.
« Il fanciullo Gesù rimase a
Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo
trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li
interrogava... “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io,
angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Scese dunque con loro
e venne a Nazaret e stava loro sottomesso… E Gesù cresceva in sapienza, età e
grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,41-52).
La
prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando
parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta?
Immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù, non abbiano mai avuto alcun imprevisto,
non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi
della vita. Invece il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi
drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la
scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù
ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età
adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a
questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale
posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle
aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da
Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso
e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche
chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere
così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e
ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene
fratelli: non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente
infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero
immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né
con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare
uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette
insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro solo Dio: nessun altro! Né la madre,
né il padre.
Il
vangelo dice che “come tutti gli anni”,
secondo l'usanza, la famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate
le usanze di quando eravamo ragazzi?
Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi
il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere
ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i
ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti,
di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non
vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma
come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi
capricci?”. Era l’usanza, si era
sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose,
riconoscere che noi eravamo cresciuti, che avevamo soprattutto bisogno della
nostra indipendenza.
Anche
qui, il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme
senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche,
la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; non erano preparati a
vederlo nella prospettiva del suo domani; è successo anche a loro esattamente
quello che è accaduto, accade e accadrà, in tutte le famiglie di ogni tempo.
Anche da
noi: i figli sono il centro della nostra vita. Vivono con noi; li cresciamo, li
educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo
loro cosa è buono e cosa non è buono, siamo il loro modello di vita, l’esempio da
imitare. Essi imparano da noi, ci stimano, ci amano perché siamo il padre e la
madre; ci stimano al di là di ciò che facciamo o non facciamo, per il solo
fatto che noi li abbiamo messi al mondo e siamo il loro riferimento. Comandiamo
ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco come
è successo con Gesù, si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata:
qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in
più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa
ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Noi i nostri figli
li stiamo perdendo e non ce ne vogliamo rendere conto.
È che noi
siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il
mio bambino” (ma, fratelli miei, il bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo”
(ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si
sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti
i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro”: li hanno fatti nascere, li hanno fatti crescere; hanno
faticato tanto, hanno speso per loro energie, tempo e denaro, ansie e notti insonni.
Sentirli quindi come una loro “proprietà”, è quasi un diritto. Soprattutto per la
madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto,
anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse,
anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei
figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare. Del
resto i figli l’amano perché non possono stare senza di lei: la madre per loro è
importante, è un punto essenziale di riferimento: è quindi naturale amarla. Una
realtà che la rende sicura di ricevere per sempre il loro amore.
Ma
attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio
così dolce che me lo mangerei!”: ora,
finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano
emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con
il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la
sua crescita, allora “se lo mangerebbe”
per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli
l'anima.
Un genitore,
una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che
quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li lega,
e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una
loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono
attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi
quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro
i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
Deve essere
stato duro anche per Maria e Giuseppe lasciare andare Gesù; era il loro unico
figlio, il prediletto, sul quale avevano puntato tutto, avevano riposto in lui tutte
le loro attese.
È così
difficile accettare che i figli siano grandi;
è così difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è così
difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre,
di continuare a proteggerli oltre il normale; è così difficile lasciare loro spazio;
è così difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri
figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero
mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e
facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore,
questo è innegabile, ma così facendo non è che facciamo loro del gran bene. Se
continuiamo a togliere tutti i sassolini davanti ai loro passi, cosa accadrà
quando dovranno superare i macigni, quando dovranno fare i conti con le vere contrarietà
della vita? Riusciranno a reggere il peso delle inevitabili delusioni? Cadranno
in depressione? Verranno travolti, sommersi?
Quando
finalmente trovano Gesù nel Tempio, Maria e Giuseppe gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono
concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento
che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo
scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si
sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo
perduto: una constatazione molto dura.
Anche
perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non
sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole:
“Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è
Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già
passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio
della Vita; deve seguire il mandato del Padre, la Vita, lo Spirito, la Voce della
Sua chiamata; e non già la loro di voce.
E qui
il vangelo fa scrupolosamente notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
A ben
guardare, Maria e Giuseppe non capiscono tante cose nella loro vita: Giuseppe
non capisce cosa sta accadendo alla sua fidanzata che è incinta; poi deve
scappare in Egitto senza sapere il perché; vede nascere questo suo figlio tra
canti, tra angeli e Gloria e non sa spiegarsene la ragione; e ora al tempio, non
capisce la risposta di Gesù. Maria dal canto suo non capisce la sua gravidanza;
l'angelo le comunica un mistero enorme al quale dice “sì”, ma rimane turbata,
perplessa, piena di paure e di domande; alla nascita di Gesù anche lei cerca di
darsi una spiegazione in cuor suo di ciò che le sta accadendo; e anche lei,
come Giuseppe, non capisce a questo punto la reazione decisa del figlio; e più
avanti faticherà ancora molto per capire i gesti di suo figlio: sembra quasi non
capacitarsi di avere un figlio così decisamente diverso dagli altri.
La
storia di Maria e di Giuseppe è costellata quindi dal non capire, dal non
comprendere, dal mistero: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben
preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto
rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano
e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Allora
a questo punto chiediamoci: perché noi vogliamo capire sempre tutto? Perché noi
vogliamo avere ad ogni costo tutte le risposte e le spiegazioni? Perché dobbiamo
avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere chiaro tutto il
progetto fin dall'inizio e in tutti i suoi particolari? E se ci lasciassimo anche
noi semplicemente portare, condurre? E se ci fidassimo? Se smettessimo di voler
capire tutto, confidando un po’ di più in Dio?
Ebbene,
fratelli, fidiamoci dunque di Dio: sappiamo che Lui sa tutto, sappiamo che Lui
agisce sempre per il nostro bene; sappiamo che ogni cosa è inscritta nella sua provvidenza;
che noi stessi abbiamo un senso solo in Lui, in un Suo progetto. Non pretendiamo
di capire tutto nella vita: viviamo accettando quello che Lui ha previsto per
noi, per i nostri figli, per la nostra famiglia, per tutti i nostri cari; viviamo
sapendo di fare la Sua volontà. Accettiamo che i nostri figli si affranchino da
noi: perché in questo modo “perderli”, significherà “ritrovarli”.
“Tornò con loro a Nazareth”, dice il
vangelo. Gesù, dopo questa esperienza, rimane con i genitori. Ma niente sarà più
come prima. La famiglia si ricompone, ma tutti hanno imparato qualcosa di nuovo,
tutti sono maturati. Gesù ora ha capito chi è, cosa deve fare, cosa deve essere.
Ma non è ancora arrivato il suo tempo: egli aspetta la sua ora, all’ombra della
sua famiglia. Giuseppe e Maria hanno ora capito che quel loro figlio non è “loro”,
che non possono decidere per lui, che lo devono lasciare andare. E gli stanno
vicino; come prima, anzi più di prima; lo rassicurano con tutto il loro amore, lo
introducono nella vita umana, gli danno tutto, pur consapevoli che un giorno
lui se ne andrà per realizzare la sua missione. Verrà questo suo tempo. Ma intanto,
nella famiglia, cresce in sapienza, età e
grazia davanti a Dio e agli uomini. Un piccolo esemplare spaccato di vita
familiare: serena, piena di amore, di rispetto reciproco, di abbandono alla
volontà del Padre. Ecco, fratelli: confrontiamo questa atmosfera con quella che
viviamo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità; verifichiamo i rapporti
che abbiamo con i nostri figli, con i nostri fratelli in Cristo, con tutti i
nostri compagni di viaggio. E soprattutto meditiamo.
Siamo agli sgoccioli di
questo anno. Porgo a voi tutti gli auguri per un radioso 2013.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente
che non vi cambieranno la vita. Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo
amore, ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E
meritarcelo. Amen.
«Mentre si trovavano in quel
luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio
primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia… E subito apparve
con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli
ama» (Lc 2,1-14).
Il
Vangelo di oggi mette a confronto due re: Cesare Augusto Ottaviano, il re
ricco, e Gesù, il re povero. Il re ricco ha il potere, la forza, il dominio;
indice un censimento di tutta la terra, perché nessuno possa sfuggire al
pagamento delle imposte di Roma; il re ricco impone: “Devi fare così, e basta”.
Il re povero ha come potere l'amore, la debolezza, la vulnerabilità. Il re
povero propone: “Se vuoi seguirmi… se qualcuno… se uno…”. Il re della forza e
della potenza contro il re della dignità e dell'amore. Uno scontro tra re.
Il
falso re, quello che si dice “salvatore del mondo”ma non fa nulla per salvarlo,
e il vero re, il vero “Salvatore del mondo”, che il mondo lo salva per davvero.
Uno
che rapina la gente, ma promette lusso, benessere, godimenti, l’altro che la
riempie di regali, dicendole però che la vera ricchezza, la vera gioia non è di
questo mondo.
Di
fronte però alle lusinghe allettanti del re fasullo di questo mondo, in tanti
hanno ceduto, si sono fatti abbagliare: ma noi, fratelli, noi che sappiamo
individuare l’autentico re, non lasciamoci sedurre, non abdichiamo alla nostra
dignità di cristiani.
Infatti,
cosa ci ripete anche quest’anno, cosa vuole confermarci ancora una volta questo
vangelo di Natale? Che Dio è venuto per noi esclusivamente per amarci: Dio non è
vendicativo, Dio non punisce, non castiga. Dio ama. Sempre. Il suo è un amore
giusto, misericordioso, impossibile, generoso, spontaneo. Siamo noi che
rifiutiamo questo suo amore. Siamo noi che gli sbattiamo la porta in faccia
preferendogli l’infelicità, l’ansia, il dolore, i castighi: siamo noi a girargli
le spalle con la nostra testardaggine,
con la nostra poca fede, con la nostra totale assenza di carità, di
comprensione, di amore. Lui no, Lui continua nonostante tutto ad amare proprio
noi, i lontani, gli esclusi, gli esiliati, i peccatori, i cattivi, gli impuri, i
traditori; Dio continua a venire per tutti noi. E viene per continuare ad amarci.
Un
giorno una bambina va dalla mamma e le chiede: “Mamma, chi è Dio?”. La mamma si
trova in difficoltà: come si fa a spiegare chi è Dio ad una bambina, quando
anche noi adulti su ciò abbiamo le idee molto confuse? Allora la mamma le dice:
“Vieni qui”: e la prende fra le sue braccia e la stringe a sé forte forte. Poi le
sussurra: “Cosa senti?”. “Sento che mi ami tanto, mamma”. “Ecco, amore mio: questo
è Dio!”.
Natale:
Dio nasce in ciascuno di noi, nasce nella nostra vita. Accogliamolo! Non verrà
come vogliamo noi. Ma verrà proprio in questa nostra vita di oggi. Natale è
oggi, fratelli, Gesù è qui per tutti noi. “Io
sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre la porta…”. Lui c'è! Lui è alla
porta! Nascosto, ma è Lui che viene a portarci amore.
E noi?
Che desolazione: una crisi internazionale affligge oggi il mondo: homo homini lupus. Viviamo nella cultura
dell’uno contro l’altro: ma abbiamo mai pensato che se uno vince, l’altro
necessariamente perde? Perché non trovare una soluzione che ci veda tutti d’accordo?
Se noi invece lottassimo tutti uniti contro la fame, la miseria, le malattie,
le violenze? Certo andare tutti in una direzione oggi non è cosa facilmente
realizzabile : ma neppure impossibile. “Io
insieme a te”. E se iniziassimo noi, nel nostro piccolo?
Tutti
abbiamo un po' di verità: ma ognuno difende le sue vedute, ognuno pretende di
essere solo lui nel giusto: e se cominciassimo noi a valorizzare ciò che ci
unisce piuttosto che moltiplicare ciò che ci divide? E se iniziassimo noi a
stimarci reciprocamente? E se lavorassimo insieme per un ideale comune, più
umano? Se ci volessimo tutti veramente bene?
Sono
sicuro che i più penseranno: “Impossibile, è fantascienza, questa crisi non si
risolverà mai con una stretta di mano!”. Niente di più falso: se tutti insieme lo
volessimo veramente, prima o poi raggiungeremmo sicuramente tale obiettivo. L’importante
è volerlo. Virgilio disse in proposito una grande verità: “Possiamo! Perché siamo convinti di potere”. Se non siamo convinti di
potercela fare, non ce la faremo mai.
È Natale:
Dio si è incarnato. L’impossibile è divenuto realtà. Dio è carne, è qui con
noi: e con Lui, con il suo amore, tutto è più facile, tutto diventa possibile anche
per noi. Amen.
«Appena Elisabetta ebbe udito
il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata
di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto
il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da
me?» (Lc 1,39-48).
Il
vangelo di oggi ci propone l'incontro dell’anima di due donne, entrambe
incinte. Maria ed Elisabetta sono parenti, sono cugine. Per la Bibbia, essere
parenti, non indica tanto una consanguineità quanto una comunione di vita, una
condivisione di esperienze. Entrambe infatti hanno una illuminazione divina, una
intuizione profonda. Entrambe vivono una particolare situazione di impedimento,
di “chiusura” nei confronti della loro possibilità di generare nuove esistenze:
Maria è giovane ed è soprattutto vergine, non conosce uomo e quindi nessun
figlio può nascere da lei; lo stesso impedimento vale per Elisabetta, in quanto è vecchia, in
età troppo tarda. Ma l’impossibile per gli uomini, diventa possibile per Dio. Nel
nuovo Testamento, nella seconda creazione, Dio punta decisamente sul femminile,
su Maria. Ciò non va interpretato come una esaltazione della donna sul maschio,
quanto piuttosto come affermazione che saranno solo quei valori tipicamente
femminili - l'amore, la tenerezza, la misericordia, l'ascolto, l'accoglienza – che
ci salveranno. Non sarà la forza, non sarà l'autorità, non sarà la potenza, non
sarà la spada, non sarà la violenza, ma saranno solo l'amore e l'accoglienza.
Nelle
due nascite accennate dal Vangelo di oggi, le due figure maschili dei mariti non
sono di alcun sostegno: Zaccaria diventa muto durante la gravidanza della
moglie Elisabetta (non ha creduto all'impossibile) e Giuseppe non partecipa
alla generazione di Gesù. Non vogliamo dire che Zaccaria e Giuseppe non abbiano
partecipato in quanto uomini, ciascuno con un ruolo diverso, al concepimento
dei loro figli; ma che in entrambi i casi l’uomo ha dovuto misurarsi
personalmente col divino. Era questo il modo con cui gli antichi tentavano di spiegare
la realtà della inabitazione di Dio in ogni uomo: che cioè noi tutti siamo abitati
da Dio, che l'Altissimo risiede realmente in noi, e che di conseguenza tutti dobbiamo
curare, sviluppare, far emergere quel seme divino, messo a dimora da Dio stesso
nella nostra anima. La vera “generazione”, la nostra vera paternità a cui siamo
destinati (la nostra chiamata) consiste proprio nel far nascere questo “figlio
divino” che è dentro di noi, che vuole nascere, e che ognuno di noi deve partorire.
Sì, noi tutti, fin dalla nascita, abbiamo questo “seme” divino dentro di noi: è
Gesù, è la nostra anima. E noi tutti siamo responsabili della sua crescita. Se non
riusciamo a trasmettere questo concetto, questa verità, ai nostri figli, alle
nuove generazioni, al mondo intero, vuol dire che noi stessi non sappiamo di
averlo, non abbiamo mai cercato come dovevamo, non abbiamo mai trovato l'anima
dentro di noi.
E la
natura umana, fratelli, senza l’anima, privata dello stupore e della
meraviglia, diventa fonte di inquinamento e di morte. Una creatura vivente,
senza l'anima, è come una pianta senza radici. È amorfa. Un uomo senza l'anima
diventa un fantoccio, zeppo di lustrini luccicanti, di trucchi e ritocchi, ma
senza una linfa o un'energia che gli scorra dentro. Una vita senz'anima diventa
una vita venduta esclusivamente al materiale, al lavoro, alla produzione,
all'efficienza, all’utile, al divertimento. Una carezza senz'anima diventa uno
schiaffo e uno sguardo senz'anima diventa un giudizio tagliente. Una famiglia
senz'anima diventa un compromesso; una religione senz'anima diventa pura
formalità ed esibizionismo. Così un Natale senz'anima diventa un’abbuffata di
dolci, di panettoni, di auguri,di regali e di tristi mediocrità.
Noi genitori
diamo di tutto ai nostri figli: basti vedere cos'hanno negli zaini o nelle loro
stanze. Diamo di tutto, perché tutte queste cose (appunto cose!) si vendono e
si comprano. Ma in questo modo riduciamo tutto a mera esteriorità. Ciò che invece
ci è molto difficile trasmettere loro è la nostra anima: perché l’anima non
si può comprare e non si può vendere: possiamo trasmetterla solo per
vibrazione, per passione, per intensità, per amore. Soprattutto possiamo
trasmetterla soltanto se noi per primi ne abbiamo una: se siamo senza, non abbiamo
vita, non trasmettiamo vita; senz'anima possiamo vivere e trasmettere solo l'inferno
di questa vita, il peggio.
Siamo
molto efficienti nella nostra vita: mettiamo al mondo creature, costruiamo case
e imprese; creiamo giardini e parchi, posti di lavoro e ricchezza, giochi e
divertimenti, hobbies e svaghi di ogni tipo. Escogitiamo iniziative sempre
nuove, partoriamo idee, programmi assai brillanti. Ma tutto ciò può essere
inutile: i nostri figli ci abbracciano, ma noi non li incontriamo dentro: non possono
conoscerci in profondità, perché neppure noi ci conosciamo!
I
nostri figli non conoscono l'invisibile
che c'è in ognuno di noi, in ogni creatura; e questo crea in loro la mancanza
di senso del divino; per questo non riescono ad entrare dentro di loro, dentro
di noi, dentro gli altri, dentro al mistero della Vita. Rimangono in superficie
e crescono superficiali, destinati a morire di noia e di banalità. I nostri
figli muoiono per colpa nostra, perché noi adulti non abbiamo saputo e non sappiamo
trasmettere loro l'unica cosa essenziale: l'anima che ci anima, lo spirito che
soffia in noi, il Dio che abita in noi e che vuole essere innestato da noi in coloro
che amiamo, in quanti avviciniamo.
Quando
Maria ed Elisabetta si incontrano, si lasciano andare in un forte abbraccio. Ciascuna,
infatti, ha motivi validi per consolare e rassicurare l'altra: si toccano
nell'anima, si trasmettono l’anima, si incontrano nel profondo dell’anima e le
loro anime esultano; parlano di sé, del grande mistero che sentono in loro, delle
emozioni divine che provano. Elisabetta sente il figlio palpitarle dentro, e urla
a Maria la gioia di averla lì con lei e quanto sia felice di ciò che sta
capitando anche a lei. Maria di rimando parla ad Elisabetta, ma è così felice
che canta: si sente così amorevolmente accolta da Elisabetta, da poterle
finalmente dire tutto ciò che “custodiva gelosamente nel suo cuore”.
Ecco,
questa è vera amicizia, fratelli. Questa è autentica relazione di coppia.
Questo è amore. Di questo noi dobbiamo sovrabbondare, di questo dobbiamo esultare
quando, nelle nostre relazioni, le anime si sfiorano e si toccano
reciprocamente.
Ci
sono tre cose che ci appagano pienamente nella vita: entrare nell'animo di
qualcuno e sentirci parte della sua vita; far entrare qualcuno nel nostro animo,
e sentirlo parte della nostra vita; entrare entrambi nel mistero della Vita, e
sentirci in comunione totale, in unione con il Tutto.
Maria
si mette in viaggio e raggiunge in fretta Elisabetta: non ci serve sapere se
ciò sia realmente accaduto: ciò che conta è il senso di quanto accaduto, cosa
esso significhi per queste due donne e per ciascuno di noi: Maria ed Elisabetta
infatti si sono incontrate nel profondo, nella loro parte più vera, più viva,
più autentica. Succede così anche a noi? Permettiamo anche noi agli altri di
incontrarci nel nostro profondo? O li blocchiamo alla superficie, al nostro
apparire, alle nostre esibizioni, alle nostre maschere esteriori? No, fratelli:
non è così che dobbiamo incontrare l’altro. Non importa quanta distanza abbiamo
messo tra noi. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra di
noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda all'angoscia
o al panico. Tutto questo non ha nessuna importanza: perché se riusciamo a incontrarci
nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo.
Incontrando
e facendo incontrare la nostra anima, troviamo la serenità. Solo incontrando e
facendo incontrare lo Spirito che ci inabita, nella completa nudità del nostro
essere, possiamo aprirci con Lui e con i fratelli: possiamo confidare le nostre
paure, esternare ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessare le nostre
gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti,
le nostre sofferenze; solo in questi incontri possiamo aprirci e raccontare i
nostri sogni, spiegare le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri
segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi. Insomma: dobbiamo comunicare l'anima
non parole vuote, quando parliamo con i fratelli; dobbiamo dare l'anima e non
un corpo, quando facciamo l'amore; l'anima e non dei riti, quando preghiamo.
Allora, e solo allora, incontreremo veramente l’altro; allora, e solo allora, sperimenteremo
la sacralità della vita. E se ciò qualche volta ci fa male o è difficile o ci
fa soffrire, pazienza, perché la Vita è qui.
Viviamo
la Vita, fratelli: viviamo la nostra anima. Perché ogni volta che uccidiamo la nostra
anima (il Figlio divino che è in noi), uccidiamo ciò di cui abbiamo più bisogno.
E
concludo: all’uscita di un Grande Magazzino di giocattoli, escono un padre, una
madre e una figlia di sei-sette anni: sono pieni di pacchi regalo. La figlia però
continua a lamentarsi, a “frignare”, a fare capricci. Il padre spazientito le
dice: “Ma cosa vuoi di più, ti abbiamo preso di tutto!”. E la figlia: “Ma papà,
per favore, prendimi per mano!”.
È di anima,
di amore, di cuore, di profondo che abbiamo bisogno, fratelli: non di cose superflue,
di regali inutili. Non sono questi che nella vita ci rendono felici e soddisfatti.
Amen.
«Io vi battezzo con acqua; ma
viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei
sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,10-18).
Nel
vangelo di oggi la gente va da Giovanni Battista e gli pone una fondamentale domanda:
“Che cosa dobbiamo fare?”. Una domanda che anche oggi molti di noi si pongono: “Cosa
devo fare? C’è la soluzione al mio problema? C’è un incontro, un gruppo, un’associazione,
qualcuno a cui rivolgermi per risolvere la mia situazione? C’è un esercizio,
magari di meditazione, di silenzio o di preghiera che mi illumini sul da farsi?”
Cosa
non farebbe oggi tanta gente pur di trovare una guida veramente carismatica, in
grado di condividere i loro pesi! Purtroppo in giro ce ne sono parecchi di
personaggi fasulli che si presentano come inviati di Dio, che si spacciamo per “illuminati”,
dotati di poteri extrasensoriali, paranormali, speciali; e siccome nei deboli la
pressione della sofferenza, il desiderio di sollievo è grande, l'attaccamento a
cialtroni del genere è presto concluso.
E
visto che c'è la pillola per tutto: per dimagrire, per far bene l'amore, per
essere felici, per non essere tristi, si illudono che ci sia una pillola anche per
star bene spiritualmente, per risollevare l'anima; si illudono che la felicità,
l'amore, l'ascolto, la fiducia, si possano comprare a basso costo, che ci sia
un toccasana che risolve tutti i problemi: ma è solo un'illusione.
Basta
guardarci attorno, fratelli, per renderci conto di quanto ricco sia il
supermercato religioso. C'è la messa a distanza (purché si paghi); c’è il guru
che ci dice cosa fare nella vita; c'è il mago imbroglione che ci comunica la
volontà dei nostri morti; c'è l’emulatore di Padre Pio che promette guarigioni a
distanza; c’è chi vende numeri sicuri per il lotto e chi ci predice il futuro.
In realtà, dando retta a questi trafficoni, rischiamo veramente grosso: anche
se non ce ne rendiamo conto!
Quante
persone di nostra conoscenza vengono anche da noi a chiederci: “Che cosa devo
fare?”. Un modo velato e confidenziale per dirci: “Aiutami, cerca di risolvere
tu i miei problemi!”. Ma questo purtroppo, pur con la miglior buona volontà,
non è possibile. Ognuno deve affrontare e risolvere i propri di problemi, ognuno
deve superare le proprie difficoltà; non ci sono alternative, non sono ammesse deleghe.
Questa è la realtà; anche se non ci piace, se non ci soddisfa. Noi siamo tutti indistintamente
per le soluzioni facili e indolori. Vorremmo che ci fosse una medicina per
tutte le nostre crisi, ma non c'è. Vorremmo che una preghierina ogni tanto,
fosse la garanzia sicura contro ogni avversità della vita; ma non è possibile.
Vorremmo che ci fosse un bel “decalogo dell’amore” da imparare a memoria e da
recitare ogni tanto, per stare a posto con tutti i nostri doveri di carità; ma
non c’è. Vorremmo che qualcuno ci suggerisse il sistema giusto per eliminare tutte
le nostre difficoltà relazionali, ma non c'è. Abbiamo tutti fame di ricette
semplici, sbrigative, perché abbiamo sempre fretta. Ma non esistono ricette
semplici. Non esistono elisir miracolosi. Diceva un saggio: “Se il problema è in
te, anche la sua soluzione deve arrivare da te”.
Alcuni
si danno veramente molto da “fare”: ma non per un motivo valido, come per crescere
spiritualmente, per essere più giusti, per amare di più; lo fanno solo per apparire,
per sentirsi più bravi degli altri, per essere al centro dell’ammirazione.
Su
questo il Battista è molto pratico: chi ha, dia. In sostanza dice: “Inutile
girare a vuoto: le occasioni per intervenire ci sono, eccome. Ti accorgi che le
persone che incontri sono in difficoltà? È qui che devi agire. Ti accorgi di
essere scontroso e di non riuscire a relazionarti? È qui che devi agire. Vedi
che in famiglia non si parla, non ci si relaziona? È qui che devi agire. Ti
senti insoddisfatto della tua vita cristiana? È qui che devi agire. Ti accorgi
che non riesci mai a trovare un momento per Dio? È qui che devi agire. Sei
convinto che tutti ce l'abbiano con te, e soffri di vittimismo? È qui che devi
agire”. Insomma dobbiamo lavorare miratamente, dobbiamo agire dove c'è il
problema, non a casaccio o come piacerebbe a noi!
Perché,
ripeto, è sulle nostre opere che saremo giudicati. L’immagine che il vangelo ci
propone al riguardo, quella del contadino che divide il grano dalla pula, che raccoglie
il primo e brucia la seconda, è molto dura ma emblematica; colui che tiene in
mano la pala è Cristo: è lui che separerà le nostre opere buone da tutta la
zavorra che ci portiamo addosso: una prospettiva, fratelli, che ci deve far
pensare seriamente.
Tuttavia
non dobbiamo avere paura di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che non è Lui la
causa della nostra poca carità: siamo noi che diamo un valore aggiunto alle nostre
azioni. Non è Dio che prende l’iniziativa di punirci; siamo noi che ci procuriamo
la giusta punizione, come conseguenza del nostro comportamento. Dio non punisce
mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli, scegliendo di vivere in un certo
modo.
Se nella
vita affrontiamo tutto con superficialità, stupidamente, continueremo a vivere sempre
ignorando volutamente i problemi, senza capire mai le grandi leggi della vita;
viviamo senza renderci conto che spetta solo a noi dirigere la nostra vita, a
nessun altro!
Il
Battista battezza con acqua: è il battesimo di quei cristiani un po’ tiepidi,
che preferiscono una vita serena e tranquilla, in pace con Dio, senza grandi
scossoni. Il vero battesimo, però, non è questo: è quello di fuoco, quello del
Cristo della Vita, quello che sconvolge la nostra vita, che si impadronisce della
nostra anima, che ci proietta nella nostra parte divina, spirituale. È un
battesimo di fuoco perché ci brucia dentro, ci dà passione, energia; ci dà la
forza per andare avanti giorno dopo giorno. È un battesimo di fuoco perché
illumina il nostro mondo interiore, ci fa vedere chi siamo realmente, ci fa
capire dove dobbiamo mettere il piede. È un battesimo di fuoco perché brucia le
illusioni del mondo, quelle illusioni che nonostante la loro fatuità, amiamo
tanto seguire; ci fa toccare con mano la nostra nullità, la nostra debolezza
umana. È un battesimo di fuoco perché illumina, fa venire alla luce, fa nascere,
crescere, quel soffio di vita che ci abita dentro, la trasforma in forza impetuosa.
È di fuoco perché scuote dentro di noi il seme di Dio che dorme in noi e che
aspetta di essere risvegliato per diventare l’unico Signore della nostra vita.
Questo
è dunque, fratelli, il grande “sacrificio” (da sacrum facere, fare una cosa
santa); questa è la grande opera dell'uomo: trasformare una vita materiale, esteriore,
vuota, insignificante, amorfa, in una vita dello Spirito, in una vita di Amore
divino, in vita “viva”, piena e vera. In una parola, come dice il Vangelo,
dobbiamo “rinascere nello Spirito”.
Amen.
«Voce di uno che grida nel
deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni
burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose
diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di
Dio!» (Lc 3,1-6).
Giovanni Battista e la vergine Maria sono le due figure che ci accompagnano in questo
nostro percorso verso il Natale.
Il
Verbo, Parola di Dio, incontra Giovanni nel deserto. È un incontro vivo, che
trasforma, che rigenera, che porta a produrre nuovi frutti. Quando la Parola di
Dio all'inizio della storia scende sulla creazione, nasce il mondo e ogni
essere vivente. Quando la Parola di Dio attraverso l'angelo scende su Maria,
nasce Gesù. La Parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa
profetizzare. L’'incontro con Dio, anche per noi, deve essere quindi un
incontro che crea, che cambia, che invia, che implica cioè un nostro movimento
in avanti. Ci crea: eravamo infatti ben poca cosa, ma dopo aver ascoltato, nel
senso di “mangiato, assimilato, gustato,
fatta penetrare” la sua Parola, non siamo più gli stessi. Ha prodotto un
cambiamento radicale in noi, una nuova visione della vita e del mondo si apre
improvvisamente davanti ai nostri occhi.
Quante
parole ascoltiamo durante una giornata! Ma la Parola di Dio è diversa. Quante
parole, anche pie e religiose, abbiamo detto e ascoltato nella nostra vita! Ma
la Parola di Dio non è di quel tipo. Quante volte abbiamo udito leggere il Vangelo!
Ma anche quelle parole ci sono scivolate addosso: non è così che si ascolta la
Parola di Dio. La Parola di Dio è quella Parola che penetra in profondità, che ci
scuote (quindi è sempre destabilizzante), ci tocca violentemente, ci colpisce
nell’intimo. È quella Parola che ci torna sempre in mente, anche se non ne conosciamo
il perché; che ci risuona insistentemente nel cervello, che ci fa vibrare il
cuore, che ci riguarda da vicino; una Parola per la quale sentiamo un persistente
richiamo, un bisogno forte e irrinunciabile. È dunque quella Parola che non ci può
lasciare indifferenti. È quella Parola che fa comunque succedere qualcosa.
Molte parole
degli uomini hanno il potere di bloccare la nostra vita, di distruggerla, di
ucciderla, di chiuderla: al contrario la Parola di Dio, se la lasciamo
penetrare dentro di noi, ci infonde sempre sicurezza, carica, ci conduce alla
salvezza: “Esci fuori; alzati; ti amo; va bene così; non avere paura; ci sono
io; slegati…”.
Il
Battista dunque predica nel “deserto”.
Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa
vegetazione, inospitale, frequentata solo da pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto). Nella Bibbia il “deserto” è quel luogo attraverso cui tutti
devono necessariamente passare. Non si può arrivare in nessuna parte, in
nessuna terra promessa, se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il
proprio deserto.
Per
gli Israeliti il deserto è stato infatti
un passaggio obbligato sia dopo la liberazione dall'Egitto che per quella
babilonese; è stato un luogo necessario per Mosè, per Elia. Nel nuovo
Testamento anche per Gesù, per Paolo, per migliaia di cercatori di Dio.
Il
deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Arriva, cioè, un
momento in cui bisogna smettere di continuare a fuggire fuori da se stessi,
smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di
imbottirci di idee, di filosofie e di ragionamenti vari, e guardarci per
davvero in faccia senza mentirci. Dobbiamo entrare nel nostro deserto, dove non c'è nessun altro, dove
finalmente ci siamo solo noi.
Molte
persone hanno il terrore di stare sole con sé. C'è chi trova sempre qualcosa da
fare; si adatta a fare di tutto pur di non rimanere da solo con la sua anima. C'è
chi parla sempre, in continuazione, riempie tutti gli spazi vuoti; ma non si ferma
mai ad ascoltarsi. C'è chi non riesce a stare solo e deve stare sempre in
compagnia di qualcuno, perché ha paura di sé stesso, della sua solitudine
interiore. C'è chi non riesce neppure ad ascoltare le proprie emozioni, che le
evita di proposito perché le teme troppo. Si ubriaca di esteriorità. Ci sono persone
peraltro che nella loro vita trovano questi spazi, questo “tempo per sé”: si
riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno,
insomma, quello che di solito non fanno mai. Ma questo “stare con sé” è tutta un'altra
cosa. Per avere un’idea di come vivere sul serio nel “deserto”, facciamo una prova: cerchiamo di stare un giorno intero
senza niente e nessuno: niente libri, niente giornali, niente radio e televisione,
niente telefono, niente cose da fare, niente da scrivere, pochissimo da
mangiare, nessun passatempo. All'inizio proveremo il vuoto, il disorientamento
e cercheremo il modo più rapido per scappare. Ma se avremo la forza e la
costanza di continuare così per tutto il giorno, giungeremo a scoprire
l’esistenza della nostra anima; una importante scoperta, una esperienza
singolare, unica, assolutamente mai provata prima. Scopriremo così il lato
positivo del deserto. Un deserto che non ci incuterà più paure,
un deserto che diventerà un amico
fidato. Provare per credere.
Nel deserto il Battista predica un battesimo
di conversione per il perdono dei peccati.
Predicare,
in greco kerysso, vuol dire “urlare,
dire ad alta voce”; la radice ker
indica il “cuore”. Giovanni quindi nel deserto non fa una dotta catechesi,
lunghe disquisizioni o prediche interminabili; comunica semplicemente dei brevi
messaggi carichi di amore, che portano al cuore, che arrivano al cuore;
messaggi appassionati, diretti e incisivi, che producono nell’ascoltatore
riflessione della mente e adesione del cuore.
Il suo
è un battesimo di conversione per il
perdono dei peccati. Il senso del verbo greco “metanoèo, convertirsi, implica un “fare inversione di marcia, tornare indietro sui propri passi”;
indica cioè un cambiamento radicale nel pensare e nell’agire. Se percorriamo
una strada e ci rendiamo conto di aver sbagliato direzione, che facciamo?
Ovvio, invertiamo la marcia. Lo stesso dobbiamo fare quando ci accorgiamo che
la condotta che stiamo tenendo procura solo del male a noi stessi e agli altri.
Siamo per
caso arrabbiati col partner, con un fratello, con chi ci sta vicino, perché ci
ha offesi, perché ci ha riservato un comportamento che non abbiamo gradito? Ebbene,
che facciamo noi d’impulso? Lo escludiamo immediatamente da noi, lo ignoriamo; gli
chiudiamo per ripicca qualunque porta di comunicazione, ostentiamo silenzio e
portiamo il muso. Vogliamo cioè “punirlo”, in qualche modo vogliamo vendicarci.
Dobbiamo far pagare al malcapitato la pena per lesa maestà. Ebbene, fratelli,
non è questa la strada del nostro deserto
di conversione: non alziamo muri, non ergiamo barriere, torniamo invece sui
nostri passi, cambiamo comportamento; lasciamo perdere, non fossilizziamoci sul
chi ha ragione o chi ha torto, andiamo noi incontro al nostro fratello e spieghiamoci
con lui.
Quando
ci accorgiamo di aver detto qualcosa che non volevamo dire, di aver esagerato o
di aver ferito qualcuno, pentiamoci, torniamo indietro (metanoèo). Andiamo dalla persona e diciamogli: “Guarda, ho
esagerato; ti chiedo scusa, mi sono lasciato prendere la mano; mi rendo conto di
non averti ascoltato o di aver tentato di manipolarti; volevo aver ragione a
tutti i costi”. A che serve il nostro orgoglio se non a nascondere a noi stessi
di aver sbagliato? Non è forse una prova d’amore ammettere i propri torti? “Quello
che ho detto ho detto, e non torno indietro”: intransigenza inutile; convertiamoci, invece, torniamo indietro
dalle nostre posizioni. Il ricredersi è una grande conquista del saggio, dell’intelligenza,
oltre che della carità.
“Battesimo”,
dal greco baptizein, significa immergersi, indica l'immersione nelle
acque.
L’acqua,
oltre che elemento di distruzione, è stato anche l’elemento vitale che ha
portato salvezza al popolo ebraico. Di esempi ne è piena la Bibbia.
Per
noi è il presupposto della nostra vita cristiana: per conoscere Dio, la Vita, dobbiamo
immergerci nelle acque che contengono la luce del Risorto, la salvezza sicura; e
ciò nonostante i nostri lati oscuri, le nostre ataviche cattive inclinazioni. Rigenerati
infatti dal battesimo, dopo aver riconquistato il nostro equilibrio e aver sanato
la nostra disarmonia con Dio e con le creature, dobbiamo necessariamente confrontarci
con i nostri mostri interiori, quelli che noi chiamiamo “male”, per isolarli,
eliminarli. L’intera storia della nostra salvezza personale sta appunto nell’affrontare
nel deserto queste zone buie, di
non-luce, zone tenebrose, di peccato, per uscirne, attraverso l’acqua rigeneratrice,
finalmente vincitori, e spaziare nella luce della carità e della grazia.
Il
mondo, fratelli, non è un Eden meraviglioso, in cui godere passivamente dell’amore
divino; è un territorio sì di luce, condizionata però al superamento della nostra
non-luce; è insomma il nostro deserto di
conversione, in una alternanza faticosa di gloria, di amore e di tenebre: in
tutto questo siamo facilitati dall’elemento acqua:
con la nostra nascita, con l'uscita dalle acque
materne, abbiamo iniziato il nostro cammino di confronto con la luce e con il
buio che vive dentro di noi (battesimo
d'acqua); ma solo con le nostre buone azioni (battesimo di sangue) riusciremo a instaurare nella nostra vita la
salvezza di Dio.
Infatti,
solo per mezzo delle nostre opere possiamo far emergere il Figlio dell'uomo che è dentro ciascuno di noi. Siamo un piccolo seme
(figli di uomo); ma un seme che può
diventare una pianta forte e rigogliosa (figli
dell'Uomo). L'opera è insieme semplice e complessa. Ma non lasciamoci
intimidire. Facciamolo invece, fratelli, questo miracolo nella nostra vita: raddrizziamo
i nostri sentieri, riempiamo i nostri burroni, abbassiamo i monti, evitiamo i
passi tortuosi e i luoghi impervi. Perché solo attraverso questo miracolo noi
vedremo la salvezza; solo in questo modo torneremo ad essere quelli che
realmente eravamo, nella nostra bellezza originaria, pura, naturale, specchio
delle sembianze divine. Quello che siamo ora, lontani dalla luce e dal calore
amorevole di Dio, non assomiglia neppure lontanamente a tale immagine divina.
Ecco
dunque il tempo favorevole, l’occasione propizia: attraversiamo con coraggio e
determinazione questo nostro deserto; perché solo facendo così incontreremo
Dio, e potremo contemplarlo faccia a faccia. E allora tutto ci sarà chiaro: non
ci saranno più dubbi o domande. Non dovremo temere più nulla, perché potremo
vedere distintamente tutto com'è.
Ricordiamoci
che da soli non siamo nulla; egli ci tiene tutti - uomini, mondo, universo,
bene e male – sul palmo della Sua mano; e ci avvolge tutti con il suo sguardo
dolce e amorevole; e mentre noi ci affanniamo per cercare chissà cosa, per
conquistare chissà chi, Lui sorride e continua, nonostante tutto, a proteggerci.
Amen.