« Il fanciullo Gesù rimase a
Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo
trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li
interrogava... “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io,
angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Scese dunque con loro
e venne a Nazaret e stava loro sottomesso… E Gesù cresceva in sapienza, età e
grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,41-52).
La
prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando
parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta?
Immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù, non abbiano mai avuto alcun imprevisto,
non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi
della vita. Invece il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi
drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la
scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù
ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età
adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a
questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale
posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle
aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da
Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso
e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche
chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere
così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e
ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene
fratelli: non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente
infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero
immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né
con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare
uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette
insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro solo Dio: nessun altro! Né la madre,
né il padre.
Il
vangelo dice che “come tutti gli anni”,
secondo l'usanza, la famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate
le usanze di quando eravamo ragazzi?
Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi
il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere
ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i
ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti,
di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non
vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma
come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi
capricci?”. Era l’usanza, si era
sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose,
riconoscere che noi eravamo cresciuti, che avevamo soprattutto bisogno della
nostra indipendenza.
Anche
qui, il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme
senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche,
la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; non erano preparati a
vederlo nella prospettiva del suo domani; è successo anche a loro esattamente
quello che è accaduto, accade e accadrà, in tutte le famiglie di ogni tempo.
Anche da
noi: i figli sono il centro della nostra vita. Vivono con noi; li cresciamo, li
educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo
loro cosa è buono e cosa non è buono, siamo il loro modello di vita, l’esempio da
imitare. Essi imparano da noi, ci stimano, ci amano perché siamo il padre e la
madre; ci stimano al di là di ciò che facciamo o non facciamo, per il solo
fatto che noi li abbiamo messi al mondo e siamo il loro riferimento. Comandiamo
ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco come
è successo con Gesù, si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata:
qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in
più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa
ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Noi i nostri figli
li stiamo perdendo e non ce ne vogliamo rendere conto.
È che noi
siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il
mio bambino” (ma, fratelli miei, il bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo”
(ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si
sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti
i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro”: li hanno fatti nascere, li hanno fatti crescere; hanno
faticato tanto, hanno speso per loro energie, tempo e denaro, ansie e notti insonni.
Sentirli quindi come una loro “proprietà”, è quasi un diritto. Soprattutto per la
madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto,
anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse,
anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei
figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare. Del
resto i figli l’amano perché non possono stare senza di lei: la madre per loro è
importante, è un punto essenziale di riferimento: è quindi naturale amarla. Una
realtà che la rende sicura di ricevere per sempre il loro amore.
Ma
attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio
così dolce che me lo mangerei!”: ora,
finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano
emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con
il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la
sua crescita, allora “se lo mangerebbe”
per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli
l'anima.
Un genitore,
una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che
quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li lega,
e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una
loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono
attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi
quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro
i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
Deve essere
stato duro anche per Maria e Giuseppe lasciare andare Gesù; era il loro unico
figlio, il prediletto, sul quale avevano puntato tutto, avevano riposto in lui tutte
le loro attese.
È così
difficile accettare che i figli siano grandi;
è così difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è così
difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre,
di continuare a proteggerli oltre il normale; è così difficile lasciare loro spazio;
è così difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri
figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero
mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e
facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore,
questo è innegabile, ma così facendo non è che facciamo loro del gran bene. Se
continuiamo a togliere tutti i sassolini davanti ai loro passi, cosa accadrà
quando dovranno superare i macigni, quando dovranno fare i conti con le vere contrarietà
della vita? Riusciranno a reggere il peso delle inevitabili delusioni? Cadranno
in depressione? Verranno travolti, sommersi?
Quando
finalmente trovano Gesù nel Tempio, Maria e Giuseppe gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono
concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento
che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo
scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si
sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo
perduto: una constatazione molto dura.
Anche
perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non
sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole:
“Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è
Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già
passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio
della Vita; deve seguire il mandato del Padre, la Vita, lo Spirito, la Voce della
Sua chiamata; e non già la loro di voce.
E qui
il vangelo fa scrupolosamente notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
A ben
guardare, Maria e Giuseppe non capiscono tante cose nella loro vita: Giuseppe
non capisce cosa sta accadendo alla sua fidanzata che è incinta; poi deve
scappare in Egitto senza sapere il perché; vede nascere questo suo figlio tra
canti, tra angeli e Gloria e non sa spiegarsene la ragione; e ora al tempio, non
capisce la risposta di Gesù. Maria dal canto suo non capisce la sua gravidanza;
l'angelo le comunica un mistero enorme al quale dice “sì”, ma rimane turbata,
perplessa, piena di paure e di domande; alla nascita di Gesù anche lei cerca di
darsi una spiegazione in cuor suo di ciò che le sta accadendo; e anche lei,
come Giuseppe, non capisce a questo punto la reazione decisa del figlio; e più
avanti faticherà ancora molto per capire i gesti di suo figlio: sembra quasi non
capacitarsi di avere un figlio così decisamente diverso dagli altri.
La
storia di Maria e di Giuseppe è costellata quindi dal non capire, dal non
comprendere, dal mistero: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben
preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto
rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano
e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Allora
a questo punto chiediamoci: perché noi vogliamo capire sempre tutto? Perché noi
vogliamo avere ad ogni costo tutte le risposte e le spiegazioni? Perché dobbiamo
avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere chiaro tutto il
progetto fin dall'inizio e in tutti i suoi particolari? E se ci lasciassimo anche
noi semplicemente portare, condurre? E se ci fidassimo? Se smettessimo di voler
capire tutto, confidando un po’ di più in Dio?
Ebbene,
fratelli, fidiamoci dunque di Dio: sappiamo che Lui sa tutto, sappiamo che Lui
agisce sempre per il nostro bene; sappiamo che ogni cosa è inscritta nella sua provvidenza;
che noi stessi abbiamo un senso solo in Lui, in un Suo progetto. Non pretendiamo
di capire tutto nella vita: viviamo accettando quello che Lui ha previsto per
noi, per i nostri figli, per la nostra famiglia, per tutti i nostri cari; viviamo
sapendo di fare la Sua volontà. Accettiamo che i nostri figli si affranchino da
noi: perché in questo modo “perderli”, significherà “ritrovarli”.
“Tornò con loro a Nazareth”, dice il
vangelo. Gesù, dopo questa esperienza, rimane con i genitori. Ma niente sarà più
come prima. La famiglia si ricompone, ma tutti hanno imparato qualcosa di nuovo,
tutti sono maturati. Gesù ora ha capito chi è, cosa deve fare, cosa deve essere.
Ma non è ancora arrivato il suo tempo: egli aspetta la sua ora, all’ombra della
sua famiglia. Giuseppe e Maria hanno ora capito che quel loro figlio non è “loro”,
che non possono decidere per lui, che lo devono lasciare andare. E gli stanno
vicino; come prima, anzi più di prima; lo rassicurano con tutto il loro amore, lo
introducono nella vita umana, gli danno tutto, pur consapevoli che un giorno
lui se ne andrà per realizzare la sua missione. Verrà questo suo tempo. Ma intanto,
nella famiglia, cresce in sapienza, età e
grazia davanti a Dio e agli uomini. Un piccolo esemplare spaccato di vita
familiare: serena, piena di amore, di rispetto reciproco, di abbandono alla
volontà del Padre. Ecco, fratelli: confrontiamo questa atmosfera con quella che
viviamo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità; verifichiamo i rapporti
che abbiamo con i nostri figli, con i nostri fratelli in Cristo, con tutti i
nostri compagni di viaggio. E soprattutto meditiamo.
Siamo agli sgoccioli di
questo anno. Porgo a voi tutti gli auguri per un radioso 2013.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente
che non vi cambieranno la vita. Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo
amore, ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E
meritarcelo. Amen.
«Mentre si trovavano in quel
luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio
primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia… E subito apparve
con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli
ama» (Lc 2,1-14).
Il
Vangelo di oggi mette a confronto due re: Cesare Augusto Ottaviano, il re
ricco, e Gesù, il re povero. Il re ricco ha il potere, la forza, il dominio;
indice un censimento di tutta la terra, perché nessuno possa sfuggire al
pagamento delle imposte di Roma; il re ricco impone: “Devi fare così, e basta”.
Il re povero ha come potere l'amore, la debolezza, la vulnerabilità. Il re
povero propone: “Se vuoi seguirmi… se qualcuno… se uno…”. Il re della forza e
della potenza contro il re della dignità e dell'amore. Uno scontro tra re.
Il
falso re, quello che si dice “salvatore del mondo”ma non fa nulla per salvarlo,
e il vero re, il vero “Salvatore del mondo”, che il mondo lo salva per davvero.
Uno
che rapina la gente, ma promette lusso, benessere, godimenti, l’altro che la
riempie di regali, dicendole però che la vera ricchezza, la vera gioia non è di
questo mondo.
Di
fronte però alle lusinghe allettanti del re fasullo di questo mondo, in tanti
hanno ceduto, si sono fatti abbagliare: ma noi, fratelli, noi che sappiamo
individuare l’autentico re, non lasciamoci sedurre, non abdichiamo alla nostra
dignità di cristiani.
Infatti,
cosa ci ripete anche quest’anno, cosa vuole confermarci ancora una volta questo
vangelo di Natale? Che Dio è venuto per noi esclusivamente per amarci: Dio non è
vendicativo, Dio non punisce, non castiga. Dio ama. Sempre. Il suo è un amore
giusto, misericordioso, impossibile, generoso, spontaneo. Siamo noi che
rifiutiamo questo suo amore. Siamo noi che gli sbattiamo la porta in faccia
preferendogli l’infelicità, l’ansia, il dolore, i castighi: siamo noi a girargli
le spalle con la nostra testardaggine,
con la nostra poca fede, con la nostra totale assenza di carità, di
comprensione, di amore. Lui no, Lui continua nonostante tutto ad amare proprio
noi, i lontani, gli esclusi, gli esiliati, i peccatori, i cattivi, gli impuri, i
traditori; Dio continua a venire per tutti noi. E viene per continuare ad amarci.
Un
giorno una bambina va dalla mamma e le chiede: “Mamma, chi è Dio?”. La mamma si
trova in difficoltà: come si fa a spiegare chi è Dio ad una bambina, quando
anche noi adulti su ciò abbiamo le idee molto confuse? Allora la mamma le dice:
“Vieni qui”: e la prende fra le sue braccia e la stringe a sé forte forte. Poi le
sussurra: “Cosa senti?”. “Sento che mi ami tanto, mamma”. “Ecco, amore mio: questo
è Dio!”.
Natale:
Dio nasce in ciascuno di noi, nasce nella nostra vita. Accogliamolo! Non verrà
come vogliamo noi. Ma verrà proprio in questa nostra vita di oggi. Natale è
oggi, fratelli, Gesù è qui per tutti noi. “Io
sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre la porta…”. Lui c'è! Lui è alla
porta! Nascosto, ma è Lui che viene a portarci amore.
E noi?
Che desolazione: una crisi internazionale affligge oggi il mondo: homo homini lupus. Viviamo nella cultura
dell’uno contro l’altro: ma abbiamo mai pensato che se uno vince, l’altro
necessariamente perde? Perché non trovare una soluzione che ci veda tutti d’accordo?
Se noi invece lottassimo tutti uniti contro la fame, la miseria, le malattie,
le violenze? Certo andare tutti in una direzione oggi non è cosa facilmente
realizzabile : ma neppure impossibile. “Io
insieme a te”. E se iniziassimo noi, nel nostro piccolo?
Tutti
abbiamo un po' di verità: ma ognuno difende le sue vedute, ognuno pretende di
essere solo lui nel giusto: e se cominciassimo noi a valorizzare ciò che ci
unisce piuttosto che moltiplicare ciò che ci divide? E se iniziassimo noi a
stimarci reciprocamente? E se lavorassimo insieme per un ideale comune, più
umano? Se ci volessimo tutti veramente bene?
Sono
sicuro che i più penseranno: “Impossibile, è fantascienza, questa crisi non si
risolverà mai con una stretta di mano!”. Niente di più falso: se tutti insieme lo
volessimo veramente, prima o poi raggiungeremmo sicuramente tale obiettivo. L’importante
è volerlo. Virgilio disse in proposito una grande verità: “Possiamo! Perché siamo convinti di potere”. Se non siamo convinti di
potercela fare, non ce la faremo mai.
È Natale:
Dio si è incarnato. L’impossibile è divenuto realtà. Dio è carne, è qui con
noi: e con Lui, con il suo amore, tutto è più facile, tutto diventa possibile anche
per noi. Amen.
«Appena Elisabetta ebbe udito
il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata
di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto
il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da
me?» (Lc 1,39-48).
Il
vangelo di oggi ci propone l'incontro dell’anima di due donne, entrambe
incinte. Maria ed Elisabetta sono parenti, sono cugine. Per la Bibbia, essere
parenti, non indica tanto una consanguineità quanto una comunione di vita, una
condivisione di esperienze. Entrambe infatti hanno una illuminazione divina, una
intuizione profonda. Entrambe vivono una particolare situazione di impedimento,
di “chiusura” nei confronti della loro possibilità di generare nuove esistenze:
Maria è giovane ed è soprattutto vergine, non conosce uomo e quindi nessun
figlio può nascere da lei; lo stesso impedimento vale per Elisabetta, in quanto è vecchia, in
età troppo tarda. Ma l’impossibile per gli uomini, diventa possibile per Dio. Nel
nuovo Testamento, nella seconda creazione, Dio punta decisamente sul femminile,
su Maria. Ciò non va interpretato come una esaltazione della donna sul maschio,
quanto piuttosto come affermazione che saranno solo quei valori tipicamente
femminili - l'amore, la tenerezza, la misericordia, l'ascolto, l'accoglienza – che
ci salveranno. Non sarà la forza, non sarà l'autorità, non sarà la potenza, non
sarà la spada, non sarà la violenza, ma saranno solo l'amore e l'accoglienza.
Nelle
due nascite accennate dal Vangelo di oggi, le due figure maschili dei mariti non
sono di alcun sostegno: Zaccaria diventa muto durante la gravidanza della
moglie Elisabetta (non ha creduto all'impossibile) e Giuseppe non partecipa
alla generazione di Gesù. Non vogliamo dire che Zaccaria e Giuseppe non abbiano
partecipato in quanto uomini, ciascuno con un ruolo diverso, al concepimento
dei loro figli; ma che in entrambi i casi l’uomo ha dovuto misurarsi
personalmente col divino. Era questo il modo con cui gli antichi tentavano di spiegare
la realtà della inabitazione di Dio in ogni uomo: che cioè noi tutti siamo abitati
da Dio, che l'Altissimo risiede realmente in noi, e che di conseguenza tutti dobbiamo
curare, sviluppare, far emergere quel seme divino, messo a dimora da Dio stesso
nella nostra anima. La vera “generazione”, la nostra vera paternità a cui siamo
destinati (la nostra chiamata) consiste proprio nel far nascere questo “figlio
divino” che è dentro di noi, che vuole nascere, e che ognuno di noi deve partorire.
Sì, noi tutti, fin dalla nascita, abbiamo questo “seme” divino dentro di noi: è
Gesù, è la nostra anima. E noi tutti siamo responsabili della sua crescita. Se non
riusciamo a trasmettere questo concetto, questa verità, ai nostri figli, alle
nuove generazioni, al mondo intero, vuol dire che noi stessi non sappiamo di
averlo, non abbiamo mai cercato come dovevamo, non abbiamo mai trovato l'anima
dentro di noi.
E la
natura umana, fratelli, senza l’anima, privata dello stupore e della
meraviglia, diventa fonte di inquinamento e di morte. Una creatura vivente,
senza l'anima, è come una pianta senza radici. È amorfa. Un uomo senza l'anima
diventa un fantoccio, zeppo di lustrini luccicanti, di trucchi e ritocchi, ma
senza una linfa o un'energia che gli scorra dentro. Una vita senz'anima diventa
una vita venduta esclusivamente al materiale, al lavoro, alla produzione,
all'efficienza, all’utile, al divertimento. Una carezza senz'anima diventa uno
schiaffo e uno sguardo senz'anima diventa un giudizio tagliente. Una famiglia
senz'anima diventa un compromesso; una religione senz'anima diventa pura
formalità ed esibizionismo. Così un Natale senz'anima diventa un’abbuffata di
dolci, di panettoni, di auguri,di regali e di tristi mediocrità.
Noi genitori
diamo di tutto ai nostri figli: basti vedere cos'hanno negli zaini o nelle loro
stanze. Diamo di tutto, perché tutte queste cose (appunto cose!) si vendono e
si comprano. Ma in questo modo riduciamo tutto a mera esteriorità. Ciò che invece
ci è molto difficile trasmettere loro è la nostra anima: perché l’anima non
si può comprare e non si può vendere: possiamo trasmetterla solo per
vibrazione, per passione, per intensità, per amore. Soprattutto possiamo
trasmetterla soltanto se noi per primi ne abbiamo una: se siamo senza, non abbiamo
vita, non trasmettiamo vita; senz'anima possiamo vivere e trasmettere solo l'inferno
di questa vita, il peggio.
Siamo
molto efficienti nella nostra vita: mettiamo al mondo creature, costruiamo case
e imprese; creiamo giardini e parchi, posti di lavoro e ricchezza, giochi e
divertimenti, hobbies e svaghi di ogni tipo. Escogitiamo iniziative sempre
nuove, partoriamo idee, programmi assai brillanti. Ma tutto ciò può essere
inutile: i nostri figli ci abbracciano, ma noi non li incontriamo dentro: non possono
conoscerci in profondità, perché neppure noi ci conosciamo!
I
nostri figli non conoscono l'invisibile
che c'è in ognuno di noi, in ogni creatura; e questo crea in loro la mancanza
di senso del divino; per questo non riescono ad entrare dentro di loro, dentro
di noi, dentro gli altri, dentro al mistero della Vita. Rimangono in superficie
e crescono superficiali, destinati a morire di noia e di banalità. I nostri
figli muoiono per colpa nostra, perché noi adulti non abbiamo saputo e non sappiamo
trasmettere loro l'unica cosa essenziale: l'anima che ci anima, lo spirito che
soffia in noi, il Dio che abita in noi e che vuole essere innestato da noi in coloro
che amiamo, in quanti avviciniamo.
Quando
Maria ed Elisabetta si incontrano, si lasciano andare in un forte abbraccio. Ciascuna,
infatti, ha motivi validi per consolare e rassicurare l'altra: si toccano
nell'anima, si trasmettono l’anima, si incontrano nel profondo dell’anima e le
loro anime esultano; parlano di sé, del grande mistero che sentono in loro, delle
emozioni divine che provano. Elisabetta sente il figlio palpitarle dentro, e urla
a Maria la gioia di averla lì con lei e quanto sia felice di ciò che sta
capitando anche a lei. Maria di rimando parla ad Elisabetta, ma è così felice
che canta: si sente così amorevolmente accolta da Elisabetta, da poterle
finalmente dire tutto ciò che “custodiva gelosamente nel suo cuore”.
Ecco,
questa è vera amicizia, fratelli. Questa è autentica relazione di coppia.
Questo è amore. Di questo noi dobbiamo sovrabbondare, di questo dobbiamo esultare
quando, nelle nostre relazioni, le anime si sfiorano e si toccano
reciprocamente.
Ci
sono tre cose che ci appagano pienamente nella vita: entrare nell'animo di
qualcuno e sentirci parte della sua vita; far entrare qualcuno nel nostro animo,
e sentirlo parte della nostra vita; entrare entrambi nel mistero della Vita, e
sentirci in comunione totale, in unione con il Tutto.
Maria
si mette in viaggio e raggiunge in fretta Elisabetta: non ci serve sapere se
ciò sia realmente accaduto: ciò che conta è il senso di quanto accaduto, cosa
esso significhi per queste due donne e per ciascuno di noi: Maria ed Elisabetta
infatti si sono incontrate nel profondo, nella loro parte più vera, più viva,
più autentica. Succede così anche a noi? Permettiamo anche noi agli altri di
incontrarci nel nostro profondo? O li blocchiamo alla superficie, al nostro
apparire, alle nostre esibizioni, alle nostre maschere esteriori? No, fratelli:
non è così che dobbiamo incontrare l’altro. Non importa quanta distanza abbiamo
messo tra noi. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra di
noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda all'angoscia
o al panico. Tutto questo non ha nessuna importanza: perché se riusciamo a incontrarci
nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo.
Incontrando
e facendo incontrare la nostra anima, troviamo la serenità. Solo incontrando e
facendo incontrare lo Spirito che ci inabita, nella completa nudità del nostro
essere, possiamo aprirci con Lui e con i fratelli: possiamo confidare le nostre
paure, esternare ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessare le nostre
gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti,
le nostre sofferenze; solo in questi incontri possiamo aprirci e raccontare i
nostri sogni, spiegare le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri
segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi. Insomma: dobbiamo comunicare l'anima
non parole vuote, quando parliamo con i fratelli; dobbiamo dare l'anima e non
un corpo, quando facciamo l'amore; l'anima e non dei riti, quando preghiamo.
Allora, e solo allora, incontreremo veramente l’altro; allora, e solo allora, sperimenteremo
la sacralità della vita. E se ciò qualche volta ci fa male o è difficile o ci
fa soffrire, pazienza, perché la Vita è qui.
Viviamo
la Vita, fratelli: viviamo la nostra anima. Perché ogni volta che uccidiamo la nostra
anima (il Figlio divino che è in noi), uccidiamo ciò di cui abbiamo più bisogno.
E
concludo: all’uscita di un Grande Magazzino di giocattoli, escono un padre, una
madre e una figlia di sei-sette anni: sono pieni di pacchi regalo. La figlia però
continua a lamentarsi, a “frignare”, a fare capricci. Il padre spazientito le
dice: “Ma cosa vuoi di più, ti abbiamo preso di tutto!”. E la figlia: “Ma papà,
per favore, prendimi per mano!”.
È di anima,
di amore, di cuore, di profondo che abbiamo bisogno, fratelli: non di cose superflue,
di regali inutili. Non sono questi che nella vita ci rendono felici e soddisfatti.
Amen.
«Io vi battezzo con acqua; ma
viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei
sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,10-18).
Nel
vangelo di oggi la gente va da Giovanni Battista e gli pone una fondamentale domanda:
“Che cosa dobbiamo fare?”. Una domanda che anche oggi molti di noi si pongono: “Cosa
devo fare? C’è la soluzione al mio problema? C’è un incontro, un gruppo, un’associazione,
qualcuno a cui rivolgermi per risolvere la mia situazione? C’è un esercizio,
magari di meditazione, di silenzio o di preghiera che mi illumini sul da farsi?”
Cosa
non farebbe oggi tanta gente pur di trovare una guida veramente carismatica, in
grado di condividere i loro pesi! Purtroppo in giro ce ne sono parecchi di
personaggi fasulli che si presentano come inviati di Dio, che si spacciamo per “illuminati”,
dotati di poteri extrasensoriali, paranormali, speciali; e siccome nei deboli la
pressione della sofferenza, il desiderio di sollievo è grande, l'attaccamento a
cialtroni del genere è presto concluso.
E
visto che c'è la pillola per tutto: per dimagrire, per far bene l'amore, per
essere felici, per non essere tristi, si illudono che ci sia una pillola anche per
star bene spiritualmente, per risollevare l'anima; si illudono che la felicità,
l'amore, l'ascolto, la fiducia, si possano comprare a basso costo, che ci sia
un toccasana che risolve tutti i problemi: ma è solo un'illusione.
Basta
guardarci attorno, fratelli, per renderci conto di quanto ricco sia il
supermercato religioso. C'è la messa a distanza (purché si paghi); c’è il guru
che ci dice cosa fare nella vita; c'è il mago imbroglione che ci comunica la
volontà dei nostri morti; c'è l’emulatore di Padre Pio che promette guarigioni a
distanza; c’è chi vende numeri sicuri per il lotto e chi ci predice il futuro.
In realtà, dando retta a questi trafficoni, rischiamo veramente grosso: anche
se non ce ne rendiamo conto!
Quante
persone di nostra conoscenza vengono anche da noi a chiederci: “Che cosa devo
fare?”. Un modo velato e confidenziale per dirci: “Aiutami, cerca di risolvere
tu i miei problemi!”. Ma questo purtroppo, pur con la miglior buona volontà,
non è possibile. Ognuno deve affrontare e risolvere i propri di problemi, ognuno
deve superare le proprie difficoltà; non ci sono alternative, non sono ammesse deleghe.
Questa è la realtà; anche se non ci piace, se non ci soddisfa. Noi siamo tutti indistintamente
per le soluzioni facili e indolori. Vorremmo che ci fosse una medicina per
tutte le nostre crisi, ma non c'è. Vorremmo che una preghierina ogni tanto,
fosse la garanzia sicura contro ogni avversità della vita; ma non è possibile.
Vorremmo che ci fosse un bel “decalogo dell’amore” da imparare a memoria e da
recitare ogni tanto, per stare a posto con tutti i nostri doveri di carità; ma
non c’è. Vorremmo che qualcuno ci suggerisse il sistema giusto per eliminare tutte
le nostre difficoltà relazionali, ma non c'è. Abbiamo tutti fame di ricette
semplici, sbrigative, perché abbiamo sempre fretta. Ma non esistono ricette
semplici. Non esistono elisir miracolosi. Diceva un saggio: “Se il problema è in
te, anche la sua soluzione deve arrivare da te”.
Alcuni
si danno veramente molto da “fare”: ma non per un motivo valido, come per crescere
spiritualmente, per essere più giusti, per amare di più; lo fanno solo per apparire,
per sentirsi più bravi degli altri, per essere al centro dell’ammirazione.
Su
questo il Battista è molto pratico: chi ha, dia. In sostanza dice: “Inutile
girare a vuoto: le occasioni per intervenire ci sono, eccome. Ti accorgi che le
persone che incontri sono in difficoltà? È qui che devi agire. Ti accorgi di
essere scontroso e di non riuscire a relazionarti? È qui che devi agire. Vedi
che in famiglia non si parla, non ci si relaziona? È qui che devi agire. Ti
senti insoddisfatto della tua vita cristiana? È qui che devi agire. Ti accorgi
che non riesci mai a trovare un momento per Dio? È qui che devi agire. Sei
convinto che tutti ce l'abbiano con te, e soffri di vittimismo? È qui che devi
agire”. Insomma dobbiamo lavorare miratamente, dobbiamo agire dove c'è il
problema, non a casaccio o come piacerebbe a noi!
Perché,
ripeto, è sulle nostre opere che saremo giudicati. L’immagine che il vangelo ci
propone al riguardo, quella del contadino che divide il grano dalla pula, che raccoglie
il primo e brucia la seconda, è molto dura ma emblematica; colui che tiene in
mano la pala è Cristo: è lui che separerà le nostre opere buone da tutta la
zavorra che ci portiamo addosso: una prospettiva, fratelli, che ci deve far
pensare seriamente.
Tuttavia
non dobbiamo avere paura di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che non è Lui la
causa della nostra poca carità: siamo noi che diamo un valore aggiunto alle nostre
azioni. Non è Dio che prende l’iniziativa di punirci; siamo noi che ci procuriamo
la giusta punizione, come conseguenza del nostro comportamento. Dio non punisce
mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli, scegliendo di vivere in un certo
modo.
Se nella
vita affrontiamo tutto con superficialità, stupidamente, continueremo a vivere sempre
ignorando volutamente i problemi, senza capire mai le grandi leggi della vita;
viviamo senza renderci conto che spetta solo a noi dirigere la nostra vita, a
nessun altro!
Il
Battista battezza con acqua: è il battesimo di quei cristiani un po’ tiepidi,
che preferiscono una vita serena e tranquilla, in pace con Dio, senza grandi
scossoni. Il vero battesimo, però, non è questo: è quello di fuoco, quello del
Cristo della Vita, quello che sconvolge la nostra vita, che si impadronisce della
nostra anima, che ci proietta nella nostra parte divina, spirituale. È un
battesimo di fuoco perché ci brucia dentro, ci dà passione, energia; ci dà la
forza per andare avanti giorno dopo giorno. È un battesimo di fuoco perché
illumina il nostro mondo interiore, ci fa vedere chi siamo realmente, ci fa
capire dove dobbiamo mettere il piede. È un battesimo di fuoco perché brucia le
illusioni del mondo, quelle illusioni che nonostante la loro fatuità, amiamo
tanto seguire; ci fa toccare con mano la nostra nullità, la nostra debolezza
umana. È un battesimo di fuoco perché illumina, fa venire alla luce, fa nascere,
crescere, quel soffio di vita che ci abita dentro, la trasforma in forza impetuosa.
È di fuoco perché scuote dentro di noi il seme di Dio che dorme in noi e che
aspetta di essere risvegliato per diventare l’unico Signore della nostra vita.
Questo
è dunque, fratelli, il grande “sacrificio” (da sacrum facere, fare una cosa
santa); questa è la grande opera dell'uomo: trasformare una vita materiale, esteriore,
vuota, insignificante, amorfa, in una vita dello Spirito, in una vita di Amore
divino, in vita “viva”, piena e vera. In una parola, come dice il Vangelo,
dobbiamo “rinascere nello Spirito”.
Amen.
«Voce di uno che grida nel
deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni
burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose
diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di
Dio!» (Lc 3,1-6).
Giovanni Battista e la vergine Maria sono le due figure che ci accompagnano in questo
nostro percorso verso il Natale.
Il
Verbo, Parola di Dio, incontra Giovanni nel deserto. È un incontro vivo, che
trasforma, che rigenera, che porta a produrre nuovi frutti. Quando la Parola di
Dio all'inizio della storia scende sulla creazione, nasce il mondo e ogni
essere vivente. Quando la Parola di Dio attraverso l'angelo scende su Maria,
nasce Gesù. La Parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa
profetizzare. L’'incontro con Dio, anche per noi, deve essere quindi un
incontro che crea, che cambia, che invia, che implica cioè un nostro movimento
in avanti. Ci crea: eravamo infatti ben poca cosa, ma dopo aver ascoltato, nel
senso di “mangiato, assimilato, gustato,
fatta penetrare” la sua Parola, non siamo più gli stessi. Ha prodotto un
cambiamento radicale in noi, una nuova visione della vita e del mondo si apre
improvvisamente davanti ai nostri occhi.
Quante
parole ascoltiamo durante una giornata! Ma la Parola di Dio è diversa. Quante
parole, anche pie e religiose, abbiamo detto e ascoltato nella nostra vita! Ma
la Parola di Dio non è di quel tipo. Quante volte abbiamo udito leggere il Vangelo!
Ma anche quelle parole ci sono scivolate addosso: non è così che si ascolta la
Parola di Dio. La Parola di Dio è quella Parola che penetra in profondità, che ci
scuote (quindi è sempre destabilizzante), ci tocca violentemente, ci colpisce
nell’intimo. È quella Parola che ci torna sempre in mente, anche se non ne conosciamo
il perché; che ci risuona insistentemente nel cervello, che ci fa vibrare il
cuore, che ci riguarda da vicino; una Parola per la quale sentiamo un persistente
richiamo, un bisogno forte e irrinunciabile. È dunque quella Parola che non ci può
lasciare indifferenti. È quella Parola che fa comunque succedere qualcosa.
Molte parole
degli uomini hanno il potere di bloccare la nostra vita, di distruggerla, di
ucciderla, di chiuderla: al contrario la Parola di Dio, se la lasciamo
penetrare dentro di noi, ci infonde sempre sicurezza, carica, ci conduce alla
salvezza: “Esci fuori; alzati; ti amo; va bene così; non avere paura; ci sono
io; slegati…”.
Il
Battista dunque predica nel “deserto”.
Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa
vegetazione, inospitale, frequentata solo da pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto). Nella Bibbia il “deserto” è quel luogo attraverso cui tutti
devono necessariamente passare. Non si può arrivare in nessuna parte, in
nessuna terra promessa, se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il
proprio deserto.
Per
gli Israeliti il deserto è stato infatti
un passaggio obbligato sia dopo la liberazione dall'Egitto che per quella
babilonese; è stato un luogo necessario per Mosè, per Elia. Nel nuovo
Testamento anche per Gesù, per Paolo, per migliaia di cercatori di Dio.
Il
deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Arriva, cioè, un
momento in cui bisogna smettere di continuare a fuggire fuori da se stessi,
smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di
imbottirci di idee, di filosofie e di ragionamenti vari, e guardarci per
davvero in faccia senza mentirci. Dobbiamo entrare nel nostro deserto, dove non c'è nessun altro, dove
finalmente ci siamo solo noi.
Molte
persone hanno il terrore di stare sole con sé. C'è chi trova sempre qualcosa da
fare; si adatta a fare di tutto pur di non rimanere da solo con la sua anima. C'è
chi parla sempre, in continuazione, riempie tutti gli spazi vuoti; ma non si ferma
mai ad ascoltarsi. C'è chi non riesce a stare solo e deve stare sempre in
compagnia di qualcuno, perché ha paura di sé stesso, della sua solitudine
interiore. C'è chi non riesce neppure ad ascoltare le proprie emozioni, che le
evita di proposito perché le teme troppo. Si ubriaca di esteriorità. Ci sono persone
peraltro che nella loro vita trovano questi spazi, questo “tempo per sé”: si
riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno,
insomma, quello che di solito non fanno mai. Ma questo “stare con sé” è tutta un'altra
cosa. Per avere un’idea di come vivere sul serio nel “deserto”, facciamo una prova: cerchiamo di stare un giorno intero
senza niente e nessuno: niente libri, niente giornali, niente radio e televisione,
niente telefono, niente cose da fare, niente da scrivere, pochissimo da
mangiare, nessun passatempo. All'inizio proveremo il vuoto, il disorientamento
e cercheremo il modo più rapido per scappare. Ma se avremo la forza e la
costanza di continuare così per tutto il giorno, giungeremo a scoprire
l’esistenza della nostra anima; una importante scoperta, una esperienza
singolare, unica, assolutamente mai provata prima. Scopriremo così il lato
positivo del deserto. Un deserto che non ci incuterà più paure,
un deserto che diventerà un amico
fidato. Provare per credere.
Nel deserto il Battista predica un battesimo
di conversione per il perdono dei peccati.
Predicare,
in greco kerysso, vuol dire “urlare,
dire ad alta voce”; la radice ker
indica il “cuore”. Giovanni quindi nel deserto non fa una dotta catechesi,
lunghe disquisizioni o prediche interminabili; comunica semplicemente dei brevi
messaggi carichi di amore, che portano al cuore, che arrivano al cuore;
messaggi appassionati, diretti e incisivi, che producono nell’ascoltatore
riflessione della mente e adesione del cuore.
Il suo
è un battesimo di conversione per il
perdono dei peccati. Il senso del verbo greco “metanoèo, convertirsi, implica un “fare inversione di marcia, tornare indietro sui propri passi”;
indica cioè un cambiamento radicale nel pensare e nell’agire. Se percorriamo
una strada e ci rendiamo conto di aver sbagliato direzione, che facciamo?
Ovvio, invertiamo la marcia. Lo stesso dobbiamo fare quando ci accorgiamo che
la condotta che stiamo tenendo procura solo del male a noi stessi e agli altri.
Siamo per
caso arrabbiati col partner, con un fratello, con chi ci sta vicino, perché ci
ha offesi, perché ci ha riservato un comportamento che non abbiamo gradito? Ebbene,
che facciamo noi d’impulso? Lo escludiamo immediatamente da noi, lo ignoriamo; gli
chiudiamo per ripicca qualunque porta di comunicazione, ostentiamo silenzio e
portiamo il muso. Vogliamo cioè “punirlo”, in qualche modo vogliamo vendicarci.
Dobbiamo far pagare al malcapitato la pena per lesa maestà. Ebbene, fratelli,
non è questa la strada del nostro deserto
di conversione: non alziamo muri, non ergiamo barriere, torniamo invece sui
nostri passi, cambiamo comportamento; lasciamo perdere, non fossilizziamoci sul
chi ha ragione o chi ha torto, andiamo noi incontro al nostro fratello e spieghiamoci
con lui.
Quando
ci accorgiamo di aver detto qualcosa che non volevamo dire, di aver esagerato o
di aver ferito qualcuno, pentiamoci, torniamo indietro (metanoèo). Andiamo dalla persona e diciamogli: “Guarda, ho
esagerato; ti chiedo scusa, mi sono lasciato prendere la mano; mi rendo conto di
non averti ascoltato o di aver tentato di manipolarti; volevo aver ragione a
tutti i costi”. A che serve il nostro orgoglio se non a nascondere a noi stessi
di aver sbagliato? Non è forse una prova d’amore ammettere i propri torti? “Quello
che ho detto ho detto, e non torno indietro”: intransigenza inutile; convertiamoci, invece, torniamo indietro
dalle nostre posizioni. Il ricredersi è una grande conquista del saggio, dell’intelligenza,
oltre che della carità.
“Battesimo”,
dal greco baptizein, significa immergersi, indica l'immersione nelle
acque.
L’acqua,
oltre che elemento di distruzione, è stato anche l’elemento vitale che ha
portato salvezza al popolo ebraico. Di esempi ne è piena la Bibbia.
Per
noi è il presupposto della nostra vita cristiana: per conoscere Dio, la Vita, dobbiamo
immergerci nelle acque che contengono la luce del Risorto, la salvezza sicura; e
ciò nonostante i nostri lati oscuri, le nostre ataviche cattive inclinazioni. Rigenerati
infatti dal battesimo, dopo aver riconquistato il nostro equilibrio e aver sanato
la nostra disarmonia con Dio e con le creature, dobbiamo necessariamente confrontarci
con i nostri mostri interiori, quelli che noi chiamiamo “male”, per isolarli,
eliminarli. L’intera storia della nostra salvezza personale sta appunto nell’affrontare
nel deserto queste zone buie, di
non-luce, zone tenebrose, di peccato, per uscirne, attraverso l’acqua rigeneratrice,
finalmente vincitori, e spaziare nella luce della carità e della grazia.
Il
mondo, fratelli, non è un Eden meraviglioso, in cui godere passivamente dell’amore
divino; è un territorio sì di luce, condizionata però al superamento della nostra
non-luce; è insomma il nostro deserto di
conversione, in una alternanza faticosa di gloria, di amore e di tenebre: in
tutto questo siamo facilitati dall’elemento acqua:
con la nostra nascita, con l'uscita dalle acque
materne, abbiamo iniziato il nostro cammino di confronto con la luce e con il
buio che vive dentro di noi (battesimo
d'acqua); ma solo con le nostre buone azioni (battesimo di sangue) riusciremo a instaurare nella nostra vita la
salvezza di Dio.
Infatti,
solo per mezzo delle nostre opere possiamo far emergere il Figlio dell'uomo che è dentro ciascuno di noi. Siamo un piccolo seme
(figli di uomo); ma un seme che può
diventare una pianta forte e rigogliosa (figli
dell'Uomo). L'opera è insieme semplice e complessa. Ma non lasciamoci
intimidire. Facciamolo invece, fratelli, questo miracolo nella nostra vita: raddrizziamo
i nostri sentieri, riempiamo i nostri burroni, abbassiamo i monti, evitiamo i
passi tortuosi e i luoghi impervi. Perché solo attraverso questo miracolo noi
vedremo la salvezza; solo in questo modo torneremo ad essere quelli che
realmente eravamo, nella nostra bellezza originaria, pura, naturale, specchio
delle sembianze divine. Quello che siamo ora, lontani dalla luce e dal calore
amorevole di Dio, non assomiglia neppure lontanamente a tale immagine divina.
Ecco
dunque il tempo favorevole, l’occasione propizia: attraversiamo con coraggio e
determinazione questo nostro deserto; perché solo facendo così incontreremo
Dio, e potremo contemplarlo faccia a faccia. E allora tutto ci sarà chiaro: non
ci saranno più dubbi o domande. Non dovremo temere più nulla, perché potremo
vedere distintamente tutto com'è.
Ricordiamoci
che da soli non siamo nulla; egli ci tiene tutti - uomini, mondo, universo,
bene e male – sul palmo della Sua mano; e ci avvolge tutti con il suo sguardo
dolce e amorevole; e mentre noi ci affanniamo per cercare chissà cosa, per
conquistare chissà chi, Lui sorride e continua, nonostante tutto, a proteggerci.
Amen.
«State attenti a voi stessi,
che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni
della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso» (Lc
21,25-28.34-36).
Oggi inizia
l’Avvento, tempo liturgico che ci prepara al Natale. Sul piano personale,
l'avvento è quello spazio di tempo particolarmente adatto perché un “Figlio”,
una “nascita”, si possano realizzare in noi. Ogni anno il 25 dicembre
festeggiamo la nascita di Gesù; l’occasione non deve ridursi a un dato rituale,
di bontà posticcia, cronologico, tradizionale. Deve essere un fatto reale,
sentito: Dio continua a nascere in noi, per noi; perché Dio, dove c'è spazio e
disponibilità, sicuramente continua a venire. Dobbiamo quindi considerare l'avvento
non tanto come un qualunque periodo dell'anno ma come una dimensione della nostra
vita che si rinnova continuamente, con la certezza che l'Oltre, l'Altissimo, il
Nuovo, una nascita speciale, sta per avvenire ancora una volta in noi. Quello
che non è certo, e che ci deve preoccupare, è se noi siamo pronti ad accogliere
questi grandi doni.
L'avvento,
da advenio, non si limita al
presente, ma crea “avvenire”, si proietta nel futuro proprio perché si apre
ora, nel presente; genera una novità verso cui andare, una novità che da sempre
ci attrae e ci richiama. È un intervento di Dio che vuole far nascere qualcosa
di nuovo in noi, sorprendendoci, meravigliandoci, portandoci lontano, molto
lontano dalle nostre personali rive di sicurezza. È un tempo di attesa, di un’attesa
dinamica e attiva.
Attenzione:
ho detto attesa non aspettativa: non confondiamo i due
termini; indicano situazioni diverse, da non confondere.
L'attesa
infatti non ha oggetto: è apertura del cuore e della mente all’accoglienza
totale. L'attesa accetta tutto ciò
che le viene incontro (adventus). L'aspettativa
invece no: è un “voglio questo”, “questo e questo solo”; ha ben chiaro cosa
vuole e cosa non vuole; accetta solo
ciò che rientra nei suoi piani; il resto lo rifiuta. Solo l'attesa quindi può
portarci a progredire, a rinnovarci, ad evolvere; in una parola ad aprirci al “novum” che ci viene proposto. L'aspettativa
invece è circoscritta entro i parametri del nostro giudizio: siamo noi che
decidiamo, in base ai nostri criteri personali, cosa ci serve o cosa non ci
serve, cosa è buono o non è buono per noi, cosa Dio ci deve mandare, come devono
comportarsi gli altri nei nostri confronti; cosa e come noi dobbiamo o non dobbiamo essere. L'aspettativa non ha tempo: vuole tutto e
subito, tutto e presto. Non si ha più il piacere dell’attesa: oggi non abbiamo
più tempo: tutti i mezzi di comunicazione sono progettati per ridurre sempre
più i tempi di attesa: per parlare non serve più l’incontro personale, c’è il
telefono; per comunicare velocemente, c’è internet; per muoversi in fretta, abbiamo
auto sempre più potenti.
L'aspettativa
ci porta a ignorare il presente, per vivere continuamente proiettati nel
futuro: “Quando succederà quella cosa, allora finalmente sarò felice, allora mi
sentirò realizzato, allora sarò qualcuno…”. E così corriamo, corriamo e corriamo,
per raggiungere con affanno un qualcosa che continuamente ci sfugge; un
traguardo inarrivabile che accresce in noi ansia, tensione, sconforto, depressione.
L’attesa,
al contrario, conosce molto bene il tempo. Attesa, è vivere il presente: “Sento
che mi manca qualcosa, sono aperto e disponibile a quello che verrà. Ma intanto
vivo oggi il mio momento felice; se verrà dell’altro, tanto meglio”.Ogni evento
infatti richiede il suo tempo di preparazione; come la gravidanza per il parto.
L'attesa genera pace, tranquillità interiore, non confusione: facciamo le nostre
cose, viviamo la nostra vita e lasciamo la porta aperta. Se qualcosa deve
arrivare, vedrete che arriverà sicuramente.
Questa,
a gradi linee, deve essere la nostra attesa,
fratelli; questo, il senso del nostro “avvento”.
Il
vangelo di oggi, riproponendo il clima apocalittico della fine dei giorni, allude alla distruzione materiale di questo nostro
tempio corporale. Un evento che
merita tutta la nostra “attesa”.
Il
testo parla esplicitamente di vegliare,
di non dormire (21,36). Una
raccomandazione che abbiamo sentito diverse volte da Gesù: “Tenete gli occhi
aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi”. Nessun evento,
anche quelli più imprevedibili, accadono senza prima anticipare dei segnali
premonitori. Sta a noi saperli cogliere. Dobbiamo dotarci per tempo di una
buona scorta di olio per le nostre lampade. Non comportiamoci da sprovveduti.
Quante
persone dicono di star male nell’anima, di soffrire, di essere insoddisfatte
della loro vita spirituale: è un segnale che dovrebbe scuoterle, farle correre
ai ripari; ma cosa fanno per uscire da questa loro situazione? Alcune dicono
che non hanno tempo; che cambiare, prendere nuove strade, sono soluzioni troppo
impegnative, difficili. E continuano a dormire! Altre invece dicono di voler
cambiare, e lo fanno anche, ma a modo loro. Sono i “convertiti super”, gli
affamati della novità del “divino, quelli che non si perdono più nessuna cerimonia,
nessuna devozione a santi e madonne, nessuna conferenza, nessun incontro,
nessun tipo di cammino spirituale: salvo poi a ritrovarsi sempre nelle loro identiche
posizioni di partenza, a non fare un benché minimo passo in avanti. Perché?
Perché dimenticano che non è la quantità, ma la “qualità”, la convinzione, l’autentica volontà di fare la volontà
del Signore, con spirito aperto e tanta umiltà; dobbiamo stare attenti, perché una
distorta spiritualità è come la droga: anche se assunta in dosi massicce, non porta
mai all’appagamento totale.
Dobbiamo
invece “vegliare” sul serio,
fratelli; perché se non ci mettiamo veramente in gioco, se non scaviamo dentro
di noi, se non mettiamo “mano all’aratro” come si deve, non succederà mai niente:
spesso una breve preghiera detta a Dio col cuore, nel silenzio, con
riconoscenza, vale sicuramente più di cento rosari biascicati con la bocca, ma
col cuore e la mente lontani, occupati in altre faccende: allora a che servono tutte
le nostre preghiere distratte e superficiali, tutti i nostri raduni, tutte le
nostre liturgie, le nostre conferenze, la nostra caccia al miglior predicatore,
all’indirizzo spirituale più alla moda, più “in”, più frequentato da una certa “elite”?
Si riducono a pie illusioni; peggio, a forme deplorevoli di sterile esibizione,
a soluzioni che non servono assolutamente a nulla, miseri palliativi, inutili fughe
dalle nostre oggettive responsabilità.
Non
comportiamoci, fratelli, come i farisei che dicevano: “Noi abbiamo Dio per
Padre”, e giustificandosi in questo modo, continuavano con tracotanza a fare i
comodi loro.
Questo
modo di pensare e di comportarci, individualista ed esclusivista, è un
paravento, una droga, un'ubriacatura. Perché seguire Dio, non consiste sentirsi
“rapiti” da una improbabile estasi divina,o sentirsi “calati” nei più impensati
carismi; seguire Dio vuol dire più semplicemente essere noi stessi, esattamente
come Lui ci vuole. Fare sempre la “sua volontà”, in tutti i momenti della
nostra giornata. Praticare la carità, rimanere svegli, all’erta, vigili.
Capita
invece che noi spesso dormiamo e non vogliamo in alcun modo scuoterci perché,
lo sappiamo, “svegliarci” vuol dire vedere
qualcosa che non vogliamo vedere. Magari per non scoprire i veri motivi del dolore
che proviamo dentro; magari per non scoprire di aver sbagliato tutto nella vita;
magari per non scoprire di essere ignorati e sopportati; magari per non scoprire
di essere nella solitudine più totale; magari per non scoprire le nostre serie carenze,
le nostre difficoltà, i nostri blocchi nell’anima.
Diceva
il saggio: “Il sonno delle coscienze, genera mostri”: quando l'uomo dorme tutto
è possibile, tutto può succedere, qualunque soluzione può prendere piede senza
che lui se ne accorga.
Non a
caso il vangelo conclude con le parole: “Vegliate
e pregate”. In questo caso già il vegliare,
non prendere sonno, non dormire, è una forma di preghiera. In greco, questo “pregate”, sta per “avere bisogno,
necessitare, desiderare”. Ecco perché abbiamo
bisogno (preghiera) di non prendere sonno, di non alienarci (vegliare), per
evitare di calarci in un mondo che non c'è. Non dobbiamo permettere che il
nostro cuore prenda sonno, dimenticando la gioia per la vita, l'entusiasmo per
le cose nuove, la passione per ciò che si ama, lo stupore di fronte alla
bellezza; non dobbiamo permettere cioè che la nostra anima si assopisca e non
senta più il richiamo di Dio, quel richiamo della vita che ci chiama a
definirci e a diventare “Figli dell'uomo”. Vegliare
significa non permettere che la nostra mente venga plagiata da filosofie o da
idee ingestibili, senza alcun fondamento cristiano, ancorché molto apprezzate
dal mondo di oggi. Pregare vuol dire stare
attenti che ciò che chiamiamo “Dio” sia Dio, ciò che chiamiamo “amore” sia
amore, ciò che chiamiamo “famiglia” sia veramente famiglia e non un volgare e
sguaiato surrogato. Perché, fratelli, se noi dormiamo, c’è chi ha tutto l’interesse
di sovvertire i valori essenziali e intoccabili della nostra vita. Allora pregare vuol dire vegliare, perché dobbiamo essere noi i protagonisti che
contrastano con la loro vita la squallida deriva morale di questo mondo; dobbiamo
essere noi, innamorati di Dio, a lasciare un segno, una traccia, un'impronta, perché
dobbiamo dimostrare agli altri e a noi stessi, con la nostra vita, con il
nostro esempio, che non siamo assenti, ma che siamo lì, vigili, in prima linea.
Il “Figlio
dell'uomo” (la nostra realizzazione, l'essere noi stessi,il perseguire
quell’ideale di vita che Dio ha impresso nella nostra anima col Battesimo) non
potrà mai emergere, non potrà mai uscire, concretizzarsi, prendere vita, se noi
dormiamo, se noi continuiamo ad essere indolenti, svogliati, disinteressati.
Fratelli
miei, dobbiamo avere la forza di «sfuggire
a tutto ciò che sta per accadere», perché un giorno tutti dobbiamo comparire
davanti al “Figlio dell'uomo”. Tutti un giorno ci spegneremo: ma guai a coloro
che non si sono mai accesi. Tutti ci
addormenteremo nel sonno della pace, ma guai a chi non si è mai svegliato dal suo torpore. Per tutti la
vita ha una fine: ma guai a chi non l’ha mai neppure iniziata. Che non succeda a noi, fratelli!
Tu
verrai, Signore, noi lo sappiamo: ed è sulla tua Parola che noi costruiamo oggi
la nostra casa sulla roccia. Perciò, non permettiamo mai che la nostra
coscienza si addormenti: restiamo svegli. Non permettiamo che la facciata, ciò
che sembra e che appare, nasconda agli altri il cuore e l'anima che non si
vedono: restiamo svegli. Non permettiamo di avere così tante cose da fare e vie
da seguire, da non percepire più cosa realmente vogliamo, proviamo, sentiamo:
restiamo svegli. Non permettiamo mai che ciò che fanno gli altri diventi ciò
che facciamo anche noi, solo perché lo fanno loro: restiamo svegli. Non permettiamo
che l'odio, la rabbia, il cinismo inondino il nostro cuore, così da non provare
più meraviglia e stupore per ciò che vive e palpita: restiamo vivi. Non permettiamo
che il “duro quotidiano” cancelli i nostri sogni, le nostre aspirazioni, il nostro
desiderio di infinito: restiamo vivi. Non permettiamo a nessuno di manipolarci,
di gestirci, di toglierci la nostra vita interiore, così da perderci o da
annullarci: restiamo vivi. Non permettiamo al dolore e alla sofferenza di
eliminare dalla nostra memoria la gioia, la fiducia e la fede nel Padre: restiamo
vivi. Non permettiamo alla società “laica” contemporanea di soffocare l’avvento di un mondo nuovo, migliore, con
più fede, un mondo meno alienato e ottuso: stiamo attenti. Non permettiamo alle
chiacchiere stupide e senza senso dei media di convincere il nostro cuore, né
alle loro facili soluzioni, di sedurci
e ingannarci: stiamo attenti. Non permettiamo che qualcosa o qualcuno zittisca
ciò che abbiamo dentro di noi, la forza, i sentimenti, la tenacia, la voce
dello Spirito: restiamo vivi. Non permettiamo alla disperazione di vincerci, né
all'angoscia di smarrirci, né alla paura di azzerarci: restiamo sempre fiduciosi.
Nulla deve distoglierci da Lui. Nulla deve mai staccarci dalla nostra sorgente
di Vita: perché il nostro vivere è tale,
solo se viviamo nella Vita. Amen.
«Allora Pilato gli disse:
«Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono
nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» Gv 18, 33b-37.
Siamo
arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico. Con domenica prossima
entreremo nel tempo di Avvento. Oggi la liturgia celebra la festa di Cristo Re
dell’universo, e il vangelo ci presenta un dialogo tra re: tra Pilato e Gesù.
Siamo durante la Passione: Gesù è già stato catturato e si trova nel pretorio
davanti a Pilato. Pilato è “il re” della Palestina: un governatore brutale, ci dicono
gli storici. Faceva uccidere e crocifiggere così tante persone che ad un certo
punto Roma dovette richiamarlo! Pilato, nella sua carriera politico militare,
ne ha visti tanti di pazzi ed esaltati, ma l'uomo che gli sta ora davanti è
davvero affascinante: si definisce re! A lui non interessa affatto la questione
di Gesù: gli hanno rifilato questo problema da risolvere, dal quale cerca di
uscirne senza troppi grattacapi. Il tutto per lui ha una importanza irrisoria;
l'unica sua attenzione è di non andare al alterare i già delicati equilibri
diplomatici con i focosi ebrei.
Nelle
scene del processo a Gesù, descritte dai vangeli, Pilato infatti continua ad
entrare e uscire. Da una parte egli è attratto da Gesù (entra), perché ne sente
la verità e la bellezza. Ma dall'altra teme i Giudei (esce); teme le
conseguenze, teme di perdere l'immagine e il potere che ha. Il dubbio,
l'inquietudine, sono il tormento di questo uomo: è l’indeciso per eccellenza.
Un po’
come noi, gli eterni indecisi: sentiamo la bellezza di un percorso, intuiamo il
fascino della meta, ma sappiamo che seguirlo vuol dire abbandonare le nostre
sicurezze, le nostre abitudini. A questo punto che facciamo? Sentiamo la verità
di una cosa, ma sappiamo che aderirvi è diventare impopolari; sentiamo la
passione per qualcosa di “nostro”, ma seguirla vorrebbe dire cambiare vita; sentiamo
che dovremmo aprirci su certe questioni, ma temiamo di soffrire o di vergognarci;
sentiamo che dovremmo porci dei limiti, porci dei paletti, ma ne temiamo le
conseguenze. Insomma noi, di fronte a queste situazioni che facciamo? Come ci
comportiamo? Per quanto riguarda Pilato il vangelo più avanti ci dice che “se
ne uscì” dalla situazione. Preferì non approfondire la questione; preferì
rimanerne fuori, non farsi coinvolgere. Aveva troppo da perdere.
Ebbene,
non è anche il nostro stesso comportamento? Gesù ci dice: “se vi accontentate delle
carrube dei porci (Lc 15,15) e non
cercate, non desiderate qualcosa di più e di meglio, io non posso farci niente.
Se vi basta il superfluo, le cose terrene, l'auto, la tv, la macchina, le sigarette e non
cercate qualcosa di più, io non posso farci niente. Se vi basta vivacchiare,
mangiare e bere, e non sentite il richiamo di qualcos'altro, se non sentite la
voce interiore che vi invita a darvi da fare in questa vita, a desiderare di
più, io non posso farci niente. Se vi accontentate e non desiderate qualcosa di
più nobile, di più grande, io non posso farci niente. Da ciò che desiderate vi
dirò quanto valete come uomini”.
Allora,
se dobbiamo farci un augurio, fratelli, auguriamoci quello che soleva ripetere
un santo prete: “Che Dio ci tormenti, che ci perseguiti, che non ci lasci
stare, purché non ci permetta di risolvere banalmente i nostri problemi, di
lasciarci vincere dalla paura e dal rispetto umano, di addormentarci, di
raccontarci frottole”.
Pilato
chiede a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?»
(v. 33). La domanda ha il tono di una
presa in giro, fatta con evidente ironia, come a dire: “Io sono il re della
Palestina, tu di chi sei re?”. Pilato ragiona pensando al suo ruolo sociale: “Sei
per caso un nobile, un dirigente, un personaggio importante, un dottore, uno scriba,
uno che ha studiato molto?” Egli non può capire Gesù: perché per lui “re” è solo chi
ha potere. Ma Gesù parla di un altro mondo! Pilato non può neppure lontanamente
immaginare a cosa alludano le parole di Gesù.
A
certe persone è inutile parlare di anima, di verità, di Dio, di dare un senso
alla vita, di fuoco interiore, di libertà: non capirebbero; ascoltano solo se si
parla di soldi, di case, di investimenti, di guadagni, di divertimenti.
Gesù
gli risponde: «Dici questo da te oppure
altri te lo hanno detto sul mio conto?» (v.
34). Pilato crede di poter salvare Gesù: ma è Gesù che invece tenta in
tutti i modi di salvare lui. Gesù tenta in tutti i modi di farlo uscire dalla
spirale di paura in cui si trova. Vorrebbe che si ascoltasse, una buona volta; che
desse retta alla sua coscienza. Vorrebbe che non ragionasse spinto solo dalla
paura, condizionato dalle conseguenze di una sua scelta veramente libera.
Vorrebbe che almeno una volta egli fosse davvero sovrano della sua vita. Ma non
è così.
Pilato,
re della Palestina, è ancora condizionato, schiavo dell'opinione pubblica e
della ragion politica. E gli risponde in maniera banale, distratta,
superficiale: «Sono forse io Giudeo? La
tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cos'hai fatto?»
(v. 35). Gesù aveva tentato di
riportare Pilato dentro di sé; ma Pilato scappa e si rifà a quello che dicono e
che fanno gli altri; non riesce a guardarsi dentro, non riesce a stare con sé,
a porsi domande vere, a fermarsi. E se ne lava elegantemente le mani (Mt 27,24).
Ma «chiunque è dalla verità»(v. 37), non può
far finta di niente per stare tranquillo. Non lo possiamo più neppure noi. E allora bisogna
cercare; allora bisogna aprire gli occhi e far cadere le nostre false illusioni
di vita; anche quando ci accorgiamo che “la verità fa male”; quando ci
accorgiamo che la verità va oltre la realtà che conosciamo; perché è facendo così che riaffiorano
quelle emozioni e quei sentimenti che tenevamo segreti e nascosti, perché
pericolosi.
Non
esiste l'amore in astratto: esistono persone che amano. Non esiste la libertà
in quanto tale: esistono persone che si liberano, persone che sono libere perché
liberate. Non esiste la verità in sé: esistono persone vere, autentiche. Solo
Lui è essenzialmente l'Amore, la Verità, la Libertà.
Pilato
si sottrae alla questione, esce. È questo il grande rischio anche per noi:
trovare soluzioni facili, veloci, uscire dalle questioni in fretta, evitarle,
risolverle magari con la violenza delle parole, ma senza rimanere coinvolti nei
fatti.
E Gesù
risponde: «Il mio regno non è di questo
mondo…»(v. 36).
Gesù e
Pilato non potranno mai incontrarsi, perché viaggiano (e parlano) su due binari
diversi. Per Pilato “regno” vuol dire
esercito, armi, potenza e territori. Per Gesù “regno” vuol dire verità, dominio su di sé, essere liberi di amare,
di esprimere ciò che si sente, di avere Dio come unico punto di riferimento, e non
dipendere passivamente dagli altri.
A
volte i nostri ragionamenti sono esattamente identici a quelli di Pilato: anche
noi viaggiamo su un piano diverso rispetto alla Parola di Gesù: e camminando su
due piani diversi è impossibile incontrarlo.
È quello che succede spesso anche tra padre e figlio. Uno esclama: “Non sono felice!”. E l’altro:
“Ma cosa vuoi di più dalla vita? Non ti manca niente, di ho dato tutto! Sapessi
come ho vissuto io!”. Però l’uno parla dell'amore, dell'affetto, della presenza
paterna nella sua vita; l'altro, il padre, per “tutto” intende i soldi, il lavoro, potersi permettere il superfluo,
gli sfizi, i divertimenti. E così tra fidanzati: “Ti amo”. Solo che lui con
queste parole vuole portarsela a letto; lei invece lo vuole sposare. La madre
dice continuamente: “Lo faccio per il tuo bene”: ma lui, il figlio, si sente
sempre comandato a bacchetta. Quando torna da scuola la prima domanda che gli viene
rivolta è: “Come è andata?”, che per i genitori è: “Ci interessa sapere cosa ti
è successo”. Ma lui dice dentro di sé: “Ancora domande! Ancora interrogazioni!
Ma lasciatemi un po' in pace, per favore!”.
Pilato
chiede dunque a Gesù: «tu sei re?» (v. 37). E dentro di sé avrà sorriso di
commiserazione: “Ma guardati! Senza esercito, senza soldati, senza appoggi
politici; dove vuoi andare? Sei qui davanti a me, ti posso uccidere o salvare,
e tu mi sfidi dichiarandoti re? Ti rendi conto di quello che dici? Sei incatenato, tutti ti odiano, tutti non vedono l'ora di metterti in croce e
tu ti proclami re davanti a me, l'unico che, tutto sommato, può e vuole
salvarti? Sei proprio senza ritegno!”. E Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto
al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità
ascolta la mia voce» (v.37).
Pilato
si crede re, ma non si comporta da re. Si crede re, ma condanna un uomo che
ritiene innocente. Si crede un re libero, ma è costretto ad assecondare una
folla assetata di sangue: pur di salvare la sua“ragione di stato”, si
sottomette vigliaccamente al volere altrui. Si crede sicuro di sé ma, non
sapendo come uscire da questo imbroglio, se ne lava le mani.
“Chi
è, allora, il vero re?”, ci chiede Giovanni. La risposta è ovvia: Gesù! Ma è
una verità non facilmente comprensibile per chi guarda solo con occhi umani. Gesù
è un Re singolare. Sulla croce è affisso un cartello: «Costui è Gesù, il Re dei Giudei» (Mt 27,37). E la gente si fa beffe
di lui: «Se tu sei il re dei Giudei,
salva te stesso» (Lc 23,37). Per i Romani arrogarsi il titolo di re è
motivo valido per appendere Gesù ad una croce; per i Giudei, un pretesto per
schernirlo, per umiliarlo. Gesù non corrisponde in nulla alla loro idea di re. Ma
Gesù è realmente re: solo che lo è in maniera diversa da come i Giudei se l’aspettano.
Gesù è re perché nel suo regno immateriale è l’unico, in assoluto, che regna;
Lui solo è al comando; è Lui che decide, lui che ha il controllo su tutto. Non esistono
forze nemiche che possano batterlo. Lui è il re della vita, il vincitore della
morte, il re della Luce, della Speranza, dell’Amore. È il nostro re. Il nostro
Salvatore, il nostro Maestro. È Lui che ci ha insegnato ad essere anche noi “re”
di noi stessi, della nostra anima: impresa ardua; non è cosa facile essere re
del nostro cuore, se ci lasciamo sopraffare continuamente dai nostri nemici: paura,
dubbio, disperazione, angoscia, odio, rabbia, dolore, vergogna, aggressività,
male.
Come
possiamo dirci re, infatti, se siamo condizionati dal giudizio della gente, da tutto ciò che ci circonda? Come
possiamo dirci re, se non riusciamo a dominare i nostri istinti? Come possiamo
dirci re, se ad ogni occasione scarichiamo tutta la nostra rabbia su chi è più
debole, su chi ci sta più vicino? Come possiamo dirci re, se non riusciamo a controllare
i nostri comportamenti? Come possiamo dirci re, se continuiamo a fare
meccanicamente e stupidamente ciò che ci proponiamo in continuazione di non
fare più? Come possiamo dirci re, sovrani della nostra vita, se
sistematicamente ci inganniamo per paura, nascondendoci la verità? Ma chi
comanda nel nostro regno? Chi è il re? Siamo noi che decidiamo e guidiamo la
nostra vita, o c’è qualcun altro che lo fa per noi? È vero, la nostra vita è
tutto il nostro regno. Ma perché dimostriamo così poco interesse per viverla bene?
Chiudiamo
per un istante gli occhi, fratelli, e pensiamo a Gesù; Re innalzato sul patibolo,
inchiodato sul trono della croce, esposto allo scherno dei suoi nemici: lo
vediamo spogliato di tutto: privato della sua dignità, nudo davanti ad amici e
nemici. Privato della sua reputazione: eppure la nostra mente ricorda scene di
entusiasmo per lui, gente che lo acclamava, gente guarita che parlava bene di
lui, piena di ammirazione. Lo vediamo spogliato della credibilità: non scende
dalla croce, non è in grado di salvare se stesso, quindi è un impostore, un
simulatore. Addirittura privato del suo Dio, abbandonato dal Padre, dal quale sperava
aiuto, salvezza. Lo vediamo, infine, privato della vita, di quella esistenza
qui sulla terra a cui lui, come noi, si aggrappava tenacemente, riluttante ad
abbandonarla. E fissando quel corpo senza vita capiremo a poco a poco di ammirare
in Lui il simbolo della liberazione totale, della vittoria estrema sul mondo.
Appunto
perché inchiodato e morto sulla croce, Gesù diventa vivo e libero. La sua vita è
un crescendo di conquiste, non di sconfitte. Suscita invidia, non
commiserazione.
Abbiamo davanti ai nostri occhi il nostro vero Re, libero,
maestoso, invincibile: e in Lui possiamo contemplare la nostra nuova condizione
di essere umani, affrancati da tutto ciò che ci rende schiavi, da tutto ciò che
distrugge la nostra felicità. Fissando quella libertà, fratelli, guardiamo
tristemente alle nostre schiavitù, che ancora resistono in noi. Sì, fratelli, perché
noi siamo ancora schiavi: siamo schiavi del mondo, della nostra cattiveria, della
nostra sfiducia, del giudizio degli altri; schiavi di ciò che gli altri possono dire e
pensare di noi.
Siamo schiavi
del successo; ma evitiamo qualunque sfida del bene, per paura e ignavia. Siamo schiavi del benessere, del consenso umano, della gloria, delle
lusinghe di questo mondo, sempre pronto a colmare ogni nostra solitudine
interiore. Siamo schiavi anche di Dio: non del Dio di Gesù, ma di un Dio fasullo
che ci siamo costruito noi su misura. Un Dio che pieghiamo continuamente al
nostro egoismo, un Dio che ci serve solo per tranquillizzarci e renderci
sicura, tranquilla e indolore la vita; un Dio che soprattutto non deve interferire con noi, porre sul nostro
cammino ostacoli e antipatiche condizioni.
Ecco
fratelli, questi siamo noi. A fine anno liturgico, facciamo un bilancio serio e
onesto della nostra vita cristiana: affranchiamoci definitivamente da queste
schiavitù, torniamo ad essere uomini liberi, re di noi stessi: e preghiamo col
cuore, pieni di ammirazione e di pietà, il vero Re, il Crocifisso; Colui che ha
conquistato il Regno dell’universo attraverso la passione e la morte: quel Re, che
una volta lassù, sulla croce del Golgota, con un ultimo grido di immenso amore ha
attirato a sé tutto e tutti. Amen.