«In quel tempo, i farisei se ne
andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi
discorsi».
Poche
pennellate quelle usate da Matteo per fissare la scena del vangelo di oggi. Con
poche ma incisive parole ci presenta tutti i particolari di un ambiente ostile
a Gesù: una riunione tra incapaci esasperati, un accordo subdolo e scellerato, falsi
discepoli smaccatamente untuosi e melliflui, una proposta trabocchetto. I farisei, sempre loro, non sanno più cosa architettare per dare addosso a Gesù. Ma questa volta sembra proprio che la trovata sia vincente. E bisogna darne atto: la trappola che hanno escogitato è veramente geniale: se vuoi incastrare uno, interrogalo a freddo sulla politica; troverai sempre un motivo per dargli contro. E proprio sulla politica i farisei hanno scelto il terreno per lo scontro: «è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?»
La tassa in questione è il “tributum capitis”, la somma cioè che ogni cittadino ebreo, dai 6 ai 65 anni, doveva pagare a Roma come segno di sudditanza. Formidabile come trovata! Perché qualunque risposta Gesù avesse dato, si sarebbe condannato con le sue mani: se infatti avesse risposto "sì", avrebbe dimostrato di avallare l'occupazione degli invasori, e in tal caso si sarebbe inimicato il popolo che li odiava; rispondendo “no”, gli erodiani, che erano filo romani, avrebbero informato immediatamente le autorità per una pronta cattura e conseguente condanna come nemico dichiarato di Roma.
Farisei ed erodiani vanno dunque da Gesù per porgli il quesito: in realtà non cercano da Lui una risposta, ma solo un motivo, un parere compromettente, per accusarlo o condannarlo comunque. A loro non interessa altro. Tutto quello che fanno, lo fanno non certo per ascoltarlo con animo aperto, non per sentire una sua opinione o per imparare qualcosa di positivo da Lui, ma soltanto per trovare la scusa giusta per incastrarlo, e attuare così il loro proposito di eliminazione.
Tutto sembra perfetto, ma come al solito non hanno fatto i conti con il loro interlocutore.
«Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?»
Già alle prime battute, apertamente untuose e provocatorie, Gesù, che conosceva molto bene la falsità del loro cuore, li zittisce immediatamente, e con una esclamazione li identifica per quel che realmente sono: “ipocriti!”. E con ciò stesso smonta tutto il loro piano accusatorio, smaschera la loro recita; e a conferma, chiede semplicemente una moneta. Non una moneta qualsiasi, ma «la moneta del tributo», ossia quella speciale moneta romana, che serviva a pagare la tassa, e su cui apparivano impresse l’immagine dell’imperatore e la scritta: “Al divino Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto”. Un oggetto che già da solo era infamante per gli ebrei osservanti, un oggetto di autentica idolatria, poiché anche il solo possederlo significava in qualche modo rinnegare il loro Dio, l’unico Dio, accettando l’idea che anche l’imperatore romano fosse “Dio”. Una moneta che scotta dunque: Gesù non ce l’ha e la chiede; i farisei ─ altro motivo di doppiezza ─ ce l’hanno e gliela porgono. Ma Gesù non la guarda neppure: anzi alla loro domanda iniziale, risponde con un’altra domanda: «L’immagine e l’iscrizione di chi sono?». Poveracci questi farisei: erano andati da Gesù con la loro bella domanda, baldanzosi, certi di avere la meglio, di avere in mano finalmente il “via” alle loro macchinazioni; insomma si aspettavano una risposta seria, inequivocabile, certa, definitiva; ed Egli che fa? li snobba molto elegantemente, contrapponendo loro la sua domandina, facile facile e per nulla compromettente. «Di Cesare» è la loro ovvia ma prudente risposta.
A questo punto la sentenza di Gesù li coglie di sorpresa, impreparati, li spiazza del tutto: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio».
Elementare. Ineccepibile. Gesù è chiarissimo. E dunque, al di là di qualunque credo religioso, pagare il tributo allo Stato, al re, all’imperatore, non vuol dire assolutamente mancare di fedeltà a Dio. Non solo è lecito, ma è doveroso. Lo Stato, l’autorità politica, ha la sua ragion d’essere. I veri credenti sono quindi leali verso di esso, perché sono anche buoni e onesti cittadini; perché, così facendo, onorano Dio.
Un pensiero molto sentito dai cristiani, che sarà poi immediatamente ripreso anche da Pietro (cfr. 1Pt 2,13-14) e da Paolo (cfr. Rm 13,1ss).
Ma, ovviamente, nella risposta di Gesù l’accento, con tutta la sua forza, cade sulla seconda parte: «rendete a Dio quello che è di Dio». Gesù intende cioè rivendicare la posizione unica ed esclusiva che Dio occupa nella vita dell’uomo. In altre parole, Dio non si accontenta di una vile moneta, ma si aspetta molto di più: dovete dargli ciò che è suo, ossia dovete dargli voi stessi, interamente: la vostra esistenza, la vostra persona; proprio perché l’uomo, con tutto ciò che lo riguarda, è proprietà esclusiva di Dio.
Ma attenzione; il senso della risposta va anche oltre: se cioè Cesare, il potere politico, dovesse attentare ai diritti di Dio, pretendendo di imporre ciò che contrasta con la Sua volontà – e quindi col vero bene delle persone – ebbene: in tal caso, il credente dovrà ubbidire a Dio e non allo Stato. Quello che è di Dio ha diritto di precedenza sempre e comunque.
È molto importante cogliere nella risposta di Gesù tutta la sua logica di fondo, un principio paritetico: come la moneta, che porta impressa l’immagine dell’imperatore, va restituita a lui, così ogni uomo, che reca impressa nell’anima l’immagine di Dio, deve essere restituito a Lui, in quanto sua proprietà totale: tanto più che l'immagine, che portiamo in noi dalla nostra creazione, è diventata ancor più chiara e inconfondibile con il Battesimo, che ci ha resi conformi a Cristo, legandoci a Lui e al Padre in modo vitale e definitivo. Un’immagine di Dio, quella dell’uomo, che deve pertanto tornare a Lui assolutamente integra, non offuscata o distorta.
Quindi, se tutto ciò che siamo e che abbiamo dobbiamo renderlo a Dio, visto che tutto gli appartiene, noi come rispondiamo a tale obbligo? Per esempio: il tempo, che è di Dio, in che misura glielo doniamo? Quanti minuti al giorno gli offriamo per dialogare con Lui? Quanto del nostro tempo e delle nostre risorse, materiali e umane, dedichiamo al servizio della Chiesa e del nostro prossimo? Quanto tempo ancora impegniamo per mettere generosamente a frutto i doni che Lui ci ha dato a sostegno della nostra vocazione?
La realtà economica-sociale-politica, che noi credenti non dobbiamo certo trascurare, non deve interferire con la realtà divina, con quelle che sono le priorità di Dio; è comunque una realtà che deve essere armonizzata con quello che dobbiamo restituire a Dio. Egli ci comanda di amare tutti e di amare sempre, in ogni situazione: ecco allora che ogni forma di impegno sociale e politico, vissuta come servizio fraterno al prossimo, diventa anch’essa un modo concreto di vivere il primato di Dio nella nostra esistenza. L’attività sociale, economica e politica in quanto tale, finalizzata cioè a se stessa, non salva: come d’altro canto il credente non si salva se, a sua volta, non assume e non svolge, con carità e professionalità, il ruolo che gli compete nella vita pubblica.
Abbiamo detto che tutti gli uomini che popolano la terra, sono di Dio; tutti hanno impressa in sé l’immagine del loro Creatore e Padre che li chiama ad appartenergli nella fede e nell’amore: di qualunque razza, di qualunque nazione essi siano. Allora, come facciamo a non sentire la chiamata bruciante per aiutare i più derelitti a riconoscere il loro “marchio di fabbrica”, quell’impronta divina impressa nel loro essere più profondo? Come facciamo a non impegnarci con entusiasmo per risvegliare in loro la nostalgia della grande e divina Famiglia, da cui tutti veniamo e a cui tutti siamo destinati a tornare? C’è forse una causa che meriti, più di questa, un nostro maggior investimento di risorse, di energie, di dedizione? La Chiesa, fratelli, esiste per questo. La Chiesa è questo. E a questo sono finalizzate la nostra vita e la nostra vocazione di cristiani. Annunziare il Vangelo, essere parte attiva nella nuova evangelizzazione di questa nostra società ormai scristianizzata, è il nostro primo atto d’amore, il più grande dono e servizio che possiamo offrire ad ogni nostro fratello, e alla società intera, perché riconosca il primato assoluto di Dio.
Raccogliamo coscienziosamente, fratelli, la provocazione che Gesù, buon maestro, ci mette oggi davanti: preoccupiamoci di tutto ciò che Gli appartiene e che prima o poi a Lui deve ritornare: non solo di Liturgie, non solo di culto, non solo di preghiere, ma di amore. Di tanto amore e di tanta carità: verso di lui e verso il prossimo; verso tutti i fratelli e le sorelle che lui ci ha messo accanto nelle nostre scelte di vita.
Sulla moneta romana c’era l’effige di Cesare: ed è giusto restituirgliela. Ma su tutti i volti del nostro prossimo, sul nostro di volto, risplende l’immagine di Dio. Gesù, con la parabola di oggi, ci mette tutti sotto esame, e ci invita a distribuire le nostre preoccupazioni quotidiane in maniera proporzionale al valore del destinatario. E, come abbiamo visto, la moneta è importante, ma solo marginalmente.
Gesù stesso è stato messo alla prova da emeriti “sprovveduti”, proprio su una questione di soldi e di potere: come se il problema del Regno di Dio si risolvesse con le tasse e con il potere politico. Certo, lo ripetiamo, meritano la nostra attenzione perché sono socialmente importanti. Ma non devono essere causa di distrazione e di allontanamento da Dio. Noi stessi in questi giorni abbiamo occhi e testa puntati sulle Borse di New York, di Tokio e delle capitali economiche dell’Europa. Sembra quasi che dipenda proprio da lì la salvezza o la fine del mondo. Sembra che nel Down Jones, nel Nasdaq, nel Mibtel e nel Nikkei si trovino i parametri assoluti per capire il destino dell’uomo, se abbia o no futuro, se possa sopravvivere a livello mondiale, nazionale e personale, se possa o no contare su una salvezza finale.
Non è questo fratelli: e Gesù ci aiuta a ritrovare il giusto equilibrio in queste nostre preoccupazioni. Oggi purtroppo siamo tutti fin troppo concentrati su quello che riguarda Cesare, mentre quello che riguarda Dio ci preoccupa molto molto meno: anche noi, come ho detto, magari inconsapevolmente, ne siamo molto coinvolti, ci accorgiamo di tirare un profondo sospiro di sollievo quando sentiamo che l’indice delle borse sale, perché capiamo che l’economia mondiale forse migliora; oppure cadiamo nell’ansia quando vediamo gli indici in rosso, e parlano di un crollo peggiore di quello del 1929.
Ebbene, tutto questo, fratelli, è “di Cesare”, e credo che sia giusto preoccuparcene. Ma sarebbe più giusto preoccuparci, cosa che forse non avviene, della sorte dei cristiani copti in Egitto, della situazione delle donne in India, dell’odio verso Cristo e la Chiesa che quotidianamente esplode puntuale in gran parte del mondo. Forse la nostra attenzione è più concentrata sugli indici delle borse mondiali, piuttosto che sugli indici delle ingiustizie sociali che sconvolgono milioni di nostri fratelli. Abbiamo applaudito per le centinaia di miliardi di dollari, dati alle banche, pensando che salvino il mondo; e non ci indigniamo che poi nemmeno un millesimo sia destinato alla salvezza di intere nazioni povere e abbandonate. Non è una polemica, fratelli: è una semplice constatazione.
Forse la crisi economica mondiale ci farà finalmente accorgere che riceviamo molto di più da Dio che da Cesare. Possiamo avere meno soldi in mano: ma in contropartita, se ci pensiamo bene, abbiamo una grandissima ricchezza: abbiamo l’amore di Dio nei nostri confronti, e l’amore reciproco dei fratelli e sorelle nel mondo; una ricchezza enorme che nessuna crisi economica potrà mai portarci via.
Allora diamo solo un pezzetto di cuore a Cesare, fratelli; ma la gran parte riserviamola a Dio, e a tutto ciò che Egli ci pone accanto. Riconosciamo il valore di chi ci ama e di chi ci sorride; di chi si preoccupa di noi, di chi ci incoraggia, di chi crede in noi. E riconosciamo soprattutto che apparteniamo a Dio. Non attacchiamoci ai soldi, al successo, agli onori, alla carriera, al giudizio degli altri. Usiamo le cose, ma amiamo le persone; riconosciamo che entrambe, pur con diverso valore, provengono da Dio.
Noi viviamo nello Stato, ma non apparteniamo allo Stato, apparteniamo a Dio: non dimentichiamolo mai, fratelli; non dimentichiamo mai la nostra origine. La nostra anima è di Dio e dobbiamo restituirla a Lui. Veniamo da Lui e un giorno ritorneremo a Lui: viviamo quindi come suoi figli, viviamo liberi, viviamo veri; viviamo prendendoci cura della nostra coscienza e del nostro cuore. Coltiviamo soprattutto l’immagine di Dio impressa nella nostra anima, perché è sua: coltiviamola e soprattutto viviamo per restituirgliela, immacolata e splendente come l'abbiamo ricevuta. Con questo atteggiamento, fratelli, ci sentiremo integrati e protetti, non più soli, ma dentro una storia, accompagnati dalla Vita per eccellenza e sostenuti dall’Amore assoluto. Amen.