Cosa vuol dirci Gesù con questa parabola? Il significato più semplice, quello evidente, è che tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, sono invitati al banchetto celeste: tutti; anche quelli più umili, quelli più poveri (gli straccioni), quelli, in una parola, che sono considerati un po’ il rifiuto della società; ma attenzione: l’unica cosa richiesta è che tutti si presentino con la veste nuziale: ossia ─ tradotto in termini spirituali contemporanei, perché a noi si riferisce questo riferimento della parabola ─ tutti devono indossare la veste della grazia di Dio, nuova e immacolata, o quantomeno lavata e stirata dalla Penitenza e dalle opere buone.
Ma non basta: questa parabola offre, per l’immediato, anche un’altra interessante spiegazione: il banchetto nuziale cui tutti siamo invitati a partecipare, già da ora si tiene nell’anima di ciascuno: e Dio invita tutti gli uomini ad entrare in quella esperienza di amore, di felicità, di intimità con cui il Figlio celebra le sue nozze perenni col nostro cuore, con la nostra anima. Entrarvi, significa entrare nell’intimità con Dio, rapportarsi con Lui nella nostra coscienza, e conseguentemente dare un senso alla nostra vita. Quando il cuore e l’anima dell’uomo entrano in simbiosi con Dio, l’unione mistica che si instaura tra di loro altro non è che una pallida anticipazione di quello che sarà lo stato di perenne beatitudine in paradiso.
Gesù quindi ci invita concretamente a “entrare” in questo banchetto, a “vivere” la nostra anima, a saziarci di Lui, e questo fin da subito, immediatamente: e allora che aspettiamo, fratelli? viviamola la nostra anima, viviamola intensamente, non abbandoniamola, non ignoriamola, non oltraggiamola mai.
Se oggi la gente è depressa, esaurita, non ha più voglia di vivere, è perché ha dimenticato di avere un’anima, ha dimenticato completamente di rifugiarsi in essa, di instaurare un colloquio intimo e sincero, anima e cuore, con Gesù. Un quarto degli italiani prende farmaci contro l’ansia e la depressione: c’è chi li prende per dormire, chi per potersi alzare la mattina, chi per non deprimersi troppo, chi per controllare l’aggressività, chi per poter sopportare le contrarietà della vita. Si, fratelli, per “sopportare” la vita: ciò che dovrebbe essere fonte di felicità, è diventato un peso da sopportare: perché tutto appare vuoto, inutile, tutto è vertiginosamente proiettato all’esterno; l’introspezione, la meditazione, la moderazione, sono categorie sconosciute all’uomo d’oggi, sono “out”. Adesso tutto è proiezione, tutto è “estremo”: attività estreme, sport estremi, viaggi estremi, esperienze estreme, vacanze estreme, sesso estremo. Perché? Perché l’ordinario non offre più niente, non emoziona più, non ha più stimoli apprezzabili. Non ci accorgiamo però che dopo lo “sballo estremo”, segue inevitabilmente il collasso, la depressione, la disperazione: guardandoci alle spalle ci accorgiamo di aver ignorato qualunque equilibrio, di aver sperperato ogni possibilità di ascoltare e di seguire quei suggerimenti che Dio, pazientemente, inviava al nostro cuore, all’anima e alla mente. Abbiamo, insomma, soffocato la nostra anima.
Ma cosa vuole esattamente da noi quest’anima? Semplice. Vuole la nostra salvezza, il nostro star bene, il nostro incontrare lo Sposo; l’anima vuole il meglio per la nostra vita soprannaturale, vuole suggerirci i motivi veri per cui valga la pena di vivere. “Perché viviamo?”; ce lo siamo mai chiesto? proviamo a chiederlo alle persone che ci stanno intorno, a quelle che incontriamo: “Perché vivi?”; vi assicuro che le risposte saranno tutte di una banalità spiazzante, perché nessuno ha più la ragione unica, importante, vera, profonda, trascendentale per vivere: c’è chi vive per il lavoro, chi per il denaro, chi per fare carriera, chi per i figli, chi perché “questa è la vita che fanno tutti”! Nessuno si sognerebbe più di rispondere: “Per amare e servire Dio”.
Ma, fratelli miei, se non c’è questo motivo fondamentale per cui vivere, vuol dire che manca l’autenticità della vita, vuol dire che si tira a campare, trascinando i giorni, senza alcun mordente; vuol dire che siamo pronti a cogliere al volo anche le occasioni più astruse pur di dare una parvenza di senso alla nostra vita. Non penso di esagerare: è sufficiente guardare la televisione, fratelli: ogni giorno ci propina una miriade di deficienti (nel senso che hanno un deficit di anima) che si buttano nelle più insulse avventure: tipi che si lanciano giù dalle cascate legati a vecchi pneumatici, tipi che bevono 60 litri d’acqua in due ore, che fanno a gara a chi ingurgita più cibo in pochi minuti, autolesionisti che si procurano tagli e ferite, che collezionano e ostentano fieramente tatuaggi e piercing, spesso vomitevoli! Pur di essere ammirati, pur di provare una sferzata di adrenalina nel cervello, oggi l’uomo accetta di fare tutto.
Ma cos’è che manca a tutta questa gente? Manca in loro la presenza di Dio, manca la percezione dell’anima, fratelli. Non la sentono più, non sanno neppure che esista. Non a caso le discoteche, sempre zeppe di giovani, stordiscono con una musica che uccide, che copre e annienta tutto: con cinquemila watt sparati nelle orecchie, in uno stato confusionale e catatonico per alcool e droga, non c’è discorso, non c’è emozione, non c’è ispirazione dell’anima che tenga: ci si immerge tragicamente nel nulla.
Purtroppo i risultati di tali alienazioni sono quotidianamente trasmessi dai telegiornali. Una difficile e drammatica situazione, fratelli: ma l’invito di partecipare alle nozze regali vale anche per loro, per questi “storpi”, questi “zoppi”, questi “ciechi”. A noi il compito di aiutarli nella ricerca della veste appropriata da indossare. Spetta proprio a noi, fratelli, anche se talvolta succede anche a noi di attraversare momenti di sbandamento, di vivere da “frastornati”: il silenzio, anche per noi, è diventato un optional obsoleto; non lo apprezziamo, anzi lo temiamo: non sappiamo più cosa sia la meditazione, la contemplazione, la preghiera mentale; annaspiamo, non sappiamo come riempire le nostre impreviste voragini di “nulla”. Dovremmo capirlo dal poco: quante volte diciamo: “Non vado a quella messa perché è troppo lunga, la predica non finisce mai”. Oppure: “L’adorazione eucaristica è insopportabile, non so cosa dire o pensare in quell’ora, non è per me, ho altro da fare; è roba per suore!” È sintomatico fratelli: vuol dire che abbiamo perso la capacità di raccoglierci in noi stessi, di ascoltare la nostra anima; non possiamo più fare a meno anche noi del chiasso assordante, dei clacson inutili, delle accelerate rabbiose, delle radio e televisioni a tutto volume: non possiamo farne a meno, siamo anche noi baccano-dipendenti. Allora non è la messa o la predica che sono lunghe, siamo noi che cerchiamo di sfuggire a qualunque colloquio silenzioso con la nostra anima, con Dio. Ma come facciamo a sentire Dio, se non accettiamo di ascoltare la nostra anima, i suoi suggerimenti, la sua voce? Come possiamo sentire Dio, entrare nel banchetto nuziale della nostra anima, se non riusciamo neppure per un istante a fermare il vortice dei richiami dispersivi del mondo? Come si può fare? Si può, fratelli! Fermiamoci, tiriamo i freni, usciamo dall’autostrada di questo mondo, facciamo uno stop, imbocchiamo il solitario sentiero che porta al nostro cuore e ascoltiamoci! Facciamolo, fratelli, perché il vero coraggio, quello autentico, non sta nel combattere contro i mulini a vento, ma sta nell’ascoltare la propria anima, la propria coscienza, il proprio cuore.
Fermiamoci e ascoltiamoci: e se sentiamo dentro di noi un qualcosa che ci tormenta, un qualcosa che ci rende insoddisfatti, se sentiamo un senso di vuoto, una mancanza di significato della nostra esistenza, un vago senso di depressione, di tristezza diffusa; se ci sentiamo a disagio nel vivere la nostra chiamata, la nostra vocazione; se siamo scontenti del matrimonio, della famiglia, dei voti religiosi, dei rapporti interpersonali; se ci sentiamo ingabbiati in qualcosa che non riusciamo a capire; se vorremmo di più dalla nostra vita; se non riusciamo mai a gioire pienamente, allora, fratelli miei, vuol dire che stiamo vivendo male la nostra anima; vuol dire che stiamo vivendo il male che è dentro la nostra anima; in una parola stiamo provando tutto il disagio di un’anima che è lontana da Dio. Un disagio che soffoca la nostra vita, che ci impedisce di accedere al nostro banchetto di nozze, di vivere la festa, la gioia, l’amore con lo Sposo.
Oggi sono poche le persone che conoscono il piacere che viene dall’anima. Tutti cercano il piacere. Nessuno cerca l’anima. Cerchiamo e troviamo, per contro, tanti surrogati di felicità: ci copriamo di “giocattoli” costosi (auto, gioielli, telefonini, vestiti, ecc); cerchiamo esperienze inebrianti ai limiti dell’assurdo, ci tuffiamo nel virtuale (internet) isolandoci dal reale; cerchiamo ogni tipo di piacere: del sesso, della tavola, della gloria, della notorietà.
Eppure, nonostante ciò, tutti lamentiamo la mancanza di qualcosa. Ma cos’è che ci manca? Purtroppo, fratelli, ci manca proprio ciò che nessuno può comprare, che nessuno può regalarci: ci manca la nostra anima, il soffio di Dio, la carezza dello Spirito. Dice il vangelo: «A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?». Già, a che serve?!
«Usciti per le strade, quei
servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle
nozze si riempì di commensali…».
Ci
sono dunque degli invitati che non vogliono andarci. C’è la festa, ma non
vogliono esserne coinvolti. Non vogliono saperne: chi non sente il bisogno di
Dio non può incontrare Dio; chi non sente il bisogno dell’anima non può trovare
l’anima. Perché vivere, seguendo le indicazioni dell’anima, non è uno scherzo, richiede
un faticoso coinvolgimento: vivere a partire dall’anima vuol dire uscire allo
scoperto, esporsi, scendere in piazza, scendere nel centro della battaglia
della vita. Vivere a partire dall’anima vuol dire essere protagonisti della
propria vita e non delegare a nessuno il compito di viverla per noi. A seguito del rifiuto dei “chiamati”, tutti indistintamente diventano invitati: Matteo parla di “buoni e cattivi”; Luca, nella stessa parabola, dice “poveri, storpi, ciechi, zoppi”. Entrano cioè nel regno coloro che sentono la propria miseria, che non nascondono il proprio essere bisognosi, il loro lato debole, i loro limiti.
Certo, tutti sono invitati, meglio tutti siamo invitati, ma ad una condizione: che indossiamo il vestito della festa.
È una condizione essenziale; non averlo, per i tempi di Gesù, era imperdonabile. In Israele c’era addirittura la consuetudine di mettere a disposizione degli invitati una apposita veste nuziale, che gli invitati, eventualmente, potevano indossare per presentarsi in ordine davanti agli sposi. Il vangelo ne sottolinea tutta l’importanza in poche righe, raccontando la triste sorte di quel malcapitato che si era intrufolato al banchetto senza indossarla: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre»
Morale? Siamo sì invitati alla festa, alla possibilità di vivere qualcosa di grande, di vitale, di meraviglioso, in un mondo (regno) di luce, di felicità, di vita vera e piena: e tutto questo gratuitamente; solo una cosa ci è richiesta: che, in cambio, dobbiamo vestirci come si deve. L’abito infatti “definisce” la persona che lo porta, completa la sua personalità. Non avere l’abito della festa in un banchetto di nozze, significa esserci “per caso”, di passaggio, senza convinzione, senza coinvolgimento, senza alcun riguardo per gli sposi. Ecco perché è indispensabile per noi indossare sempre l’abito “nuziale”, l’abito della “coerenza”: perché se il nostro fare non rispecchia ciò che diciamo a parole, commettiamo un falso: stiamo mentendo a noi stessi e agli altri, indossiamo un abito stazzonato e sporco. Stiamo tentando di introdurci alle nozze vestiti appunto da straccioni. Invece: “Crediamo? Bene. Viviamo di conseguenza!”. Viviamo onestamente la nostra anima! Eviteremo di sentirci dire: “Fuori di qui!”. Parole tremende. Parole che ci devono costringere alla conversione del cuore, alla santità, a indossare il vestito immacolato, privo di ogni ipocrisia. Non indossiamo mai, fratelli, un vestito che non ci appartiene: perché il pericolo di essere cacciati fuori è sempre presente! Non illudiamoci di essere dei privilegiati, non crediamoci dei già salvati, in quanto operai della prima ora, figli del padrone della vigna, invitati per primi, cristiani di lungo corso, catechisti, preti, frati, suore. Anzi, proprio a noi il Signore chiede di stare bene attenti, di non sederci sulla nostra fede, perché non abbiamo alcuna posizione di privilegio; anzi dobbiamo avere sempre un cuore da mendicanti, un’anima umile, aperta allo stupore delle cose di lassù. Solo così potremo incontrare Lui, lo Sposo, il Signore nostro Gesù Cristo; Lui che, solo, può darci la vera gioia, quella durevole; l’amore autentico, quello “che rimane nei secoli”. La nostra fede, fratelli, poggi sempre su tale certezza assoluta. Amen.
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