giovedì 29 settembre 2011

2 Ottobre 2011 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano…».
Per la terza domenica consecutiva il Vangelo ci ripropone il tema della vigna del Signore. Prima abbiamo visto la parabola degli operai dell'ultima ora e del padrone buono, poi quella del comportamento contraddittorio dei due figli; oggi abbiamo quella dei vignaioli assassini che vogliono impossessarsi della vigna e finiscono per uccidere, oltre agli incaricati alla riscossione, anche il figlio del padrone.
Da notare che nelle tre parabole il comportamento dei vari “padroni” è sempre stato improntato alla bontà, alla pazienza, alla massima comprensione. Ma il padrone di oggi va ben oltre ogni aspettativa, rasenta addirittura l’assurdo; il suo è un amore puntiglioso e illogico: nonostante i suoi inviati vengano sistematicamente bastonati, lapidati, uccisi, lui continua sempre a provarci, cerca di dare ai vignaioli assassini nuove opportunità di ravvedimento. Alla fine, in un estremo tentativo di riscatto, arriva a mandare il proprio unico figlio. Ma anche questi subisce la stessa barbarie, e viene ucciso.
L’allusione è chiarissima: questo vangelo è la sintesi di secoli di storia del popolo ebreo. C’è stato un amore iniziale seguito poi dal rifiuto. I servi sono i profeti che, lungo il corso della storia di Israele, Dio ha mandato per richiamare il suo popolo, perché si accorgesse di essere sulla strada sbagliata; ma Israele non si è ravveduto, non ne ha voluto sapere. E allora Dio, di fronte all’uccisione di suo Figlio, ha fondato altrove il suo Regno, con altri popoli. È il primo grande esempio, fratelli, ma la storia ci insegna che è sempre stato così: Dio risiede dove viene accolto, altrimenti, in punta di piedi, se ne va. La vigna è il segno dell’amore infinito di Dio, è una proposta di felicità, di vita piena. Se questa proposta non viene accettata, Egli passa automaticamente ad altri popoli e ad altri vignaioli.
Storia del popolo ebreo dunque: un popolo che inizialmente accolse il Dio Vivo con grande entusiasmo; ma poi lo respinse, lo uccise. Il Regno fu allora destinato ai seguaci di suo Figlio, ai discepoli di Cristo, a quanti, col battesimo, abbracciarono la fede cristiana. Sorsero così comunità cristiane fiorentissime: Filippi, Tessalonica, Corinto, Cartagine, Efeso. Inviati come Paolo, Cipriano, Agostino, vi dedicarono anni di duro lavoro e di grandi affermazioni. Ma anche queste colonie pian piano sono capitolate. Oggi, in quelle terre, non c’è più traccia di quel cristianesimo fervente; col tempo la fede si è spenta e Dio se ne è andato altrove, in altre nazioni. Un fenomeno che puntualmente continua a ripetersi: quando la fede di un popolo si sclerotizza, si fossilizza, non si rinnova, quella fede muore, e la Vigna di Dio, il Regno dei cristiani, degli innamorati di Cristo, si trasferisce altrove.
Questo fatto dovrebbe preoccuparci seriamente, fratelli, perché anche nei nostri paesi occidentali siamo arrivati al limite; e non è detto che in Europa, e anche nella nostra cattolicissima Italia, in un futuro abbastanza prossimo, non possa succedere altrettanto. Anche da noi la fede sta gradualmente perdendo il suo smalto, la sua spiritualità, il suo entusiasmo, la sua vitalità; rischiamo tra breve di non essere più un popolo di cristiani convinti: al più saremo un popolo di battezzati, perché è questo che richiede la nostra tradizione secolare, ma niente di più.
Ma torniamo alla lettura del vangelo: la parabola inizia dunque mettendo in evidenza il grande amore con cui il padrone dà vita al suo progetto. Egli compie ogni cosa nel migliore dei modi, prepara la sua vigna con grande dedizione: pianta, circonda, scava, costruisce e affida. È il riguardo e l’amore di Dio per chi dovrà poi averne cura. Ma proprio questi lavoratori lo rifiutano. Perché? Gesù è venuto nel nome dell’amore, della bontà, della guarigione, della non-violenza; è venuto per darci una vita piena e sensata. Ma noi, i vignaioli, lo abbiamo rifiutato. Ripeto: perché? Perché continuiamo a rifiutare Gesù? Non è abbastanza buono? Non ci ha amato abbastanza? Ci ha per caso ingannati? Al contrario! Egli ci ha guariti, fatti resuscitare, sfamati, perdonati, illuminati; ci ha fatto sentire in tutti i modi che ci ama perdutamente. Allora lo rifiutiamo perché ci dice la verità? Perché non asseconda i nostri giochetti sporchi?
Abbiamo visto tutti i suoi miracoli, ma i nostri occhi non l’hanno saputo individuare. Abbiamo conosciuto la sua vita, ma non abbiamo cambiato la nostra di vita, non ci siamo convertiti. Abbiamo ascoltato le sue parole, ma il nostro cuore non si è lasciato contagiare. Abbiamo sperimentato le sue guarigioni, ma la nostra mente si è chiusa in discussioni teologiche, in distinguo improponibili, tanto per crearci un alibi per ucciderlo impunemente e vanificare così la sua presenza sulla terra. Ci faceva troppa paura. Poveri illusi: come al solito non abbiamo capito nulla.
Che cosa avrebbe potuto fare di più? Che cosa dovrebbe ancora dirci Gesù per riuscire a conquistare la nostra fiducia? Cosa ancora dovrebbe dimostrarci, per essere accolto, accettato, fatto entrare nel nostro cuore? Lo stesso dicasi per i suoi inviati, i suoi santi pastori, il suo rappresentante sulla terra, il Papa: cosa devono fare di più per convincerci che vengono da noi nel Suo nome, in nome dell’Amore? Che cosa devono dirci o dimostrarci ancora? Nulla, fratelli: abbiamo avuto e sentito tutto; ora dovrebbe “bastarci la Sua grazia” (sufficit tibi gratia mea, 2Cor 12,9), ma purtroppo siamo impenetrabili, emozioni-repellenti, non assorbiamo nulla: in altre parole siamo noi il grande problema. Il problema è il nostro cuore! Siamo fossilizzati, chiusi, insensibili. Non riusciamo a vedere in positivo; non vediamo le migliaia di gesti d’amore che i nostri fratelli ci fanno; non vogliamo vedere la bontà che c’è attorno a noi, di chi ci aiuta, di chi ci sostiene. Siamo occupati continuamente a rimarcare i difetti degli altri, le loro dimenticanze, le loro lacune e, di contro, non riusciamo mai ad apprezzare il bene, la cortesia, la gentilezza, la premura, con cui essi ci circondano. A volte ce ne rendiamo conto soltanto quando qualcuno muore. Soltanto quando perdiamo una persona vicina, finiamo per accorgerci di quanto fosse importante, quanto ci volesse bene. Solo allora i nostri occhi, il nostro cuore, finalmente si aprono: ma è ormai troppo tardi. Allora, perché non farlo prima? Perché, fratelli, siamo talmente incentrati nel nostro ego che purtroppo un piccolo gesto negativo, un soffio appena indisponente, è sufficiente per distruggere migliaia di gesti d’amore. Dimostriamo ancora una volta di avere l’animo atrofizzato, stretto dalla morsa dell’egoismo e della superbia: tutto deve girare attorno a noi. Tutti devono rispettarci, amarci, metterci al centro dell’attenzione e soprattutto lo devono fare sempre. Vogliamo cioè avere tutto, sempre e subito. Anche l’impossibile. Come i vignaioli. Cosa fanno i vignaioli? Vogliono possedere, possedere, anche ciò che non si può: la vigna non è loro. Loro devono semmai curarla la vigna; devono farla fruttificare, la devono lavorare, ma non possono averla, non è loro. Come la vita. La vita non è nostra! Non ne siamo i padroni, e prima o poi dovremo lasciarla. Questo è il problema, fratelli. È la morte il nostro grande problema. Nella nostra vita di vignaioli, cerchiamo di arraffare tutto, non ci fermiamo di fronte a nulla: vorremmo l’immortalità, l’onnipotenza del Padrone: ma è tutto inutile; non possiamo averle, non ne abbiamo il potere! Non abbiamo niente a cui poter dire: “Tu sei mio”. Non possediamo proprio nulla. La vigna-vita non è nostra, non possiamo campare alcun diritto su di essa. Anzi, non abbiamo proprio diritti. Punto. La vita, la nostra vigna, è un dono; può solo essere vissuta, realizzata, gustata, ma non possiamo possederla.
Eppure talvolta ci comportiamo come se dovessimo vivere per sempre. Illusi! Possiamo al massimo decidere come vivere, ma non quanto vivere!.
Tutto è dono, tutto ci è gratuitamente affidato da Dio, nulla può essere preteso. Per questo, fratelli, dobbiamo imparare ad abbandonarci a Lui, alla Vita; dobbiamo fidarci di Lui, perché noi siamo nelle sue mani. Siamo noi, ma non siamo nostri!
Tutto è dono; anche i fratelli che ci vivono accanto: rallegrano la nostra vita, le conferiscono profondità e significato, ci danno forza, complicità, unione e tanto ancora, ma anch’essi non sono “nostri”, non li possiamo possedere. Possiamo solo dire “Grazie”; “Grazie per ciò che abbiamo condiviso”. E quando se ne vanno, dobbiamo pregare Dio non perché li faccia tornare da noi, ma per ringraziarlo e benedirlo della fortuna che ci ha concesso nell’incontrarli.
Quanta pazienza ha Dio con noi! Se, come i vignaioli, avanziamo pretese assurde, se cerchiamo di sovvertire l’ordine, se non portiamo più frutto, ebbene: anche allora Dio non ci abbandona; anzi ci manda “messaggi”, degli avvertimenti: “Stai attento perché le cose non vanno; stai andando incontro alla tua rovina”. Ma noi, purtroppo, spesso ce ne infischiamo anche di questi messaggi, andiamo avanti per la nostra strada, ridiamo e facciamo finta di niente. La Vita non ci è più maestra; non l’accettiamo, e quindi non può più insegnarci nulla. Come possiamo pretendere che Dio ci parli, si faccia sentire, se di proposito non lo vogliamo ascoltare?
Eppure, quando leggiamo questa parabola, ne riconosciamo l’importanza; diciamo: “Che mascalzoni quei vignaioli! Come hanno fatto a non capire? a comportarsi così? Pensavano forse di farla franca?”. Già, loro sono stati stupidi, mascalzoni, assassini, ma noi? Noi li accettiamo i “messaggi” che Gesù ci manda? Eppure sono tanti e frequenti: siamo insoddisfatti, non ci va più bene niente, siamo sempre nervosi, irritabili, non proviamo più stupore, né gioia, non ci entusiasmiamo più per niente; la vita religiosa è un peso, la comunità è un peso, la famiglia è un peso; ecco, questo, fratelli, è un segnale chiaro, forte: e ci dice che la nostra anima langue, sta morendo. È un messaggio importante. Ma noi continuiamo a illuderci: “È il super lavoro; è un periodaccio; succede a tutti; passerà anche questo!”. No, fratelli miei, non passerà affatto.
I segnali che Dio ci manda vanno ascoltati; Dio cerca di aiutarci, ci ama, ci è amico! Non comportiamoci come abbiamo visto fare i vignaioli: il “messaggio” arriva, e noi “lo bastoniamo”, ce la ridiamo; il Padrone ce ne manda uno di più forte, e noi “lo lapidiamo”, lo rifiutiamo, neppure accettiamo di sentirlo; allora ce ne manda un altro ancora più forte, (“il figlio”): ma noi non solo non lo ascoltiamo, ma “lo uccidiamo”. Ebbene, fratelli, se non provvediamo a rimetterci in linea, la nostra situazione diventerà irrecuperabile. Dobbiamo stare molto attenti, dobbiamo prestare la massima attenzione ai “messaggi” di Dio; dobbiamo adeguarci immediatamente: altrimenti arriveremo anche noi a sentire quelle parole tremende: «vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
E concludo: una parabola tragica, quella di oggi, fratelli. Una parabola che ci deve veramente far riflettere: abbiamo detto che è la storia di Dio e dell’umanità, è la nostra storia, la storia di Dio e noi; la storia delle nostre incomprensioni che ancora fatichiamo a risolvere e superare; è la storia di un dolore, il dolore di Dio; un dolore che purtroppo non ci tocca, che ci lascia indifferenti: quando invece dovrebbe spiazzarci, dovrebbe annientarci, o almeno farci interrogare seriamente. Un dolore, questo di Dio, che noi gli causiamo con i nostri continui rifiuti. È la storia di Dio, questo Dio sconsiderato, che insiste, si ripete, che continua a mettere a repentaglio la vita del Figlio, donandocelo ogni giorno nell’Eucaristia. Pensando, così, di suscitare in noi quel rispetto che gli è dovuto, quella adesione al suo infinito Amore, quella risposta che noi, stupidi vignaioli, nell’ottusità del nostro cuore, non vogliamo dare: sì, fratelli miei, anche questo gesto estremo, questa sovrumana e impensabile prova d’amore, è da noi stravolta, incompresa.
A questo punto dobbiamo dire “basta!”. Questo deve essere il nostro grido di ribellione, questo il grido che deve sgorgare prepotentemente dal nostro cuore: non permettiamo oltre che la missione del Figlio fallisca: siamo noi, ciascuno di noi, che dobbiamo opporci al delirante comportamento degli altri vignaioli, di quelli che nella loro lucida follia pretendono di uccidere sistematicamente Dio, per prenderne il posto. Forse gli altri non lo sanno, fratelli, ma noi lo dobbiamo sapere bene: con la venuta del Figlio, noi non siamo più semplici fittavoli della Vigna; essa è diventata anche nostra, il Figlio ci ha nominati suoi “coeredi”: ecco perché spetta soprattutto a noi il compito di convincere i lontani, i distratti, gli svogliati, a coltivare insieme a noi con gioia questa “comune” Vigna di Dio. Come? Sopportando con pazienza evangelica la violenza e la cecità del mondo; contrastando la sua incoerenza con la nostra vita vissuta coerentemente: ossia con un comportamento che sia in sintonia con le nostre convinzioni, col nostro pensiero; un pensiero che deve essere alimentato, come dice Paolo (Fil 4,8), da «tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato; da ciò che è virtù e da ciò che merita lode…». Amen.


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