Domanda delle domande: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»
Siamo ormai a metà del breve percorso che ci porta alla riscoperta del nostro Natale, quello autentico, quello personalissimo, intimo, perché – lo abbiamo già detto – possiamo celebrare cento natali senza che mai Dio nasca nei nostri cuori. Anche questa domenica, fratelli e sorelle, lasciamoci prendere, lasciamoci strappare dal turbinio della nostra quotidianità, per fare come Maria e dimorare nell'ascolto, per riconoscere i tanti profeti che stanno intorno a noi e ci indicano il Cristo.
Oggi, la Parola ci fa incontrare un Giovanni ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore della scorsa settimana: è in carcere e sa che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia di una stizzita e isterica cortigiana che manovra la debolezza di un re-fantoccio. Giovanni ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo e irritante solo per preparare la strada al Messia; e lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare; lo ha accolto, stupito e frastornato in cuor suo per l'atteggiamento nascosto e umile del Salvatore del mondo.
Ma ora è perplesso, Giovanni; è dubbioso. Le notizie che gli giungono dai suoi discepoli lo lasciano costernato: il Messia non sta seguendo le sue orme, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario e catastrofico, ma ha assunto un profilo basso, mediocre. Egli (ricordate?) minacciava la vendetta di Dio, il fuoco divorante. Gesù, invece, propone un perdono incondizionato, rimette le colpe, non minaccia né attua vendetta, dice che quel fuoco lo vuole accendere, certo, ma a partire dall'amore, non certo dal timore.
È troppo diverso questo Messia dal Messia atteso da Giovanni e da Israele, troppo diverso.
Diverso dal Dio che vorremmo anche noi, che vorrei anch’io, perché Dio ci spiazza sempre, è sempre radicalmente diverso da come ce lo immaginiamo. Anche le persone che, come Giovanni, vivono la radicalità della fede, rischiano di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta evidente, un irrompere nella storia con fragore assordante e schiere di angeli trionfanti. Gesù, invece, ci svela il volto di un Dio riservato, quasi nascosto: è evidente, sì, ma non banale, pieno di ogni tenerezza e sensibilità.
Anche noi, come Giovanni, siamo abituati a dividere il mondo in buoni e cattivi, i buoni (spesso noi!) da salvare e i cattivi da punire, per rimettere un po' in sesto il palese squilibrio di questo mondo, che premia gli arroganti e bastona i giusti.
Gesù invece ci spiazza, svelandoci che Dio divide il mondo in chi ama, o cerca di amare, o almeno si lascia amare, e chi no. E l'amore è una possibilità immensa, l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare nella fragilità di ciò che siamo o che vorremmo essere.
Siamo certi di Dio? Riprendiamo in mano il Vangelo e chiediamo nella preghiera, a Dio, di condurci nell'autenticità, sempre. Siamo pieni di dubbi? Anche il più grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi. «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…» replica Gesù ai discepoli del Battista, mandati per informarsi sulla sua identità; ovviamente, non da' una risposta esplicita. Devono trarla da soli. La fede non è evidente, Dio non è il risultato di un ragionamento scientifico, niente "prove" nella fede, con buona pace di quei scettici, simpaticoni, che pretendono di trovare l’anima nelle radiografie! Ci sono offerti indizi, solo deboli indizi che lasciano intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, sono io che devo cambiare ed accorgermi. Gesù elenca i segni messianici profetizzati da Isaia e dice a suo cugino: “Guardati intorno, Giovanni”.
E anche noi, fratelli, guardiamoci intorno e riconosciamo i segni della presenza di Dio: quanti amici hanno incontrato Dio, gente disperata che ha convertito il proprio cuore, persone sfregiate dal dolore che hanno imparato a perdonare, fratelli accecati dall'invidia o dalla cupidigia che hanno messo le ali e ora sono diventati gioia e bene e amore quotidiano, crocifisso, donato! Guarda, Giovanni, guardiamo fratelli, i segni della vittoria silenziosa della venuta del Messia! Segni che certamente abbiamo avuto modo di vedere nel corso della nostra vita. Abbiamo sicuramente avuto modo di constatare, almeno una volta, la forza dirompente del Vangelo, di vedere persone vicine a noi cambiare, guarire, scoprire Dio; di vedere nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto gesti di totale gratuità, vite consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in inferni di solitudine ed egoismo. Si, fratelli anche noi abbiamo potuto constatare i tanti segni del Regno. Ma molti, troppi, ancora non li vedono, non se ne rendono conto, non li vogliono vedere, perché il problema principale del nostro tempo è proprio una miopia interiore che impedisce di godere della nascosta e sottile presenza di Dio.
Prepararsi al Natale significa, allora, convertire lo sguardo, far constatare ai tanti distratti, e ovviamente anche a noi stessi, che il Regno avanza, è presente, che tutti, noi per primi, possiamo renderlo presente. Impariamo tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dal nostro dolore per accorgerci della salvezza che si attua nelle nostre soffocate città.
In questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di speranza per i tanti (troppi, sempre di più) che a Natale si sentono soli, e lo sono davvero! Pochi giorni per dire a chi non sa se Dio c'è (e c’è, ed è amore!) e si chiede se anche il Nazareno, in fondo, non sia che un grande bidone: «Dio c'è, guarda come ha cambiato la mia vita, guarda come il dolore non mi ha sfiancato, guarda che bella la neve che cade, guarda come sorride, contento, tuo figlio, guarda quanto ti voglio bene...». Ecco, fratelli, questa sia la nostra prospettiva, in questo mondo che ha solo problemi irrisolti, ipotesi strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Come singoli credenti, e anche come Chiesa, dobbiamo domandarci continuamente se siamo la risposta vivente alle domande profonde e incalzanti di tante persone. Risposta, che si deve trasformare in offerta di solidarietà, atteggiamento di ascolto, annuncio di speranza... Amen.
venerdì 10 dicembre 2010
giovedì 2 dicembre 2010
5 Dicembre 2010 - II Domenica di Avvento
"Convertitevi: il regno dei cieli è vicino!". Abbiamo messo in moto la preparazione al Natale 2010, e dobbiamo farla per essere presi, non lasciati. Presi dalla sconcertante notizia di un Dio che si fa uomo, di un Dio che rischia tutto diventando un bambino fragile e inerme. Molti pensano di essere cristiani semplicemente perché credono che il Signore Gesù sia entrato nella storia di questo mondo; ma non c'è bisogno di essere cristiani per crederlo! Siamo invece cristiani se desideriamo, nella semplicità e nella povertà del desiderio, che Cristo nasca nei nostri cuori. E Giovanni il folle, oggi, ci scuote con parole che schiaffeggiano, invece di accarezzare. Il Battista, con la sua vita, proclama il primato di Dio sulla Storia, richiama tutti ad uscire da una visione stereotipata e immobilista della fede, per incontrare l'inaudito di Dio.
Il Vangelo, svuotato della sua forza, mantiene il mondo così com’è. Ma Gesù è venuto per cambiarlo, e lo fa partendo dal cuore di ciascuno di noi. Il Salvatore non è un rivoluzionario politico o sociale. È venuto a trasformare la società non con la violenza o la lotta di classe, ma cambiando il cuore degli uomini. E questo cambiamento il Vangelo lo chiama "conversione".
Il Vangelo, svuotato della sua forza, mantiene il mondo così com’è. Ma Gesù è venuto per cambiarlo, e lo fa partendo dal cuore di ciascuno di noi. Il Salvatore non è un rivoluzionario politico o sociale. È venuto a trasformare la società non con la violenza o la lotta di classe, ma cambiando il cuore degli uomini. E questo cambiamento il Vangelo lo chiama "conversione".
E questo è il tema di oggi.
A noi capita spesso – quando ci mettiamo davanti alla televisione, vediamo il telegiornale, oppure quando apriamo un giornale e vi troviamo le solite notizie di guerre, violenze, rapine, furti, corruzioni, omicidi – di pensare: «il mondo va male perché ci sono in giro tanti ladri e briganti, disonesti, violenti, corrotti». Noi esprimiamo la nostra sincera indignazione quotidiana, considerandoci fuori da questa massa dannata di malviventi: «i ladri sono gli altri, i banditi sono gli altri, i mascalzoni sono gli altri. Io non ho mai fatto niente di male. Io sono un prete, sono un frate, sono una suora, appartengo già per questo ad uno stato di elezione, mi rapporto con Dio quotidianamente; sono un padre, una madre di famiglia, impegnati nel sociale e nel volontariato; sono un cristiano battezzato, vado in chiesa ed è naturale che in tutta onestà mi ritenga migliore degli altri!». “Razza di vipere” – tuona Giovanni. Non avete ancora capito? Non basta appartenere ad uno “status” superiore, non basta sentirsi migliori, non basta la conversione di un giorno, non basta un Natale carico di sentimenti: la conversione è una cosa seria, è l’impresa di una vita, una strada sempre in salita, un continuo e difficile cammino alla sequela vera e autentica di Cristo. Nell’umiltà e nella coscienza della propria fragilità.
Questa è la realtà; ed è per questo che tutti noi siamo chiamati ad essere altrettanti profeti!
Vi sembra una battuta? No, fratelli.
La nostra società, noi, abbiamo infatti urgente bisogno di profeti: persone dall'apparenza normale che, però, sanno muoversi in nome di Dio, sanno leggere il presente alla luce della fede. Abbiamo bisogno di profeti, non per predirci e interpretarci il futuro (di questo genere di ciarlatani ne abbiamo fin troppi!) ma per aiutarci a capire il presente, perché ci aiutino a discernere il nostro percorso di fede nella faticosa vita quotidiana! Abbiamo bisogno di uomini di Dio. Si, perché il Dio che il Battista annuncia, il Dio che aspettiamo, è il Dio che brucia dentro, che spazza via con forza i timori, un Dio forte e impetuoso! Un fuoco che divampa bruciando le lentezze, divorando ogni obiezione, ogni tenebra, ogni paura.
Ecco perché Giovanni ammonisce: non basta rifugiarsi dietro alla tradizione, al “fanno tutti così”, accontentarsi di una fede esteriore, di facciata, di una coscienza tiepida. Colui che viene chiede un reale cambiamento, una scelta di vita, uno schieramento deciso. Perché Dio – diventando uomo – separa la luce dalle tenebre, obbliga ad accoglierlo. O a rifiutarlo.
Per questo, fratelli e sorelle, siamo chiamati a diventare profeti. Non c'è bisogno di vestire pelli di cammello, tranquilli, ma di essere a nostra volta trasparenza di Dio; lasciare che il fuoco che Gesù è venuto ad accendere divampi nell'oscurità della nostra vita e dia luce a chi incontreremo in questa settimana. Niente crocifissi al collo o padrepii sui cruscotti della macchina: nulla di tutto questo, ma un'unica notizia, che è il cuore del Vangelo di oggi: "Accorgiti che il Regno si è fatto vicino". La nostra vita deve essere all'opposizione. Non tanto gridando e denunciando, quanto vivendo una vita alternativa a quella consumistica ed edonistica che vediamo quotidianamente intorno a noi.
Il che non è certo facile, diciamocelo! Semplice gridare contro il consumismo e i mali del nostro tempo; difficile liberarci dall'attaccamento ai beni di questa terra, rifiutare un modello e un miraggio di vita borghese che ci rende schiavi delle mode del mondo attuale.
Armiamoci di coraggio, dunque, e con la nostra testimonianza gridiamolo a tutti: Dio si è avvicinato, è incontrabile, conoscibile, presente, evidente. Imitiamo con forza il Signore Gesù, come chiede Paolo ai cristiani di Roma; rendiamo presente la profezia di Isaia (splendida!) che sogna un bambino che gioca con la vipera, e il leone e il capretto che giocano insieme... diamoci da fare, perché questo è quel tempo, il tempo di compiere gesti di pace e di solidarietà autentica.
Grazie Giovanni, che ci scuoti dalle nostre tiepidezze, che sbricioli le nostre fragili verità, le nostre assonnate parole, le nostre svuotate celebrazioni. Bene, non lasciamolo inascoltato, fratelli. Anche quest'anno abbiamo un tempo dedicato proprio per questo: già, perché questo è davvero il tempo di preparare la strada al Signore che viene; questo è davvero il tempo di schierarsi, di accogliere questo Dio sempre inatteso e sempre diverso. Amen.
A noi capita spesso – quando ci mettiamo davanti alla televisione, vediamo il telegiornale, oppure quando apriamo un giornale e vi troviamo le solite notizie di guerre, violenze, rapine, furti, corruzioni, omicidi – di pensare: «il mondo va male perché ci sono in giro tanti ladri e briganti, disonesti, violenti, corrotti». Noi esprimiamo la nostra sincera indignazione quotidiana, considerandoci fuori da questa massa dannata di malviventi: «i ladri sono gli altri, i banditi sono gli altri, i mascalzoni sono gli altri. Io non ho mai fatto niente di male. Io sono un prete, sono un frate, sono una suora, appartengo già per questo ad uno stato di elezione, mi rapporto con Dio quotidianamente; sono un padre, una madre di famiglia, impegnati nel sociale e nel volontariato; sono un cristiano battezzato, vado in chiesa ed è naturale che in tutta onestà mi ritenga migliore degli altri!». “Razza di vipere” – tuona Giovanni. Non avete ancora capito? Non basta appartenere ad uno “status” superiore, non basta sentirsi migliori, non basta la conversione di un giorno, non basta un Natale carico di sentimenti: la conversione è una cosa seria, è l’impresa di una vita, una strada sempre in salita, un continuo e difficile cammino alla sequela vera e autentica di Cristo. Nell’umiltà e nella coscienza della propria fragilità.
Questa è la realtà; ed è per questo che tutti noi siamo chiamati ad essere altrettanti profeti!
Vi sembra una battuta? No, fratelli.
La nostra società, noi, abbiamo infatti urgente bisogno di profeti: persone dall'apparenza normale che, però, sanno muoversi in nome di Dio, sanno leggere il presente alla luce della fede. Abbiamo bisogno di profeti, non per predirci e interpretarci il futuro (di questo genere di ciarlatani ne abbiamo fin troppi!) ma per aiutarci a capire il presente, perché ci aiutino a discernere il nostro percorso di fede nella faticosa vita quotidiana! Abbiamo bisogno di uomini di Dio. Si, perché il Dio che il Battista annuncia, il Dio che aspettiamo, è il Dio che brucia dentro, che spazza via con forza i timori, un Dio forte e impetuoso! Un fuoco che divampa bruciando le lentezze, divorando ogni obiezione, ogni tenebra, ogni paura.
Ecco perché Giovanni ammonisce: non basta rifugiarsi dietro alla tradizione, al “fanno tutti così”, accontentarsi di una fede esteriore, di facciata, di una coscienza tiepida. Colui che viene chiede un reale cambiamento, una scelta di vita, uno schieramento deciso. Perché Dio – diventando uomo – separa la luce dalle tenebre, obbliga ad accoglierlo. O a rifiutarlo.
Per questo, fratelli e sorelle, siamo chiamati a diventare profeti. Non c'è bisogno di vestire pelli di cammello, tranquilli, ma di essere a nostra volta trasparenza di Dio; lasciare che il fuoco che Gesù è venuto ad accendere divampi nell'oscurità della nostra vita e dia luce a chi incontreremo in questa settimana. Niente crocifissi al collo o padrepii sui cruscotti della macchina: nulla di tutto questo, ma un'unica notizia, che è il cuore del Vangelo di oggi: "Accorgiti che il Regno si è fatto vicino". La nostra vita deve essere all'opposizione. Non tanto gridando e denunciando, quanto vivendo una vita alternativa a quella consumistica ed edonistica che vediamo quotidianamente intorno a noi.
Il che non è certo facile, diciamocelo! Semplice gridare contro il consumismo e i mali del nostro tempo; difficile liberarci dall'attaccamento ai beni di questa terra, rifiutare un modello e un miraggio di vita borghese che ci rende schiavi delle mode del mondo attuale.
Armiamoci di coraggio, dunque, e con la nostra testimonianza gridiamolo a tutti: Dio si è avvicinato, è incontrabile, conoscibile, presente, evidente. Imitiamo con forza il Signore Gesù, come chiede Paolo ai cristiani di Roma; rendiamo presente la profezia di Isaia (splendida!) che sogna un bambino che gioca con la vipera, e il leone e il capretto che giocano insieme... diamoci da fare, perché questo è quel tempo, il tempo di compiere gesti di pace e di solidarietà autentica.
Grazie Giovanni, che ci scuoti dalle nostre tiepidezze, che sbricioli le nostre fragili verità, le nostre assonnate parole, le nostre svuotate celebrazioni. Bene, non lasciamolo inascoltato, fratelli. Anche quest'anno abbiamo un tempo dedicato proprio per questo: già, perché questo è davvero il tempo di preparare la strada al Signore che viene; questo è davvero il tempo di schierarsi, di accogliere questo Dio sempre inatteso e sempre diverso. Amen.
venerdì 26 novembre 2010
28 Novembre 2010 - I Domenica di Avvento
«Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà».
É che Dio arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, o siamo convinti di averlo trovato e quindi dormiamo sugli allori e, intanto, la vita ci scorre addosso.
È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora.
È che la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
Per tutte queste ragioni abbiamo assoluto bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, di guardare dove stiamo andando, di trovare un filo a cui appendere, come dei panni, tutte le nostre vicende.
E oggi inizia l'avvento: un nuovo anno liturgico si apre davanti a noi, portandoci al primo grande appuntamento: il Natale.
Non amo particolarmente il Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso. Anzi, detesto questo Natale. Detesto lo sgorbio che ne abbiamo fatto, la fiera insopportabile dei buoni sentimenti, l'ipocrisia del politicamente corretto che fa del Natale una festa di compleanno senza interessarci per nulla del festeggiato.
Io invece voglio prepararmi al Natale, ho necessità assoluta di costruirmi un'arca, e al diavolo quelli che sghignazzano vedendomi inchiodare le tavole e piallare remi in centro città. Ho bisogno di capire come posso trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Voglio poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono poche quattro settimane, lo so. Ma voglio provarci anche quest’anno.
Si, fratelli, perché possiamo celebrare cento natali, senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori.
Come dice splendidamente Bonhöffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sa che Dio ha già atteso lungamente lui.»
Da oggi iniziamo a leggere Matteo: il pubblicano divenuto discepolo, colui che si è fatto bene i conti in tasca, ci accompagna e ci incoraggia sull'impervia strada della conversione. Il brano del Vangelo è faticoso e ostico e rischia di essere letto in chiave ridicola.
Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani.
E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato. Uno incontra Dio, l'altro no. Uno è riempito, l'altro non si fa trovare. Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera.
A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so, fratelli e sorelle. Cerchiamo di farlo ritagliandoci uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. I più impegnati possono prendersi un’ora alla domenica per fare un’ora di silenzio e di preghiera, oppure fare una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena. Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive. Ma, ad aggravare la nostra situazione, non dobbiamo solo combattere contro la dimenticanza. Ci tocca pure combattere contro il finto natale della nostra società consumistica. Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta da un falso e solo apparente buonismo natalizio.
È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio che si fa presente e di una umanità completamente assente. Sotto questo profilo non c'è proprio nulla da festeggiare, da stare allegri: l’uomo non ha fatto certo una gran bella figura, la prima volta, in quel di Betlemme.
Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi. Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione.
In questi anni assistiamo puntualmente ad un Natale fatto di immagini stereotipate di una “famiglia” felice intorno ad un albero illuminato, armonie e canti di angeli che i media ci propinano senza sosta; mentre per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, il Natale così superficialmente ostentato, diventa occasione di amarezza, di solitudine, di sofferenza. Troppo spesso infatti il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene da noi sostituto dal Dio piccino del nostro ipocrita buonismo. Se i vecchi soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace. Esagero? Voglia Dio che sia così. Amen.
É che Dio arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, o siamo convinti di averlo trovato e quindi dormiamo sugli allori e, intanto, la vita ci scorre addosso.
È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora.
È che la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
Per tutte queste ragioni abbiamo assoluto bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, di guardare dove stiamo andando, di trovare un filo a cui appendere, come dei panni, tutte le nostre vicende.
E oggi inizia l'avvento: un nuovo anno liturgico si apre davanti a noi, portandoci al primo grande appuntamento: il Natale.
Non amo particolarmente il Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso. Anzi, detesto questo Natale. Detesto lo sgorbio che ne abbiamo fatto, la fiera insopportabile dei buoni sentimenti, l'ipocrisia del politicamente corretto che fa del Natale una festa di compleanno senza interessarci per nulla del festeggiato.
Io invece voglio prepararmi al Natale, ho necessità assoluta di costruirmi un'arca, e al diavolo quelli che sghignazzano vedendomi inchiodare le tavole e piallare remi in centro città. Ho bisogno di capire come posso trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Voglio poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono poche quattro settimane, lo so. Ma voglio provarci anche quest’anno.
Si, fratelli, perché possiamo celebrare cento natali, senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori.
Come dice splendidamente Bonhöffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sa che Dio ha già atteso lungamente lui.»
Da oggi iniziamo a leggere Matteo: il pubblicano divenuto discepolo, colui che si è fatto bene i conti in tasca, ci accompagna e ci incoraggia sull'impervia strada della conversione. Il brano del Vangelo è faticoso e ostico e rischia di essere letto in chiave ridicola.
Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani.
E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato. Uno incontra Dio, l'altro no. Uno è riempito, l'altro non si fa trovare. Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera.
A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so, fratelli e sorelle. Cerchiamo di farlo ritagliandoci uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. I più impegnati possono prendersi un’ora alla domenica per fare un’ora di silenzio e di preghiera, oppure fare una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena. Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive. Ma, ad aggravare la nostra situazione, non dobbiamo solo combattere contro la dimenticanza. Ci tocca pure combattere contro il finto natale della nostra società consumistica. Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta da un falso e solo apparente buonismo natalizio.
È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio che si fa presente e di una umanità completamente assente. Sotto questo profilo non c'è proprio nulla da festeggiare, da stare allegri: l’uomo non ha fatto certo una gran bella figura, la prima volta, in quel di Betlemme.
Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi. Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione.
In questi anni assistiamo puntualmente ad un Natale fatto di immagini stereotipate di una “famiglia” felice intorno ad un albero illuminato, armonie e canti di angeli che i media ci propinano senza sosta; mentre per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, il Natale così superficialmente ostentato, diventa occasione di amarezza, di solitudine, di sofferenza. Troppo spesso infatti il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene da noi sostituto dal Dio piccino del nostro ipocrita buonismo. Se i vecchi soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace. Esagero? Voglia Dio che sia così. Amen.
venerdì 19 novembre 2010
21 Novembre 2010 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Festa di Cristo Re dell'Universo
«In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
La festa di oggi, Gesù Cristo re dell'Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, che sfida la nostra fragile contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re, significa che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla mia storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo nel mondo contemporaneo; credere invece che il mondo – nonostante tutto – non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui la comunità ecclesiale guarda avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Cristo, un re fuori dagli schemi, dunque. Peggio: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio, perché questo Dio Re è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Questo è il nostro Dio, fratelli: un Dio sconfitto; non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che è però un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. "No, grazie". Forse gli preferiamo un Dio severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono?
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede solo superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il pensare agli altri. Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, che può permettersi di pensare solo a sé, che ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri. In quest’ottica Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo politico riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, fratelli e sorelle: il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono la sintesi del nostro diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, come ad esempio una redenzione in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo, se va va. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come – purtroppo spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, salvezza.
Ecco, questa è l'icona del discepolo, fratelli e sorelle: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione, la tenerezza, l’amore e il perdono. Nella nostra sofferenza umana, abbiamo due possibilità: possiamo cadere nella disperazione o cadere ai piedi della croce e riconoscere: “davvero quest'uomo è il Figlio di Dio”.
Si fratelli miei: Dio è veramente un re anormale; un re difficile da capire con la nostra logica umana.
Un re che indica un altro modo di vivere, un altro modo di pensare; un pensare che contraddice totalmente il nostro “prima di tutto salviamo noi stessi e poi, semmai, salveremo anche gli altri”.
E allora siamo onesti, fratelli: lo capiamo veramente un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? Un Dio che è amore e misericordia per tutti? È questo, davvero, il Re che vogliamo?
Non diamo una risposta affrettata, per favore; perché se affermativa – sincera e ragionata come è logico che sia – non possiamo in alcun modo accampare ulteriormente delle scuse per dedicarci a tempo pieno alla nostra conversione personale. Sincera e definitiva. Amen.
La festa di oggi, Gesù Cristo re dell'Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, che sfida la nostra fragile contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re, significa che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla mia storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo nel mondo contemporaneo; credere invece che il mondo – nonostante tutto – non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui la comunità ecclesiale guarda avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Cristo, un re fuori dagli schemi, dunque. Peggio: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio, perché questo Dio Re è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Questo è il nostro Dio, fratelli: un Dio sconfitto; non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che è però un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. "No, grazie". Forse gli preferiamo un Dio severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono?
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede solo superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il pensare agli altri. Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, che può permettersi di pensare solo a sé, che ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri. In quest’ottica Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo politico riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, fratelli e sorelle: il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono la sintesi del nostro diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, come ad esempio una redenzione in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo, se va va. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come – purtroppo spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, salvezza.
Ecco, questa è l'icona del discepolo, fratelli e sorelle: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione, la tenerezza, l’amore e il perdono. Nella nostra sofferenza umana, abbiamo due possibilità: possiamo cadere nella disperazione o cadere ai piedi della croce e riconoscere: “davvero quest'uomo è il Figlio di Dio”.
Si fratelli miei: Dio è veramente un re anormale; un re difficile da capire con la nostra logica umana.
Un re che indica un altro modo di vivere, un altro modo di pensare; un pensare che contraddice totalmente il nostro “prima di tutto salviamo noi stessi e poi, semmai, salveremo anche gli altri”.
E allora siamo onesti, fratelli: lo capiamo veramente un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? Un Dio che è amore e misericordia per tutti? È questo, davvero, il Re che vogliamo?
Non diamo una risposta affrettata, per favore; perché se affermativa – sincera e ragionata come è logico che sia – non possiamo in alcun modo accampare ulteriormente delle scuse per dedicarci a tempo pieno alla nostra conversione personale. Sincera e definitiva. Amen.
martedì 9 novembre 2010
14 Novembre 2010 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario
«Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine»
L’anno liturgico che ormai volge al termine suscita in noi, attraverso la Parola del Signore, il desiderio di incontrare il suo Volto. Un volto che apparirà in tutto il suo splendore domenica prossima, quando lo celebreremo Re dell'universo, Signore del tempo e della storia.
Oggi le letture ci invitano a vivere il tempo come luogo di salvezza: anche se, ad una lettura superficiale, la Parola di questa domenica potrebbe incutere timore e alimentare in noi la paura di Dio, del suo giudizio, della sua condanna, in considerazione del fatto che vengono affrontate le problematiche della fine della vita dell'uomo e del mondo.
La Parola di Dio invece è sempre incoraggiamento, consolazione, forza, anche nelle situazioni più difficili, nelle sofferenze, nelle persecuzioni. Egli vuole renderci coscienti e responsabili per rinnovargli la fiducia, per lasciarci salvare da Lui.
Di fronte agli eventi drammatici del nostro tempo, siamo invitati a non temere, a crescere nella consapevolezza che solo Dio è il Signore della storia e solo lui ha in mano le redini del mondo. Siamo chiamati alla perseveranza, a non desistere dal credere, sempre e comunque, nella fedeltà del Signore, certi che "chi persevererà sarà salvato" e che ci verrà finalmente donato la pienezza della vita.
È vero che la nostra ineliminabile aspirazione alla felicità viene continuamente frustrata dalla consapevolezza che l'umanità è diretta verso un'esistenza sempre più faticosa e problematica. Forse per questo ci lasciamo andare a falsi profeti che propongono mete artificiali per dimenticare la realtà del tempo che passa, per scacciare la paura della fine che avanza; mete che assicurano la felicità nella ricchezza effimera, nel benessere, mete che promettono una vita priva di intoppi e di difficoltà, in un corpo perennemente giovanile, affascinante e perfetto grazie agli ultimi ritrovati della scienza estetica. Ma questa distorsione della realtà, rifiutata nella sua drammaticità e nella sua caducità, diventerà inesorabilmente ulteriore motivo di paura e di ansia. Assistiamo sempre più ad un pessimismo che striscia nelle nostre strade e s'incunea in molti cuori, corrosi da una disperazione che si maschera di indifferenza, o si nasconde nella ricerca di soddisfazioni che appaghino questo desiderio di vivere e di vivere felici.
Al contrario l'atteggiamento giusto è quello di quanti aspettano con gioiosa serenità il giorno della venuta gloriosa di Cristo: di coloro che si disinteressano del mondo, considerandosi estranei a un'umanità che, pur redenta, rifiuta la mano tesa di Gesù.
Il forte richiamo di Paolo ai Tessalonicesi – che nell'attesa della fine del mondo "vivevano disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione" – insegna che dobbiamo vivere il frammento di tempo che ci è concesso, con impegno, nell'amore per i fratelli, svolgendo bene quei compiti che Dio ci ha affidato. Perché, fratelli, noi ci salviamo soltanto insieme agli altri, attraverso gli altri. La salvezza passa per l'amore di Dio che trabocca sui nostri fratelli, dei quali bisogna guadagnare il maggior numero a Cristo.
Perché se è Gesù Cristo che ha redento il mondo, oggi lui opera nel mondo attraverso noi cristiani, membra del suo corpo, la Chiesa. Se amiamo in questo modo il mondo, già solo per questo in qualche modo lo stiamo cambiando; c'è infatti un primo frammento di mondo che cambia, ed è il nostro cuore.
Dobbiamo allora avere fiducia in Lui, in Gesù. Egli non vuole spaventarci inutilmente. Vuole che ritorniamo alla fede in modo puro e vero, perché Fede è fidarsi ciecamente del Dio artefice della storia umana che è anche il Dio della mia storia personale.
A salvare il mondo non saranno né gli scudi stellari e nemmeno tutti i più sofisticati sistemi di sicurezza. A salvare la mia vita non saranno i soldi o i successi che saprò accumulare.
La mia salvezza viene da Dio che mi conosce fino in fondo. Il mio atteggiamento deve esser quello dell'impegno coraggioso nel dargli testimonianza. Ciò significa avere il coraggio di affrontare la vita, di seguire la sua chiamata, anche se non sono perfetto, se non sono "angelico". Significa impegnarmi perché coloro che ho attorno non cadano nella paura e nella rassegnazione, ma riprendano forza dal mio esempio. E in questo impegno d'amore, testimonio Dio che so che non lascerà perire nemmeno un capello del mio capo... anche quando sembra che siano già caduti tutti!
Dobbiamo dirlo, dobbiamo testimoniarlo, perché in giro, fratelli, c’è tanta paura, tanta incertezza per il futuro. Le notizie e le ipotesi sul domani del genere umano e sulla vita futura di questa nostra terra, si concentrano tutte in una direzione negativa, rendendo attualissime e temibili le parole di Gesù, quando afferma che guerre, rivoluzioni, terremoti, fatti terrificanti, carestie e pestilenze precederanno la fine del mondo. L'azione dell'uomo sembra addirittura impedire che la natura mantenga un equilibrio e salvi se stessa, al punto che la terra – la casa che Dio ha affidato all'umanità perché la abitasse e la custodisse – sta diventando lo scenario desolante di odi ed egoismi che si combattono e si distruggono a vicenda.
“No – dice Gesù; – state sereni. Non sono questi i segni della fine. Non sono questi i segnali di un mondo che precipita nel caos. Già io ho dovuto confrontarmi con questa follia, in un mondo – il mio – ben più aggressivo del vostro”.
E, sorridendo, continua: “cambia il tuo sguardo. Guarda alle cose positive, al tanto amore che l'umanità, nonostante tutto, riesce a produrre, allo stupore che suscita il Creato e che tutto ridimensiona; al Regno che avanza nei cuori, timido, discreto, pacifico, disarmato”.
“Guarda a te stesso, fratello mio – aggiungo io – a quanto il Signore è riuscito a compiere in tutti gli anni della tua vita, nonostante tutto. A tutto l'amore che hai donato e ricevuto, nonostante tutto. Guarda a te e all'opera splendida di Dio, alla sua manifestazione solare, al bene e al bello che ha creato in te. Guarda e non ti scoraggiare.
Di più: la fatica può essere occasione per tutti noi di crescere, di credere. La fede si affina nella prova, diventa più trasparente, il nostro sguardo diventa più luminoso: diventiamo testimoni di Dio, e quando il mondo ci giudica, allora diventiamo santi davvero! Così, senza che ce ne accorgiamo, fratelli e sorelle, ci scopriremo veri credenti! Se il mondo ci critica, se ci attacca e ci disprezza, non mettiamoci sulle difensive, non cadiamo nella trappola, non ragioniamo con la sua logica: ma affidiamoci in tutto allo Spirito.
Si, fratelli: perché quando il mondo parla o sparla troppo della Chiesa (uno sport molto seguito in questi tempi), è allora che la Chiesa deve parlare ancor più di Cristo! Amen.
L’anno liturgico che ormai volge al termine suscita in noi, attraverso la Parola del Signore, il desiderio di incontrare il suo Volto. Un volto che apparirà in tutto il suo splendore domenica prossima, quando lo celebreremo Re dell'universo, Signore del tempo e della storia.
Oggi le letture ci invitano a vivere il tempo come luogo di salvezza: anche se, ad una lettura superficiale, la Parola di questa domenica potrebbe incutere timore e alimentare in noi la paura di Dio, del suo giudizio, della sua condanna, in considerazione del fatto che vengono affrontate le problematiche della fine della vita dell'uomo e del mondo.
La Parola di Dio invece è sempre incoraggiamento, consolazione, forza, anche nelle situazioni più difficili, nelle sofferenze, nelle persecuzioni. Egli vuole renderci coscienti e responsabili per rinnovargli la fiducia, per lasciarci salvare da Lui.
Di fronte agli eventi drammatici del nostro tempo, siamo invitati a non temere, a crescere nella consapevolezza che solo Dio è il Signore della storia e solo lui ha in mano le redini del mondo. Siamo chiamati alla perseveranza, a non desistere dal credere, sempre e comunque, nella fedeltà del Signore, certi che "chi persevererà sarà salvato" e che ci verrà finalmente donato la pienezza della vita.
È vero che la nostra ineliminabile aspirazione alla felicità viene continuamente frustrata dalla consapevolezza che l'umanità è diretta verso un'esistenza sempre più faticosa e problematica. Forse per questo ci lasciamo andare a falsi profeti che propongono mete artificiali per dimenticare la realtà del tempo che passa, per scacciare la paura della fine che avanza; mete che assicurano la felicità nella ricchezza effimera, nel benessere, mete che promettono una vita priva di intoppi e di difficoltà, in un corpo perennemente giovanile, affascinante e perfetto grazie agli ultimi ritrovati della scienza estetica. Ma questa distorsione della realtà, rifiutata nella sua drammaticità e nella sua caducità, diventerà inesorabilmente ulteriore motivo di paura e di ansia. Assistiamo sempre più ad un pessimismo che striscia nelle nostre strade e s'incunea in molti cuori, corrosi da una disperazione che si maschera di indifferenza, o si nasconde nella ricerca di soddisfazioni che appaghino questo desiderio di vivere e di vivere felici.
Al contrario l'atteggiamento giusto è quello di quanti aspettano con gioiosa serenità il giorno della venuta gloriosa di Cristo: di coloro che si disinteressano del mondo, considerandosi estranei a un'umanità che, pur redenta, rifiuta la mano tesa di Gesù.
Il forte richiamo di Paolo ai Tessalonicesi – che nell'attesa della fine del mondo "vivevano disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione" – insegna che dobbiamo vivere il frammento di tempo che ci è concesso, con impegno, nell'amore per i fratelli, svolgendo bene quei compiti che Dio ci ha affidato. Perché, fratelli, noi ci salviamo soltanto insieme agli altri, attraverso gli altri. La salvezza passa per l'amore di Dio che trabocca sui nostri fratelli, dei quali bisogna guadagnare il maggior numero a Cristo.
Perché se è Gesù Cristo che ha redento il mondo, oggi lui opera nel mondo attraverso noi cristiani, membra del suo corpo, la Chiesa. Se amiamo in questo modo il mondo, già solo per questo in qualche modo lo stiamo cambiando; c'è infatti un primo frammento di mondo che cambia, ed è il nostro cuore.
Dobbiamo allora avere fiducia in Lui, in Gesù. Egli non vuole spaventarci inutilmente. Vuole che ritorniamo alla fede in modo puro e vero, perché Fede è fidarsi ciecamente del Dio artefice della storia umana che è anche il Dio della mia storia personale.
A salvare il mondo non saranno né gli scudi stellari e nemmeno tutti i più sofisticati sistemi di sicurezza. A salvare la mia vita non saranno i soldi o i successi che saprò accumulare.
La mia salvezza viene da Dio che mi conosce fino in fondo. Il mio atteggiamento deve esser quello dell'impegno coraggioso nel dargli testimonianza. Ciò significa avere il coraggio di affrontare la vita, di seguire la sua chiamata, anche se non sono perfetto, se non sono "angelico". Significa impegnarmi perché coloro che ho attorno non cadano nella paura e nella rassegnazione, ma riprendano forza dal mio esempio. E in questo impegno d'amore, testimonio Dio che so che non lascerà perire nemmeno un capello del mio capo... anche quando sembra che siano già caduti tutti!
Dobbiamo dirlo, dobbiamo testimoniarlo, perché in giro, fratelli, c’è tanta paura, tanta incertezza per il futuro. Le notizie e le ipotesi sul domani del genere umano e sulla vita futura di questa nostra terra, si concentrano tutte in una direzione negativa, rendendo attualissime e temibili le parole di Gesù, quando afferma che guerre, rivoluzioni, terremoti, fatti terrificanti, carestie e pestilenze precederanno la fine del mondo. L'azione dell'uomo sembra addirittura impedire che la natura mantenga un equilibrio e salvi se stessa, al punto che la terra – la casa che Dio ha affidato all'umanità perché la abitasse e la custodisse – sta diventando lo scenario desolante di odi ed egoismi che si combattono e si distruggono a vicenda.
“No – dice Gesù; – state sereni. Non sono questi i segni della fine. Non sono questi i segnali di un mondo che precipita nel caos. Già io ho dovuto confrontarmi con questa follia, in un mondo – il mio – ben più aggressivo del vostro”.
E, sorridendo, continua: “cambia il tuo sguardo. Guarda alle cose positive, al tanto amore che l'umanità, nonostante tutto, riesce a produrre, allo stupore che suscita il Creato e che tutto ridimensiona; al Regno che avanza nei cuori, timido, discreto, pacifico, disarmato”.
“Guarda a te stesso, fratello mio – aggiungo io – a quanto il Signore è riuscito a compiere in tutti gli anni della tua vita, nonostante tutto. A tutto l'amore che hai donato e ricevuto, nonostante tutto. Guarda a te e all'opera splendida di Dio, alla sua manifestazione solare, al bene e al bello che ha creato in te. Guarda e non ti scoraggiare.
Di più: la fatica può essere occasione per tutti noi di crescere, di credere. La fede si affina nella prova, diventa più trasparente, il nostro sguardo diventa più luminoso: diventiamo testimoni di Dio, e quando il mondo ci giudica, allora diventiamo santi davvero! Così, senza che ce ne accorgiamo, fratelli e sorelle, ci scopriremo veri credenti! Se il mondo ci critica, se ci attacca e ci disprezza, non mettiamoci sulle difensive, non cadiamo nella trappola, non ragioniamo con la sua logica: ma affidiamoci in tutto allo Spirito.
Si, fratelli: perché quando il mondo parla o sparla troppo della Chiesa (uno sport molto seguito in questi tempi), è allora che la Chiesa deve parlare ancor più di Cristo! Amen.
mercoledì 3 novembre 2010
7 Novembre 2010 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario
"Dio non è dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui".
Quest'affermazione perentoria di Gesù ci dà la possibilità, oggi, di affrontare un ultimo tema sul discepolato.
L'occasione è una discussione (benedette discussioni!) di Gesù con i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice di Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosè. Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato (la discendenza era così importante che un fratello doveva dare un figlio alla cognata vedova!) pongono a Gesù un caso paradossale (la famosa storia della vedova "ammazzamariti"!).
Gesù come al solito pone la riflessione su un piano diverso, invita gli ascoltatori ad alzare lo sguardo da una visione che proietta di fatto oltre la morte le ansie e le attese di questa vita terrena. È una nuova dimensione quella che Gesù propone, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (attenzione: nel regno ci riconosceremo ma saremo tutti nel Tutto!), ma che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), una visione che ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
E qui val la pena riprendere la lapidaria affermazione iniziale di Gesù: “Dio è Dio dei vivi, perché tutti vivono in lui”.
Giunti ormai alla fine di questo anno di riflessione sul discepolato, guidati dal Vangelo di Luca, non possiamo evitare di porci una duplice domanda: noi, crediamo veramente nel Dio dei vivi? E noi, siamo veramente vivi?
Capirlo è abbastanza semplice, fratelli: crediamo nel Dio dei vivi se per noi la fede è ricerca, non stanca abitudine; doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere; slancio e preghiera, non rito e superstizione. Dio è vivo in noi, se ci lasciamo incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, per cui, dopo il suo incontro, nulla è più come prima. Crediamo in un Dio vivo se accogliamo la Parola (viva!) che ci sconquassa, ci interroga, ci dona risposte. Crediamo nel Dio dei vivi se ascoltiamo quanti ci parlano (bene) di lui, quanti - per lui - amano.
Nel mare infinito di cattiverie, di sopraffazioni, di intolleranze, di crudeli vendette, di ogni genere di violenze, in cui quotidianamente i media ci sommergono, è veramente emozionante vedere riproposte ogni tanto delle storie fatte di luce: la Chiesa che aiuta gli alluvionati e sinistrati di ogni parte del mondo, preti che donano speranza ai carcerati, frati poveri con i barboni, suore che si consumano per i derelitti, missionari che promuovono dignità per le donne, aiutandole ad uscire dalla miseria e dalla schiavitù maschile. Ecco: un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Siamo vivi (io lo sono?) se abbiamo imparato ad andare fermi dietro a Lui; se non ci lasciamo ingannare dalle sirene che ci promettono ogni felicità se possediamo, se appaiamo, se recitiamo, produciamo, guadagniamo, seduciamo etc.; se sappiamo perdonare, se sappiamo cercare, se abbiamo capito che questa vita ha un valore da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della nostra storia.
Questa deve essere la nostra convinzione, fratelli, questa deve essere la nostra Fede: una fede che diventa possibilità di produrre bontà, che diventa vita nuova per gli altri. Diversamente non è vita, e noi non vivremmo! Per essere Suoi dinamici discepoli, dobbiamo andare a fondo, nonostante la fatica, nonostante le paure, nonostante l'incertezza nel trovare il nostro ruolo, nonostante la scoperta di tante nostre debolezze; ma con la certezza che Lui abbraccerà, con noi, anche tutte le nostre miserie e incongruenze. Quindi, fratelli e sorelle, proviamoci! Diventiamo anche noi discepoli vivi di un Dio vivo, perché solo così potremo già da oggi, vivere realmente da vivi. Amen.
Quest'affermazione perentoria di Gesù ci dà la possibilità, oggi, di affrontare un ultimo tema sul discepolato.
L'occasione è una discussione (benedette discussioni!) di Gesù con i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice di Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosè. Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato (la discendenza era così importante che un fratello doveva dare un figlio alla cognata vedova!) pongono a Gesù un caso paradossale (la famosa storia della vedova "ammazzamariti"!).
Gesù come al solito pone la riflessione su un piano diverso, invita gli ascoltatori ad alzare lo sguardo da una visione che proietta di fatto oltre la morte le ansie e le attese di questa vita terrena. È una nuova dimensione quella che Gesù propone, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (attenzione: nel regno ci riconosceremo ma saremo tutti nel Tutto!), ma che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), una visione che ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
E qui val la pena riprendere la lapidaria affermazione iniziale di Gesù: “Dio è Dio dei vivi, perché tutti vivono in lui”.
Giunti ormai alla fine di questo anno di riflessione sul discepolato, guidati dal Vangelo di Luca, non possiamo evitare di porci una duplice domanda: noi, crediamo veramente nel Dio dei vivi? E noi, siamo veramente vivi?
Capirlo è abbastanza semplice, fratelli: crediamo nel Dio dei vivi se per noi la fede è ricerca, non stanca abitudine; doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere; slancio e preghiera, non rito e superstizione. Dio è vivo in noi, se ci lasciamo incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, per cui, dopo il suo incontro, nulla è più come prima. Crediamo in un Dio vivo se accogliamo la Parola (viva!) che ci sconquassa, ci interroga, ci dona risposte. Crediamo nel Dio dei vivi se ascoltiamo quanti ci parlano (bene) di lui, quanti - per lui - amano.
Nel mare infinito di cattiverie, di sopraffazioni, di intolleranze, di crudeli vendette, di ogni genere di violenze, in cui quotidianamente i media ci sommergono, è veramente emozionante vedere riproposte ogni tanto delle storie fatte di luce: la Chiesa che aiuta gli alluvionati e sinistrati di ogni parte del mondo, preti che donano speranza ai carcerati, frati poveri con i barboni, suore che si consumano per i derelitti, missionari che promuovono dignità per le donne, aiutandole ad uscire dalla miseria e dalla schiavitù maschile. Ecco: un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Siamo vivi (io lo sono?) se abbiamo imparato ad andare fermi dietro a Lui; se non ci lasciamo ingannare dalle sirene che ci promettono ogni felicità se possediamo, se appaiamo, se recitiamo, produciamo, guadagniamo, seduciamo etc.; se sappiamo perdonare, se sappiamo cercare, se abbiamo capito che questa vita ha un valore da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della nostra storia.
Questa deve essere la nostra convinzione, fratelli, questa deve essere la nostra Fede: una fede che diventa possibilità di produrre bontà, che diventa vita nuova per gli altri. Diversamente non è vita, e noi non vivremmo! Per essere Suoi dinamici discepoli, dobbiamo andare a fondo, nonostante la fatica, nonostante le paure, nonostante l'incertezza nel trovare il nostro ruolo, nonostante la scoperta di tante nostre debolezze; ma con la certezza che Lui abbraccerà, con noi, anche tutte le nostre miserie e incongruenze. Quindi, fratelli e sorelle, proviamoci! Diventiamo anche noi discepoli vivi di un Dio vivo, perché solo così potremo già da oggi, vivere realmente da vivi. Amen.
martedì 26 ottobre 2010
31 Ottobre 2010 - XXXI Domenica del Tempo Ordinario
È difficile parlare oggi di peccato, difficile e anche imbarazzante. È un argomento “out”, fuori di moda, inusuale. Ci troviamo a dover fare i conti con due mentalità di fondo, diametralmente opposte; conseguenza rispettivamente di una cultura religiosa intransigente l’una, lassista e permissiva l’altra.
Da una parte proveniamo infatti da un passato che aveva bene in mente cosa era peccato, fin troppo. Al punto che la legge di Dio si era lentamente compenetrata con quella degli uomini, facendo perdere di vista l'essenziale, cioè la bontà e la misericordia di Dio, ed enfatizzando unicamente il suo ruolo di giudice, severo e inflessibile. Molte delle persone che hanno vissuto tutta la loro vita attente a non peccare, lo hanno fatto con la convinzione che bastasse non infrangere materialmente le prescrizioni di Dio e della Chiesa, indipendentemente dalle disposizioni interiori, dalla carità e dall’amore; in una società ipercritica e severa, obbedivano più ad un codice comportamentale che al Vangelo, che è invece compendio di amicizia e di amore divino.
Dall’altra parte, viviamo in un presente in cui si è abolito per legge il peccato: la morale comune è stata ridotta ai minimi termini; cosa è giusto e cosa è sbagliato lo decide la maggioranza, il potere, la pubblicità, i media; la coscienza, se esiste ancora, deve necessariamente adeguarsi. Siamo severi ed intransigenti con gli altri, morbidi e comprensivi con noi stessi e con le nostre incoerenze. Insomma, un bel guaio. Ma, fratelli, consoliamoci: c'è anche di peggio.
E il peggio è il nostro “dentro”, l'inconscio, la nostra anima, la parte più profonda di noi, quella che conosciamo solo noi. Quel luogo personalissimo dove riusciamo finalmente a percepire cosa realmente gli altri si aspettano da noi, e riusciamo a capire nettamente cosa è giusto fare e cosa no. E il peggio è questo: perché anche qui, alcuni di noi riescono con grande facilità a farsi una crosta di indifferenza alta tre dita, appiattendo tutto e tutti. Altri invece, più deboli, vivono pieni di paure e sensi di colpa. E in tutta questa incoerenza, pur in questo posto privilegiato, è difficile che Dio riesca a dire qualcosa; difficile che venga a crearsi quella sottile armonia che ci avvicina a Dio, prendendo coscienza dei nostri limiti; difficile riconoscere e superare i sensi di colpa, faticoso mettere in minoranza la parte oscura e negativa di ciascuno di noi. Ma anche questa volta non dobbiamo disperare. La Parola, come sempre, ci viene in aiuto.
Dio non ama il peccato, non lo conosce neppure, non lo concepisce.
Il peccato è il non-io, il non-Adamo, la parte tenebrosa che finisce col prevalere, il piccolo orco che nasce insieme a noi e che ci tiene compagnia per tutta la vita. In ebraico la parola "peccato" significa "fallire il bersaglio", come capita all'arciere inesperto. Così come purtroppo capita a tutti: ma a noi, no! Noi tutti, pronti a dire che il bersaglio è troppo lontano, che l'arco è allentato, che qualcuno ci ha distratto. Classiche scuse di chi ha un cuore piccino!
Dio, invece, ci considera adulti e ci tratta come tali: ed ha tanta pazienza; ama senza limiti.
Scordiamoci l'idea infelice e demoniaca di un Dio severo, assetato di sangue, che giudica duramente le sue creature: egli le ama invece: e sopporta il loro peccato, come dice la splendida prima lettura, perché pensa che tutti ce la possono fare. Noi ci ostiniamo ad essere dei polli; Dio invece vede in noi dei potenziali falchi che possono volare alto. Noi ci ostiniamo ad essere fotocopie di assurdi modelli, mentre Dio vede in noi il capolavoro unico che siamo. Noi nascondiamo i nostri difetti agli altri: Dio invece vede solo i pregi che egli ha creato in noi.
Insomma, una meraviglia, uno stupore. È tutto talmente splendido che anche il peccato perde la sua connotazione deprimente.
Pensiamo che questo sia troppo? No, fratelli! Chiediamolo a Zaccheo!
Zaccheo era un manager arrivato: aveva fatto soldi a palate con la riscossione delle tasse per conto dell'invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani della finanza di oggi, per i quali conta solo il profitto personale; tutto il resto è relativo.
Un tizio sì rispettato, Zaccheo, ma temuto e odiato dai suoi concittadini: un suo gesto, e i soldati romani intervenivano. Uno che pur avendo tutto, era rimasto completamente solo. La ricchezza e il potere sono molto avari di amici veri e di gratuità.
Zaccheo dunque ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta e, curioso, lo vuole vedere senza farsi vedere. E accade l'inatteso: Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te. Zaccheo è interdetto: “Come fa a conoscere il mio nome? Cosa vuole da me? Forse mi ha confuso con qualcun altro?” Non importa, Zaccheo scende, di corsa. Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: va a casa sua, si ferma, porta salvezza. Zaccheo è confuso, turbato, vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph è venuto a casa sua. Si sente ribaltato come un calzino. Gesù cercava proprio lui, non si è sbagliato di persona. Voleva proprio lui, non c'è dubbio. Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito.
Zaccheo a questo punto fa una solenne promessa che lo porterà alla rovina (leggiamo bene: restituisce quattro volte ciò che ha rubato!); ma che importa? Ora lui si sente salvo. Non più lui solo sazio, solo temuto, solo potente, inutilmente. No, finalmente salvo, finalmente discepolo. Lui, temuto ed odiato, ora è discepolo.
Meditiamo dunque, fratelli e sorelle: è Dio che ci cerca, è lui che prende l'iniziativa. Dio ci ama, senza giudicarci. Cerchiamo colui che ci cerca. La nostra vita cessi di essere una specie di rimpiattino, lasciamoci raggiungere, finalmente! Gesù non giudica Zaccheo, lo aspetta.
L'amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama per il fatto che siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni. Gesù non chiede: dona, senza condizioni.
Se Gesù avesse detto: "Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua", credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull'albero!
No: Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta necessariamente a convertirci.
Questo è tutto, fratelli, amici, discepoli. Chi vuole seguire Gesù si faccia dunque avanti, scenda dall'albero, si schieri. Non importa chi sei tu veramente, né quanta strada hai fatto o che errori porti nel cuore. Non importa se scruti il passaggio del Maestro per semplice curiosità.
Non importa nulla; perché una cosa è certa: oggi, ora, in questo istante, lui vuole entrare nella tua casa. Amen!
Da una parte proveniamo infatti da un passato che aveva bene in mente cosa era peccato, fin troppo. Al punto che la legge di Dio si era lentamente compenetrata con quella degli uomini, facendo perdere di vista l'essenziale, cioè la bontà e la misericordia di Dio, ed enfatizzando unicamente il suo ruolo di giudice, severo e inflessibile. Molte delle persone che hanno vissuto tutta la loro vita attente a non peccare, lo hanno fatto con la convinzione che bastasse non infrangere materialmente le prescrizioni di Dio e della Chiesa, indipendentemente dalle disposizioni interiori, dalla carità e dall’amore; in una società ipercritica e severa, obbedivano più ad un codice comportamentale che al Vangelo, che è invece compendio di amicizia e di amore divino.
Dall’altra parte, viviamo in un presente in cui si è abolito per legge il peccato: la morale comune è stata ridotta ai minimi termini; cosa è giusto e cosa è sbagliato lo decide la maggioranza, il potere, la pubblicità, i media; la coscienza, se esiste ancora, deve necessariamente adeguarsi. Siamo severi ed intransigenti con gli altri, morbidi e comprensivi con noi stessi e con le nostre incoerenze. Insomma, un bel guaio. Ma, fratelli, consoliamoci: c'è anche di peggio.
E il peggio è il nostro “dentro”, l'inconscio, la nostra anima, la parte più profonda di noi, quella che conosciamo solo noi. Quel luogo personalissimo dove riusciamo finalmente a percepire cosa realmente gli altri si aspettano da noi, e riusciamo a capire nettamente cosa è giusto fare e cosa no. E il peggio è questo: perché anche qui, alcuni di noi riescono con grande facilità a farsi una crosta di indifferenza alta tre dita, appiattendo tutto e tutti. Altri invece, più deboli, vivono pieni di paure e sensi di colpa. E in tutta questa incoerenza, pur in questo posto privilegiato, è difficile che Dio riesca a dire qualcosa; difficile che venga a crearsi quella sottile armonia che ci avvicina a Dio, prendendo coscienza dei nostri limiti; difficile riconoscere e superare i sensi di colpa, faticoso mettere in minoranza la parte oscura e negativa di ciascuno di noi. Ma anche questa volta non dobbiamo disperare. La Parola, come sempre, ci viene in aiuto.
Dio non ama il peccato, non lo conosce neppure, non lo concepisce.
Il peccato è il non-io, il non-Adamo, la parte tenebrosa che finisce col prevalere, il piccolo orco che nasce insieme a noi e che ci tiene compagnia per tutta la vita. In ebraico la parola "peccato" significa "fallire il bersaglio", come capita all'arciere inesperto. Così come purtroppo capita a tutti: ma a noi, no! Noi tutti, pronti a dire che il bersaglio è troppo lontano, che l'arco è allentato, che qualcuno ci ha distratto. Classiche scuse di chi ha un cuore piccino!
Dio, invece, ci considera adulti e ci tratta come tali: ed ha tanta pazienza; ama senza limiti.
Scordiamoci l'idea infelice e demoniaca di un Dio severo, assetato di sangue, che giudica duramente le sue creature: egli le ama invece: e sopporta il loro peccato, come dice la splendida prima lettura, perché pensa che tutti ce la possono fare. Noi ci ostiniamo ad essere dei polli; Dio invece vede in noi dei potenziali falchi che possono volare alto. Noi ci ostiniamo ad essere fotocopie di assurdi modelli, mentre Dio vede in noi il capolavoro unico che siamo. Noi nascondiamo i nostri difetti agli altri: Dio invece vede solo i pregi che egli ha creato in noi.
Insomma, una meraviglia, uno stupore. È tutto talmente splendido che anche il peccato perde la sua connotazione deprimente.
Pensiamo che questo sia troppo? No, fratelli! Chiediamolo a Zaccheo!
Zaccheo era un manager arrivato: aveva fatto soldi a palate con la riscossione delle tasse per conto dell'invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani della finanza di oggi, per i quali conta solo il profitto personale; tutto il resto è relativo.
Un tizio sì rispettato, Zaccheo, ma temuto e odiato dai suoi concittadini: un suo gesto, e i soldati romani intervenivano. Uno che pur avendo tutto, era rimasto completamente solo. La ricchezza e il potere sono molto avari di amici veri e di gratuità.
Zaccheo dunque ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta e, curioso, lo vuole vedere senza farsi vedere. E accade l'inatteso: Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te. Zaccheo è interdetto: “Come fa a conoscere il mio nome? Cosa vuole da me? Forse mi ha confuso con qualcun altro?” Non importa, Zaccheo scende, di corsa. Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: va a casa sua, si ferma, porta salvezza. Zaccheo è confuso, turbato, vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph è venuto a casa sua. Si sente ribaltato come un calzino. Gesù cercava proprio lui, non si è sbagliato di persona. Voleva proprio lui, non c'è dubbio. Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito.
Zaccheo a questo punto fa una solenne promessa che lo porterà alla rovina (leggiamo bene: restituisce quattro volte ciò che ha rubato!); ma che importa? Ora lui si sente salvo. Non più lui solo sazio, solo temuto, solo potente, inutilmente. No, finalmente salvo, finalmente discepolo. Lui, temuto ed odiato, ora è discepolo.
Meditiamo dunque, fratelli e sorelle: è Dio che ci cerca, è lui che prende l'iniziativa. Dio ci ama, senza giudicarci. Cerchiamo colui che ci cerca. La nostra vita cessi di essere una specie di rimpiattino, lasciamoci raggiungere, finalmente! Gesù non giudica Zaccheo, lo aspetta.
L'amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama per il fatto che siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni. Gesù non chiede: dona, senza condizioni.
Se Gesù avesse detto: "Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua", credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull'albero!
No: Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta necessariamente a convertirci.
Questo è tutto, fratelli, amici, discepoli. Chi vuole seguire Gesù si faccia dunque avanti, scenda dall'albero, si schieri. Non importa chi sei tu veramente, né quanta strada hai fatto o che errori porti nel cuore. Non importa se scruti il passaggio del Maestro per semplice curiosità.
Non importa nulla; perché una cosa è certa: oggi, ora, in questo istante, lui vuole entrare nella tua casa. Amen!
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