"Perduto e ritrovato": sono le parole del padre che chiudono la parabola. "Bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo figlio era morto ed è tornato alla vita, era perduto ed è stato ritrovato".
Perduto quel figlio lo era davvero. Perduto perché in casa non si trovava bene. E al momento opportuno aveva chiesto la sua parte di soldi e se ne era andato. Magari aveva anche sbattuto la porta, per far capire che ora si sentiva finalmente libero; perduto a causa delle cattive compagnie, che lo facevano sentire grande: aveva soldi da buttare e non si era trovato senza compagni finché aveva avuto soldi in abbondanza: perduto, perché aveva toccato il fondo dell'umiliazione: per un ebreo, di famiglia ricca per di più, fare il guardiano dei maiali era la cosa peggiore che si potesse immaginare.
Per gli ebrei il maiale era un animale impuro e quindi stare con i maiali tutta la giornata significava essere "impuro", un lontano da Dio. E poi Lui, il figlio del padrone, alle dipendenze di uno straniero. Pieno di fame al punto di rubare le carrube ai porci! Era veramente perduto, quel figlio.
Perduto, ma non dimenticato, anzi sempre amato. Così quando aveva fatto ritorno alla casa di suo padre, pieno di fame, sporco, scalzo, coi vestiti laceri e con il discorsetto preparato a memoria... le reazioni di suo padre non erano state quelle che si aspettava. Il vestito bello, i sandali, l'anello al dito e la festa: ecco cosa aveva fatto il padre per lui.
Troppo buono: al punto che l'altro figlio non capisce e si arrabbia: Ma cosa c'è da capire? Quando si ritrova qualcuno che si pensava perduto, "bisogna" far festa. Almeno... Dio ragiona così quando noi torniamo alla sua casa. Dio ci accoglie così anche se arriviamo dopo aver buttato via il suo tesoro.
L'aspetto più difficile di tutto l'annuncio cristiano a volte non sono i misteri, ma l'affermazione della bontà di Dio. Ognuno di noi vorrebbe aggiustare o interpretare la bontà di Dio. Invece la bontà di Dio si rivela sempre superiore e diversa dalle nostre attese. E questo avviene soprattutto di fronte alle persone che hanno peccato ma che hanno fiducia nella misericordia. Gesù nel vangelo sorprende tutti: va a mangiare coi peccatori, difende una donna adultera, chiama tra gli apostoli un pubblicano, entra nella casa di Zaccheo, benedice e conforta un ladrone sulla croce.
Gesù racconta questa grande e commovente parabola che fa percepire la grandezza del cuore di Dio, che fa capire come Dio si è comportato e si comporta con noi. "Gli corse incontro, lo baciò, lo strinse forte a sé". Quante volte il Signore ha fatto così con noi e quante volte ancora lo farà, finché non ci porta al sicuro della sua salvezza!
La parabola ha un centro: il padre; attorno al padre si muovono le due vicende: i due figli. I due figli sono due tentazioni della vita e noi talvolta assomigliamo al primo, talvolta al secondo, talvolta facciamo convivere la cattiveria di tutti e due.
Il primo figlio: costui esige e il padre non si oppone; il figlio fugge di casa e il padre, con cuore straziato, permette che si allontani; il figlio va a divertirsi in modo banale e insulso e il padre permette che dissipi il frutto di tanto sudore, fatica, amore. Il padre resta sullo sfondo della vicenda: appare debole, invece è buono; sembra sconfitto, invece si muove con grande dignità.
Dio non ferma l'uomo perché l'amore non può imporre; Dio non viola la libertà; Dio non si vendica mai.
Quel figlio perde tutto, arriva al fondo dell'abisso. Che può fare? Può ostinarsi nella sua situazione, rifiutare il ritorno, rifiutare il perdono: ma questo è l'inferno. Oppure, può ritornare: se il figlio muove il passo verso la casa del padre... allora accade l'imprevedibile, accade qualcosa che per noi è difficile capire: accade la gioia di Dio, che Gesù chiama "festa in cielo per un peccatore che si pente".
Gesù vuol dire con la sua parabola: sappiate che Dio è così e io sono la prova della bontà di Dio che diventa Betlemme, Nazareth, Cenacolo, orto degli ulivi, Calvario, Eucarestia, Chiesa...
La parabola pertanto è un invito: Se hai peccato, ritorna. Se hai offeso fino al limite più infame: sappi che Dio è pronto a ricominciare tutto da capo. Quanta speranza in questo: Dio non mi respingerà mai! Dio fino all'ultimo mi cercherà e non sarà facile sfuggire al suo amore.
C'è anche il secondo figlio. E' il figlio scandalizzato per la bontà del padre. Sembra che abbia ragione, invece il suo comportamento è offensivo nei confronti del padre. Anche se non è fuggito da casa, il suo cuore non è mai stato in casa, perché non pensa e non ama come suo padre. Questo figlio è ribelle come il primo: questo figlio è un problema per il padre, una spina nel cuore del padre. Per questo figlio sarà più difficile tornare a casa, perché il suo peccato è nascosto dalla presunzione. E la parabola finisce così: Figlio, ritorna anche tu!
Questa parabola ci fa contemplare l'infinito amore di Dio, ci aiuta nei nostri esami di coscienza, ci invita a chiedere sempre il perdono del Signore, ci insegna la strada della riconciliazione e della confessione, come ci esorta S. Paolo: "Fratelli lasciatevi riconciliare con Dio, con fiducia, perché Cristo ci ha riconciliati!".
giovedì 11 marzo 2010
giovedì 4 marzo 2010
7 marzo 2010 - III Domenica di Quaresima
Mentre Gesù sta parlando, qualcuno lo mette al corrente di una notizia sconvolgente: un gruppo di Galilei, probabilmente rivoluzionari, sono stati massacrati dal sanguinario procuratore romano Ponzio Pilato, mentre stavano compiendo un sacrificio di culto. Alla mente dei presenti si affaccia il ricordo ancora vivo di un'altra disgrazia: diciotto operai che lavoravano per il tempio, furono seppelliti sotto il crollo di una torre. Fatti di sangue, racconti di morte, grandi domande: dov'era Dio? È Dio che ha guidato la spada di Pilato? È Dio che aveva fatto franare il terreno sotto la torre del Tempio?
Seguendo la concezione corrente della retribuzione temporale, gli ascoltatori di Gesù hanno interpretato quei tragici avvenimenti con la mentalità del tempo: se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati; se sono stati castigati, è segno che erano peccatori. E il fatto di essere stati personalmente risparmiati rassicura quegli stessi ascoltatori sulla loro giustizia.
Gesù rifiuta questa visione semplicistica e prende le difese sia di Dio sia degli uccisi: non è Dio che arma la mano di Pilato; non è Dio che aggiunge sangue a sangue, che abbatte torri e grattacieli; non ci sono colpe segrete da punire. Quegli uomini non erano peggiori degli altri. Quelle disgrazie sono un avvertimento indirizzato a tutti: tutti sono peccatori; il giudizio di Dio non è per qualcuno, ma per tutti; non è per gli altri, ma per noi. O ci convertiamo o ci perdiamo.
Ma da che cosa dovremmo convertirci? Non siamo forse della brava gente, non siamo forse cattolici credenti e praticanti? Ci soccorre ancora una volta D. Bonhoeffer: "Il contrario della fede non è l'incredulità; è l'idolatria". Già s. Paolo parlava della conversione dei pagani come un "allontanarsi dagli idoli per servire il Dio vivo e vero" (1Ts 1,9). Ecco: ma che cos'è l'idolatria? Nell'opinione comune, mentre la vera fede adora un solo Dio, l'idolatria adora molti dèi. Ma nella Bibbia l'idolatria è qualcosa di più sottile e di più subdolo: non è tanto piegare il ginocchio davanti a una statuetta d‘oro o di legno; non è neanche adorare il vitello d'oro; è piuttosto ergere il proprio Io al posto di Dio. Al fondo di ogni idolatria, c'è l'autolatria, "l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio" (s. Agostino). Poi questa idolatria si concretizzerà nel mettere al posto di Dio - o a fianco di Dio - il Dio danaro, il Dio piacere, la dea immagine, la dea efficienza, il Dio successo... Di qui il "correre, combattere, sconfiggere".
E il "contemplare"? No, fratello, sorella: prima della contemplazione, viene la conversione. Perché se contemplare è vedere Dio, dobbiamo ricordare che solo i puri di cuore vedranno Dio. Noi vediamo o diciamo di vedere; noi crediamo o crediamo di credere. Ma cosa ne stiamo facendo del dono della fede?
Stanno venendo tempi - e sono già venuti - in cui essere cristiani è sinonimo di missionari. Oggi diventa sempre meno concepibile un cristiano che non viva in uno stato di missione.
Non si è cristiani per soddisfare i propri bisogni religiosi, per trovare un senso alla propria vita, per dare una direzione alla propria esistenza. Si è cristiani perché si è stati scelti per essere "luce delle genti", per "annunciare le grandezze di Dio", per dire agli uomini le meraviglie che Dio continua ad operare in mezzo a noi, per portare agli altri l'amore di cui si è amati, per farli godere della propria sorte, per amarli "come se stessi", per donarsi a loro. La missione non è solo l'annuncio di un dono, ma un dono che si fa annuncio.
Oggi Gesù insiste: Se non vi convertirete, tutti allo stesso modo perirete. Quando noi sentiamo dire "conversione", pensiamo subito a cose da fare, a impegni da assumere, a rinunce da praticare. Tutto questo è vero, ma è successivo e derivato: se conversione è letteralmente "voltarsi verso", all'origine della conversione c'è l'esperienza di un incontro e la contemplazione di un volto: l'incontro con Dio, la contemplazione del suo volto.
Così è avvenuto per Mosè (1ª lettura): era fuggito dall'Egitto, braccato dagli aguzzini del faraone e deluso dei suoi connazionali, perché in precedenza si era illuso che avrebbero finalmente capito che "Dio dava loro salvezza per mezzo suo" (At 7,25). Nel deserto di Madian Mosè si era ridotto a vita privata, adattandosi al ritmo tranquillo di un pastore agiato e soddisfatto, con tanto di moglie e figli. Adesso, a quarant'anni suonati, sta per scoccare l'ora della sua missione: dovrà lasciare il deserto e tornare nuovamente in Egitto proprio lui, "quel Mosè che i suoi connazionali avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?" (At 7,35). Questa è la conversione di Mosè: una vera "inversione a U", dal deserto di Madian all'Egitto, dove pendeva una condanna sul suo capo. Ma prima ancora Mosè deve "convertirsi" al Dio unico, vivo e vero.
E cosa aggiunge il Nuovo Testamento alla rivelazione di Dio, già presente nell'Antico? Aggiunge un massimo vertiginoso, del tutto inimmaginabile: un volto d'uomo e un cuore di carne, il volto e il cuore di Gesù. Nessun ebreo prima di Gesù, neanche l'ardente Osea o il dolcissimo Deutero-Isaia, poteva sospettare fino a che punto Dio avrebbe spinto il suo amore per il mondo: "Dio ha tanto amato il mondo fino al punto da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16) e questo Figlio "dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). A questo volto santo di Dio-Amore - amore gratuito, fedele, misericordioso - siamo chiamati a prestare i lineamenti del nostro volto. Altrimenti facciamo bestemmiare il suo santo Nome (cfr. Rm 2,24), quando con il nostro comportamento finiamo per "velare più che svelare il genuino volto di Dio" (GS 19).
Noi finiamo per velare il volto del Dio fedele e affidabile quando non ci fidiamo di lui e siamo come i pagani, sempre in affanno per il nostro domani. Deformiamo il volto dell'Amore gratuito quando mettiamo al di sopra di tutti e di tutto i nostri interessi meschini e il nostro effimero successo. Nascondiamo il volto del Dio misericordioso dietro una maschera repellente, quando con il pretesto che perdonare si deve ma dimenticare non si può, dimentichiamo il bene ricevuto e coltiviamo rancore e rabbia per il male subito. Gli altri allora potrebbero dirci: "Dov'è il vostro Dio? Se non ce lo fate vedere in voi, non ci crediamo e non ci crederemo mai!".
Seguendo la concezione corrente della retribuzione temporale, gli ascoltatori di Gesù hanno interpretato quei tragici avvenimenti con la mentalità del tempo: se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati; se sono stati castigati, è segno che erano peccatori. E il fatto di essere stati personalmente risparmiati rassicura quegli stessi ascoltatori sulla loro giustizia.
Gesù rifiuta questa visione semplicistica e prende le difese sia di Dio sia degli uccisi: non è Dio che arma la mano di Pilato; non è Dio che aggiunge sangue a sangue, che abbatte torri e grattacieli; non ci sono colpe segrete da punire. Quegli uomini non erano peggiori degli altri. Quelle disgrazie sono un avvertimento indirizzato a tutti: tutti sono peccatori; il giudizio di Dio non è per qualcuno, ma per tutti; non è per gli altri, ma per noi. O ci convertiamo o ci perdiamo.
Ma da che cosa dovremmo convertirci? Non siamo forse della brava gente, non siamo forse cattolici credenti e praticanti? Ci soccorre ancora una volta D. Bonhoeffer: "Il contrario della fede non è l'incredulità; è l'idolatria". Già s. Paolo parlava della conversione dei pagani come un "allontanarsi dagli idoli per servire il Dio vivo e vero" (1Ts 1,9). Ecco: ma che cos'è l'idolatria? Nell'opinione comune, mentre la vera fede adora un solo Dio, l'idolatria adora molti dèi. Ma nella Bibbia l'idolatria è qualcosa di più sottile e di più subdolo: non è tanto piegare il ginocchio davanti a una statuetta d‘oro o di legno; non è neanche adorare il vitello d'oro; è piuttosto ergere il proprio Io al posto di Dio. Al fondo di ogni idolatria, c'è l'autolatria, "l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio" (s. Agostino). Poi questa idolatria si concretizzerà nel mettere al posto di Dio - o a fianco di Dio - il Dio danaro, il Dio piacere, la dea immagine, la dea efficienza, il Dio successo... Di qui il "correre, combattere, sconfiggere".
E il "contemplare"? No, fratello, sorella: prima della contemplazione, viene la conversione. Perché se contemplare è vedere Dio, dobbiamo ricordare che solo i puri di cuore vedranno Dio. Noi vediamo o diciamo di vedere; noi crediamo o crediamo di credere. Ma cosa ne stiamo facendo del dono della fede?
Stanno venendo tempi - e sono già venuti - in cui essere cristiani è sinonimo di missionari. Oggi diventa sempre meno concepibile un cristiano che non viva in uno stato di missione.
Non si è cristiani per soddisfare i propri bisogni religiosi, per trovare un senso alla propria vita, per dare una direzione alla propria esistenza. Si è cristiani perché si è stati scelti per essere "luce delle genti", per "annunciare le grandezze di Dio", per dire agli uomini le meraviglie che Dio continua ad operare in mezzo a noi, per portare agli altri l'amore di cui si è amati, per farli godere della propria sorte, per amarli "come se stessi", per donarsi a loro. La missione non è solo l'annuncio di un dono, ma un dono che si fa annuncio.
Oggi Gesù insiste: Se non vi convertirete, tutti allo stesso modo perirete. Quando noi sentiamo dire "conversione", pensiamo subito a cose da fare, a impegni da assumere, a rinunce da praticare. Tutto questo è vero, ma è successivo e derivato: se conversione è letteralmente "voltarsi verso", all'origine della conversione c'è l'esperienza di un incontro e la contemplazione di un volto: l'incontro con Dio, la contemplazione del suo volto.
Così è avvenuto per Mosè (1ª lettura): era fuggito dall'Egitto, braccato dagli aguzzini del faraone e deluso dei suoi connazionali, perché in precedenza si era illuso che avrebbero finalmente capito che "Dio dava loro salvezza per mezzo suo" (At 7,25). Nel deserto di Madian Mosè si era ridotto a vita privata, adattandosi al ritmo tranquillo di un pastore agiato e soddisfatto, con tanto di moglie e figli. Adesso, a quarant'anni suonati, sta per scoccare l'ora della sua missione: dovrà lasciare il deserto e tornare nuovamente in Egitto proprio lui, "quel Mosè che i suoi connazionali avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?" (At 7,35). Questa è la conversione di Mosè: una vera "inversione a U", dal deserto di Madian all'Egitto, dove pendeva una condanna sul suo capo. Ma prima ancora Mosè deve "convertirsi" al Dio unico, vivo e vero.
E cosa aggiunge il Nuovo Testamento alla rivelazione di Dio, già presente nell'Antico? Aggiunge un massimo vertiginoso, del tutto inimmaginabile: un volto d'uomo e un cuore di carne, il volto e il cuore di Gesù. Nessun ebreo prima di Gesù, neanche l'ardente Osea o il dolcissimo Deutero-Isaia, poteva sospettare fino a che punto Dio avrebbe spinto il suo amore per il mondo: "Dio ha tanto amato il mondo fino al punto da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16) e questo Figlio "dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). A questo volto santo di Dio-Amore - amore gratuito, fedele, misericordioso - siamo chiamati a prestare i lineamenti del nostro volto. Altrimenti facciamo bestemmiare il suo santo Nome (cfr. Rm 2,24), quando con il nostro comportamento finiamo per "velare più che svelare il genuino volto di Dio" (GS 19).
Noi finiamo per velare il volto del Dio fedele e affidabile quando non ci fidiamo di lui e siamo come i pagani, sempre in affanno per il nostro domani. Deformiamo il volto dell'Amore gratuito quando mettiamo al di sopra di tutti e di tutto i nostri interessi meschini e il nostro effimero successo. Nascondiamo il volto del Dio misericordioso dietro una maschera repellente, quando con il pretesto che perdonare si deve ma dimenticare non si può, dimentichiamo il bene ricevuto e coltiviamo rancore e rabbia per il male subito. Gli altri allora potrebbero dirci: "Dov'è il vostro Dio? Se non ce lo fate vedere in voi, non ci crediamo e non ci crederemo mai!".
giovedì 25 febbraio 2010
28 Febbraio 2010 - II Domenica di Quaresima
All'inizio del cammino che ci porterà alla Pasqua, siamo invitati a celebrare quell'anticipo della Resurrezione che è la Trasfigurazione di Gesù. E' un appuntamento che ritempra i cuori: sappiamo che anche per noi, come per gli apostoli, ci sarà l'annuncio della passione e morte di Gesù Cristo, ma questo evento sul monte sembra volerci preparare ad aver fede in Colui che non sarà solo il disprezzato, l'escluso, ma anche il Figlio prediletto di Dio, Colui che vincerà il male e la morte.
"Gesù prese con è Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare".
Quanto è bella e profonda questa espressione e come è significativo il comportamento di Gesù che si ritira spesso sul monte a pregare e coinvolge i suoi amici! L'incontro con Dio nella preghiera è sempre una cosa santa, ma questa volta avviene quella manifestazione particolare che chiamiamo trasfigurazione, perché il suo volto cambiò di aspetto e le sue vesti divennero candide e sfolgoranti. Si fece vedere nello splendore della sua gloria di Figlio di Dio, assieme a Mosè ed Elia che rappresentano tutta la Bibbia che dà testimonianza a Gesù, il Messia. E soprattutto si rende presente il Padre che proclama: "Questo è il mio Figlio, ascoltatelo!"
Sulla strada che porta verso Gerusalemme e quindi verso la passione e la croce, Gesù viene trasfigurato. Ma cosa è accaduto ai tre discepoli che sono con Lui? Luca usa questa espressione molto breve per farci capire: "Pietro e i suoi compagni videro la sua gloria". Ma che cosa vuol dire questa frase?
La vita di Gesù era quella di un uomo del suo tempo, anche se egli pronunciava delle parole che andavano dritte al cuore e compiva dei segni di amore che destavano meraviglia e riconoscenza. Ma non era possibile, a prima vista, riconoscere in lui il Figlio di Dio. A Pietro, Giacomo e Giovanni viene offerta la possibilità di "vedere" quello che a molti potrebbe sfuggire, la possibilità di percepire la vicinanza di Dio, la sua bellezza, la sua bontà infinita. Ma "vedere" non basta: anzi ci si potrebbe fare un'idea sbagliata su Gesù: E' necessario "ascoltare": è questo l'invito che il Padre fa a tutti noi.
È interessante notare che i tre apostoli del monte della trasfigurazione saranno gli stessi tre del monte degli ulivi. Qui provano gioia, stupore, desiderio che quel momento magico non finisca più: "È bello per noi stare qui". Potessimo anche noi sperimentare questa gioia e questo desiderio quando siamo nella preghiera, quando siamo con il Signore: "È bello per noi stare qui!".
Ma Gesù invita presto a tornare alla vita ordinaria. La preghiera porta alla vita, ma in maniera nuova, diversa. E nella vita ordinaria siamo chiamati a portare la luce, la grazia, la forza dell'incontro che abbiamo avuto con il Signore. Verranno anche momenti difficili, tentazioni, sofferenze: quello che conta è ricordare "nei momenti delle tenebre ciò che abbiamo visto nei momenti di luce" (come dice uno scrittore). L'importante è sapere che Gesù non ha rifiutato la sofferenza e la passione, ma l'ha santificata e l'ha fatta diventare la cosa più sacra, la prova più grande del suo amore, l'ha fatta diventare grazia e salvezza per tutti. Anche noi possiamo santificare le prove e le sofferenze (non è facile, ma Gesù ci dà questa forza) e unirle a quelle di Cristo, per la salvezza dei fratelli.
Dobbiamo anche sapere con certezza che il Signore è sempre presente accanto a noi, anche quando ci sembra di vivere i momenti più bui e che la sofferenza e la morte non sono "l'ultima parola", ma la penultima, perché l'ultima parola di tutto è la risurrezione, la vita, l'opera meravigliosa che sempre il Signore costruisce.
Mentre nella sua vita si vanno accumulando i segni della tragedia che appare prossima, Gesù si rivolge ancora al Padre: "salì sulla montagna a pregare". La sua manifestazione luminosa nasce nella preghiera. È spontaneo chiedersi quale esperienza di dialogo con il Padre viviamo noi. Nella preghiera si approfondisce la comunione con il Signore riconoscendosi davanti a Lui come figli bisognosi. Prega chi ha riposto la sua fiducia nel Signore, chi ha occhi capaci di contemplare lo splendore del suo volto. È dunque la preghiera il contesto in cui si riceve la luce. La Parola di Dio chiama anche oggi ad una verifica personale e comunitaria, da cui possano scaturire energie e propositi nuovi tesi a rinnovare la propria vita cristiana. La trasfigurazione offre al discepolo un criterio di lettura della vicenda di Gesù: il Messia che si incammina, sofferente e apparentemente sconfitto, verso Gerusalemme è il Messia che è nella gloria. Essa allora indica al discepolo che è la vita della croce che porta alla risurrezione. Al discepolo che segue il Maestro deve essere sufficiente un anticipo di gloria, un lampo che lo confermi nel cammino.
"Gesù prese con è Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare".
Quanto è bella e profonda questa espressione e come è significativo il comportamento di Gesù che si ritira spesso sul monte a pregare e coinvolge i suoi amici! L'incontro con Dio nella preghiera è sempre una cosa santa, ma questa volta avviene quella manifestazione particolare che chiamiamo trasfigurazione, perché il suo volto cambiò di aspetto e le sue vesti divennero candide e sfolgoranti. Si fece vedere nello splendore della sua gloria di Figlio di Dio, assieme a Mosè ed Elia che rappresentano tutta la Bibbia che dà testimonianza a Gesù, il Messia. E soprattutto si rende presente il Padre che proclama: "Questo è il mio Figlio, ascoltatelo!"
Sulla strada che porta verso Gerusalemme e quindi verso la passione e la croce, Gesù viene trasfigurato. Ma cosa è accaduto ai tre discepoli che sono con Lui? Luca usa questa espressione molto breve per farci capire: "Pietro e i suoi compagni videro la sua gloria". Ma che cosa vuol dire questa frase?
La vita di Gesù era quella di un uomo del suo tempo, anche se egli pronunciava delle parole che andavano dritte al cuore e compiva dei segni di amore che destavano meraviglia e riconoscenza. Ma non era possibile, a prima vista, riconoscere in lui il Figlio di Dio. A Pietro, Giacomo e Giovanni viene offerta la possibilità di "vedere" quello che a molti potrebbe sfuggire, la possibilità di percepire la vicinanza di Dio, la sua bellezza, la sua bontà infinita. Ma "vedere" non basta: anzi ci si potrebbe fare un'idea sbagliata su Gesù: E' necessario "ascoltare": è questo l'invito che il Padre fa a tutti noi.
È interessante notare che i tre apostoli del monte della trasfigurazione saranno gli stessi tre del monte degli ulivi. Qui provano gioia, stupore, desiderio che quel momento magico non finisca più: "È bello per noi stare qui". Potessimo anche noi sperimentare questa gioia e questo desiderio quando siamo nella preghiera, quando siamo con il Signore: "È bello per noi stare qui!".
Ma Gesù invita presto a tornare alla vita ordinaria. La preghiera porta alla vita, ma in maniera nuova, diversa. E nella vita ordinaria siamo chiamati a portare la luce, la grazia, la forza dell'incontro che abbiamo avuto con il Signore. Verranno anche momenti difficili, tentazioni, sofferenze: quello che conta è ricordare "nei momenti delle tenebre ciò che abbiamo visto nei momenti di luce" (come dice uno scrittore). L'importante è sapere che Gesù non ha rifiutato la sofferenza e la passione, ma l'ha santificata e l'ha fatta diventare la cosa più sacra, la prova più grande del suo amore, l'ha fatta diventare grazia e salvezza per tutti. Anche noi possiamo santificare le prove e le sofferenze (non è facile, ma Gesù ci dà questa forza) e unirle a quelle di Cristo, per la salvezza dei fratelli.
Dobbiamo anche sapere con certezza che il Signore è sempre presente accanto a noi, anche quando ci sembra di vivere i momenti più bui e che la sofferenza e la morte non sono "l'ultima parola", ma la penultima, perché l'ultima parola di tutto è la risurrezione, la vita, l'opera meravigliosa che sempre il Signore costruisce.
Mentre nella sua vita si vanno accumulando i segni della tragedia che appare prossima, Gesù si rivolge ancora al Padre: "salì sulla montagna a pregare". La sua manifestazione luminosa nasce nella preghiera. È spontaneo chiedersi quale esperienza di dialogo con il Padre viviamo noi. Nella preghiera si approfondisce la comunione con il Signore riconoscendosi davanti a Lui come figli bisognosi. Prega chi ha riposto la sua fiducia nel Signore, chi ha occhi capaci di contemplare lo splendore del suo volto. È dunque la preghiera il contesto in cui si riceve la luce. La Parola di Dio chiama anche oggi ad una verifica personale e comunitaria, da cui possano scaturire energie e propositi nuovi tesi a rinnovare la propria vita cristiana. La trasfigurazione offre al discepolo un criterio di lettura della vicenda di Gesù: il Messia che si incammina, sofferente e apparentemente sconfitto, verso Gerusalemme è il Messia che è nella gloria. Essa allora indica al discepolo che è la vita della croce che porta alla risurrezione. Al discepolo che segue il Maestro deve essere sufficiente un anticipo di gloria, un lampo che lo confermi nel cammino.
giovedì 18 febbraio 2010
21 Febbraio 2010 - I Domenica di Quaresima
Al centro della liturgia di oggi, per antichissima tradizione, c'è l'episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto: Gesù si è fatto in tutto simile a noi: ha affrontato le prove e le tentazioni più grandi. Ha vissuto questo momento di sofferenza e di solitudine. Ma ha vinto il maligno: lo ha vinto con la Parola di Dio e con la sua fiducia piena nel Padre dei cieli. E' interessante notare che ad ogni tentazione del maligno Gesù risponde con una frase chiara della Bibbia, della parola di Dio. Nella parola di Dio c'è sempre la chiarezza, la decisione, la luce e la forza per vincere la tentazione e il male.
Anche noi siamo tentati, tante volte e in tante situazioni della nostra esistenza. Anche noi possiamo vincere le tentazioni con la luce e la forza della Parola di Dio. Sarebbe molto bello e sarebbe la nostra salvezza se nelle tentazioni e nei problemi che incontriamo potessimo ricordare una frase, una parola di Dio e su quella costruire il nostro lavoro interiore, il nostro impegno e di conseguenza, la nostra vittoria, la nostra maturazione. Infatti è normale che ci siano tentazioni e prove; non ci devono spaventare troppo; ci sono date perché abbiamo ad affrontarle e vincerle. La tentazione può diventare occasione di maturazione, di libertà, di maggiore amore a Dio e al prossimo. Ecco perché la Bibbia dice: "Chi desidera seguire il Signore, si prepari alla prova". Il vangelo delle tentazioni e tutto l'itinerario quaresimale simboleggia il cammino della vita, che è fatto di prove e di vittorie, di fatiche e di serenità, di peccati e di perdono, della nostra fatica nella fede e della bontà di Dio che sempre ci viene incontro, di chiusura egoistica in noi stessi e di apertura all'amore sincero del prossimo.
Nella quaresima possiamo trovare la verità profonda della vita di Dio e della nostra vita, della nostra debolezza e della nostra salvezza: la quaresima infatti sfocerà nella morte e resurrezione di Gesù, nostro unico salvatore.
Ripercorriamo un po' le tre tentazioni di Cristo:
1) « Se sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane»; «Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
È la tentazione del materialismo, del consumismo, della illusione della felicità da trovarsi nelle cose materiali. Per i problemi della nostra vita, per i problemi della società e i drammi dell'umanità ci vuole ben altro: valori importanti, il senso della vita, la sapienza del cuore. Basterebbe guardare di che cosa c'è soprattutto bisogno nel cuore dei giovani, nella vita delle nostre famiglie!
2) «Ti darò tutti questi regni se prostrato, mi adorerai». « A Lui solo ti prostrerai e a lui solo adorerai».
È la tentazione dell'orgoglio, del contrapporsi a Dio, del voler vivere senza di Lui, illudendoci di essere noi stessi i padroni della nostra vita. Basterebbe pensare quanto poco facciamo riferimento a Dio nella nostra giornata o lo sentiamo poco importante nella nostra vita. Addirittura possiamo pensare che Lui ci voglia togliere la gioia, la possibilità di vivere e agire come ci piace. Ma Dio non è il concorrente dell'uomo, è la piena realizzazione dell'uomo!
3) «Buttati giù, sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te». «Non tentare il Signore Dio tuo!»
Il maligno propone a Cristo l'uso spettacolare del miracolo. Questa tentazione ritornerà più volte nella vita di Gesù, quando gli chiedono un segno, quando è davanti a Erode e fin sulla croce: «Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce».
È la tentazione della vita facile, anziché ricordare che la strada è erta e scoscesa; del fuggire dalla propria fatica, anziché credere al valore grande del sacrificio e del dono di sé; dell'imporsi, anziché farsi servi e fratelli degli uomini. Se Cristo avesse rifiutato la croce, non avrebbe salvato il mondo, secondo la vera sapienza di Dio.
Il mondo sperimenta anche oggi molto spesso queste tentazioni e si lascia andare a tanti mali.
Si tratta di fare nostra la preghiera: «Non ci indurre in tentazione»: cioè non permettere che cadiamo in quelle tentazioni che sono il nostro male.
Si tratta ancora di attuare quel digiuno quaresimale che i primi cristiani chiamavano "digiunare dal mondo". Esso consiste nel non conformarsi alla mentalità del mondo, nell'astenersi non solo dalle cose peccaminose, ma anche da quelle inutili, superflue che appesantiscono lo spirito e legano l'anima e il corpo alla terra.
Si tratta di aprirsi sempre più ai valori dello spirito, alla presenza operosa del Signore, alle realtà che hanno già il loro valore sulla terra e che dureranno per l'eternità.
Il Signore ci è vicino per darci la forza di vincere le tentazioni e camminare alla sua presenza con amore e con il cuore solidale verso i fratelli.
Anche noi siamo tentati, tante volte e in tante situazioni della nostra esistenza. Anche noi possiamo vincere le tentazioni con la luce e la forza della Parola di Dio. Sarebbe molto bello e sarebbe la nostra salvezza se nelle tentazioni e nei problemi che incontriamo potessimo ricordare una frase, una parola di Dio e su quella costruire il nostro lavoro interiore, il nostro impegno e di conseguenza, la nostra vittoria, la nostra maturazione. Infatti è normale che ci siano tentazioni e prove; non ci devono spaventare troppo; ci sono date perché abbiamo ad affrontarle e vincerle. La tentazione può diventare occasione di maturazione, di libertà, di maggiore amore a Dio e al prossimo. Ecco perché la Bibbia dice: "Chi desidera seguire il Signore, si prepari alla prova". Il vangelo delle tentazioni e tutto l'itinerario quaresimale simboleggia il cammino della vita, che è fatto di prove e di vittorie, di fatiche e di serenità, di peccati e di perdono, della nostra fatica nella fede e della bontà di Dio che sempre ci viene incontro, di chiusura egoistica in noi stessi e di apertura all'amore sincero del prossimo.
Nella quaresima possiamo trovare la verità profonda della vita di Dio e della nostra vita, della nostra debolezza e della nostra salvezza: la quaresima infatti sfocerà nella morte e resurrezione di Gesù, nostro unico salvatore.
Ripercorriamo un po' le tre tentazioni di Cristo:
1) « Se sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane»; «Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
È la tentazione del materialismo, del consumismo, della illusione della felicità da trovarsi nelle cose materiali. Per i problemi della nostra vita, per i problemi della società e i drammi dell'umanità ci vuole ben altro: valori importanti, il senso della vita, la sapienza del cuore. Basterebbe guardare di che cosa c'è soprattutto bisogno nel cuore dei giovani, nella vita delle nostre famiglie!
2) «Ti darò tutti questi regni se prostrato, mi adorerai». « A Lui solo ti prostrerai e a lui solo adorerai».
È la tentazione dell'orgoglio, del contrapporsi a Dio, del voler vivere senza di Lui, illudendoci di essere noi stessi i padroni della nostra vita. Basterebbe pensare quanto poco facciamo riferimento a Dio nella nostra giornata o lo sentiamo poco importante nella nostra vita. Addirittura possiamo pensare che Lui ci voglia togliere la gioia, la possibilità di vivere e agire come ci piace. Ma Dio non è il concorrente dell'uomo, è la piena realizzazione dell'uomo!
3) «Buttati giù, sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te». «Non tentare il Signore Dio tuo!»
Il maligno propone a Cristo l'uso spettacolare del miracolo. Questa tentazione ritornerà più volte nella vita di Gesù, quando gli chiedono un segno, quando è davanti a Erode e fin sulla croce: «Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce».
È la tentazione della vita facile, anziché ricordare che la strada è erta e scoscesa; del fuggire dalla propria fatica, anziché credere al valore grande del sacrificio e del dono di sé; dell'imporsi, anziché farsi servi e fratelli degli uomini. Se Cristo avesse rifiutato la croce, non avrebbe salvato il mondo, secondo la vera sapienza di Dio.
Il mondo sperimenta anche oggi molto spesso queste tentazioni e si lascia andare a tanti mali.
Si tratta di fare nostra la preghiera: «Non ci indurre in tentazione»: cioè non permettere che cadiamo in quelle tentazioni che sono il nostro male.
Si tratta ancora di attuare quel digiuno quaresimale che i primi cristiani chiamavano "digiunare dal mondo". Esso consiste nel non conformarsi alla mentalità del mondo, nell'astenersi non solo dalle cose peccaminose, ma anche da quelle inutili, superflue che appesantiscono lo spirito e legano l'anima e il corpo alla terra.
Si tratta di aprirsi sempre più ai valori dello spirito, alla presenza operosa del Signore, alle realtà che hanno già il loro valore sulla terra e che dureranno per l'eternità.
Il Signore ci è vicino per darci la forza di vincere le tentazioni e camminare alla sua presenza con amore e con il cuore solidale verso i fratelli.
venerdì 12 febbraio 2010
14 Febbraio 2010 - VI Domenica del Tempo Ordinario
Gesù ha scelto e chiamato per nome i suoi dodici apostoli. Mentre discende con loro dal monte, viene circondato da una grande folla, tra cui molti malati. Appena essi riescono a toccare Gesù, una forza misteriosa li guarisce. La folla è piena di ammirazione per Gesù: se egli guarisce con tanta facilità i malati, vuoi dire che Dio è con lui. E attende che parli, perché ognuno porta nel cuore delle sofferenze che non sono fisiche, e che solo la parola di un grande profeta di Dio può guarire. Attende che Gesù indichi la strada della felicità tra le tante miserie della vita.
E Gesù inizia a parlare. Fa un discorso che noi leggeremo per tre domeniche consecutive. Rovesciando la comune maniera di pensare (che vede nelle ricchezze la fonte della felicità), Gesù inizia le sue parole proclamando beati (noi diremmo oggi fortunati) i poveri, quelli che hanno fame, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati perché cercano di vivere nell'onestà. Beati, fortunati perché? Perché possiedono le caratteristiche per entrare in possesso del regno di Dio. Gesù sa che i poveri, quelli che hanno fame, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati, conoscono la fragilità della vita, confidano in Dio più che in se stessi, sentono il bisogno di essere salvati dal peccato, dalla morte, sono disposti ad aiutarsi a vicenda, e aspettano l'aiuto e la salvezza di Dio. Sono quindi nella condizione giusta, nella corretta apertura a Dio per accettare il suo regno. La Scrittura presenta la beatitudine nell'ascolto e nella scelta di camminare nella legge di Dio. La beatitudine sta nella vicinanza a Dio.
Tutte le beatitudini presentate dall'evangelista Luca si condensano in realtà nella prima che innalza i poveri. La povertà di cui parla Gesù è la scelta per il Regno, la decisione di
porsi dietro i passi di Gesù con un cuore disponibile a lasciarsi rinnovare da Dio.
Poi Gesù pronuncia quattro severi «guai»: contro i ricchi, quelli che sono sazi, quelli che ridono e sono contenti di come vanno le cose del mondo, quelli che vengono lodati e approvati da tutti. Essi infatti non sentono il bisogno di Dio, non attendono né sperano nulla da lui: non avvertono la necessità che Dio li aiuti e li salvi. Non entreranno quindi nel regno di Dio, ma rimarranno chiusi nel loro egoismo. Gesù li considera dei falliti in questa vita, perché non sentiranno mai la gioia di essere figli di Dio, di vivere come fratelli, di sacrificarsi per gli altri. Le parole di Gesù rovesciano la mentalità corrente, quella che stima beati i ricchi e i potenti. E' la nuova mentalità dei cristiani, che farà di loro il popolo nuovo della Terra: un popolo attento agli umili, ai miseri, agli emarginati; un popolo che vede Gesù nei sofferenti, e spezza con loro il pane.
«La beatitudine promessa da Gesù - dice il Catechismo della Chiesa Cattolica - ci insegna che la vera felicità non si trova nelle ricchezze o nel benessere... ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore. Ci invita a purificare il cuore dai suoi istinti cattivi e a cercare l'amore di Dio sopra di tutto. [Purtroppo però] alla ricchezza tutta la massa degli uomini tributa un omaggio istintivo. La ricchezza è quindi uno degli idoli del nostro tempo» (n. 1723).
Una domanda brucia sulle labbra di chi legge le beatitudini di Gesù: il regno di Dio si realizzerà solo dopo questa vita, nella casa del Padre, o avrà inizio in questo mondo di terra e di sangue?
Leggendo il Vangelo possiamo rispondere che Gesù previde la realizzazione piena del Regno e delle beatitudini nella casa del Padre; ma affidò anche ai cristiani e alle persone di buona volontà l'inizio della loro realizzazione in questa vita, per dare speranza al mondo, per dare gioia a chi è afflitto e nutrimento a chi soffre la fame.
L'Abbé Pierre, una lucida coscienza cristiana del nostro tempo, ha dichiarato: «Questa società, la società occidentale almeno, è satanizzata dal consumismo e dall'idolatria del denaro. E una società condannata. Lo scandalo della disuguaglianza emerge in tutta la sua crudezza da una parte all'altra del pianeta.
Il rimedio? E' ritrovare lo spirito delle beatitudini, ancorarsi ai valori che esse proclamano, ispirare ad esse i nostri comportamenti. Ecco, io direi che le beatitudini bisogna farle diventare la nostra guida morale. Il regno di Dio è qui in terra, basta cercarlo».
Si tratta di accogliere con fede le parole di Dio e di assaporare la verità profonda che esse contengono. "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nelle cose materiali il suo sostegno e allontana dal Signore il suo cuore... Benedetto l'uomo che confida nel Signore... egli è come un albero piantato lungo l'acqua, non teme pericoli, non smette di produrre frutti" (Geremia). "Beato l'uomo che pone la speranza nel Signore... la via degli empi andrà in rovina" (Salmo 1).
Gesù dice nel vangelo: "Beati voi poveri, perché vostro è il regno... Rallegratevi perché la vostra ricompensa è grande nei cieli".
La Madonna a Lourdes ha scelto una ragazza povera, le ha chiesto di pregare e di sacrificarsi per la conversione dei peccatori e le ha detto: "Non ti prometto di farti felice in questa vita, ma nell'altra". È quello che conta!
E Gesù inizia a parlare. Fa un discorso che noi leggeremo per tre domeniche consecutive. Rovesciando la comune maniera di pensare (che vede nelle ricchezze la fonte della felicità), Gesù inizia le sue parole proclamando beati (noi diremmo oggi fortunati) i poveri, quelli che hanno fame, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati perché cercano di vivere nell'onestà. Beati, fortunati perché? Perché possiedono le caratteristiche per entrare in possesso del regno di Dio. Gesù sa che i poveri, quelli che hanno fame, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati, conoscono la fragilità della vita, confidano in Dio più che in se stessi, sentono il bisogno di essere salvati dal peccato, dalla morte, sono disposti ad aiutarsi a vicenda, e aspettano l'aiuto e la salvezza di Dio. Sono quindi nella condizione giusta, nella corretta apertura a Dio per accettare il suo regno. La Scrittura presenta la beatitudine nell'ascolto e nella scelta di camminare nella legge di Dio. La beatitudine sta nella vicinanza a Dio.
Tutte le beatitudini presentate dall'evangelista Luca si condensano in realtà nella prima che innalza i poveri. La povertà di cui parla Gesù è la scelta per il Regno, la decisione di
porsi dietro i passi di Gesù con un cuore disponibile a lasciarsi rinnovare da Dio.
Poi Gesù pronuncia quattro severi «guai»: contro i ricchi, quelli che sono sazi, quelli che ridono e sono contenti di come vanno le cose del mondo, quelli che vengono lodati e approvati da tutti. Essi infatti non sentono il bisogno di Dio, non attendono né sperano nulla da lui: non avvertono la necessità che Dio li aiuti e li salvi. Non entreranno quindi nel regno di Dio, ma rimarranno chiusi nel loro egoismo. Gesù li considera dei falliti in questa vita, perché non sentiranno mai la gioia di essere figli di Dio, di vivere come fratelli, di sacrificarsi per gli altri. Le parole di Gesù rovesciano la mentalità corrente, quella che stima beati i ricchi e i potenti. E' la nuova mentalità dei cristiani, che farà di loro il popolo nuovo della Terra: un popolo attento agli umili, ai miseri, agli emarginati; un popolo che vede Gesù nei sofferenti, e spezza con loro il pane.
«La beatitudine promessa da Gesù - dice il Catechismo della Chiesa Cattolica - ci insegna che la vera felicità non si trova nelle ricchezze o nel benessere... ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore. Ci invita a purificare il cuore dai suoi istinti cattivi e a cercare l'amore di Dio sopra di tutto. [Purtroppo però] alla ricchezza tutta la massa degli uomini tributa un omaggio istintivo. La ricchezza è quindi uno degli idoli del nostro tempo» (n. 1723).
Una domanda brucia sulle labbra di chi legge le beatitudini di Gesù: il regno di Dio si realizzerà solo dopo questa vita, nella casa del Padre, o avrà inizio in questo mondo di terra e di sangue?
Leggendo il Vangelo possiamo rispondere che Gesù previde la realizzazione piena del Regno e delle beatitudini nella casa del Padre; ma affidò anche ai cristiani e alle persone di buona volontà l'inizio della loro realizzazione in questa vita, per dare speranza al mondo, per dare gioia a chi è afflitto e nutrimento a chi soffre la fame.
L'Abbé Pierre, una lucida coscienza cristiana del nostro tempo, ha dichiarato: «Questa società, la società occidentale almeno, è satanizzata dal consumismo e dall'idolatria del denaro. E una società condannata. Lo scandalo della disuguaglianza emerge in tutta la sua crudezza da una parte all'altra del pianeta.
Il rimedio? E' ritrovare lo spirito delle beatitudini, ancorarsi ai valori che esse proclamano, ispirare ad esse i nostri comportamenti. Ecco, io direi che le beatitudini bisogna farle diventare la nostra guida morale. Il regno di Dio è qui in terra, basta cercarlo».
Si tratta di accogliere con fede le parole di Dio e di assaporare la verità profonda che esse contengono. "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nelle cose materiali il suo sostegno e allontana dal Signore il suo cuore... Benedetto l'uomo che confida nel Signore... egli è come un albero piantato lungo l'acqua, non teme pericoli, non smette di produrre frutti" (Geremia). "Beato l'uomo che pone la speranza nel Signore... la via degli empi andrà in rovina" (Salmo 1).
Gesù dice nel vangelo: "Beati voi poveri, perché vostro è il regno... Rallegratevi perché la vostra ricompensa è grande nei cieli".
La Madonna a Lourdes ha scelto una ragazza povera, le ha chiesto di pregare e di sacrificarsi per la conversione dei peccatori e le ha detto: "Non ti prometto di farti felice in questa vita, ma nell'altra". È quello che conta!
giovedì 4 febbraio 2010
7 Febbraio 2010 - V Domenica del Tempo Ordinario
Nello scenario grandioso del tempio di Gerusalemme, Isaia riceve la rivelazione della grandezza di Dio e accetta l'invito a diventare suo profeta. Pur nel riconoscimento del suo peccato, egli è sollecito nella risposta a Dio.
L'evangelista Luca narra la chiamata dei primi apostoli da parte di Gesù.
Sul lago egli aveva predicato dalla barca di Pietro poi aveva operato il miracolo della pesca prodigiosa. I quattro pescatori rimasero stupiti davanti alla sua manifestazione di potenza e Gesù li chiamò a seguirlo per diventare "pescatori di uomini", partecipi dell'azione di salvezza nel mondo.
Le letture di oggi parlano di vocazione, ma in verità tutta la bibbia è libro di vocazioni, perché ogni vita umana è una vocazione.
Siamo chiamati oggi a meditare sul mistero della chiamata di Dio. Noi sappiamo che ogni vita è vocazione e che ad ogni vocazione è legata una particolare missione da compiere. Fin dall'inizio della storia della salvezza Dio ha chiesto agli uomini la loro collaborazione per realizzare il suo progetto di salvezza a beneficio dell'umanità. Nell'Antico Testamento sono stati chiamati i patriarchi e i profeti, nel Nuovo testamento lo stesso Gesù e gli apostoli.
Ma Dio continua ancora oggi a chiamare uomini e donne perché collaborino alla costruzione del suo regno nel mondo e facciano conoscere a tutte le genti che sono sulla faccia della terra il suo messaggio di amore e di pace.
Dalle letture emerge la chiamata divina innanzitutto come un manifestarsi di Dio all'uomo. Prima di inviare, di affidare una missione, Dio si fa conoscere nella sua grandezza e bontà. L'uomo è posto davanti alla verità di Dio che illumina e gli fa comprendere la sua verità di creatura debole, fragile, limitata, peccatrice. Eppure è proprio dell'uomo che Dio si serve per diffondere il messaggio di salvezza. Questa è la dimensione missionaria iscritta nella natura stessa della Chiesa, mandata nel mondo ad annunciare ciò che per prima sperimenta e che è dono gratuito ed inesauribile del Padre. È un impegno che quotidianamente si scontra anche con le nostre "labbra impure", con la limitatezza del nostro dire che può deformare o inquinare la limpidezza della Parola di Dio, con il dramma di sconfessare con fatti e scelte concrete, ciò che professiamo a parole o, perfino (come è accaduto anche all'apostolo Paolo), di ostacolare il piano divino... E' interessante notale le esperienze, le sensazioni, la paura per la consapevolezza della propria indegnità e infine la risposta generosa sia di Isaia, sia di Pietro e degli apostoli. Isaia, davanti alla manifestazione di Dio sente tutto il suo peccato e il peccato del suo popolo, ma si apre alla fiducia: "Eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore delle schiere celesti". Si lascia purificare e Dio gli dà questa certezza: "E' scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato". E alla voce del Signore che chiede: "Chi manderò, chi andrà per me", Isaia risponde con una generosità unica: "Ecco, manda me!"
Così Pietro: nel racconto del vangelo Gesù dice a Pietro: "prendi il largo e cala le reti..." Maestro abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso niente. Ma sulla tua parola getterò le reti". Nella fede Gesù compie per Pietro e i suoi compagni il miracolo della pesca abbondante. Pietro, davanti a Gesù, riconosce tutta la sua debolezza e i suoi peccati: "Allontanati da me che sono un peccatore." Ma Gesù lo chiama con una vocazione grande: "Non temere, d'ora in poi sari pescatore di uomini". E viene sottolineata ancora la generosità della risposta: "Lasciarono tutto e lo seguirono", perché avevano trovato Gesù e Gesù è tutto e fa loro la grazia di renderli partecipi e continuatori della sua missione.
Questa liturgia ci porta a pensare alla grande vocazione dei consacrati, i sacerdoti, le suore, i religiosi, i missionari: preghiamo intensamente per la loro fedeltà, la perseveranza, la loro santificazione e vogliamo pregare intensamente, come Gesù ci raccomanda, per chiedere sempre nuove vocazioni generose e gioiose.
Poi ciascuno di noi deve pensare come vive la propria vocazione, nella famiglia, nel lavoro o nello studio, nella sofferenza, nelle varie situazioni in cui si trova.
Tutti possiamo vivere la vita come vocazione; vocazione a continuare l'opera e la missione di Gesù, con la generosità del cuore: "Ecco, manda me!".
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L'evangelista Luca narra la chiamata dei primi apostoli da parte di Gesù.
Sul lago egli aveva predicato dalla barca di Pietro poi aveva operato il miracolo della pesca prodigiosa. I quattro pescatori rimasero stupiti davanti alla sua manifestazione di potenza e Gesù li chiamò a seguirlo per diventare "pescatori di uomini", partecipi dell'azione di salvezza nel mondo.
Le letture di oggi parlano di vocazione, ma in verità tutta la bibbia è libro di vocazioni, perché ogni vita umana è una vocazione.
Siamo chiamati oggi a meditare sul mistero della chiamata di Dio. Noi sappiamo che ogni vita è vocazione e che ad ogni vocazione è legata una particolare missione da compiere. Fin dall'inizio della storia della salvezza Dio ha chiesto agli uomini la loro collaborazione per realizzare il suo progetto di salvezza a beneficio dell'umanità. Nell'Antico Testamento sono stati chiamati i patriarchi e i profeti, nel Nuovo testamento lo stesso Gesù e gli apostoli.
Ma Dio continua ancora oggi a chiamare uomini e donne perché collaborino alla costruzione del suo regno nel mondo e facciano conoscere a tutte le genti che sono sulla faccia della terra il suo messaggio di amore e di pace.
Dalle letture emerge la chiamata divina innanzitutto come un manifestarsi di Dio all'uomo. Prima di inviare, di affidare una missione, Dio si fa conoscere nella sua grandezza e bontà. L'uomo è posto davanti alla verità di Dio che illumina e gli fa comprendere la sua verità di creatura debole, fragile, limitata, peccatrice. Eppure è proprio dell'uomo che Dio si serve per diffondere il messaggio di salvezza. Questa è la dimensione missionaria iscritta nella natura stessa della Chiesa, mandata nel mondo ad annunciare ciò che per prima sperimenta e che è dono gratuito ed inesauribile del Padre. È un impegno che quotidianamente si scontra anche con le nostre "labbra impure", con la limitatezza del nostro dire che può deformare o inquinare la limpidezza della Parola di Dio, con il dramma di sconfessare con fatti e scelte concrete, ciò che professiamo a parole o, perfino (come è accaduto anche all'apostolo Paolo), di ostacolare il piano divino... E' interessante notale le esperienze, le sensazioni, la paura per la consapevolezza della propria indegnità e infine la risposta generosa sia di Isaia, sia di Pietro e degli apostoli. Isaia, davanti alla manifestazione di Dio sente tutto il suo peccato e il peccato del suo popolo, ma si apre alla fiducia: "Eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore delle schiere celesti". Si lascia purificare e Dio gli dà questa certezza: "E' scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato". E alla voce del Signore che chiede: "Chi manderò, chi andrà per me", Isaia risponde con una generosità unica: "Ecco, manda me!"
Così Pietro: nel racconto del vangelo Gesù dice a Pietro: "prendi il largo e cala le reti..." Maestro abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso niente. Ma sulla tua parola getterò le reti". Nella fede Gesù compie per Pietro e i suoi compagni il miracolo della pesca abbondante. Pietro, davanti a Gesù, riconosce tutta la sua debolezza e i suoi peccati: "Allontanati da me che sono un peccatore." Ma Gesù lo chiama con una vocazione grande: "Non temere, d'ora in poi sari pescatore di uomini". E viene sottolineata ancora la generosità della risposta: "Lasciarono tutto e lo seguirono", perché avevano trovato Gesù e Gesù è tutto e fa loro la grazia di renderli partecipi e continuatori della sua missione.
Questa liturgia ci porta a pensare alla grande vocazione dei consacrati, i sacerdoti, le suore, i religiosi, i missionari: preghiamo intensamente per la loro fedeltà, la perseveranza, la loro santificazione e vogliamo pregare intensamente, come Gesù ci raccomanda, per chiedere sempre nuove vocazioni generose e gioiose.
Poi ciascuno di noi deve pensare come vive la propria vocazione, nella famiglia, nel lavoro o nello studio, nella sofferenza, nelle varie situazioni in cui si trova.
Tutti possiamo vivere la vita come vocazione; vocazione a continuare l'opera e la missione di Gesù, con la generosità del cuore: "Ecco, manda me!".
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giovedì 28 gennaio 2010
31 gennaio 2010 - IV Domenica del Tempo Ordinario
La sorgente dell'ethos cristiano è Gesù Cristo. È' Lui il compimento delle Scritture e da Lui Parola, logos, scaturisce per l'umanità il senso, la ragione di tutte le cose, quell'etica che è da scoprire come sapienza al fondo di ogni scienza perché non si rivolti contro l'uomo, al di dentro di ogni scelta per non cadere sull'istinto bestiale, al termine di ogni percorso perché il potere, la sopraffazione non diventi il movimento, la finalità dell'agire umano.
Eppure, il risalire a questa sorgente, Cristo, non è agevole, oggi come ieri. Ce lo dice la pagina del Vangelo. Nonostante che al di fuori di Cristo l'uomo cada nel pessimismo o nell'esaltazione della ragione, il tentativo di ridurre Cristo alle nostre piccole attese anziché aprirsi ai suoi orizzonti; esigere la "ragione" di quanto dice o fa', sulla sua provenienza o sulla strada scelta per salvare, anziché renderci conto come quanto ci sia necessario; il tentativo di cacciarlo fuori dalla religione, dalla politica, dall'istituzione, dalla sofferenza: "gettarlo giù dal precipizio", anziché accoglierlo come ragion d'essere di tutto quello che siamo e facciamo, 'etica', ragione, ragione necessaria, risposta al nostro essere domanda... è fin dall'inizio.
E' la condizione posta nell'intimo del nostro essere uomini di essere salvati o di condannarci, a partire dalla nostra stessa libertà di accogliere o rifiutare la nostra stessa salvezza, aprirci a Cristo riconoscendo che in vista di Lui siamo stati creati e nulla di ciò che esiste è stato fatto senza di Lui o assolutizzare il nostro ristretto ragionare alla ragione del tutto. "Ma Egli passando in mezzo a loro se ne andò". E' il rischio odierno: che Cristo passi in mezzo alle scelte dell'esser giovani, alle fatiche del rinnovare la famiglia, di equilibrare giustizia e costruzione sociale, in mezzo alle scienze per rivelarsi sapienza...E sia destinato ad andarsene.
Essere cristiani è essere in mezzo alla società, alla cultura avvertimento alla ragione umana di difenderne l'importanza e tenendola distante dalla presunzione di essere sufficiente a se stessa. "Ora, dice Paolo, vediamo come in uno specchio" che non è dunque la verità, ma rimanda continuamente alla necessità di aprirsi alla verità, alla realtà, al 'faccia a faccia' con il Logos, ragione di ogni cosa.
Ancora. Accettare, come cristiani, questo compito comporta ad ogni livello, a prescindere dall'istruzione, dalle mode o imposizioni del sapere, dai valori delle priorità, di essere forti,di non aver paura dell'andar contro corrente, di sentirsi "fortezza", muro di bronzo, se è necessario, contro quei “poteri” che non servono il bene comune, ma badano soltanto a loro stessi; comporta talvolta di essere in minoranza, in solitudine, perché la verità non va a "maggioranza".
"Ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti".
E salvare anche coloro che ci giudicano come nemici della ragione, del buon senso!
Eppure, il risalire a questa sorgente, Cristo, non è agevole, oggi come ieri. Ce lo dice la pagina del Vangelo. Nonostante che al di fuori di Cristo l'uomo cada nel pessimismo o nell'esaltazione della ragione, il tentativo di ridurre Cristo alle nostre piccole attese anziché aprirsi ai suoi orizzonti; esigere la "ragione" di quanto dice o fa', sulla sua provenienza o sulla strada scelta per salvare, anziché renderci conto come quanto ci sia necessario; il tentativo di cacciarlo fuori dalla religione, dalla politica, dall'istituzione, dalla sofferenza: "gettarlo giù dal precipizio", anziché accoglierlo come ragion d'essere di tutto quello che siamo e facciamo, 'etica', ragione, ragione necessaria, risposta al nostro essere domanda... è fin dall'inizio.
E' la condizione posta nell'intimo del nostro essere uomini di essere salvati o di condannarci, a partire dalla nostra stessa libertà di accogliere o rifiutare la nostra stessa salvezza, aprirci a Cristo riconoscendo che in vista di Lui siamo stati creati e nulla di ciò che esiste è stato fatto senza di Lui o assolutizzare il nostro ristretto ragionare alla ragione del tutto. "Ma Egli passando in mezzo a loro se ne andò". E' il rischio odierno: che Cristo passi in mezzo alle scelte dell'esser giovani, alle fatiche del rinnovare la famiglia, di equilibrare giustizia e costruzione sociale, in mezzo alle scienze per rivelarsi sapienza...E sia destinato ad andarsene.
Essere cristiani è essere in mezzo alla società, alla cultura avvertimento alla ragione umana di difenderne l'importanza e tenendola distante dalla presunzione di essere sufficiente a se stessa. "Ora, dice Paolo, vediamo come in uno specchio" che non è dunque la verità, ma rimanda continuamente alla necessità di aprirsi alla verità, alla realtà, al 'faccia a faccia' con il Logos, ragione di ogni cosa.
Ancora. Accettare, come cristiani, questo compito comporta ad ogni livello, a prescindere dall'istruzione, dalle mode o imposizioni del sapere, dai valori delle priorità, di essere forti,di non aver paura dell'andar contro corrente, di sentirsi "fortezza", muro di bronzo, se è necessario, contro quei “poteri” che non servono il bene comune, ma badano soltanto a loro stessi; comporta talvolta di essere in minoranza, in solitudine, perché la verità non va a "maggioranza".
"Ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti".
E salvare anche coloro che ci giudicano come nemici della ragione, del buon senso!
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