giovedì 22 ottobre 2009

25 Ottobre 2009 - XXX Domenica del Tempo Ordinario

Anche l’uomo distratto e superficiale percepisce la bellezza del cielo stellato, del giardino fiorito, della distesa del mare, del picco roccioso. L’ammirazione e l’apprezzamento estetico non bastano. Occorre andare oltre per approdare all’origine di tutto. Vi si arriva con gli occhi limpidi, quelli del cuore, capaci di penetrare il dato esteriore. Tali occhi sono aperti solo dalla bontà misericordiosa di Gesù che ci conduce al “mistero”: Egli è pronto ad aprire anche i nostri occhi se, come Bartimeo, siamo capaci di gridare a Lui; «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me»! E il grido non rimane inascoltato. Gesù non delude mai una persona in ricerca, non tradisce un amore che sa pagare di persona, non dimentica una fedeltà a tutta prova. Il problema del cieco diventa il suo problema, il suo isolamento lo tocca da vicino a tal punto che interviene per superarlo. E la storia si ripete all’infinito. Gesù non è mai sordo ai nostri problemi, anche se i suoi tempi non sono necessariamente i nostri, e le sue modalità spesso diverse dalle nostre aspettative.
È Gesù Cristo che chiama tutti, anche i deboli, gli zoppi, i ciechi al grande ritorno e li colma di consolazione e di gioia.
Si tratta della nostra conversione, alla quale siamo chiamati continuamente.. Essa è un ritorno: si tratta di fare a ritroso il cammino percorso nell’allontanarci da Dio. È la liberazione da una schiavitù umiliante, la riscoperta di una gioia, prima dimenticata: quella di sentirci circondati dalle braccia amorose del Padre che ci accoglie di nuovo nel suo amore.
Incomincia con una manifestazione di Gesù nella vita dell'uomo: è necessario che Cristo passi di là. Ma questa manifestazione è misteriosa: il cieco che rappresenta l'uomo sulla via della fede, non vede Gesù; intuisce soltanto la presenza del Signore negli avvenimenti, ma esprime già la sua fede rimettendosi alla iniziativa salvifica di Dio. Questa apertura a Dio è subito contestata dal mondo che lo circonda ed è necessario tutto il coraggio per mantenere il proposito di apertura all'uomo-Dio. Il candidato alla fede si sente così oggetto della attenzione di alcuni che gli rivelano la chiamata di Dio, lo incoraggiano e lo invitano a convertirsi.
Allora si intreccia il dialogo finale: «Che vuoi?...». Si tratta dell'impegno definitivo, presentato sotto forma di domanda e di risposta, per mettere bene in risalto la libertà totale delle due parti che contraggono l'alleanza.
Infine, la vista è restituita al cieco come una visione della fede che lo impegna immediatamente a “seguire Cristo «per la strada”.
Seguire la chiamata di Dio ha sempre voluto dire lasciare qualcosa dietro di sé, andare verso l'ignoto (Abramo), rinnegare la logica della carne e delle sicurezze umane per affidarsi totalmente al Dio delle promesse. Questo diventa più difficile oggi. Se nel passato la fede poteva costituire una spiegazione o una interpretazione dell'universo, un luogo di sicurezza di fronte alle assurdità della storia e al mistero del mondo, oggi non è più così.
In un mondo come il nostro non c'è più posto per una fede anonima, formalistica, ereditaria.
È necessaria una fede fondata sull'approfondimento della Parola di Dio, sulla scelta e sulle convinzioni personali. Una fede consapevolmente abbracciata e non passivamente ricevuta in eredità. Tutto questo comporta un nuovo modo di affrontare il problema della nostra Iniziazione Cristiana, un nuovo modo di considerare la vita cristiana e i Sacramenti.
Il cristiano deve percorrere (o meglio ripercorrere) non tanto un cammino fatto di tappe e di gesti sacramentali, quanto piuttosto un itinerario di fede, un “catecumenato restaurato”, senza del quale non hanno senso né efficacia i gesti sacramentali donati a scadenze fisse.
Il cammino di Gesù verso Gerusalemme sta per terminare: Gerico è l’ultima tappa e qui la guarigione di un cieco offre nel racconto di Marco il grande insegnamento del discepolato. “Poter vedere” è la domanda giusta da rivolgere al Maestro: questa volta Egli l’approva e l’esaudisce. È il discepolo stesso, un mendicante cieco, che ha bisogno di guarigione per poter vedere come Gesù, per poter seguire Gesù sulla sua strada.
C’è qualcosa che accomuna noi, cristiani intiepiditi, con il cieco del vangelo che torna a vivere. Qualcosa che anima i nostri passi mentre cerchiamo di riprendere il cammino al seguito di Gesù. È la fede.
È Dio che ci ha raggiunti, lo abbiamo riconosciuto nel suo continuo svelarsi e nei segni tangibili della nostra vita al buio; e ora, corroborati interiormente dalla sua presenza, sappiamo che Dio è con noi nonostante il possibile, apparente silenzio che anima i nostri giorni. Gridiamo, allora, al Signore: gridiamo dal profondo del nostro cuore, perché anche noi vogliamo riacquistare la vista per poterlo riconoscere nei fratelli e un giorno vederlo come Egli è, e irrobustire la nostra fede nel Dio fedele che ci chiama alla salvezza.
Come per il cieco nato, così per ciascuno di noi, la fede domanda sempre di essere professata, celebrata, vissuta. In particolare, il “viverla” è il modo più forte per “professarla”, oltre che il modo più genuino per “celebrarla”. Il cristiano, diventato “figlio della luce” grazie al dono battesimale della fede, è chiamato a comportarsi come tale. Solo così non smentisce la sua identità! Se la fede definisce l’essere stesso del credente, non può non esprimersi e non attuarsi nella vita quotidiana, nelle scelte e nelle azioni dell’esistenza.
I “figli della luce” sono veramente tali quando compiono le “opere della luce”, ossia imitano e condividono gli atteggiamenti e lo stile di vita di Gesù.

giovedì 15 ottobre 2009

18 Ottobre 2009 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Nel Vangelo di oggi Giacomo e Giovanni, i due fratelli, figli di Zebedeo, chiedono a Gesù di sedere uno alla destra e uno alla sinistra del suo trono, naturalmente intendono quando finalmente sarà inaugurato il suo Regno, il Regno di Dio di cui tante volte Gesù aveva parlato.
Gesù risponde loro: Voi non sapete ciò che domandate. Il destino di Gesù sarebbe stato diverso da come i due pescatori diventati discepoli del Maestro di Nazareth, se lo immaginavano, e sarebbe stata diversa anche la costituzione della sua Chiesa, forma storica del Regno di Dio. Gesù andava incontro alla sua passione; egli lo sapeva e lo aveva anche preannunciato ai suoi apostoli. A quanto pare però essi, gli apostoli, non se ne rendevano conto e ragionavano in termini ancora troppo umani, secondo un orizzonte legato agli interessi di questo mondo.
E questo non basta, perché gli altri dieci apostoli essendosi accorti della manovra dei primi due fratelli si sdegnano della richiesta, si lamentano e sicuramente incominciano anche a rimproverare i due baldanzosi per la loro iniziativa.
Gesù prende l'occasione per istruire il gruppo dei dodici sul tema del potere e dell'autorità, nel mondo e dentro la Chiesa.
Coloro che sono ritenuti capi, dominano. Potremmo dire che in tanti concorrono, ma uno su mille ce la fa', perché il capo può essere uno solo. Da sempre il potere si basa sul consenso, ma questo può essere più o meno estorto e chi sta sopra comanda, mentre chi sta sotto obbedisce. Fra di voi però dice Gesù, riferendosi al nuovo popolo di Dio che sarà la Chiesa, non è così. La Chiesa dunque è, e dovrebbe essere il luogo, dove si vince il vizio della superbia, cioè dell'eccellenza ad ogni costo.
Il santo curato d'Ars diceva "Noi mettiamo la superbia dappertutto, come il sale.".
"È chiamato superbo chi vuol sembrare più di quello che è; superbo infatti è chi vuol andare al di sopra". Più precisamente la superbia è il desiderio di una grandezza sregolata.
"Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti." così dice Gesù nel Vangelo e così è giusto che sia.
Gesù non condanna il desiderio di essere grandi, ma ai suoi apostoli insegna la via per arrivare alla vera grandezza che è quella dell'umiltà e del servizio, ossia Gesù ci dice che ci deve essere un collegamento fra quello che uno dà e quello che pretende.
Come negli affari se uno è capace verrà riconosciuto e si andrà in cerca di lui, così nel mondo spirituale se uno sa dare ad un certo punto riceverà la sua ricompensa morale senza bisogno di rivendicarla o di attribuirsela falsamente.
Tutti abbiamo l'ambizione di essere considerati e ci fa male quando i nostri meriti non vengono riconosciuti e non veniamo stimati per come ci aspetteremo. Ci ribelliamo istintivamente contro le umiliazioni e le sentiamo come delle ingiustizie, e questo va bene, ma può accadere che abbiamo anche la presunzione di superare gli altri, desiderando prestigio e onori.
Ci sono tanti modi per essere superbi: c'è una superbia è cieca, quando si pensa di essere quel che non si è, allora uno è presuntuoso; c'è una superbia è vana, quando ci si vanta di una considerazione presso gli altri che non esiste, quella allora è la vanagloria o vanteria; c'è una superbia cieca e vana insieme, quando, non avendo alcuna buona qualità, ci si vanta ugualmente e si ambisce ad aver fama presso gli altri e quella allora è megalomania.
La richiesta dei due apostoli di oggi dimostra una certa presunzione: pensano di poter bere lo stesso calice di Gesù senza immaginare quanto difficile sarebbe stato per loro sostenere la prova della passione del Signore. La presunzione dei due apostoli veniva da una certa ambizione, ma più che altro dalla loro ignoranza, che sarebbe stata tolta nei giorni della Pasqua.
I potenti di questo mondo invece secondo Gesù cercano la vanagloria: basta loro essere considerati grandi e non esserlo veramente. Invece la persona umile invece è consapevole di propri limiti e spera da Dio la realizzazione delle proprie aspirazioni.
"Ha rovesciato i potenti dai troni ed ha innalzato gli umili", dice Maria nel Magnificat.
"Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili." Conferma san Pietro nella sua prima lettera: "Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi."
"Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?" chiede san Paolo ai cristiani di Corinto.
E poco prima li aveva esortati: "Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio."
E sempre ai Corinti scrive: "Chi si vanta si vanti nel Signore."
La superbia è per l'uomo che non deve chiedere mai. Ora che tipo di uomo sia questo della pubblicità faccio fatica a immaginarmelo. L'uomo che non deve chiedere mai prende senza chiedere, offende e fa torto senza domandare scusa, ottiene quello che vuole minacciando e non richiedendo per favore. Insomma sarebbe un maleducato, senza rispetto e senza riguardi. Dice il proverbio che quanto più le persone sono vuote, tanto più sono piene di sé.
"Sarete come Dio" dice il diavolo tentatore ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden e così per superbia, ossia per volere essere superiori al comando di Dio, entrambi persero il paradiso terrestre e dovettero fare i conti con la propria miseria.
Questa tentazione è ricorrente nella storia dell'umanità. Con la scoperta della bomba atomica l'uomo ha rubato a Dio il segreto del sole, ma è stato un progresso o è stato un peggioramento della società? Potremmo dire tutte e due le cose. L'energia atomica può essere usata per fini pacifici, seppure con mille cautele, oppure può essere impiegata per la costruzione di micidiali bombe. Per altro gli uomini hanno imparato a conoscere l'energia atomica propria in questa forma violenta e solo in seguito se ne è sviluppato un uso civile.
Dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo fatto finora in questo campo o è meglio essere prudenti? Ognuno può rispondere da sé.
Per conto mio dico che tutto quello che è fuori della sottomissione alla legge di Dio non si può che ritorcere contro il suo inventore. Il primo che ha detto: "Non servirò" e si è ribellato contro l'ordine messo da Dio nell'ambito spirituale è il demonio stesso. Egli non vuole servire a Dio e cerca in tutte le maniera che gli uomini servano a lui. La superbia ha questo di rovinoso, che mentre tutti i vizi rifuggono da Dio, solo la superbia si contrappone a Dio.
Il rimedio ce lo dice Gesù stesso nel Vangelo di oggi: "Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Egli ci ha dato l'esempio: l'eccellenza va conquistata con l'umiltà e con la dedizione amorevole. Gesù con tutta la sua vita ci dimostra che non si può servire il prossimo se non si vuole servire Dio.
Concludo con la preghiera del Salmista (Salmo 19) "Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo. Anche dall'orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato."

venerdì 9 ottobre 2009

11 Ottobre 2009 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Il fine dell'uomo è la beatitudine e i beni materiali non sono che strumenti per il raggiungimento di questo fine ultimo che è il solo degno dell'uomo. Se uno deve viaggiare è meglio per lui recarsi alla stazione e prendere il treno, piuttosto che fare collezione di trenini giocattolo. Così se la felicità sta in una relazione felice con il prossimo e con Dio, si fa torto al prossimo a Dio e anche a se stessi, se si antepone ad una relazione positiva con queste, che sono persone, un affetto esagerato e morboso per le cose materiali e per il loro possesso.
Attaccarsi alle cose materiali è proprio delle personalità e delle civiltà in declino che hanno perso la fiducia nel futuro, vedono presentarsi all'orizzonte delle minacce e cercano di premurarsi in qualche maniera. Cercare di arricchire unicamente davanti agli uomini e non davanti a Dio è un comportamento sbagliato condannato dal Vangelo:: "Stolto," dice Gesù nella parabola dell'uomo ricco "questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?" E termina: "Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio". La bontà dell'uomo nei riguardi delle ricchezze consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle cose in quanto sono necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Nell'eccedere questa misura si ha un peccato: e cioè nel volerne acquistare, o ritenere più del dovuto. Dove sta dunque la malvagità dell'avarizia? Saremmo tentati di rispondere: negli altri: in chi ha di più e non si accontenta mai di dove è arrivato e sarebbe disposto a fare carte false pur di incrementare il suo capitale. Questa risposta però rivela un vizio diverso e si chiama invidia. Per considerare equamente la lusinga del vizio dell'avarizia occorre un certo distacco e anche una certa sincerità con noi stessi. L'avarizia è un peccato spirituale: coinvolge chi ha troppo, come anche chi ha poco. Sarebbe sbagliato considerare l'avarizia un peccato sensibile; quando uno mangia troppo, o beve troppo, ossia commette un peccato di gola, poi sta male fisicamente; invece quando uno accumula o trattiene per sé di regola non ne va di mezzo la sua salute, semmai quella degli altri. L'avaro nell'oggetto materiale non cerca un piacere fisico, ma dell'anima: cioè il piacere di possedere la ricchezza. E qui è difficile dire che ci sia qualcuno esente da questo rischio. La felicità è il pieno compimento di ogni desiderio e il denaro sembra assicurare questa felicità in quanto sembra che attraverso di esso si possa ottenere tutto. Più precisamente l'avarizia ci fa vedere il danaro come garanzia per ottenere qualsiasi cosa; a questa considerazione sembra dare ragione anche il libro del Qohelet quando dice che "tutto ubbidisce al danaro". In realtà esistono dei beni non commerciabili e sono anche i più importanti: ossia la salute e la salubrità dell'aria, l'amicizia, la pace del mondo, la serenità della coscienza e la gioia di vivere. Come il corpo non è tutto dell'uomo, ma esiste anche l'anima, così il denaro non è tutto nella società, ma esistono anche le relazioni umane. Alle tante offese a cui queste relazioni umane sono sottoposte a motivo del commercio che si fa anche dei sentimenti e della dignità personale i cristiani rispondono con la generosità che non è lo spreco o la dissipazione, ma è il farsi carico dell'indigenza del prossimo e delle necessità della comunità. Lo scrigno degli avari è simile all'inferno: se c'entrano i denari, non ne escono in eterno. Il paradiso invece è condivisione, mantenendo certo sempre la propria dignità, ma senza far pesare il dono che si fa all'altro. Lo scrittore francese Balzac alla notizia della morte di uno zio ricco e avaro, dal quale ereditò, scrisse: «Alle cinque antimeridiane mio zio e io siamo passati a miglior vita». Non aspettiamo dopo morti a fare del bene, ma facciamo subito in modo che vada a vantaggio nostro oltreché degli altri, a cui non potremo impedire di impadronirsi delle nostre cose quando non ci saremo più. Alla povertà mancano molte cose, all'avarizia tutte, ma il rimedio a questa situazione non è lontano, basta un po' di buon senso e di generosità. San Paolo a Timoteo scrive: "L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori." Evitiamo per quanto possibile fin da ora questi mali, non è difficile, forse sarà alleggerita la tasca, ma se l'offerta è fatta bene sarà alleggerita anche l'anima. Termino con una considerazione del filosofo romano Seneca: "Gli uomini, nella loro stupida avarizia, distinguono il possesso e la proprietà e non giudicano propri i beni pubblici; ma il saggio invece giudica suo soprattutto quello che possiede in comune con l'umanità intera."

giovedì 1 ottobre 2009

4 Ottobre 2009 - XXVII Domenica del Tempo Ordinario

La Parola di Dio oggi ci mette di fronte ad un tema caldo e faticoso, che mette in difficoltà me che rifletto e voi che ascoltate. Parliamo del fallimento dell’amore di coppia, il più doloroso e sanguinante, il più drammatico e diffuso, tema appesantito dalla posizione ufficiale della Chiesa nei confronti delle persone divorziate e risposate o conviventi, posizione che pochi, anche fra i discepoli, capiscono e che i fratelli e le sorelle che portano sulla propria pelle le stigmate del fallimento coniugale sperimentano come una immensa ingiustizia e un giudizio sulla loro vita, versando sale sulle loro ferite. Invoco lo Spirito e balbetto qualcosa, allora, lasciando che sia la Parola a parlare. Al tempo di Gesù il divorzio era un fatto consolidato, addirittura attribuito a Mosè, quindi intangibile. Come accade ancora oggi nella cultura islamica, però, era un divorzio maschilista: solo l’uomo, stancatosi della moglie, poteva rimandarla a casa con un libello di ripudio. Nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione una norma così favorevole ai maschi: la domanda che viene posta a Gesù è retorica, tutti si aspettano che, ovviamente, Gesù benedica questa norma. O forse no: la domanda viene posta proprio come un tranello, per far diventare Gesù improvvisamente antipatico alle folla che lo ha così presto elevato al rango di profeta. (Sai che novità! Tutti seguiamo il guru di turno, finché questi non ci dice qualcosa di sgradevole…). La risposta di Gesù è una rasoiata: voi fate così, ma Dio non la pensa così, Dio crede nell’amore come unico, crede nella possibilità di vivere insieme ad una persona per tutta la vita. Senza sopportarsi, senza sentirsi in gabbia, senza massacrarsi: l’obiettivo della vita di coppia non è vivere insieme per sempre, ma amarsi per sempre! Silenzio imbarazzato, sguardi sorridenti e complici: “Ma che, scherziamo?”. Gli apostoli, preso da parte Gesù, insistono: “Non parlavi sul serio, vero?”. Matteo, nel brano parallelo, giunge ad annotare la sconsolata affermazione dei dodici: “Allora è meglio non sposarsi!” (19,10) Che forza! Gesù dice che è possibile amarsi per tutta la vita, che Dio l’ha pensata così l’avventura del matrimonio, che davvero la fedeltà ad un sogno non è utopia adolescenziale ma benedizione di Dio! Quando due giovani decidono di sposarsi e parliamo della fedeltà non stiamo disquisendo di una norma anacronistica di una struttura reazionaria che propone un modello superato: stiamo parlando del sogno di Dio. A partire da qui, con fatica, con tenacia, i discepoli hanno scoperto la ricchezza del matrimonio cristiano. Da prima di Cristo ci si incontra e ci si innamora, si vive insieme e si hanno dei figli. Farlo nel Signore, mettere Gesù nel mezzo, fa comprendere delle cose straordinarie, nuove, sconcertanti su di sé e sulla coppia. In questi anni, frequentando molte coppie, pregando e vivendo con loro, abbiamo scoperto e riassunto la novità del matrimonio nel Signore. Fra voi, amici lettori, alcuni avrebbero desiderato tanto fare questa esperienza e non ci sono riusciti: non erano pronti, hanno compiuto un gesto a cuor leggero, hanno trovato una persona migliore del proprio coniuge… Molti vivono sulla propria pelle il dramma di una separazione che porta sempre con sé molto dolore. Come possiamo fare? Dobbiamo capire, cercare, intuire. Da una parte abbiamo la Parola del Signore Gesù, cristallina e forte. Dall’altra la prima regola del cristianesimo: l’accoglienza e l’amore. Questo incrocio difficile porta con sé alcune conseguenze. La prima è la richiesta di distinguere sempre le varie situazioni: altro è chi abbandona il proprio coniuge colpevolmente, altro chi è abbandonato; altro chi è libero e sposa una persona separata o chi proviene da un matrimonio fallito; altro chi vuole condividere un cammino di discepolato e chi si ricorda di essere cattolico solo quando gli viene chiesto di fare il padrino e allora tira fuori la questione del “diritto a…”. La seconda è l’affermazione perentoria che una coppia separata e risposata è parte della comunità, partecipa alla vita della comunità, porta il suo contributo a partire dal proprio vissuto. Dio non si stanca mai, egli è fedele e tutta la storia di Israele ci dice che Dio non abbandona mai il suo popolo, anche quando questi è infedele all’alleanza. Come segno di questo percorso doloroso la Chiesa chiede ai coniugi risposati di non ricevere la comunione; è un segno forte, indubbiamente, e anche discutibile, ma che non vuole essere “punitivo”. I fratelli separati non sono esclusi dalla comunione perché non “degni” (siamo tutti “indegni” di ricevere Dio, è lui che vuole donarsi!), ma per segnalare alla comunità il loro percorso di conversione. La terza è che dobbiamo ancora capire come fare: occorre ribadire fortemente il valore dell’indissolubilità, senza schiacciare le persone che hanno sbagliato o che fanno scelte di vita in cui sono coinvolte persone separate. La strada, come vedete, è ancora piuttosto lunga e necessitiamo di tutta l’infanzia di Dio per trovare delle soluzioni...

sabato 26 settembre 2009

27 Settembre 2009 - XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Nel brano del vangelo sottolineiamo alcuni insegnamenti di Gesù, distinti tra loro.
1. "Chi non è contro di noi è per noi". "Siete gelosi? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore?" Gesù ci invita a riconoscere tutto il bene che c'è nel mondo, anche al di fuori del cristianesimo e nelle persone che non la pensano come noi. Lo Spirito del Signore opera in tutti e tante persone hanno buona volontà e compiono il bene davanti a Dio e a favore del prossimo. C'è tanta santità e tanta bontà nelle case, nelle famiglie, in ogni ambiente, nelle persone che soffrono o che si sacrificano per gli altri! Dobbiamo imparare a riconoscere che nel mondo c'è tanta gente buona e tanto bene, anche se la stampa o la televisione fanno conoscere di più le notizie negative che quelle positive. Ad uno sguardo superficiale il mondo sembra cattivo, ma ad uno sguardo di fede ci fa capire che lo Spirito agisce anche dove noi non immaginiamo e che per fede dobbiamo essere ottimisti.
2. "Chiunque avrà dato un bicchier d'acqua non perde la sua ricompensa". Ogni azione ha il suo valore e ognuno deve far fruttare i talenti che ha ricevuto. Il Signore promette la sua ricompensa, su questa terra in tante maniere e nell'eternità, anche per i più piccoli atti di amore e di fede.
3. "Chi scandalizza uno di questi piccoli, sarebbe meglio... lo buttassero in mare". Gesù usa queste parole molto severe per far capire che il nostro rapporto con gli altri deve essere sempre di aiuto e mai di rovina, nella vita spirituale e nella vita materiale. Purtroppo nel mondo ci sono anche tanti cattivi esempi, controtestimonianze, scandali... sia nella vita sociale ed economica, come in quella morale. Ma anche ciascuno di noi deve esaminarsi nel suo piccolo, perché non ci capiti di far del male a qualcuno. Dobbiamo impegnarci anche per chiedere e per costruire un mondo più pulito moralmente, perché i mass media, che dovrebbero essere strumenti buoni, molte volte inquinano e rovinano i valori più importanti nelle coscienze delle persone.
4. "Se la tua mano ti scandalizza, tagliala! se il tuo piede... taglialo! Se il tuo occhio... cavalo; è meglio entrare nella vita, senza una mano, che andare con due mani nel fuoco inestinguibile!" Mi devo chiedere: Cos'è che mi scandalizza, cos'è che è male in me? Qual è il mio problema adesso, il mio problema più grave adesso? Cosa devo tagliare adesso? Nella vita spirituale è importante individuare il nostro problema vero, tra le tante cose che abbiamo ma che sono di importanza relativa. Facciamo un esempio: se uno ha un male grave, cerca di individuarlo e toglierlo, non sta a preoccuparsi di altre cose più piccole (es. i capelli, le unghie...)
Nel mio problema vero devo avere il coraggio di fare un taglio netto, con decisione. E' molto forte la parola e il vangelo di Gesù: Tagliala, cavalo! Uno potrebbe dire: Non ce la faccio. Ma la parola di Gesù se ci indica una strada, ci dà anche la forza di percorrerla. Allora: - chiedi a Dio la forza: Nulla è impossibile a Dio; tutto è possibile a chi crede! - Da parte tua rinnova la buona volontà e il desiderio di riuscire. - E poi chiedi la collaborazione di qualcuno che ti possa aiutare a guarire, come fai col medico o con l'infermiere, quando hai una malattia fisica. Ti accorgerai che il tuo male guarisce. E vivrai nella pace, nella gioia, nella grazia di Dio, nella generosità del cuore verso il Signore e verso il prossimo.

sabato 19 settembre 2009

20 Settembre 2009 - XXV Domenica del Tempo Ordinario

La discussione dei discepoli su chi tra loro fosse più grande ci sorprende: sembra alquanto infantile e un po’ ridicola, indegna fra gente che ha rinunciato a tutto per seguire il Signore. Se poi consideriamo il contesto immediato dell’annuncio della sua passione rimaniamo sconcertati: è mai possibile tanta superficialità? Stare con Gesù (Mc 3,14) non ha cambiato il modo di pensare dei discepoli?
Una cosa è evidente: il cuore dell’uomo è e rimane un abisso di fragilità anche negli amministratori della grazia divina, e non c’è nessuno tra i battezzati che possa presumere di mantenersi sempre fedele con le proprie forze. Pur non volendolo, rinnegare il Signore anche in materia grave è sventura del tutto possibile, data la nostra natura, e il triplice rinnegamento di Pietro di fronte alla giovane portinaia è monito eloquente per tutti (Gv18,17). Tuttavia sappiamo che Dio non permetterà mai che siamo tentati al di sopra delle nostre forze, se sapremo essere vigilanti. Ma la disonorevole discussione degli apostoli non rimanda solo alla sabbia della nostra natura e alla roccia della Parola del Signore. Scopriamo, infatti, che la questione di chi sia il più grande occupa anche la gran parte dei nostri discorsi, costituendo in tal modo un’attitudine peccaminosa profonda.
Lo dimostra la propensione quotidiana al giudizio; la pratica della critica sistematica verso familiari, verso i politici nazionali e locali; la mormorazione verso i sacerdoti, i vescovi, il Papa; le più che ingenerose considerazioni sui vicini di casa, sui colleghi, sugli amici, ecc. Ora è chiaro che tutta questa inesauribile e ricorrente materia di confessione scaturisce da un implicito confronto: “io non sono così; io non farei mai una cosa simile; io, se fossi al posto suo...”. In altre e più vere parole: “io sono più grande di lui, di lei, di loro”.
Un minimo di pudore e una buona dose di falsa umiltà impediscono quest’ultima e più sfacciata affermazione, ma i nove decimi dell’iceberg dell’amor proprio che affiora sulla superficie della nostra coscienza, sono questi. E’ vero che molto spesso taluni comportamenti altrui meritano oggettiva disapprovazione, ma il tono e il sentimento con cui ne parliamo rivelano inesorabilmente che in quel momento ci stiamo collocando nel mezzo del tempio, in compagnia del fariseo soddisfatto di non essere come gli altri, in particolare come quel pubblicano là dietro, in fondo alla chiesa, intento a battersi il petto per sua colpa, sua colpa, sua massima colpa (Lc 18,9-14).
Ecco, oggi Gesù ci mostra anzitutto l’iceberg sommerso del nostro orgoglio ed egoismo originale, dopodichè ci insegna come fare per cominciare a scioglierlo: “Se uno vuole essere il primo – (questo istintivamente ci piace, ma subito viene la doccia fredda...) – sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (Mc 9,35). Uno shock, se prendiamo alla lettera queste parole! Ma con questo deciso scossone il Signore non vuole gettare a terra nessuno: al contrario vuole solamente aiutarci a camminare sicuri in una nuova e più lieta direzione: quella dell’accoglienza reciproca nell’abbraccio dell’ amore del Padre.
Il senso delle parole drastiche di Gesù potrei esprimerlo così: “non cercate mai di primeggiare, ma siate disponibili ed accoglienti verso tutti; abbiate un atteggiamento pronto al servizio e fatevi prossimo di chi ha bisogno del vostro soccorso, specialmente dei più deboli e poveri, quelli lasciati e tenuti ai margini di questa società, quelli che si trovano nelle necessità più gravi ed urgenti. Sì, accoglieteli nel vostro cuore come se accoglieste me, poiché siamo tutti fratelli, siamo tutti dentro l’abbraccio amorevole del Padre mio e Padre vostro”.
Vediamo, infatti, che Gesù prende la mano di uno tra i suoi più piccoli ascoltatori presenti (probabilmente gli unici non scandalizzati), lo mette in mezzo (come a dire: state attenti perché vi sto mostrando il cuore della questione), lo abbraccia e ci esorta a fare nostra questa sua concreta tenerezza. In effetti, al tempo di Gesù, il bambino, pur godendo una grande stima in Israele come premio e benedizione di Dio, era l’ultimo nella scala sociale, del tutto privo di considerazione.
Oggi il bambino messo al centro ed abbracciato da Gesù è la vita umana, la vita al suo sorgere e la vita al suo tramonto, semplicemente la vita! Ma più di tutto è la vita dell’uomo nel grembo la più inerme ed innocente, la più minacciata ed odiata, la più bisognosa di quell’accoglienza che nemmeno nel luogo più sicuro del mondo e da parte delle persone più fidate (i genitori), trova più. E’ assolutamente imprescindibile, affinché si sviluppi nella società globalizzata la civiltà dell’amore e della pace, che al centro di tutto sia messa la vita umana, cioè ogni bambino concepito che Dio stesso fa essere, nel suo Figlio, il cuore del mondo.
Lo fa intendere esplicitamente Benedetto XVI: “L’apertura alla vita è il centro del vero sviluppo. Quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni necessarie per adoperarsi al servizio del bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche le altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono. L’accoglienza alla vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco” (Enciclica “Caritas in veritate”, n° 28).
E’ questa la strada della fiducia in Dio, in direzione opposta a quella dell’orgogliosa e presuntuosa autosufficienza, strada maestra dell’affidamento totale a Lui, nella certezza di fede che tutto è governato dalla divina provvidenza del Padre. E’ l’atteggiamento stesso di Gesù, sempre abbandonato alla volontà del Padre ed Egli stesso Via della semplicità e dell’umiltà, Verità da conoscere e Vita da accogliere. E’ Lui la “Sapienza che viene dall’alto, anzitutto pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera” (Gc 3,17).
Preghiamo allora la Madre della Vita perché affretti il compimento della Parola di oggi:
O Maria, aurora di un mondo nuovo, siamo consapevoli che la vita è costantemente nel mezzo di una grande lotta. Il Maligno, omicida fin dal principio, attenta continuamente alla vita dell’uomo e dell’umanità. A te è affidato il compito di difenderci dal dragone infernale, fino al giorno in cui il Frutto del tuo seno riporterà la vittoria definitiva. Accogli, o Maria, i nostri grandi desideri per la vita, falli passare per il tuo Cuore Immacolato e presentali a Gesù, come facesti a Cana, dicendogli: “Non hanno più vino!”; e noi, ammaestrati dalla tua sapienza materna, faremo quello che Gesù ti dirà per far vincere la Vita. Amen

Servire o farsi servire? Qual è la nostra situazione? Cioè il clima, la mentalità corrente, il comportamento delle persone? Lo sappiamo e ne vediamo i frutti nell’arrivismo, nelle sopraffazioni, nella lotta per il potere o nell’affanno per una posizione più alta… ma questo non dà gioia e pace, ma nervosismo, chiusura del cuore, a volte cattiveria, insoddisfazione. Gesù vive e insegna una via piccola, ma sicura: la via del servizio, del mettersi al servizio degli altri: per realizzare veramente se stessi, per avere la gioia e offrirne tanta agli altri, per avere la pace del cuore.
Servire o farsi servire? Mettiamoci ad esaminare concretamente la nostra vita di ogni giorno. Bisognerebbe innanzitutto elencare tutte le volte in cui ci facciamo servire e non ci vergogniamo di farci servire o esigiamo che gli altri ci servano subito: in casa, a scuola, nel lavoro, nella vita sociale, nelle relazioni con le persone, nella vita di parrocchia, persino a messa. Quando invitiamo alla partecipazione attiva nella liturgia e negli altri campi della vita parrocchiale, cosa si nota? Tanta gente che vuole la Messa (possibilmente alla propria maniera), vuole e invoca una vita parrocchiale piena di iniziative per i giovani, per le famiglie, per gli anziani… e di fatto ogni persona rimane chiusa in se stessa; con la fatica persino di farsi avanti, di aprir la bocca per imparare un canto, rispondere ad una preghiera, a fare anche il più piccolo servizio liturgico. La vita parrocchiale sembra che la debbano portare avanti sempre gli altri; altri parteciperanno, altri ci saranno… “io ho da fare”. Invece quanto tempo ci dà il Signore, quanto tempo sciupiamo in altre cose, quanti interessi per tutte le cose mondane (pur lecite)!. Ma abbiamo degli esempi di persone e di famiglie che hanno situazioni ben più impegnative delle nostre e sanno vivere invece scelte di apertura, di amore, di partecipazione, di servizio vero. E li vedi contenti: Il Signore non si smentisce, sa dare la gioia e la vita quando ci si preoccupa della gioia e della vita degli altri. Possibile che tante persone in più non possano essere presenti o fare qualche piccola opera nella comunità cristiana? E non è questione di tempo, se la stessa pigrizia la si avverte anche quando siamo in chiesa, dove viviamo un tempo davanti al Signore: allora è questione di atteggiamento interiore o di chiusura, di farsi servire.
Vogliamo allora aprirci a tutte le possibilità del servire, di metterci a servizio, di essere attivi e partecipi, di fare il più possibile, di risparmiare le fatiche agli altri e di assumerle per noi con serenità, nella vita di famiglia, nelle relazioni con gli altri, nella comunità cristiana, in concreto nella vita della parrocchia in tutti i suoi aspetti e nelle iniziative che si cerca di costruire insieme. Se siamo una comunità di servi, di persone che cercano il più possibile di vivere il servizio agli altri… sarà tutta un’altra cosa la messa e tutta la vita spirituale, la catechesi e le attività formative, la carità e all’aiuto al prossimo, l’animazione delle varie attività che abbiamo in parrocchia, nelle Zone, nelle feste. Saremo una comunità che reagisce a tutte le istigazioni e le tentazioni di chiusura, di diffidenza, di borghesismo, di autosufficienza e isolamento; una comunità di persone che vivono una vita vera, fatta di relazioni, di apertura, di amore, di comprensione, di impegno e aiuto a più gente possibile, di persone che vivono “da fratelli”, che hanno fervore cristiano, che portano avanti nella storia la fede, la speranza, la carità, che sono un seme di novità e di salvezza nella società, che sanno trovare o hanno già trovato una gioia vera nel vivere come Gesù, a servizio.

giovedì 11 giugno 2009

14 giugno 2009 - Ss. Corpo e Sangue di Cristo

Il momento culminante della vita di ogni uomo ha sempre il sapore del mistero. Mistero... perché negli ultimi istanti si condensano, in pochi gesti e in scarne parole, gli insegnamenti più forti che gocciolano come un distillato di tutta la vita... E' il vero testamento di saggezza e di amore, e solo il tempo permetterà di conoscerne l'arcano significato e il profondo messaggio.
Per noi cristiani l'ultima cena rimane l'eredità densa di significato e il testamento che, nonostante i secoli e le infinite considerazioni, ancora cela profondità di sentimento e di comunicazione, tanto che, ben a proposito, ciò che si realizza su quella tavola lo si chiama “grande mistero”. È una cena festosa, che non perde la sua caratteristica di dolce convivialità e di dono gratuito, nonostante l'insorgere di progetti ostili.
Valenti pittori e artisti hanno sigillato per sempre sui volti degli apostoli e di Gesù le sensazioni di quello straordinario incontro nel quale si intrecciano dolcezza e drammaticità, affetto e delusione, amabilità e ostilità.
Quella scena ha sempre rappresentato nei nostri ambienti l'amore oltre ogni limite, ci ha sempre parlato di donazione incondizionata.
Ora, dopo molti secoli, un abile dissacratore fantasioso, con il suo Codice da Vinci, ne infanga la sacralità e il rispetto facendola diventare un insieme di simboli profanatori e sacrileghi.
Se un codice esiste in quel “banchetto”, esso è immortalato dalla serenità di Gesù che all'umanità turbolenta e deludente, rappresentata dagli apostoli, continua a dare amore e fiducia, non in maniera teorica e astratta, ma offrendo addirittura il suo stesso corpo come cibo.
È una visione profetica degli avvenimenti che si realizzeranno in quelle poche ore che andranno dall'incontro con l'uomo con la brocca, che indicherà il cenacolo, fino all'orto degli ulivi e al Golgota...
È lì, attorno ad una tavola, che si anticipa profeticamente il dono totale di una vita offerta senz'indugio per saziare l'ingordigia d'amore dell'uomo, ma anche la sua sete di violenza.
"Prima che tu, uomo, creda di distruggermi, io, Dio, mi offro a te".
È l'incredibile sorpresa di un Dio che non risponde mai con la stessa moneta, non ripaga la violenza con altrettanta violenza, non distrugge chi gli va contro, non chiama nemico neppure chi sta per tradirlo, come non risparmia il Suo amore verso chi dimostrerà paura, codardia e rinnegamento.
È una sfida di fedeltà giocata sul tavolo dell'amicizia in una sala da pranzo, e che troverà concretezza, poi, sul legno della croce.
Non può perdere questa sfida un Dio che ha la caratteristica di fare sempre il primo passo, un passo coraggioso e rischioso che annulla le distanze e Lo porta più vicino all'uomo, ma che non sempre ottiene il risultato di avvicinare il suo cuore...
Eppure, il Suo amore non cambia e il Suo dono è offerto anche nella consapevolezza di sedere alla stessa mensa col suo traditore. Anzi, se potesse, gli risparmierebbe anche il complotto, il bacio convenzionale, l'umiliante scenata dell'arresto a sorpresa con spade e bastoni...
"Prendete... questo è il mio corpo..."... È Lui che si offre a tutti indistintamente, si mette nelle loro mani perché chiunque ne possa fare ciò che vuole. Si dona incondizionatamente a chi l'accetta, e anche a chi Lo tradisce...
A chi l'accetta, perché il discepolo possa associarsi al corpo del Maestro, offrirsi con Lui e donarsi come Lui....
A chi non l'accetta... perché il Suo gesto, senza rancore, sia un'ulteriore prova d'amore... Sconcerto totale per chi pensa di indispettire Dio e si ritrova amato, beneficato e innalzato alla dignità divina...
Un gesto d'amore straordinario e sconvolgente che, come al solito, va oltre ogni aspettativa umana. E' l'invito a mangiare il Suo corpo perché così l'uomo si appropri dei benefici di salvezza connessi col sacrificio offerto a Dio.
Mangiando la Sua carne e bevendo il Suo sangue, l'umanità si appropria della vita stessa di Dio, la mescola alla Sua stessa vita e così la eleva all'esperienza della natura divina.
Con questa flebo d'amore divino, avrà ancora l'uomo il coraggio di vivere egoisticamente?
E anche se questo dovesse accadere, Dio non si stancherà mai di continuare a nutrirlo di sani sentimenti... convinto che il Suo amore vincerà!