giovedì 17 marzo 2022

20 Marzo 2022 – III Domenica di Quaresima

 


Lc 13, 1-9

 In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

 

 Nel vangelo di questa domenica Gesù fa riferimento a due fatti di cronaca avvenuti in quel tempo: l’uccisione da parte di Pilato di un gruppo di Galilei, forse dei rivoltosi, che si erano recati a Gerusalemme per offrire i loro sacrifici nel tempio, e la morte accidentale di alcune persone coinvolte nel crollo della “torre di Siloe”.

All’epoca tutti erano convinti che le disgrazie, le malattie, la morte, fossero la giusta punizione di Dio per le colpe commesse personalmente dai malcapitati o dai loro antenati.

Pertanto quelli che erano al seguito di Gesù, pensavano che la loro estraneità a disgrazie del genere, fosse dovuta alla loro condotta giusta e rispettosa della legge.

Ebbene, Gesù sconfessa decisamente questa convinzione: “Quelli che sono morti non erano assolutamente più colpevoli di quanto non lo siate voi!”. Come a dire: “Non è vero che quei poveretti sono morti per espiare le loro colpe personali o quelle dei loro antenati; e non è vero neppure che, per il fatto che siete qui sani e salvi, voi siete più giusti di loro”.

In altre parole la sfortuna, le disgrazie, le malattie, i lutti, insomma tutti gli eventi negativi che la vita ci riserva, non vanno in alcun modo considerati come punizione divina per la nostra cattiva condotta. Dio non vuole questo; non ce l’ha con noi in alcun modo, non ci ha preso di mira, non si comporta come se si fosse stancato di noi.

Bestemmiano gravemente quanti si lasciamo andare ad esclamazioni tipo: “Ma che male ho mai fatto perché Dio mi debba castigare in questo modo?”. È una esclamazione contro la bontà di Dio, contro il suo amore, la sua misericordia: eppure, quante volte succede anche a noi di esprimerci in questo modo!

Gesù vuol dirci invece che la vita ha una sua logica, una sua libertà, una sua verità.

Non è Lui che stabilisce come deve essere la nostra vita: siamo noi che ce la organizziamo come ci pare. Siamo noi che decidiamo liberamente di fare o non fare le cose, di farle in un modo piuttosto che in un altro. Egli, nel suo paziente amore, ci lascia completamente liberi di fare le nostre scelte: le quali però, alla fine della nostra vita, determineranno un premio o un castigo. Ognuno è l’artefice della propria felicità o infelicità: in assoluta libertà.

È da sciocchi pensare che Dio stia nascosto dietro l’angolo, pronto a colpirci con il pungolo del castigo ad ogni nostra mossa sbagliata; al contrario è un padre amoroso che segue ogni nostro passo con attenzione, sempre disponibile ad intervenire per darci una mano, per correre in nostro aiuto ad ogni nostra richiesta. Lui ci ama veramente, e chi ama sul serio non si diverte a fare del male, a punire, a procurare dolori e sofferenze a quanti ama.

Il punto è invece un altro: è come noi rispondiamo a tanto amore; se cioè noi replichiamo a Dio con altrettanto amore: perché solo in questo modo tutto ciò che la vita ci riserva sarà più affrontabile, tutto sarà più sopportabile, più superabile.

Subito dopo aver chiarito pazientemente questo problema, Gesù prosegue: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Un’affermazione con cui sembra contraddire tutto quanto ha detto in precedenza. In altre parole dice: “se non cambierete vita, se non la smetterete di fare il male, anche voi morirete allo stesso modo; farete la stessa fine di quei Galilei”. Ma cosa vuol dire Gesù con queste parole? È per caso una minaccia, un’intimidazione, un ricatto? Nel senso che se non cambiamo vita, se continuiamo a vivere nei nostri peccati, Dio per punizione ci farà morire? Assolutamente no! Non è questo il senso: Egli vuol semplicemente dire: “Guardate che tutto quello che voi fate nella vostra vita, un giorno avrà delle conseguenze, delle ripercussioni”; ossia: “Se voi continuate a comportarvi negativamente, se nella vostra vita seminate solo erbacce, ciò che alla fine andrete a raccogliere, saranno solo sterpaglie da bruciare! Le parole di Gesù, quindi, non hanno un tono ricattatorio, ma spiegano solo una naturale conseguenza: ottenere cioè in questa nostra vita, frutti buoni o cattivi, dipende soltanto da noi, dalle nostre mani, dalle nostre scelte. Ecco perché dobbiamo essere attenti e guardinghi; se ci rendiamo conto di vivere nell’errore, di tenere Dio fuori dai nostri pensieri, dai nostri interessi, dal nostro amore, dobbiamo correre ai ripari. Dobbiamo insomma “convertirci”. Questo è il punto fondamentale. Ecco allora che questa quaresima è il tempo più favorevole per farlo.

“Convertirsi” infatti vuol dire cambiare decisamente direzione; shub” in ebraico indica appunto un cambio radicale di rotta: se nel nostro percorso stiamo andando in una direzione sbagliata, dobbiamo fare una netta inversione di marcia. Questo è convertirsi.

“Ma di cosa debbo convertirmi? Non mi pare di essere peggio degli altri!”. È quanto ci diciamo ogni qualvolta sentiamo parlare di “conversione”. Purtroppo noi non siamo attenti e scrupolosi giudici di noi stessi: molti dei nostri usuali comportamenti, apparentemente insignificanti, causano in noi la perdita della percezione interiore: ci rendono superficiali, ci allontanano sempre più da noi stessi e da Dio. E non ce ne accorgiamo!

Non sottovalutiamone i “segni”: non giustifichiamo sempre e comunque i nostri comportamenti, le nostre decisioni; non esaltiamoci per le nostre fuorvianti ideologie, non perdiamo la nostra lucidità, non ottenebriamo la nostra mente. Comportiamoci invece da “responsabili” amministratori della nostra vita.

A conferma di tutta questa sua catechesi, Gesù narra la parabola di un padrone che di fronte ad un albero di fichi, che per anni non aveva mai prodotto un solo frutto, lo fa tagliare per farne legna da ardere. Cosa vuol dirci Gesù con questa storiella? Semplice: “Cercate di non ridurvi a fare la stessa fine di quell’albero”.

Anche noi infatti, siamo già “cresciuti”, siamo diventati cristiani “adulti” e sappiamo molto bene cosa si aspetta da noi il “padrone” della vigna: dobbiamo solo essere noi stessi, rispondere positivamente alla nostra natura di figli di Dio, essere coerenti con la nostra condizione di cristiani, dobbiamo, in altre parole, portare frutto: dobbiamo cioè far crescere, sviluppare e maturare in noi, con la nostra vita, quei doni che lo Spirito ha seminato nel nostro cuore col battesimo. Dobbiamo, insomma, quando il “padrone” passerà per la raccolta, essere carichi di frutti maturi e gustosi. Se ci presentiamo pieni soltanto di foglie, sappiamo già quel che ci aspetta.

Del resto, non dobbiamo fare “miracoli”, gesti eroici: la vita offre a tutti la possibilità di portare frutto, in base alle proprie capacità; a tutti offre occasioni continue perché ciò avvenga: per esempio tutti abbiamo incontrato persone perbene, disponibili, positive, pronte a darci un consiglio, una buona parola, un aiuto morale; tutti nella vita abbiamo vissuto anche situazioni difficili, dolorose, che attraverso la sofferenza, ci invitavano a rivedere il nostro rapporto con Dio. Come abbiamo reagito noi a questi inviti? Li abbiamo accolti, oppure li abbiamo accantonati, disattesi, rimandati? Perché una cosa nella vita dobbiamo avere chiara: che se rinunciamo, rimandiamo, lasciamo correre, arriveremo prima o poi al famoso punto di “non ritorno”; verrà cioè quel giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”, non potremo fare più nulla: e, non avendo prodotto nulla di buono, il nostro albero verrà inesorabilmente tagliato come legna da ardere: dentro infatti era già completamente arido, rinsecchito, morto.

Che questa nostra quaresima, allora, sia una quaresima straordinaria, una quaresima di preghiera, una quaresima altamente meritoria: una quaresima in cui riscoprire le cose veramente importanti, in cui potare i nostri rami secchi, in cui convertirci veramente; una sosta di rifornimento, insomma, da cui riprendere con slancio ed entusiasmo il nostro cammino verso l’incontro finale con il Dio di Gesù. Amen.

 

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