«Gesù disse loro di nuovo: Pace
a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Detto questo, soffiò e
disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati,
saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv
20,19-23).
Con la
festa di Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua, il tempo del Gesù terreno
e delle sue apparizioni giunge a compimento: un nuovo corso si apre, l’epoca dello
Spirito, della Chiesa, degli uomini.
Cerchiamo
di vedere cosa è successo esattamente: subito dopo la morte di Gesù, gli
apostoli, presi dallo shock, dallo scoraggiamento, dalla delusione, dalla
paura, si rifugiano con Maria nel cenacolo. Il vangelo ci dice addirittura che
si sono rinchiusi, con le porte sbarrate: hanno una paura folle dei Giudei.
Hanno
assistito impotenti alla tragedia inflitta a Gesù: svergognato, denigrato,
umiliato, e infine ucciso in croce come il peggiore dei malfattori. In una
società in cui il singolo vale soltanto come “appartenente” ad un movimento, a
un popolo, a un’etnia, la paura dei discepoli di finire isolati, dispersi,
rifiutati, è decisamente grande; ma è ancor più grande la paura della
sofferenza fisica: con la morte atroce del loro maestro ancora davanti ai loro occhi,
il terrore li destabilizza. La domanda che si pongono è:“Arresteranno anche
noi? Faremo anche noi la stessa fine? Come facciamo a continuare la sua missione,
in mezzo a tanti rischi e pericoli?”. Sono dei pover’uomini, deboli, assillati
dal terrore di soffrire, di morire: una paura che li porta a non vivere.
Ma
ecco che Gesù appare loro e dice: “Pace a
voi”. Che equivale a: “Non abbiate
paura”. Un incoraggiamento, va specificato, con cui Gesù non vuol dire che devono
liberarsi da ogni timore, da ogni paura in assoluto. Questo no, perché la paura,
quella buona, è un atteggiamento “positivo”, un “tutore” che accompagna l’uomo
nella sua esistenza, lo rende prudente, gli permette di affrontare razionalmente
gli imprevisti che incontra giorno per giorno. La paura che anche noi dobbiamo
evitare è un’altra, è il cieco rifiuto del futuro, di qualunque cosa ci possa accadere
l’indomani, è la paura di invecchiare, di ammalarci, di rimanere soli e
abbandonati, di morire: queste sono “paure” fuorvianti, paure che esulano da ogni
sano comportamento, paure che impediscono una sensata visione dell’ineluttabilità
della vita; sono una malattia, un modo di rovinare la propria esistenza; sono una
non-vita. Tutti sappiamo che un giorno dovremo morire: ma non per questo
dobbiamo rinunciare a godere le meraviglie della vita, in tutte le sue molteplici
opportunità.
Queste
paure sono connaturali all’uomo, ci appartengono. Ma più che un nemico, dobbiamo
considerarle un compagno di viaggio, dobbiamo essere consapevoli che siamo noi
i più forti, di avere noi l’ultima parola.
Gesù
si rende conto del precario stato d’animo degli apostoli, e li rassicura: “Come il Padre ha mandato me, così io mando
voi”. Li pone quasi sul suo stesso piano: anche Gesù ebbe paura; in certi
momenti scappò, in altri si sottrasse alle persone oppure si muoveva di
nascosto, di notte, per non farsi vedere. Nelle sue ultime ore a Gerusalemme provò
una paura e un’angoscia così spaventosa da “piangere sangue”. Sembra quindi
dire loro: “Anch’io durante i miei giorni terreni, ho avuto momenti di intensa
paura, di terrore: eppure ho continuato la mia missione fino alla fine; anche
voi dovete vincere questa vostra paura: uscite da qui, non abbiate timore,
andate per il mondo, sono Io che ve lo chiedo!”.
Gli
apostoli si sentono al sicuro, protetti nel cenacolo dove si trovano; il
cenacolo per loro è come il grembo materno: ma se continuassero a rimanere
rinchiusi lì dentro, non nascerebbero, non potrebbero iniziare la loro nuova vita,
il messaggio vitale che Gesù ha loro affidato, non verrebbe mai divulgato, la
loro missione fallirebbe senza scampo.
La
paura li rinchiude, è vero; ma una volta “sentito” lo Spirito in loro, aderiscono
con slancio all’invito di Gesù, rompono gli indugi, e vanno fiduciosi in tutto
il mondo ad annunciare il vangelo: non è che non abbiano più paura del rifiuto,
del giudizio, della morte; ma la forza dello Spirito li sorregge, li sblocca, li
aiuta, li spinge nel domani della loro missione.
Ecco. Pentecoste
significa appunto fidarsi di Gesù che dice: “Ora uscite da voi stessi, andate
incontro alla vita, perché avete la forza per farlo. Io sono con voi, il mio
Spirito è dentro di voi: con questa forza affrontate il ostro domani, fate serenamente
ciò che dovete fare”.
È
così: ogni volta che confidiamo in Dio, che ci fidiamo del fatto che Lui è presente
nella nostra vita, che Lui è dentro di noi, sentiamo quella forza speciale che
ci fa uscire, che ci fa combattere, che ci fa superare le tante umane paure che
ci trattengono.
Il
Vangelo, nel descriverci questa trasformazione improvvisa, dice che Gesù alitò
sugli apostoli: usa cioè lo stesso termine (emphysao,
“alitare”) che nella Genesi descrive l’atto creativo di Dio: ebbene, nella
Pentecoste, Dio ci affida la sua forza creatrice, ci dona quella stessa forza
con la quale egli ha creato, ha agito, ha amato.
Un gesto
di estremo amore, che ci dimostra due cose: la prima è che con il sacramento
della confermazione, noi tutti riceviamo la stessa forza di Gesù. Dobbiamo quindi
prendere piena consapevolezza di questa forza che ci inabita, dobbiamo renderci
conto di questa energia, di questa potenza che ci sorregge, di questo “Spirito”
che ci appartiene.
Allora
non è vero che non possiamo far niente; non è vero che non siamo importanti,
che siamo nessuno. Dobbiamo smettere di dire: “Che posso fare? Non ci riesco!”;
che tradotto in pratica significa: “Perché darmi da fare? Tanto sono un incapace,
sbaglio sempre; molto meglio non fare nulla!”. No, noi non siamo degli
incapaci, dei deboli, degli inetti: noi siamo forti, siamo potenti, perché dalla
nostra parte abbiamo lo Spirito di Dio che è forte, che è potente. È Lui che ci
rende forti, Lui che abita dentro di noi. Dire che non siamo all’altezza, che non
ce la facciamo, che non abbiamo la forza necessaria, significa negare questa presenza
di Dio in noi. Dire che siamo solo dei deboli, dei fragili, che non siamo in
grado di combattere, equivale affermare che satana ha la meglio, ci domina, che
ha il sopravvento su di noi, sulla nostra vita, ogni volta che vuole.
Certo,
conoscere le nostre potenzialità, conoscere la nostra forza, è decisamente responsabilizzante:
sapere che, volendo, possiamo cambiare totalmente la nostra vita, possiamo dire
“no” o “sì” alle situazioni decisive, determinanti della vita, ci trasmette sicuramente
tante responsabilità. Significa essere adulti: per questo molti preferiscono
rimanere eterni bambini, nascondersi dietro la scusa di non farcela. Ma queste sono
le persone insignificanti, misere, ottuse, che non sanno, non riescono, non
vogliono, apprezzare quel che sono. Noi al contrario conosciamo la chiamata di
Dio, disponiamo di tutta la sua forza per assecondarla; con Lui siamo forti,
siamo potenti: questa è la profonda convinzione che ci rende sereni e fiduciosi.
La
seconda cosa è che tutta la creazione, tutto ciò che noi possediamo è in forma di
seme; tutto in noi è come un seme, tutto è allo stato germinale, tutto si
risveglia grazie allo Spirito di Dio. C’è tutta una ricchezza vitale, un mondo,
una creazione che noi dobbiamo “fecondare” con lo “Spirito” di Dio. È
attraverso di Lui che tutto avviene, tutto si realizza, tutto diventa godibile
per noi.
Siamo pieni
di possibilità, di ricchezze: spesso però non le sviluppiamo, quando invece dovremmo
curarle come dei figli, amarle, ascoltarle, investirle nel tempo. Se ci
comportiamo così, non solo saremo felici ma ci sentiremo ricchi, perché quelle ricchezze,
tutte quelle potenzialità sono nostre, siamo noi, ci appartengono. Se le amiamo,
noi ci amiamo. Se le abbandoniamo, se non le curiamo, siamo noi che ci inaridiamo,
siamo noi che moriamo.
Molte
persone sono infelici perché nonostante facciano tante cose, abbiano tantissime
attività, non riescono a sviluppare loro stesse, la loro vita interiore. Sono affannate
completamente a produrre ricchezze, a sviluppare la loro posizione sociale, il
loro apparire, la loro immagine esteriore: creano di tutto, ma non “si” creano.
Sviluppano ma non “si” sviluppano. Fuori sono ricchissime, ma dentro sono nella
miseria più nera.
Dopo
aver “soffiato” lo Spirito sugli apostoli, Gesù si preoccupa appunto di
renderli consapevoli dell’enorme potere che essi dispongono da quel momento: “A coloro a cui perdonerete i peccati,
saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Giovanni
qui usa due verbi molto significativi: “afiemi”,
che vuol dire “perdonare, mandare via,
scacciare, rimettere”; e “crateo”,
che significa “trattenere, tenere in
pugno, impossessarsi, dominare, aver dominio, spadroneggiare”. In pratica
dice: “voi avete due possibilità: o mandate via o trattenete; o lasciate andare
o tenete in pugno. Spetta a voi decidere voi cosa fare”.
Una
grande responsabilità quella dello stabilire chi deve essere perdonato e chi no:
Gesù al riguardo suggerisce con forza la soluzione del perdono, della carità,
dell’amore “sempre e comunque”.
Se non
perdoniamo le offese, la nostra rabbia, il nostro dolore, continuano a vivere
in noi: ogni mattina noi le riviviamo, ogni santo giorno siamo dilaniati dalla
stessa rabbia: la nostra vita ne esce completamente sconvolta: se non
perdoniamo, continuiamo a vivere nel passato; continuiamo a fantasticare
vendette future, rappresaglie feroci, e non riusciamo più ad apprezzare i tanti
lati positivi della vita.
Accettiamo
quindi la realtà, perdoniamo e continuiamo a vivere. Abbiamo questo potere: non
possiamo certo prevenire ed evitare le ferite della vita, ma possiamo perdonarle.
Tocca a noi decidere se rimanere sempre risentiti con il mondo, oppure se
perdonare e riacquistare la nostra serenità. Un giorno chiunque potrà ferirci,
ma siamo noi che decidiamo di continuare a ferirci ogni santo giorno, senza
voler perdonare, alimentando quotidianamente il nostro rancore.
Perdoniamo,
allora, non per essere “bravi” ma per essere “liberi”. Non c’è nulla di eccezionale
in chi perdona, perché perdonando accettiamo la possibilità di venire feriti:
perdonando, decidiamo di non soffrire più per quella ferita.
Ogni
ferita è un sasso che ci colpisce: ci ha colpito, è vero, ci ha fatto male: ma ora
quel sasso è nelle nostre mani. Cosa vogliamo farne? Vogliamo vendicarci e rilanciarlo?
Questo non cambierà la nostra situazione, non ci toglierà la ferita; semmai ne
provocherà un’altra in qualcun altro. Vogliamo tenerci stretto il sasso in modo
che ogni nostro contatto, ogni nostra “carezza” sia una sassata per tutti? O preferiamo
perdonare? Certo: deponiamo quel sasso, lasciamolo cadere, lasciamolo andare.
Ci sentiremo liberi. Se non deponiamo quel sasso e non lo gettiamo via, ogni
mattina ci alzeremo e lo guarderemo: quel sasso, senza che ce ne accorgiamo, ci
entrerà dentro, indurirà il nostro cuore, lo renderà insensibile. Invece di
lanciare gesti d’amore, senza accorgercene, lanceremo sassate: perché la
violenza genera violenza. Solo il perdono spezza la catena. Solo il perdono
spezza quest’automatismo diabolico.
Henri-Dominique Lacordaire, monaco
domenicano in Santa Sabina in Roma, diceva: “Vuoi essere felice per un
instante? Vendicati. Vuoi essere felice per sempre? Perdona”. Amen.
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