giovedì 8 giugno 2017

11 Giugno 2017 – Santissima Trinità

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16-18).

Oggi celebriamo la festa della Trinità: un Dio che è contemporaneamente Padre, Figlio e Spirito. 
Ma cos’è la Trinità? Cosa vuol dire che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo? Cerchiamo nei limiti del possibile di conoscere anche noi questi tre aspetti di Dio.Non si tratta di una invenzione dei teologi per cercare di spiegare l’Essenza divina: la composizione trinitaria di Dio trova il suo fondamento nell’esperienza personale dei primi discepoli: Gesù, loro amico, loro compagno, loro maestro, si dichiarava figlio di Dio e come tale si comportava, da Figlio di Dio; in quell’uomo essi hanno potuto constatare la reale presenza di Dio. In quell’uomo, essi sperimentarono un inesauribile mondo di amore, di comunione, di vita; un qualcosa di smisurato, di infinito. E per poterne parlare, per poterlo spiegare, essi si servirono di un’immagine comune, facilmente comprensibile, quella di “famiglia”: con un padre, un figlio e il loro amore: lo Spirito. In sostanza, ciò che essi sperimentarono, si può così sintetizzare: c’è un Dio che sta al di sopra di noi, di ogni creatura, del mondo intero: un Dio che è la nostra origine, in qualche modo l’utero che ci ha generati e che noi chiamiamo Padre e Madre; c’è un Dio che sta con noi, che si fa compagno del nostro cammino terreno e che si chiama Figlio; e c’è un Dio che abita dentro di noi come entusiasmo, creatività, forza, passione, energia, che si chiama Spirito.
È nel corso degli anni, poi, che queste esperienze di Dio, vissute dagli apostoli e dai primi cristiani, diviene il dogma della Trinità: l’Unico Dio, cioè, vive in Tre persone, distinte, diverse, ma non separate; è sempre lo stesso Dio, che vive e che è presente in modalità diverse, Uno e Trino. Ogni volta che noi ci facciamo il segno della croce non facciamo nient’altro che invocare questo dogma, questa verità di fede: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Questa è dunque la grande verità: Dio è Famiglia, è più persone. Le tre persone della Trinità sono in un continuo dono reciproco d’amore, in una continua “relazione” fra di loro. Una relazione che caratterizza il loro essere, la loro essenza: non esiste l’una senza l’altra.
Sant’Agostino nel suo De Trinitate definisce così la Trinità: il Padre è l’Amans, il Figlio è l’Amatus e lo Spirito Santo è l’Amor. C’è insomma un Dio che fa il “Padre”, l’amans, l’amante, colui che dona. C’è un Dio che è donato, il “Figlio”, l’amatus, il dono. E c’è l’amor, lo “Spirito”, la relazione d’amore che li lega insieme. Dio quindi è Relazione, è rapporto, è connessione, è unione: «Dio ha tanto amato (gapw) il mondo, da donare (d°dwmi) il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
Ebbene: questa “relazione” intra trinitaria è l’immagine esatta di come devono essere i nostri rapporti tra uomo e donna, tra mamma e figlio, tra amici, tra ogni appartenente al genere umano: rapporti tra persone essenzialmente diverse, ma che sono unite, tenute insieme, da un unico Amore, da un unico elemento che fa da “collante”: lo Spirito di Dio.
Tutti in fondo inseguiamo gli stessi obiettivi: vivere insieme le gioie dello Spirito, sperimentare insieme la carità del Padre, progredire insieme sulle orme del Figlio; abbiamo progetti comuni di salvezza, creiamo famiglie e figli obbedendo al suo ordine, condividiamo tempo e aspirazioni; ci comportiamo cioè come se fossimo tutti una grande, unica, entità, quando invece ciascuno di noi opera con la sua individualità, con la sua unicità di persona: abbiamo cioè ideali e progetti comuni, che ciascuno raggiunge con la propria personalità, con la propria autonomia decisionale, con il proprio stile di vita.
Ci sono, è vero, molte persone che non tengono conto di questa “unicità”: pretendono cioè che gli altri annullino la propria personalità, si trasformino completamente spersonalizzando il loro carattere, per diventare un loro alter ego, una loro copia esatta: esigono, per esempio, che tutti facciano solo ed esclusivamente ciò che fanno loro, come lo fanno loro, quando lo fanno loro; tutti devono comportarsi esattamente come vogliono loro. Sono persone, insomma, talmente egocentriche da non accettare alcuna divergenza, da non sopportare l’altrui diversità ed autonomia. Ma questo punto di vista è solo la vista da un unico punto: sono talmente limitati, da non rendersi conto che in questo modo annullano le persone, le rovinano, le derubano della loro personalità, rifiutano insomma, a priori, valide opportunità di collaborazione e di integrazione.
In molte comunità cristiane si parla tanto di unità, di comunione fraterna, di comprensione, di carità, ma molto spesso tutte queste belle espressioni si riducono ad una triste realtà: chi non si adegua al pensiero dei responsabili, chi si permette di seguire eventuali vie alternative per raggiungere lo stesso risultato, chi insomma dimostra di avere un cervello e di saperlo usare, automaticamente è fuori, è escluso, viene messo al bando, ignorato, isolato. Non è ammessa alcuna pluralità interpretativa. Eppure la dottrina della Chiesa ci insegna che tutti i componenti del popolo di Dio, pur essendo un solo “corpo” e un solo “spirito”, hanno il diritto-dovere di mettere a frutto, nella insostituibile carità, quei doni, quei carismi che lo Spirito ha infuso in ciascuno, nella sua specificità, nella sua individualità, nella sua diversità. Perché ciò che unisce veramente, ciò che crea una unione indissolubile, non è l’assoluta, piatta uniformità, priva di qualunque apporto individuale, bensì la comune e reciproca condivisione di pensiero, alla luce dell’Amore; ossia l’umile apporto personale, nell’insieme delle disponibilità altrui ad aprirsi e a donarsi nell’unica Carità che “unisce i cuori”.
Allora “fare unione” non significa fare le stesse cose, avere le stesse idee, fare tutti lo stesso cammino. “Fare unione” significa donare, reciprocamente, il proprio amore più profondo, donare il proprio Spirito, condividere quel quid che abbiamo di più prezioso e di più caro nel nostro cuore.
Senza l’amore, otterremmo solo una unione fisica, materiale, che è ben diversa dalla vera unione, da quella che nasce dalla carità. Certo, in questo modo, possiamo arrivare anche a dispensare amore, ma non è l’Amore, quello che illumina la nostra vita, quello senza il quale noi stessi non saremo mai “Amore”.
Abbiamo detto che la festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, relazione, rapporto. In pratica ci fa capire che qualunque vita, priva di relazioni, non è degna di essere vissuta, non può essere considerata vita. È infatti attraverso le nostre relazioni che impariamo a vivere, sono esse l’unico strumento con cui possiamo tirar fuori, mettere concretamente a frutto, la Vita che abbiamo in noi.
Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa; cattive relazioni significano una vita difficile, carica di risentimenti. Ora, se avere relazioni è un fatto normale, semplice, connaturale, altrettanto non lo è il “sapersi” relazionare.
La maggior parte delle persone pensa, ad esempio, che la felicità coniugale dipenda dal trovare o meno la “persona giusta” con cui condividere la propria esistenza. Condiziona cioè il raggiungimento della felicità di una vita, all’incontro con uno che sia il “dispensatore della felicità” già pronta e confezionata. Ma il principe azzurro non esiste, è un personaggio delle favole. Non possiamo demandare ad altri la responsabilità di realizzare una vita serena e felice. È un traguardo che va costruito insieme: perché ciò che rende una vita meravigliosa non sono gli altri, per quanto buoni siano, ma è la qualità delle relazioni che noi instauriamo con loro. Pensiamo infatti solo per un attimo: cosa succederebbe se in una relazione noi non sapessimo “dare”? Succederebbe che l’altro, prima o poi, si stancherebbe di aspettare. E così di seguito: se in una relazione noi non sappiamo ricevere, l’altro non si sentirà mai importante. Se noi non stimiamo l’altro, l’altro si sentirà umiliato. Se non stimiamo noi stessi, costringeremo l’altro a farci sempre da mamma, a incoraggiarci, a dirci che ne abbiamo le capacità, che ce la possiamo fare. Se non vogliamo crescere, l’altro si sentirà imprigionato, condizionato. Se vogliamo che le cose rimangano sempre uguali, l’altro si sentirà morire di noia. Se siamo convinti di non valere, di essere inadeguati a tutto, il nostra attaccamento morboso all’altro, finirà per fagocitarlo, infastidirlo. Se non siamo mai ottimisti, vitali, gioiosi, divertenti, finiremo per contagiare l’altro con la nostra negatività, rendendo la relazione pesante e invivibile.
Dio Spirito è relazione d’Amore tra Padre e Figlio. Dio è l’Amore. Il nostro amore deve essere pertanto “relazione”: un movimento circolare continuo, una compenetrazione (pericoresi trinitaria) di due persone che si danno e che si ricevono, che si donano e che si accolgono. L’amore, in sintesi, è quell’intervallo di spazio che esiste tra l’io e il tu, spazio in cui si crea il noi: è la fusione di quell’attimo in cui io non sono “io” e tu non sei “tu”, ma io e tu siamo “noi”.
Ecco allora l’importanza fondamentale nella nostra vita di saper “costruire” i nostri rapporti, le nostre relazioni: ripeto, non è una cosa facile, non è un automatismo; la maggior parte della gente pensa infatti che, essendo disinvolti, sapendo parlare bene, il “relazionarsi” sia cosa fatta! Invece no: anzi, dobbiamo stare molto attenti, perché questo genere di “relazioni”, senza l’elemento fondante della carità, dell’Amore, si trasformano il più delle volte in egoismo, nella pretestuosa ricerca del nostro io: e quello che noi chiamiamo amore “oblativo” altro non è che una puntigliosa ricerca egocentrica di noi stessi, sminuendo e sfruttando gli altri. Amen.


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