«In verità, in verità io vi
dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra
parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle
pecore» (Gv 10,1-10).
Gesù
quando insegna, usa parole facili, comprensibili da tutti, si serve di immagini
molto semplici, tratte dalla vita di ogni giorno.
Le immagini
del pastore, dell’ovile, del gregge, a noi oggi dicono molto poco, ma ai tempi
di Gesù, in Palestina, tutti le capivano perfettamente, poiché la pastorizia
era praticata dalla maggioranza della popolazione; per la lingua parlata degli
orientali era pertanto normale ricorrere a tale occupazione per proporre similitudini
e allusioni: così con il termine “pastori” si alludeva ai re di Israele; il loro
“gregge” era il popolo; il “bastone” del pastore rappresentava invece lo
scettro regale, e via dicendo.
Per questo
motivo, per rendere immediatamente comprensibile il suo messaggio, Gesù nel
vangelo odierno si serve di immagini agresti estremamente realistiche: i
pastori ogni sera portavano le loro pecore nel “recinto”, un grande spazio protetto
da un muro, alla cui custodia notturna era sufficiente un solo guardiano. Al
mattino, i pastori entravano in questo ricovero notturno passando regolarmente
per la porta (a differenza dei ladri che di notte scavalcavano di nascosto la
protezione per impadronirsi degli animali), e ciascuno chiamava per nome “una ad una” le proprie pecore, le
quali, riconoscendo “la sua voce” si
radunavano intorno a lui: era una cerimonia consolidata, succedeva sempre così.
Le pecore sentivano la voce del loro pastore, lo riconoscevano, perché tutto il
giorno stavano con lui: avevano in lui la massima fiducia, perché lui le
proteggeva, le difendeva, le curava, le portava al pascolo. Tra di loro si era
creato un autentico rapporto di conoscenza e di relazione.
Ed
ecco il messaggio: noi siamo le pecore, il nostro pastore è colui che ci
conduce verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; il nostro pastore
è colui che ci difende, che ci protegge dagli attacchi esterni, che ci aiuta
nei momenti di difficoltà; egli è il nostro sicuro riferimento, che ci indica dove
andare, quale strada percorrere.
Dobbiamo
però stare molto attenti, perché sulla nostra strada ci sono anche tanti
“briganti e ladri”: gente che ci avvicina in nome di Dio, in nome dell’amore, e
mirano soltanto a derubarci l’anima. Dicono tutti di venire per il “nostro bene”,
ma in realtà il bene cui mirano è solo il loro.
Purtroppo
sono “pastori” che invece di difenderci dai lupi, sono lupi loro stessi e della
razza peggiore. Perché di fronte ai lupi veri, noi sappiamo come difenderci; non
altrettanto con quei falsi lupi travestiti da pastori, che vengono da noi “in
nome di Dio”, comportandosi peggio di lupi voraci, insensibili alle sofferenze
che causano, perché ad essi noi siamo portati a concedere massima fiducia,
rischiando di perderci, travolti dalle loro ambizioni, dalla loro sete di
potere.
Da ciò
ne deriva una regola fondamentale per la nostra vita: “Chi ruba l’anima è un
ladro. Chi ruba ciò che abbiamo nel nostro intimo è un brigante. Chi ci
imprigiona con le chiacchiere è un impostore. Non facciamolo entrare! Opponiamoci:
se poi non siamo in grado di difenderci, scappiamo, fuggiamo. Il pastore vero
entra in noi per darci vita, per farci crescere, fiorire, evolverci, divenire.
Il ladro (talvolta il prete, il genitore, il coniuge, l’amico più stretto) viene
per rubare, per sottrarci la vita, per legarci a sé. Il pastore amorevole ci
invita, non ci impone mai nulla, non usa la forza, è sempre presente e
disponibile; il ladro vorace impone, usa violenza, colpevolizza, ci sottomette,
ci ruba quanto di meglio custodiamo nel nostro cuore. Il pastore ci conduce a
quella che è la “nostra” verità; il ladro ci incatena alla sua.
Occhio
allora: perché se una persona, ancorché la più cara, ci colpevolizza, ci irride,
ci deprime, ci fa sentire “sbagliati”, quella persona è un brigante; se uno ci
fa sentire falliti, cattivi, sporchi, è un brigante; se uno ci fa sentire idioti,
cretini, stupidi, è un brigante; se uno ci usa per il suo piacere fisico, per i
suoi interessi, è un brigante; se uno ci si appiccica addosso dicendo che non
può vivere senza di noi, è sicuramente un brigante. Se lo stare con una certa persona
ci toglie la gioia di vivere, distrugge la nostra personalità, ci ruba la
vitalità, quella è un ladro. Se lo stare con una persona uccide la nostra creatività,
la nostra fantasia, la nostra espansività, la bellezza della nostra anima,
quella è un ladro. Se insomma lo stare con una persona ci spegne invece di
accenderci, ci soffoca invece di farci respirare, vuol dire che quella persona
è un autentico ladro.
La
vita deve vivere. La vita deve espandersi. La vita deve dilatarsi. Noi siamo fatti
per crescere sempre di più, per realizzarci sempre di più, per diventare quelli
che dobbiamo essere, identici a come Lui ci ha pensati. La vita ci riempie, la
morte ci svuota.
Il buon
pastore vuole sempre e in ogni caso che noi fioriamo, viviamo, diveniamo: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano
in abbondanza”. È questa la regola fondante della nostra vita.
Il
vangelo dunque, in questa sua prima parte, ci pone di fronte ad una nostra
precisa responsabilità: se cioè ci accorgiamo che i ladri ci hanno rubato la
vita, l’entusiasmo, la fantasia, la creatività, la voglia di vivere, di
combattere, di essere nuovi e diversi (quanta gente è rassegnata, smorta,
spenta!) chiediamoci: perché non abbiamo reagito, perché non abbiamo fatto nulla?
Perché non siamo stati pastori vigili di noi stessi? È innegabile che nel mondo
ci siano dei ladri che si prefiggono di impadronirsi di noi, della nostra
interiorità; ma è altrettanto innegabile che questi ladri entrano nella nostra
anima solo se siamo noi a permetterglielo. È vero che c’è gente che ci attacca,
ma perché noi non ci difendiamo? Perché ci comportiamo come se la cosa non ci
riguardasse? Stiamo bene attenti: perché non difendersi significa non amarsi.
Non proteggersi significa non riconoscere alla nostra vita il dovuto valore.
Difendiamoci
allora, amiamoci, lottiamo per noi stessi, combattiamo per la nostra vita, per
il riconoscimento della nostra dignità. Amarsi, allora, è farsi pastori di noi
stessi, contro le incursioni di ladri e briganti. Amarsi, allora, significa difendersi
da qualunque incursione del male. Amarsi significa avere il coraggio di gridare
a qualcuno: “Fuori di qui, tu non puoi entrare!”. In certe situazioni dobbiamo essere
pronti ad urlare: “Vattene! Stai lontano da me!”. Sono troppe invece le persone
che permettono a chiunque di rubar loro l’anima, la vita che hanno dentro, la
vitalità, la gioia, la simpatia!
Il
vangelo di oggi ci offre inoltre un’altra immagine molto suggestiva, quella
della “porta”: “Io sono la porta: se uno
entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà ed uscirà e troverà pascolo” (Gv
10,9).
Cosa
significa? Che non è Gesù a schiavizzarci, non è lui che ci rinchiude nostro
malgrado nelle situazioni della nostra esistenza: Lui ci garantisce sempre la nostra
piena libertà. Noi possiamo entrare ed uscire, credere o non credere,
accettarlo o rifiutarlo; in ogni caso Lui non s’arrabbia, non se la prende, semplicemente
aspetta. Dio ci lascia liberi: Lui è la porta. Ogni volta che vogliamo entrare,
Lui è sempre “aperto” ad accoglierci. Entrare nel nostro quotidiano passando
attraverso di Lui è una garanzia, perché in Lui noi troveremo sempre il nostro
pascolo, cioè l’amore, la libertà di figli, la forza soprannaturale che ci
nutre e che ci alimenta.
Nella vita
però esistono anche delle porte chiuse a chiave, ermeticamente, serrate con
tutti i lucchetti possibili: porte che noi non vorremmo aprire mai. Ma prima o
poi arriva il momento in cui non possiamo esimerci, in cui è necessario aprire e
varcare quelle porte, anche se il pensiero di ciò che incontreremo, ci paralizza,
ci terrorizza, e noi faremmo di tutto pur di non aprirle. Ci sono purtroppo dei
passaggi nella vita che dobbiamo necessariamente superare, costi quel che
costi; sono “porte” che appartengono alla vita: se vogliamo vivere dobbiamo
oltrepassarle. Noi vorremmo evitarle, entrare da un’altra parte, trovare una
soluzione alternativa, ma non è possibile. Se vogliamo progredire dobbiamo passare
di lì. Altrimenti ci fermiamo. Certe porte, certi passaggi, sono come le “forche
caudine”: non c’è alternativa, vanno affrontate. Sono chiusure, impedimenti, momenti
tragici della vita, estremamente impegnativi, a volte laceranti: dai quali non possiamo
sottrarci; faremmo qualunque cosa pur di evitare le sofferenze, le fatiche, le delusioni,
inevitabili se decidiamo di superarli; ci piacerebbe passare per altre vie, prendere
scorciatoie, saltare questi ostacoli, aggirare queste difese: ma sono i
briganti che fanno così. È inutile in certe occasioni razionalizzare,
giustificare, dimenticare o sminuire la sofferenza; va solo affrontata, passando
per la Porta, chiudendo gli occhi e affidandoci a Lui.
Anche
se ci terrorizzano, certe “strettoie” della vita vanno superate: non abbiamo
alternative; se vogliamo esorcizzare le nostre paure, dobbiamo affrontarle! Anche
se è difficile, anche se ci fa piangere, anche se ci angoscia, anche se ci
ferisce, anche se ci sconvolge, ciò che va fatto va fatto. Perché ne va della nostra
vita. La porta che si erge davanti, dobbiamo aprirla, oltrepassarla.
Ci
consola il fatto che la porta conduce sempre verso qualcosa di nuovo, di
diverso: è un passaggio.
Allora:
andiamo oltre, non fermiamoci, usciamo dal nostro impasse, cambiamo, progrediamo.
Apriamo la porta verso il nuovo; troviamolo una buona volta il coraggio di
passare oltre, di cambiare, di fare nuove esperienze. La ripetitività, l’immobilismo,
a volte ci annoiano, è vero, ma sono rassicuranti, sono una garanzia: conosciamo
già ogni cosa, nulla ci mette in difficoltà, nulla ci imbarazza. Ma questa non
è la vita: questo non è vivere, perché la vita è sempre nuova, diversa, altra,
in evoluzione. Per questo Dio è Porta. Nel senso che se incontriamo Dio, Egli ci
accoglie nel suo amore, ma per portarlo “fuori”; ci fa cioè diversi, ci
trasforma, ci cambia, e ci manda là dove neppure immaginavamo; apre le nostre porte
sconosciute, spalanca tutte le stanze della nostra anima, ci apre orizzonti mai
immaginati prima, ci rinforza, ci forgia nel nuovo. Si fa presto a vedere se
uno ha incontrato veramente Dio. Se rimane sempre lo stesso, sicuramente non l’ha
incontrato. Più un uomo è ottuso, chiuso, pieno di pregiudizi, sulla difensiva,
meno conosce Dio. Gesù è la Porta che ci introduce nel nuovo: entriamo, apriamoci,
impariamo, indossiamo il suo amore, usciamo, camminiamo nella vita, non
fermiamoci, non temiamo, combattiamo, portiamolo ai fratelli, andiamo avanti, sempre!
Vangelo vuol dire “buona nuova”. È “buona” proprio perché è sempre “nuova”; non
è mai la stessa. Gesù fu ucciso non perché portò un messaggio “buono”, ma
perché portò un messaggio “nuovo”. È così: anche se il nuovo ci terrorizza, anche
se ci fa paura, anche se ci toglie ogni certezza, noi dobbiamo diventare “nuovi”;
se non ci rinnoviamo passando attraverso Gesù/Porta, siamo già vecchi in
partenza, abbiamo già smesso di vivere. Dice il Qohelet: “Il tempo consuma le
cose, tutto invecchia”. Quindi, o ci rinnoviamo o moriamo. La gioventù non è una
stagione della vita, ma una prerogativa dell’animo. Non si invecchia per aver vissuto un certo numero di anni, ma solo
quando abbandoniamo i nostri ideali, quando pretendiamo da ladri di scavalcare
Dio, di far meno di Lui. Ci sono giovani che sono già vecchi decrepiti, e ci
sono vecchi che sono al contrario giovani, aitanti. Domandiamocene il perché, e
capiremo l’importanza di passare per la Porta! Amen.
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