giovedì 6 aprile 2017

9 Aprile 2017 – Domenica delle Palme e della Passione di Gesù

«Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso» (Mt 26,14-27,66.

La Passione di Gesù è la storia di un uomo perdutamente innamorato di Dio e degli uomini. Talmente innamorato, da accettare la morte come estrema conseguenza. Gesù era innamorato dell’uomo, perché vi trovava lui l’espressione più profonda dell’amore di Dio.
Un amore, una compassione, che ritroviamo nel suo animo quando proclama le Beatitudini: è in esse che egli rivela lo stupore di fronte agli uccelli del cielo e ai gigli del campo; è qui che emerge la sua pietà verso i malati, la sua tenerezza nei confronti delle madri e dei padri che hanno perso i loro figli, il suo ardore contro i farisei e gli scribi ipocriti, la violenza con cui scaccia i venditori dal tempio di Gerusalemme.
Nel racconto della Passione questo amore e questa passione sono la forza, la scelta di percorrere fino in fondo il suo cammino nella fedeltà al suo cuore, alla sua anima e al suo Dio. Tutta la sua vita è stata vissuta con passione, con intensità, amando, piangendo, commovendosi, non passando indifferente vicino a niente, infuocato ora dall’amore e ora dallo sdegno. Una vita vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare guardando fiducioso al suo Dio. Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo e per tutto ciò che vive, e soprattutto alla sua unica e vera passione: Dio.
È in lui, nel racconto della sua passione, che possiamo anche noi ottenere la forza per compiere il nostro viaggio, fino in fondo, per vivere con impegno la nostra vita. In tutti i personaggi che incontreremo, possiamo specchiarci per capire come noi in concreto viviamo la vita di ogni giorno, con quali atteggiamenti interiori, con quale fiducia o paura. In essi possiamo rivederci e ritrovarci, possiamo capire meglio, più in profondità, la nostra vita, perché altro non sono che delle icone profonde che vivono in ogni uomo, in ciascuno di noi.
Seguiamo il racconto di Matteo, così come ci viene proposto oggi dalla liturgia:
“Tennero consiglio per arrestare Gesù” (26,4).
È la premessa: sacerdoti e scribi decidono di ucciderlo: il loro è un piano segreto, nessuno deve conoscerlo; è un progetto che deve essere attuato nel più stretto riserbo. Il male infatti ama nascondersi, ama mimetizzarsi, ama l’inganno, la finzione. Il male si insinua pericolosamente nella nostra vita e nel mondo, e noi non ce ne accorgiamo. Il male manipola le notizie, gestisce le informazioni, falsifica la realtà e nessuno più ci fa caso, nessuno se ne accorge; è un fenomeno che non interessa più a nessuno. Il Figlio di Dio è stato condannato e ucciso come un truffatore, tutto su di lui è stato pianificato, costruito con menzogne e falsità. È successo tanti secoli fa, ma continua a succedere. E oggi siamo noi, gli eruditi, i colti, i grandi affabulatori, che travolti dalla nostra bieca ignoranza, non ci rendiamo conto che la piaga malefica della infedeltà, della miscredenza, della falsità, dell’egoismo, che ormai ha già infettato clero e fedeli, ha dichiarato una guerra senza quartiere contro l’intera comunità cristiana, intossicando, soffocando subdolamente, ma mortalmente, la fede vera e cristallina della Chiesa.
“Uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento” (Mt 26,14).
Come è possibile che uno di quelli che seguono Gesù, che lo amano, arrivi a tradirlo? Come è possibile che uno di quelli che per Lui hanno lasciato tutto, lo consegni in mano ai nemici? Rimane un mistero. Eppure, cosa si arriva a fare per denaro! Quanto pochi sono quelli che non si vendono! Per denaro arriviamo a svendere ciò che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante, il nostro cuore, la nostra anima, il nostro tempo, l’affetto dei nostri cari. E quando abbiamo perso tutto per quattro soldi, cosa ci rimane? Finire come Giuda, che disperato s’impicca. Il denaro è un’illusione affascinante che quando ci accorgiamo che, pensando di aver tutto, di poter tutto, in realtà, non abbiamo nulla, ci conduce alla disperazione: non abbiamo amato, non abbiamo vissuto, abbiamo solo inseguito un’illusione, un’apparenza, un sogno. È la nostra morte.
“Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua? (Mt 26,17)
Gesù, come ogni buon ebreo, ogni anno celebra la Pasqua. Tutto si svolge secondo lo schema solito, rituale. Da tanti anni, fin da quando erano bambini i Dodici avevano celebrato così la “Pasqua”, il passaggio del Mar Rosso, la liberazione dalla schiavitù. Ma adesso Gesù aggiunge alla preghiera due frasi: “Prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue, il sangue versato per molti per il perdono dei peccati”. Gesù si chiede il senso della sua vita, di ciò che ha detto e di ciò che ha fatto. Tutto sembra crollare, svanire, dissuadersi. Cosa rimane? Che senso ha la sua vita? Gesù si identifica nel popolo ebreo: lui è solo, reietto e perseguitato come il popolo ebreo in Egitto. Lui è pieno di angoscia per quel passaggio. Gli sembra che tutto sia finito, che il mare della morte sia invalicabile, come il Mar Rosso per gli ebrei. Lui è quell’uomo che vaga nel deserto, tra pericoli, serpenti, nemici, e che crede in una terra promessa che Lui chiama “regno di Dio”. Lui è quel Mosè che celebra la Pasqua. Lui è quel Mosè che invita gli uomini a credere in un regno davvero diverso, nuovo, inaspettato, e che per questo si prende tutto l’odio e la rabbia degli uomini. Ma adesso con l’immagine del pane e del vino, Gesù fa della sua vita un dono. Gesù dice: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato. Sono io quel vino che viene versato. La mia fedeltà mi sta portando verso questa estrema conseguenza della mia vita. Ma se deve succedere così, perché non può compiersi come il morire del grano del campo, come il morire dell’uva sui colli, che nella morte ringiovaniscono e nel morire risorgono? Desidero che la mia vita sia come il grano, che si dona e diventa alimento, vita, per molte persone. Desidero che dal mio morire, che dal mio andare fino in fondo, altri gustino la vita. Desidero che la passione della mia vita, il vibrare del mio cuore, il fluire del mio sangue, siano ebbrezza, gusto, fuoco per altre persone. Vorrei essere per tutti voi un po’ di pane e un po’ di vino. Vorrei che la mia vita, che sta per finire, diventasse per voi e per il mondo alimento, vita, sapore, gusto, senso e felicità”.
Cosa poteva donarci di più Gesù? Gesù non ci ha donato solo delle belle parole, dei bei miracoli, dei bei discorsi. Gesù si è donato lui stesso a noi. Questo è il vertice della vita. L’amore è donarsi. L’amore vuole darsi e darsi del tutto, fino alla fine, completamente. La vita che c’è in noi vuole darsi fino a viversi tutta. In ogni eucaristia noi celebriamo questo: l’eucaristia è un amore donato. E in ogni amore donato noi celebriamo un’eucarestia.
“Pietro gli disse: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai. Gli disse Gesù: In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte” (Mt 26,33-34).
A Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo poteva cantare perché era proibito dai rabbini tenerli. Forse, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il punto! Pietro è Cèfa, la roccia; è l’uomo che ostenta sicurezza; è l’uomo istintivo, d’azione, un uomo che, dice lui, non ha paura. Ma non è che Pietro non abbia paura; Pietro non la sente, la reprime, la ignora. Pietro rappresenta la nostra rettitudine morale, religiosa, il nostro credere di essere fedeli, la nostra esuberanza che ci fa dire: “Queste cose non potranno mai capitare a me!”. Pietro rappresenta la banalità con cui la gente si conosce, un idealismo e una superficialità che si dissolve di fronte alla vita. Gesù perdona Pietro prima ancora che lo tradisca. Come a dire: “Pietro non presumere troppo da te. Sii cosciente di ciò che sei. Sii cosciente che i tuoi alti ideali non sono radicati nella tua anima”. Dio non ci chiede di essere perfetti; ci chiede solo di essere umani, consapevoli di ciò che abbiamo dentro, dei nostri sentimenti, delle nostre paure e delle nostre fragilità. Perché ogni volta che presumiamo di noi allora, anche noi, spinti dalle nostre paure inconsce lo tradiremo. E non ci accorgeremo dei nostri tradimenti!
Pietro di fronte al pericolo si defila. Egli, come primo papa, rappresenta la chiesa, noi cristiani. Finché le cose vanno bene, tutto è facile, seguire Gesù è un piacere. Finché predicava, finché guariva, erano in tanti a seguirlo. Qualche giorno prima era entrato a Gerusalemme tra canti, palme e ulivi. Ma adesso? Quando c’è da mettersi in gioco, da mettere in gioco quello che siamo, da cambiare, da convertirci, da trasformarci, quando c’è il pericolo delle proprie scelte, allora la chiesa rischia di agire come Pietro: rinnegare la verità, far finta di niente, tradire la strada giusta. Quante volte imprechiamo, spergiuriamo, quante volte ci difendiamo con tutte le forze e ci ribelliamo, quando seguire Gesù è pericoloso, è compromettente, è doloroso, è controcorrente! Quando Gesù ci chiama a testimoniare di persona, con la nostra vita, allora è troppo facile tirarsi indietro! È troppo facile nascondersi dietro le parole, campare delle scuse! E il gallo? Il gallo è la voce della coscienza che richiama Pietro: una, due, tre volte. È la voce della coscienza che ci urla: “Come fai a nasconderti, a tirarti indietro, a rinnegarlo per paura? Che uomo sei? Sei un vigliacco! E ancora: “Sii fedele a te stesso, al tuo cuore, alla tua vita!”.
“Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39).
Con queste parole Gesù affronta la sua sofferenza. Non gli sarà tolta: niente esternamente cambierà. Ma tutto sarà diverso, perché adesso c’è una preghiera, un senso su ciò che sta per accadere. Gesù avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Gesù non viene descritto come lontano da Dio, senza la fiducia in suo Padre. Anzi, Gesù lo prega. C’è molta comunicazione tra lui e suo Padre. Matteo descrive la paura di Gesù, che è terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere. È l’angoscia di finire nel nulla. È l’angoscia della lotta per la vita. È l’angoscia per un supplizio che gli si prospetta terribile, l’angoscia per sentirsi tradito, la paura del fallimento. Gesù continua ad essere in comunicazione con Dio, ma dall’altra parte tutte le paure, tutti i mostri interiori si materializzano.
Da questo momento, per vivere come Gesù, ci dovremo confrontare con la paura della morte, della fine, del fallimento. Chi ha paura di morire ha paura di vivere. Per vivere bisogna aver guardato in faccia la paura della morte, esserci entrati dentro, averla affrontata e aver trovato ancoraggi più profondi.
“Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati” (Mt 26,40).
In queste parole c’è tutta la solitudine di Gesù. Nessuno dei suoi amici, neppure i più intimi, riescono a stargli vicino. Dormono. Cioè, non capiscono, non colgono l’importanza, il dramma, lo sgomento di quanto Gesù prova nel suo intimo più profondo. Vivono in superficie, non si accorgono di ciò che sta accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, sono così presi dalle loro cose, che non “vedono” la tragedia che sta per compiersi. Come si fa a dormire, ad essere tranquilli in momenti simili? Bisogna proprio essere completamente assenti! Gesù, quasi umilmente, chiede loro: “State con me; ho paura, so che non potete far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono. Gesù si accorge che non può contare su nessuno. È solo. Tutti lo hanno abbandonato o dormono. Nessuno gli è vicino; nessuno lo capisce; nessuno lo consola. Eppure un giorno Gesù si “manifesterà” a questi suoi amici che lo stanno tradendo; si consegnerà a loro, non smetterà mai di credere nella loro bontà, nella possibilità di fare il bene, di vivere la verità, la libertà. Gesù ha fiducia in questi suoi amici. L’uomo, nel profondo, è buono; l’uomo nel profondo ama la verità, la libertà, la vita. E se può vincere le sue paure e la sua angoscia, vivrà senza tradire la sua vita. Gesù “vede” tutto questo: adesso lo tradiscono, ma lui vede “oltre”, più in profondità.
“Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo” (Mt 26,47)
Osserviamo semplicemente come si scagliano contro Gesù. Va da lui “una folla con bastoni e spade”. Giuda, uno degli apostoli, lo bacia e lo tradisce, chiamandolo “Rabbì, maestro”. Gli mettono “le mani addosso e lo arrestano”. Tutti i suoi lo abbandonano, fuggono.
È l’infamia, è il giudizio della folla, della gente; del detto per sentito dire; di chi attacca per cose riportate da altri; del “perché sembra”, del “perché qualcuno ha detto”. È l’infamia di chi ferisce e bastona senza motivo. È la falsità di chi ci sembra amico. Di chi ci bacia (certi baci sono proprio come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa, e poi ci pugnala alle spalle. È la meschinità di quanti nel pericolo si defila, se ne va: “Si arrangi, non sono affari miei”.
“I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la trovarono… (Mt 26,59-60).
I capi del sinedrio e i sacerdoti cercano, e non li trovano, motivi per metterlo a morte. Molti riportano testimonianze contro di lui, ma sono così false e distorte dalla verità, che non concordano. Alla fine trovano qualcosa, un futile motivo, un “si dice”, per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio, la rabbia, scoppia, esplode in una aggressività che giudica, che vuole colpire, ferire, punire. Non importa chi abbiamo di fronte; non importa cosa abbia detto o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia allora dobbiamo trovare qualcuno da infangare con il nostro male. Allora non esiste più l’altro nella sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo l’odio che esplode, che giudica, che uccide. Quante persone insultano, schiaffeggiano, sputano addosso agli altri tutto il loro male profondo. Non si accorgono che quel male non appartiene agli altri, non sono gli altri gli artefici, ma soltanto loro stessi: è il loro male, il loro negativo, il loro marcio. Combattono e condannano negli altri quello che è il loro male. E così facendo, continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa verità.
“Gesù intanto comparve davanti al governatore [Pilato]” (Mt 27,11)
Gesù è stato giustiziato dai Romani. Ma quale ruolo hanno avuto nella morte di Gesù? Difficile dire quanto Pilato abbia realmente influito. Egli comprende molto bene la forza, la rettitudine, la profondità dell’Uomo che ha davanti, come pure l’inganno odioso che sinedrio e sacerdoti del tempio stanno per tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui gliel’hanno consegnato. Potrebbe lasciarlo andare. Lui potrebbe farlo. È lui che può decidere per la vita o per la morte di Gesù. Fa pure un debole tentativo: “Volete che vi rilasci il re dei Giudei?”. Ma conosce già la risposta: altrimenti perché glielo avrebbero consegnato?
A questo punto cerca di placare la sua coscienza: “Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!. Ho fatto tutto quello che potevo, di più non posso fare!”. Prendere le difese di Gesù per lui non è una decisione politicamente sensata. Equivarrebbe mettersi contro le autorità e la gente, e questa non è una soluzione saggia. Unica alternativa è accontentarli. E lo fa. Del resto, la cosa che più gli sta a cuore è il potere, aver meno problemi possibili, e soprattutto non compromettere i rapporti politici già difficili. Pilato sembra comandare, essere il potente, e invece è intrappolato nel gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del rimanere al potere. Sembra comandare, sembra essere il re, e invece Matteo ce lo rappresenta come un incapace, uno che non può agire autonomamente. Al contrario il vero re è Gesù: è Lui l’uomo libero dalla paura della morte, del giudizio, dell’apparire. Pilato, invece, non può deludere Roma; non può manifestare il suo dissenso; non ha il coraggio di prendere una posizione chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo che si omologa immediatamente assecondando tutti, andando dove vanno tutti. E si crede il re. Si crede il governatore, crede di avere il potere. Ma quale potere?
“Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra…” (Mt 27,28-29).
Gesù non solo è condannato, torturato, flagellato, ma è anche umiliato, deriso e svergognato. Cosa si poteva fargli ancora? Lo rivestono di porpora, gli mettono una corona di spine per dirgli: “Oh, guarda il re d’Israele; non sei il figlio di Dio? Dì a tuo Padre che venga ad aiutarti”. Lo percuotono, gli sputano addosso, si inchinano e lo prendono in giro. Poi lo conducono sulla via della croce. Ma cosa è davvero più orribile: stare là nudi, esposti, essere sputati, frustati come un cane, picchiati, esposti al ludibrio di tutti come uno zimbello, oppure è più terribile comportarsi da torturatori, vivere una vita falsa, una vita di illusioni, sotto la spinta dell’angoscia, della dipendenza, della paura? È più terribile soffrire ingiustamente o vivere e continuare a “sputare” giudizi crudeli, rovinare tutto il nostro male addosso agli altri? È più terribile vivere una vita autentica anche se conquistata nel dolore e nella sofferenza o lasciarsi vivere, vivere una vita senza senso, nella difensiva, nella paura? È più terribile osare, rischiare di perdere la vita, ma vivere, oppure non vivere mai per paura di perderla?
“Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito” (Mt 27,50).
Guardiamo la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno anche noi, di stare lì vicino per entrare nel suo mistero. Qual’e il senso della croce, della crocefissione e della morte di Gesù?
Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte le speranze di chi aveva lottato con lui, di chi aveva coltivato il desiderio e l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero, per se stesso e per questo mondo. Cos’avranno vissuto le persone che Gesù aveva guarito? Cos’avrà vissuto la Maddalena, Zaccheo, i sordi che tornavo a sentire, i muti che tornavano a parlare, i ciechi che tornavano a vedere, i morti che tornavano a vivere? Cos’avranno vissuto, cos’avranno provato nel vedere colui che aveva loro dato la vita, è ora appeso, attaccato, come il peggiore dei farabutti, ad una croce? Sapere che quell’uomo è veramente Dio, che quell’uomo è venuto in nome della verità, che quell’uomo parla perché ispirato da Dio, e vederlo in croce: cosa si prova? Dove finiscono tutte le nostre sicurezze? Cosa si può provare nel vedere chi si ama appeso ad una croce?
Di chi è la colpa della morte di Gesù? Di nessuno, è chiaro! Tutti avevano buoni motivi: Caifa, la necessità storica; Pilato la ragion politica; Pietro, la sua sopravvivenza; i sadducei, la legge; i farisei, la religione; le persone rispettabili, la morale; i soldati, l’obbedienza. Ognuno aveva i suoi validi motivi, ma erano sufficienti? O non era un tentativo di tranquillizzare la propria coscienza? Di lavarsene la mani?
La croce è l’abbandono totale di Gesù nelle mani del Padre e della vita. Quando, cioè, viviamo l’esperienza dell’impotenza, del non poter fare più nulla per noi, dell’affidarci a Qualcosa o a Qualcuno. Viene un momento in cui più niente, né noi, né altri, possiamo agire. Allora dobbiamo solo lasciarci andare, fidarci, rimetterci. È quando più niente è sicuro ma tutto vacilla: la vita, la fede, l’esistenza stessa di Dio. Smettiamo di voler capire, di voler sapere, di trovare ragioni o giustificazioni, e semplicemente ci abbandoniamo.
La croce è lo scontro fra due religioni: quella di Gesù è quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la religione della forma, della maschera, in cui contano i grandi numeri, l’istituzione, l’ordinamento, l’obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone, se le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto ossequioso alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita; dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso, prostituta o pagano che fosse, perché tutti per lui erano figli dell’unico Padre. Gesù non faceva molti sacrifici, non digiunava, non si comportava scrupolosamente rispetto alle regole. Era molto libero, mangiava e banchettava spesso, faceva festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva che il vero sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era “fare qualcosa”, ma fare della propria vita “qualcosa di vero”, di importante e di significativo. Non reprimeva l’amore, il contatto con le donne, gesti equivoci come le donne che lo accarezzavano, che lo baciavano. Gesù piangeva. Gesù si arrabbiava. Come era dentro, così era fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva. Talvolta era così felice da toccare il cielo e da trasfigurarsi. Altre volte piangeva per l’incomprensione o perché non sentiva i suoi amici appoggiarlo o capirlo. Gesù non voleva che nessun uomo si reprimesse o vivesse la sua vita al di sotto delle sue possibilità. Gesù voleva e diceva a tutti che molti mali possono essere guariti, che tante infermità del cuore e dell’anima possono essere risanate, perché noi viviamo e siamo fatti per la felicità profonda e vera. Gesù voleva che fossimo umani; che non c’è niente di ciò che viviamo che sia indegno agli occhi di Dio, da nascondersi; che davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere.
Questa è la religione di Gesù. È questa religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, mai distrutta. Infatti, non solo Gesù è risorto, ma con lui anche la sua religione. E quando il venerdì santo andremo a baciare la croce, andremo a baciare questa religione, cioè, la religione di Gesù, la religione della vita, dell’amore, della verità. Andremo a baciare la croce perché, nonostante tutto, la religione di Gesù non è stata sconfitta: Dio, risorgendo suo Figlio, ha dimostrato che questa è l’unica e vera religione. Ciò che viene da Dio non può morire. Può essere perseguitato, ucciso, deriso, umiliato, annientato, ma non può morire. Dio è l’unica realtà. Chi si affida a Lui, non muore mai.
“Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo”. (Mt 27,55)
Sotto la croce ci sono anche delle donne che guardano da lontano: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Come mai ci sono solo queste poche donne a stare con Gesù? Gli uomini dove sono? Dove sono gli apostoli, i suoi amici più fedeli? È un caso che le prime testimoni della resurrezione, in tutti i vangeli, siano delle donne? Non è forse un messaggio molto forte per noi uomini? È la donna, la parte femminile di ogni persona, che può cogliere, che può comprendere a fondo la resurrezione. Chi non conosce la tenerezza, l’amore, l’affetto, lo stupore, il pianto, i sentimenti, la disperazione, il dolore, l’impotenza, la paura, non può “vedere” nessun Gesù. Solo chi conosce la vita, chi la vive, chi la sente, come una madre; solo chi conosce quanto sia doloroso partorire, far nascere la vita; solo chi conosce l’amore viscerale, profondo, gratuito, chi lo sa provare nel suo cuore, solo costui potrà “vedere” il risorto; solo costui potrà capire che la vita non ha fine, e che l’amore è più forte di tutto.
“Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù” (Mt 27,57).
È un uomo membro autorevole del sinedrio, quindi, complice della morte di Gesù. D’altra parte, però, è un simpatizzante di Gesù, è uno che sogna, che ha desideri grandi, uno che sa che in quell’uomo è stata compiuta un’ingiustizia, uno che amava e intuiva la verità della sua pretesa, tanto che va a prenderne il corpo. È l’uomo che non ha saputo schierarsi quand’era il momento. L’uomo che ha preferito rimanere membro autorevole del sinedrio. Non si è compromesso. Ed ora, ora che non può fare più nulla, va coraggiosamente da Pilato a chiedere il corpo. Ora si rende conto di tutto, e offre la sua tomba. Ora vive il peso del rimorso per non aver osato, forse, a far di più. Ora abbandona ogni compromesso, ogni equilibrio e si schiera apertamente. Ora si mette apertamente dalla parte di Gesù. Perché ogni volta che non ci schieriamo, ogni volta che non prendiamo una posizione per paura di comprometterci, come Giuseppe d’Arimatea, ci rendiamo colpevoli di ciò che accade, ci riempiamo di sensi di colpa e di rimorsi per ciò che avremmo dovuto fare e che non abbiamo fatto. Dobbiamo prendere sempre una posizione. Dobbiamo schierarci, non possiamo essere neutrali, con un piede su due staffe. Dobbiamo fare la nostra scelta.
“Lì, sedute di fronte alla tomba, c’erano Maria di Magdala e l’altra Maria” (Mt 27,61).
L’amore non si arrende, l’amore non può credere alla fine, alla morte. Chi vive nell’amore conosce l’eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l’amore conosce l’eternità. L’amore vuole il “per sempre”. 
Queste donne non si arrendono all’evidenza dei fatti perché conoscono l’evidenza del cuore, dell’anima, della vita e di Dio. E proprio per questo sperare al di là di ogni speranza, per questo credere al di là di ogni ragionevole credenza, per questo amare al di là della fine, proprio loro, saranno le prime testimoni della resurrezione. 
Avevano visto bene: l’amore è il più forte. Amen.



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