«Pilato, visto che non otteneva
nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani
davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci
voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri
figli». Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare
Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso» (Mt 26,14-27,66.
La
Passione di Gesù è la storia di un uomo perdutamente innamorato di Dio e degli
uomini. Talmente innamorato, da accettare la morte come estrema conseguenza. Gesù
era innamorato dell’uomo, perché vi trovava lui l’espressione più profonda
dell’amore di Dio.
Un
amore, una compassione, che ritroviamo nel suo animo quando proclama le
Beatitudini: è in esse che egli rivela lo stupore di fronte agli uccelli del
cielo e ai gigli del campo; è qui che emerge la sua pietà verso i malati, la sua
tenerezza nei confronti delle madri e dei padri che hanno perso i loro figli, il
suo ardore contro i farisei e gli scribi ipocriti, la violenza con cui scaccia
i venditori dal tempio di Gerusalemme.
Nel
racconto della Passione questo amore e questa passione sono la forza, la scelta
di percorrere fino in fondo il suo cammino nella fedeltà al suo cuore, alla sua
anima e al suo Dio. Tutta la sua vita è stata vissuta con passione, con
intensità, amando, piangendo, commovendosi, non passando indifferente vicino a
niente, infuocato ora dall’amore e ora dallo sdegno. Una vita vibrante,
appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare guardando
fiducioso al suo Dio. Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo
e per tutto ciò che vive, e soprattutto alla sua unica e vera passione: Dio.
È in
lui, nel racconto della sua passione, che possiamo anche noi ottenere la forza
per compiere il nostro viaggio, fino in fondo, per vivere con impegno la nostra
vita. In tutti i personaggi che incontreremo, possiamo specchiarci per capire
come noi in concreto viviamo la vita di ogni giorno, con quali atteggiamenti
interiori, con quale fiducia o paura. In essi possiamo rivederci e ritrovarci, possiamo
capire meglio, più in profondità, la nostra vita, perché altro non sono che delle
icone profonde che vivono in ogni uomo, in ciascuno di noi.
Seguiamo
il racconto di Matteo, così come ci viene proposto oggi dalla liturgia:
“Tennero consiglio per
arrestare Gesù” (26,4).
È la
premessa: sacerdoti e scribi decidono di ucciderlo: il loro è un piano segreto,
nessuno deve conoscerlo; è un progetto che deve essere attuato nel più stretto
riserbo. Il male infatti ama nascondersi, ama mimetizzarsi, ama l’inganno, la
finzione. Il male si insinua pericolosamente nella nostra vita e nel mondo, e
noi non ce ne accorgiamo. Il male manipola le notizie, gestisce le
informazioni, falsifica la realtà e nessuno più ci fa caso, nessuno se ne
accorge; è un fenomeno che non interessa più a nessuno. Il Figlio di Dio è
stato condannato e ucciso come un truffatore, tutto su di lui è stato pianificato,
costruito con menzogne e falsità. È successo tanti secoli fa, ma continua a succedere.
E oggi siamo noi, gli eruditi, i colti, i grandi affabulatori, che travolti
dalla nostra bieca ignoranza, non ci rendiamo conto che la piaga malefica della
infedeltà, della miscredenza, della falsità, dell’egoismo, che ormai ha già infettato
clero e fedeli, ha dichiarato una guerra senza quartiere contro l’intera
comunità cristiana, intossicando, soffocando subdolamente, ma mortalmente, la
fede vera e cristallina della Chiesa.
“Uno dei Dodici, chiamato Giuda
Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: Quanto volete darmi perché io
ve lo consegni?. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento” (Mt 26,14).
Come è
possibile che uno di quelli che seguono Gesù, che lo amano, arrivi a tradirlo?
Come è possibile che uno di quelli che per Lui hanno lasciato tutto, lo consegni
in mano ai nemici? Rimane un mistero. Eppure, cosa si arriva a fare per denaro!
Quanto pochi sono quelli che non si vendono! Per denaro arriviamo a svendere ciò
che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante, il nostro cuore,
la nostra anima, il nostro tempo, l’affetto dei nostri cari. E quando abbiamo
perso tutto per quattro soldi, cosa ci rimane? Finire come Giuda, che disperato
s’impicca. Il denaro è un’illusione affascinante che quando ci accorgiamo che, pensando
di aver tutto, di poter tutto, in realtà, non abbiamo nulla, ci conduce alla
disperazione: non abbiamo amato, non abbiamo vissuto, abbiamo solo inseguito un’illusione,
un’apparenza, un sogno. È la nostra morte.
“Dove vuoi che prepariamo per
te, perché tu possa mangiare la Pasqua? (Mt 26,17)
Gesù,
come ogni buon ebreo, ogni anno celebra la Pasqua. Tutto si svolge secondo lo
schema solito, rituale. Da tanti anni, fin da quando erano bambini i Dodici
avevano celebrato così la “Pasqua”, il passaggio del Mar Rosso, la liberazione
dalla schiavitù. Ma adesso Gesù aggiunge alla preghiera due frasi: “Prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue, il sangue versato
per molti per il perdono dei peccati”. Gesù si chiede il senso della sua
vita, di ciò che ha detto e di ciò che ha fatto. Tutto sembra crollare,
svanire, dissuadersi. Cosa rimane? Che senso ha la sua vita? Gesù si identifica
nel popolo ebreo: lui è solo, reietto e perseguitato come il popolo ebreo in
Egitto. Lui è pieno di angoscia per quel passaggio. Gli sembra che tutto sia
finito, che il mare della morte sia invalicabile, come il Mar Rosso per gli
ebrei. Lui è quell’uomo che vaga nel deserto, tra pericoli, serpenti, nemici, e
che crede in una terra promessa che Lui chiama “regno di Dio”. Lui è quel Mosè
che celebra la Pasqua. Lui è quel Mosè che invita gli uomini a credere in un
regno davvero diverso, nuovo, inaspettato, e che per questo si prende tutto l’odio
e la rabbia degli uomini. Ma adesso con l’immagine del pane e del vino, Gesù fa
della sua vita un dono. Gesù dice: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato.
Sono io quel vino che viene versato. La mia fedeltà mi sta portando verso questa
estrema conseguenza della mia vita. Ma se deve succedere così, perché non può
compiersi come il morire del grano del campo, come il morire dell’uva sui
colli, che nella morte ringiovaniscono e nel morire risorgono? Desidero che la
mia vita sia come il grano, che si dona e diventa alimento, vita, per molte
persone. Desidero che dal mio morire, che dal mio andare fino in fondo, altri
gustino la vita. Desidero che la passione della mia vita, il vibrare del mio
cuore, il fluire del mio sangue, siano ebbrezza, gusto, fuoco per altre
persone. Vorrei essere per tutti voi un po’ di pane e un po’ di vino. Vorrei
che la mia vita, che sta per finire, diventasse per voi e per il mondo
alimento, vita, sapore, gusto, senso e felicità”.
Cosa
poteva donarci di più Gesù? Gesù non ci ha donato solo delle belle parole, dei
bei miracoli, dei bei discorsi. Gesù si è donato lui stesso a noi. Questo è il
vertice della vita. L’amore è donarsi. L’amore vuole darsi e darsi del tutto,
fino alla fine, completamente. La vita che c’è in noi vuole darsi fino a
viversi tutta. In ogni eucaristia noi celebriamo questo: l’eucaristia è un
amore donato. E in ogni amore donato noi celebriamo un’eucarestia.
“Pietro gli disse: «Se tutti si
scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai. Gli disse Gesù: In verità
io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre
volte” (Mt 26,33-34).
A
Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo poteva cantare perché era proibito dai
rabbini tenerli. Forse, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il punto!
Pietro è Cèfa, la roccia; è l’uomo che ostenta sicurezza; è l’uomo istintivo, d’azione,
un uomo che, dice lui, non ha paura. Ma non è che Pietro non abbia paura;
Pietro non la sente, la reprime, la ignora. Pietro rappresenta la nostra
rettitudine morale, religiosa, il nostro credere di essere fedeli, la nostra
esuberanza che ci fa dire: “Queste cose non potranno mai capitare a me!”.
Pietro rappresenta la banalità con cui la gente si conosce, un idealismo e una
superficialità che si dissolve di fronte alla vita. Gesù perdona Pietro prima
ancora che lo tradisca. Come a dire: “Pietro non presumere troppo da te. Sii
cosciente di ciò che sei. Sii cosciente che i tuoi alti ideali non sono
radicati nella tua anima”. Dio non ci chiede di essere perfetti; ci chiede solo
di essere umani, consapevoli di ciò che abbiamo dentro, dei nostri sentimenti,
delle nostre paure e delle nostre fragilità. Perché ogni volta che presumiamo
di noi allora, anche noi, spinti dalle nostre paure inconsce lo tradiremo. E
non ci accorgeremo dei nostri tradimenti!
Pietro
di fronte al pericolo si defila. Egli, come primo papa, rappresenta la chiesa, noi
cristiani. Finché le cose vanno bene, tutto è facile, seguire Gesù è un piacere.
Finché predicava, finché guariva, erano in tanti a seguirlo. Qualche giorno
prima era entrato a Gerusalemme tra canti, palme e ulivi. Ma adesso? Quando c’è
da mettersi in gioco, da mettere in gioco quello che siamo, da cambiare, da
convertirci, da trasformarci, quando c’è il pericolo delle proprie scelte,
allora la chiesa rischia di agire come Pietro: rinnegare la verità, far finta
di niente, tradire la strada giusta. Quante volte imprechiamo, spergiuriamo,
quante volte ci difendiamo con tutte le forze e ci ribelliamo, quando seguire
Gesù è pericoloso, è compromettente, è doloroso, è controcorrente! Quando Gesù
ci chiama a testimoniare di persona, con la nostra vita, allora è troppo facile
tirarsi indietro! È troppo facile nascondersi dietro le parole, campare delle
scuse! E il gallo? Il gallo è la voce della coscienza che richiama Pietro: una,
due, tre volte. È la voce della coscienza che ci urla: “Come fai a nasconderti,
a tirarti indietro, a rinnegarlo per paura? Che uomo sei? Sei un vigliacco! E ancora:
“Sii fedele a te stesso, al tuo cuore, alla tua vita!”.
“Padre mio, se è possibile,
passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39).
Con
queste parole Gesù affronta la sua sofferenza. Non gli sarà tolta: niente
esternamente cambierà. Ma tutto sarà diverso, perché adesso c’è una preghiera,
un senso su ciò che sta per accadere. Gesù avrebbe potuto fuggire, ma decide di
andare fino in fondo alla sua missione. Gesù non viene descritto come lontano
da Dio, senza la fiducia in suo Padre. Anzi, Gesù lo prega. C’è molta
comunicazione tra lui e suo Padre. Matteo descrive la paura di Gesù, che è
terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere. È l’angoscia di
finire nel nulla. È l’angoscia della lotta per la vita. È l’angoscia per un
supplizio che gli si prospetta terribile, l’angoscia per sentirsi tradito, la paura
del fallimento. Gesù continua ad essere in comunicazione con Dio, ma dall’altra
parte tutte le paure, tutti i mostri interiori si materializzano.
Da
questo momento, per vivere come Gesù, ci dovremo confrontare con la paura della
morte, della fine, del fallimento. Chi ha paura di morire ha paura di vivere.
Per vivere bisogna aver guardato in faccia la paura della morte, esserci
entrati dentro, averla affrontata e aver trovato ancoraggi più profondi.
“Poi venne dai discepoli e li
trovò addormentati” (Mt 26,40).
In
queste parole c’è tutta la solitudine di Gesù. Nessuno dei suoi amici, neppure
i più intimi, riescono a stargli vicino. Dormono. Cioè, non capiscono, non
colgono l’importanza, il dramma, lo sgomento di quanto Gesù prova nel suo
intimo più profondo. Vivono in superficie, non si accorgono di ciò che sta
accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, sono così presi dalle loro cose,
che non “vedono” la tragedia che sta per compiersi. Come si fa a dormire, ad
essere tranquilli in momenti simili? Bisogna proprio essere completamente assenti!
Gesù, quasi umilmente, chiede loro: “State con me; ho paura, so che non potete
far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono. Gesù si
accorge che non può contare su nessuno. È solo. Tutti lo hanno abbandonato o
dormono. Nessuno gli è vicino; nessuno lo capisce; nessuno lo consola. Eppure
un giorno Gesù si “manifesterà” a questi suoi amici che lo stanno tradendo; si
consegnerà a loro, non smetterà mai di credere nella loro bontà, nella
possibilità di fare il bene, di vivere la verità, la libertà. Gesù ha fiducia
in questi suoi amici. L’uomo, nel profondo, è buono; l’uomo nel profondo ama la
verità, la libertà, la vita. E se può vincere le sue paure e la sua angoscia,
vivrà senza tradire la sua vita. Gesù “vede” tutto questo: adesso lo
tradiscono, ma lui vede “oltre”, più in profondità.
“Mentre ancora egli parlava,
ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e
bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo” (Mt 26,47)
Osserviamo
semplicemente come si scagliano contro Gesù. Va da lui “una folla con bastoni e
spade”. Giuda, uno degli apostoli, lo bacia e lo tradisce, chiamandolo “Rabbì,
maestro”. Gli mettono “le mani addosso e lo arrestano”. Tutti i suoi lo abbandonano,
fuggono.
È l’infamia,
è il giudizio della folla, della gente; del detto per sentito dire; di chi
attacca per cose riportate da altri; del “perché sembra”, del “perché qualcuno
ha detto”. È l’infamia di chi ferisce e bastona senza motivo. È la falsità di
chi ci sembra amico. Di chi ci bacia (certi baci sono proprio come quelli di
Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa, e poi ci pugnala alle spalle. È
la meschinità di quanti nel pericolo si defila, se ne va: “Si arrangi, non sono
affari miei”.
“I capi dei sacerdoti e tutto
il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a
morte; ma non la trovarono… (Mt 26,59-60).
I capi
del sinedrio e i sacerdoti cercano, e non li trovano, motivi per metterlo a
morte. Molti riportano testimonianze contro di lui, ma sono così false e
distorte dalla verità, che non concordano. Alla fine trovano qualcosa, un futile
motivo, un “si dice”, per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio,
la rabbia, scoppia, esplode in una aggressività che giudica, che vuole colpire,
ferire, punire. Non importa chi abbiamo di fronte; non importa cosa abbia detto
o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia allora dobbiamo trovare
qualcuno da infangare con il nostro male. Allora non esiste più l’altro nella
sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo l’odio che esplode, che giudica,
che uccide. Quante persone insultano, schiaffeggiano, sputano addosso agli altri
tutto il loro male profondo. Non si accorgono che quel male non appartiene agli
altri, non sono gli altri gli artefici, ma soltanto loro stessi: è il loro
male, il loro negativo, il loro marcio. Combattono e condannano negli altri quello
che è il loro male. E così facendo, continuano ad uccidere, a crocifiggere in
nome di una falsa verità.
“Gesù intanto comparve davanti
al governatore [Pilato]” (Mt 27,11)
Gesù è
stato giustiziato dai Romani. Ma quale ruolo hanno avuto nella morte di Gesù?
Difficile dire quanto Pilato abbia realmente influito. Egli comprende molto
bene la forza, la rettitudine, la profondità dell’Uomo che ha davanti, come
pure l’inganno odioso che sinedrio e sacerdoti del tempio stanno per tendergli.
Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui gliel’hanno consegnato. Potrebbe
lasciarlo andare. Lui potrebbe farlo. È lui che può decidere per la vita o per
la morte di Gesù. Fa pure un debole tentativo: “Volete che vi rilasci il re dei
Giudei?”. Ma conosce già la risposta: altrimenti perché glielo avrebbero
consegnato?
A
questo punto cerca di placare la sua coscienza: “Non sono responsabile di
questo sangue. Pensateci voi!. Ho fatto tutto quello che potevo, di più non posso
fare!”. Prendere le difese di Gesù per lui non è una decisione politicamente sensata.
Equivarrebbe mettersi contro le autorità e la gente, e questa non è una soluzione
saggia. Unica alternativa è accontentarli. E lo fa. Del resto, la cosa che più gli
sta a cuore è il potere, aver meno problemi possibili, e soprattutto non compromettere
i rapporti politici già difficili. Pilato sembra comandare, essere il potente,
e invece è intrappolato nel gioco del consenso, dell’approvazione, del
successo, del possesso, del rimanere al potere. Sembra comandare, sembra essere
il re, e invece Matteo ce lo rappresenta come un incapace, uno che non può
agire autonomamente. Al contrario il vero re è Gesù: è Lui l’uomo libero dalla
paura della morte, del giudizio, dell’apparire. Pilato, invece, non può
deludere Roma; non può manifestare il suo dissenso; non ha il coraggio di
prendere una posizione chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo
che si omologa immediatamente assecondando tutti, andando dove vanno tutti. E
si crede il re. Si crede il governatore, crede di avere il potere. Ma quale
potere?
“Lo spogliarono, gli fecero
indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela
posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra…” (Mt 27,28-29).
Gesù
non solo è condannato, torturato, flagellato, ma è anche umiliato, deriso e
svergognato. Cosa si poteva fargli ancora? Lo rivestono di porpora, gli mettono
una corona di spine per dirgli: “Oh, guarda il re d’Israele; non sei il figlio
di Dio? Dì a tuo Padre che venga ad aiutarti”. Lo percuotono, gli sputano
addosso, si inchinano e lo prendono in giro. Poi lo conducono sulla via della
croce. Ma cosa è davvero più orribile: stare là nudi, esposti, essere sputati,
frustati come un cane, picchiati, esposti al ludibrio di tutti come uno
zimbello, oppure è più terribile comportarsi da torturatori, vivere una vita
falsa, una vita di illusioni, sotto la spinta dell’angoscia, della dipendenza,
della paura? È più terribile soffrire ingiustamente o vivere e continuare a “sputare”
giudizi crudeli, rovinare tutto il nostro male addosso agli altri? È più
terribile vivere una vita autentica anche se conquistata nel dolore e nella
sofferenza o lasciarsi vivere, vivere una vita senza senso, nella difensiva,
nella paura? È più terribile osare, rischiare di perdere la vita, ma vivere,
oppure non vivere mai per paura di perderla?
“Gesù di nuovo gridò a gran
voce ed emise lo spirito” (Mt 27,50).
Guardiamo
la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno anche noi, di stare lì
vicino per entrare nel suo mistero. Qual’e il senso della croce, della
crocefissione e della morte di Gesù?
Dio
viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte le speranze di chi aveva
lottato con lui, di chi aveva coltivato il desiderio e l’attesa di qualcosa di
nuovo, di diverso, di vero, per se stesso e per questo mondo. Cos’avranno
vissuto le persone che Gesù aveva guarito? Cos’avrà vissuto la Maddalena, Zaccheo,
i sordi che tornavo a sentire, i muti che tornavano a parlare, i ciechi che
tornavano a vedere, i morti che tornavano a vivere? Cos’avranno vissuto, cos’avranno
provato nel vedere colui che aveva loro dato la vita, è ora appeso, attaccato,
come il peggiore dei farabutti, ad una croce? Sapere che quell’uomo è veramente
Dio, che quell’uomo è venuto in nome della verità, che quell’uomo parla perché
ispirato da Dio, e vederlo in croce: cosa si prova? Dove finiscono tutte le
nostre sicurezze? Cosa si può provare nel vedere chi si ama appeso ad una
croce?
Di chi
è la colpa della morte di Gesù? Di nessuno, è chiaro! Tutti avevano buoni
motivi: Caifa, la necessità storica; Pilato la ragion politica; Pietro, la sua
sopravvivenza; i sadducei, la legge; i farisei, la religione; le persone
rispettabili, la morale; i soldati, l’obbedienza. Ognuno aveva i suoi validi
motivi, ma erano sufficienti? O non era un tentativo di tranquillizzare la
propria coscienza? Di lavarsene la mani?
La
croce è l’abbandono totale di Gesù nelle mani del Padre e della vita. Quando,
cioè, viviamo l’esperienza dell’impotenza, del non poter fare più nulla per noi,
dell’affidarci a Qualcosa o a Qualcuno. Viene un momento in cui più niente, né
noi, né altri, possiamo agire. Allora dobbiamo solo lasciarci andare, fidarci,
rimetterci. È quando più niente è sicuro ma tutto vacilla: la vita, la fede, l’esistenza
stessa di Dio. Smettiamo di voler capire, di voler sapere, di trovare ragioni o
giustificazioni, e semplicemente ci abbandoniamo.
La
croce è lo scontro fra due religioni: quella di Gesù è quella degli ebrei. La
religione dei farisei e degli scribi è la religione della forma, della maschera,
in cui contano i grandi numeri, l’istituzione, l’ordinamento, l’obbedienza. Non
importa se le leggi distruggono le persone, se le appesantiscono di sensi di
colpa o di fardelli insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto
ossequioso alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la
vita; dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle
donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso,
prostituta o pagano che fosse, perché tutti per lui erano figli dell’unico
Padre. Gesù non faceva molti sacrifici, non digiunava, non si comportava
scrupolosamente rispetto alle regole. Era molto libero, mangiava e banchettava
spesso, faceva festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva che il vero
sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era “fare qualcosa”, ma fare
della propria vita “qualcosa di vero”, di importante e di significativo. Non
reprimeva l’amore, il contatto con le donne, gesti equivoci come le donne che
lo accarezzavano, che lo baciavano. Gesù piangeva. Gesù si arrabbiava. Come era
dentro, così era fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva. Talvolta era così
felice da toccare il cielo e da trasfigurarsi. Altre volte piangeva per l’incomprensione
o perché non sentiva i suoi amici appoggiarlo o capirlo. Gesù non voleva che
nessun uomo si reprimesse o vivesse la sua vita al di sotto delle sue
possibilità. Gesù voleva e diceva a tutti che molti mali possono essere
guariti, che tante infermità del cuore e dell’anima possono essere risanate,
perché noi viviamo e siamo fatti per la felicità profonda e vera. Gesù voleva
che fossimo umani; che non c’è niente di ciò che viviamo che sia indegno agli
occhi di Dio, da nascondersi; che davanti a Dio possiamo presentarci per quello
che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere.
Questa
è la religione di Gesù. È questa religione che hanno tentato di crocifiggere,
di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta,
ignorata, mai distrutta. Infatti, non solo Gesù è risorto, ma con lui anche la
sua religione. E quando il venerdì santo andremo a baciare la croce, andremo a
baciare questa religione, cioè, la religione di Gesù, la religione della vita,
dell’amore, della verità. Andremo a baciare la croce perché, nonostante tutto,
la religione di Gesù non è stata sconfitta: Dio, risorgendo suo Figlio, ha
dimostrato che questa è l’unica e vera religione. Ciò che viene da Dio non può morire.
Può essere perseguitato, ucciso, deriso, umiliato, annientato, ma non può
morire. Dio è l’unica realtà. Chi si affida a Lui, non muore mai.
“Vi erano là anche molte donne,
che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per
servirlo”. (Mt 27,55)
Sotto
la croce ci sono anche delle donne che guardano da lontano: Maria di Magdala,
Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Come mai
ci sono solo queste poche donne a stare con Gesù? Gli uomini dove sono? Dove
sono gli apostoli, i suoi amici più fedeli? È un caso che le prime testimoni
della resurrezione, in tutti i vangeli, siano delle donne? Non è forse un
messaggio molto forte per noi uomini? È la donna, la parte femminile di ogni
persona, che può cogliere, che può comprendere a fondo la resurrezione. Chi non
conosce la tenerezza, l’amore, l’affetto, lo stupore, il pianto, i sentimenti,
la disperazione, il dolore, l’impotenza, la paura, non può “vedere” nessun
Gesù. Solo chi conosce la vita, chi la vive, chi la sente, come una madre; solo
chi conosce quanto sia doloroso partorire, far nascere la vita; solo chi
conosce l’amore viscerale, profondo, gratuito, chi lo sa provare nel suo cuore,
solo costui potrà “vedere” il risorto; solo costui potrà capire che la vita non
ha fine, e che l’amore è più forte di tutto.
“Venuta la sera, giunse un uomo
ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di
Gesù” (Mt 27,57).
È un
uomo membro autorevole del sinedrio, quindi, complice della morte di Gesù. D’altra
parte, però, è un simpatizzante di Gesù, è uno che sogna, che ha desideri
grandi, uno che sa che in quell’uomo è stata compiuta un’ingiustizia, uno che
amava e intuiva la verità della sua pretesa, tanto che va a prenderne il corpo.
È l’uomo che non ha saputo schierarsi quand’era il momento. L’uomo che ha
preferito rimanere membro autorevole del sinedrio. Non si è compromesso. Ed ora,
ora che non può fare più nulla, va coraggiosamente da Pilato a chiedere il
corpo. Ora si rende conto di tutto, e offre la sua tomba. Ora vive il peso del
rimorso per non aver osato, forse, a far di più. Ora abbandona ogni
compromesso, ogni equilibrio e si schiera apertamente. Ora si mette apertamente
dalla parte di Gesù. Perché ogni volta che non ci schieriamo, ogni volta che
non prendiamo una posizione per paura di comprometterci, come Giuseppe d’Arimatea,
ci rendiamo colpevoli di ciò che accade, ci riempiamo di sensi di colpa e di
rimorsi per ciò che avremmo dovuto fare e che non abbiamo fatto. Dobbiamo prendere
sempre una posizione. Dobbiamo schierarci, non possiamo essere neutrali, con un
piede su due staffe. Dobbiamo fare la nostra scelta.
“Lì, sedute di fronte alla
tomba, c’erano Maria di Magdala e l’altra Maria” (Mt 27,61).
L’amore
non si arrende, l’amore non può credere alla fine, alla morte. Chi vive nell’amore
conosce l’eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando
tutto sembra finito, l’amore conosce l’eternità. L’amore vuole il “per sempre”.
Queste donne non si arrendono all’evidenza dei fatti perché conoscono l’evidenza
del cuore, dell’anima, della vita e di Dio. E proprio per questo sperare al di
là di ogni speranza, per questo credere al di là di ogni ragionevole credenza, per questo amare al di là della fine, proprio loro, saranno le prime testimoni
della resurrezione.
Avevano visto bene: l’amore è il più forte. Amen.
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