martedì 18 aprile 2017

23 Aprile 2017 – II Domenica di Pasqua

«Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20,19-31).

I discepoli, dopo la morte di Gesù, praticamente si sbarrano all’interno del cenacolo. Sono in preda al terrore, al panico più totale: quelle “porte chiuse” del vangelo, testimoniano molto bene la loro decisione di isolarsi dal mondo. Hanno paura di tutto e di tutti, perfino di Gesù; sembra quasi che non ne vogliano più sentir parlare, vogliono allontanare qualunque possibilità di finire anch’essi condannati come suoi sostenitori. Hanno insomma deciso di dimenticare tutto, di fare ritorno quanto prima in Galilea, alla normalità di tutti i giorni. Certo, con Gesù in vita, le cose erano ben diverse, lui era un trascinatore, un leader, con lui non c’era problema senza una pronta la soluzione: era un piacere seguirlo, ma ora che lui non c’è più, meglio tornare a casa!
Sono demotivati, non hanno più il coraggio, la volontà, l’entusiasmo di buttarsi nella mischia, di lottare per i loro ideali. Sono come tanta gente di oggi che, piuttosto di impegnarsi, preferisce abbandonare la fede.
Non sono persone particolarmente contrarie all’idea di Dio, in fondo sarebbero anche disponibili a conoscerlo, a farlo entrare nel loro intimo; intuiscono che Dio non può essere un nemico, uno che viene per uccidere, per condannare, per fare del male. Ma sanno anche cosa significhi accettarlo, aprirgli le porte: “Se lo facciamo entrare - pensano – dobbiamo rinunciare a troppe comodità, ci mette di fronte alle nostre responsabilità, a come siamo realmente, ci toglie tutte le nostre belle maschere, le nostre incrostazioni, tutte le false illusioni che ci siamo costruite. Molto meglio seguire una religione più tranquilla, una che non crei problemi; è preferibile stare lontani da un Dio così esigente”. È il classico pensiero del codardo, di colui che evita qualunque coinvolgimento, che detesta ogni impegno oneroso. Non hanno capito che incontrare Dio è invece la cosa più bella della vita: perché Lui stesso è la Vita, Lui è l’unica Via da percorrere, Lui l’amore che ci nutre; ma Lui è anche la Verità unica e intera: e questo sicuramente crea dei problemi, presuppone una vita senza inganni, senza scorciatoie. In pratica non rifiutano Dio, ma rifiutano l’incontro con la Verità.
Quante volte noi stessi chiudiamo la porta del nostro cuore, fingiamo che tutto vada per il meglio, quando sappiamo che non è vero, che dietro la porta che abbiamo chiuso c’è tanto dolore, tanta amarezza, tanta inquietudine; sappiamo di essere sempre più spesso arrabbiati, bui, acidi, nervosi; di non riuscire più a lasciarci andare, a gioire, ad emozionarci; siamo consapevoli, insomma, che in noi c’è qualcosa di vitale che non funziona. Diamo la colpa allo stress, al troppo lavoro, al nostro partner, ai figli che ci stanno sempre “addosso”; ogni scusa è buona, ma noi, nel profondo, conosciamo la verità: sappiamo bene che il vero problema è un altro; sappiamo bene che per individuarlo, dovremmo far luce in noi; sappiamo bene che dovremmo avere l’umiltà di fermarci, di ascoltarci, di aprire quella porta che teniamo gelosamente sbarrata; sappiamo bene che dobbiamo entrare dentro di noi e fare un’accurata pulizia della mente e del cuore. Lo sappiamo: ma abbiamo il terrore di aprirla, perché sappiamo fin troppo bene cosa rinchiude; e questo ci provoca tanta confusione e vergogna di noi stessi!
Del resto chi non avrebbe paura in una situazione del genere? Chi oserebbe spalancare la propria porta per far esplodere quella Luce che, illuminando impietosamente ogni angolo nascosto, ci metterebbe di fronte alle nostre miserie, costringendoci a dover riprogrammare la nostra vita partendo dalle fondamenta? Chi non proverebbe timore e vergogna se Dio entrasse improvvisamente in noi e ci sbugiardasse davanti a tutti rinfacciandoci la nostra squallida realtà? Sicuramente nessuno; nessuno darebbe il benvenuto ad un Dio così: meglio tenerlo lontano il più possibile. Toccare certi tasti, scendere in certi particolari, ammettere certe libertà che ci siamo prese, è sempre imbarazzante.
Ma non lo è per Dio. Egli non è come ce lo immaginiamo noi: Egli vuol venire, vuole incontrarci, vuole mettere fine alle nostre paure. Ci invita a spalancare ciò che abbiamo chiuso, sbarrato, messo sotto chiave; ci invita a togliere la grossa pietra che blocca l’ingresso alla nostra coscienza, alle nostre stanze buie; ci invita ad uscire dal nostro isolamento, a smettere di nasconderci, di ripiegarci in noi stessi nell’assurdo tentativo di proteggerci, non per metterci in difficoltà, non per umiliarci, ma per darci fiducia nella sua misericordia: “Pace a voi!”, esclama entrando. “Pace a te, proprio a te che hai tanta paura! Sii tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare; sono io, l’Amore, non temere, non aver paura”. Che aspettiamo allora? Perché rimandare ancora un nostro incontro con Lui?
“Gesù mostrò loro le mani e il costato”. Sono i segni delle sofferenze subite per l’altro che testimoniano l’autenticità di un rapporto: e Gesù con noi è autentico. Ma proprio da qui la nostra paura; perché il primo passo del nostro incontro con Dio è mostrargli le nostre ferite, aprirgli il nostro cuore su tutto ciò che ci fa male, su tutto ciò che volutamente abbiamo scelto per vivere lontani da Lui, e che puntualmente si è rivelato un impedimento per la nostra crescita. Nella nostra “mondanità”, temiamo ancora la ritorsione, il castigo, il rimprovero.
Ancora per questo molte persone continuano a tenersi dentro le loro ferite: preferiscono soffrire pur di non aprirsi con qualcuno, pur di non far trasparire nulla all’esterno. Ma così facendo le piaghe marciscono, diventano cancrena e portano alla morte. Se una ferita non viene curata, medicata, inevitabilmente infetta tutto l’organismo. Molti uomini sono fiumi di sofferenza, pieni di dolore, di rabbia, di lacrime, di rimorsi, di umiliazioni: ma rifiutano caparbiamente di incontrare l’unico Medico, il dispensatore di misericordia, che può guarire qualunque malattia. Invano Egli cerca continuamente di essere persuasivo: “Lo so che hai tanta paura di incontrarmi; lo so che è per questo che ti ostini a chiudere tutte le tue porte. Ma fidati, fammi entrare, non aver paura”. E con tutto il suo amore egli insiste ad abbracciarci, sussurrandoci: “Pace! Sono io!”.
Tommaso, in occasione della prima apparizione di Gesù ai discepoli, è assente: non c’è. Come se non volesse incontrarlo, come se gli resistesse: come se non fosse ancora pronto a farlo entrare nella sua vita.
Tommaso: colui che dubita, colui che non si fida, colui che crede solo all’esperienza personale. Nella nostra vita siamo tutti un po’ il Tommaso della situazione. Anche nella nostra fede: abbiamo bisogno di prove, di riscontri, di verifiche personali; abbiamo le nostre idee, le nostre convinzioni; per noi non è importante ciò che altri provano o sentono in proposito, ma solo ciò che sperimentiamo noi, di persona. Ecco perché è determinante che avvenga un nostro incontro con il Signore: non tanto una teofania solenne, clamorosa, pubblica: è sufficiente un incontro privatissimo, nel silenzio della nostra coscienza, della nostra anima: perché è proprio lì che avvengono gli incontri brucianti e liberanti di Dio; è lì che noi lo riconosciamo, è lì che riusciamo a vederlo, è li che possiamo esprimergli tutta la nostra fede, il nostro amore.
Come per Tommaso anche per noi è essenziale incontrare il Risorto: come per Tommaso anche per noi è fondamentale toccarlo, sperimentarlo, “sentirlo”. L’esperienza dei testimoni, dei santi, della fede altrui, non ci bastano, non ci soddisfano: quello che è decisivo è l’incontro tra noi e Lui. È solo grazie a questo evento privato, a questo momento personalissimo, irripetibile, che riusciamo ad alimentare, a scuotere la nostra fede. Ogni incontro è unico: nessuno in assoluto può averne uno identico. È un’esperienza nostra, un’esperienza che solo noi possiamo fare: non esistono sostituti in questo! Nessuno può gestire la nostra fede, poiché è frutto di un incontro/scontro personale; è una movimentata relazione di amore, di conoscenza, di crescita; maturata nel tempo, mediante incontri, gesti d’amore, cambiamenti, persone, vita. In questo sta la fede: nasce così, si alimenta così.
Quando andiamo a messa, noi andiamo per incontrare Dio, per alimentare la nostra relazione d’amore con Lui. Andiamo cioè per un motivo ben preciso. Molte persone invece dicono: “Io vado quando mi capita, quando non ho nient’altro da fare, quando ne ho voglia”. È strano sentir parlare così, perché se noi amassimo veramente qualcuno, sentiremmo il desiderio irrefrenabile di incontrarlo continuamente: se non sentiamo questa necessità, vuol dire che non amiamo.
Ci sono persone che vanno puntualmente in chiesa, ma non sanno bene neppure loro per quale motivo: il loro cuore, la loro anima, sono assenti; non condividono la preghiera comune, il canto, la lode: non partecipano, non vogliono esporsi, non vogliono lasciarsi coinvolgere. Ma in questo modo non c'è alcuna intimità tra loro e Dio, non lo incontrano, non avviene alcun contatto con Lui. È come se uno andasse dall’amata e non le riservasse alcuna attenzione. Che rapporto sarebbe? Un non rapporto: come quello di certa gente che va in chiesa, ma non ascolta la Parola di Dio, non la sente, la lascia scivolare via, è impermeabile, impenetrabile, corazzata; non sa fare silenzio, ha la testa altrove, in lei non c’è intimità, non c’è profondità, non c’è rispetto, non c’è amore. Si distrae con tutto e tutto la distrae.
Ogni volta invece che andiamo a messa, noi abbiamo bisogno come Tommaso di toccare il Signore, di sentirlo, di sperimentarlo. Abbiamo bisogno di rendere più forte la nostra relazione, abbiamo bisogno che qualcosa di Lui entri in noi, colpisca il nostro cuore, lo disseti, lo appaghi. Come succede in tante persone umili che quando escono dalla chiesa non sanno dire cosa esattamente abbiano vissuto lì dentro, ma dicono: “Sono stato bene! Mi sono sentito a casa mia! Mi sono sentito libero, consolato, incoraggiato, accolto. Sì, l’ho incontrato. Mi sono commosso!”. Sono espressioni semplici, che ci fanno però capire che qualcosa di soprannaturale è realmente accaduto in loro. L’incontro è avvenuto!
Ogni volta che andiamo a messa, dobbiamo mostrare al Signore le nostre mani ferite: sono la parte del corpo che ogni giorno usiamo di più: per scrivere, per lavorare, per pulire, per accarezzare, per guidare, per fare qualunque cosa, noi usiamo le mani. Mostriamo dunque a Dio le nostre ferite quotidiane, i pensieri che ci turbano, le idee ossessive, le paure, i litigi, le incomprensioni, le relazioni stanche, il panico che ci assale, i giudizi della gente; e nel silenzio del nostro cuore ascoltiamo le sue parole: “Pace! Non aver paura; io sono con te; sta’ tranquillo”.
È di questo che noi abbiamo bisogno; ci servono parole come queste; parole che ridiano pace e fiducia al nostro cuore ferito. Abbiamo bisogno di disintossicarci dal male, dall’odio, dal dolore; abbiamo bisogno di riempirci di fiducia, di amore, per poter ogni volta rialzarci e ripartire. Abbiamo bisogno di sentirci dire che ce la possiamo fare, che possiamo vivere, che la nostra dignità, nonostante noi, non è distrutta. Ogni otto giorni, ogni domenica, andiamo dunque in chiesa, a fare esperienza del Signore Risorto. Andiamo ad incontrarlo. Perché una vita senza di Lui non è vita! Amen.



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