Il vangelo di oggi propone alla nostra meditazione l’incontro e il colloquio stupendo tra Gesù e la donna samaritana, avvenuto appunto nella terra pagana di Samaria, durante il suo viaggio di ritorno in Galilea. Ora, per capire bene il comportamento di Gesù, che è giudeo, e quindi “nemico” storico dei samaritani, dobbiamo entrare nella logica e nella mentalità di quel tempo. Egli va infatti contro ogni regola: rivolge cioè la parola ad una samaritana, che era “diversa” per razza, nazionalità e religione (era impensabile e improponibile per i giudei!); oltretutto si ferma a parlare fuori casa con una donna, cosa che equivaleva a farle delle proposte indecenti. Un comportamento che scandalizza anche i suoi stessi discepoli!
Ma Gesù è un uomo libero, e non sono certo i pregiudizi e le maldicenze che lo condizionano nel suo rapportarsi con le persone: lui incontra chiunque ne abbia bisogno, a prescindere da tutto e da tutti: in tutta la sua vita non ha mai detto “Questo si perché è ricco, nobile, potente; questo no perché dicono che è un disonesto (Zaccheo), una donna di malaffare, (l'adultera), un ladro patentato (Matteo Levi); no. Gesù non ha mai fatto questo: egli è fuori da ogni schema: è decisamente agli antipodi di questa mentalità, è scomodo e inopportuno, e soprattutto non rispetta tutte quelle regole rigide, frutto della mentalità ristretta della gente del suo tempo.
Gesù dunque giunge a Sicar. Il viaggio è stato lungo, sotto il sole, ed ha sete: si siede quindi presso il famoso pozzo di Giacobbe, appena fuori della città, per abbeverarsi e trovare un po’ di ristoro.
In quel mentre sopraggiunge una donna, diretta al pozzo per attingere acqua: e qui avviene l'incontro straordinario tra queste due persone, entrambe profondamente assetate: Gesù dell’acqua del pozzo (“Dami da bere”) e la donna dell’acqua soprannaturale dell’amore (“Signore, dammi di quest'acqua”).
I preamboli si svolgono su due piani diversi: la donna che rimane colpita per l’atteggiamento insolito di Gesù, decisamente contrario alle usanze, e Gesù che in pratica le risponde “Tu non sai chi sono io e che genere di acqua straordinaria io posso darti”. La donna ovviamente non comprende, e rimane interdetta: “Ma come, questo giudeo spossato dal caldo e dall’arsura, sprovvisto di qualunque attrezzo per poter attingere l’acqua, lui che chiede a me di dargli dell’acqua per dissetarsi, improvvisamente si dice in grado di “dissetarmi” con un’acqua miracolosa! Mi sta prendendo in giro?”
Ma poi, via via che il dialogo procede, la donna capisce di trovarsi di fronte ad un uomo fuori dal comune: Gesù la porta progressivamente da un punto di vista basato sul materiale, sul pratico, sulla vita vissuta, ad un altro più nobile, basato sul mistero, sul soprannaturale, rappresentato dalla sua stessa persona divina.
Non a caso questo colloquio tra i due avviene in prossimità di un pozzo: il pozzo è infatti simbolo di profondità, costringe a scavare, ad andare dentro a noi stessi per tirare fuori ciò che c'è sotto, ciò che c'è di nascosto. Gesù infatti non fa sconti sulla nostra vita; non ci giudica, non ci condanna: ma vuole che andiamo dentro di noi e che tiriamo fuori dal profondo della nostra anima le cose per come stanno veramente.
D’altro canto la samaritana è una donna decisa: una donna che di suo vuole andare fino in fondo alle cose, tant’è che preferisce essere esclusa, rifiutata dalla società per il suo comportamento anormale, pur di trovare la soluzione al suo malessere interiore, alla sua sete. Lo stesso coraggio che la porta a peccare, adesso l'aiuta a dialogare con quel forestiero, e per giunta giudeo. E proprio in quel dialogo penetra finalmente la Luce: in quella donna - una prostituta senza prezzo, con una lunga lista di uomini alle spalle, alla quale apparentemente non importa assolutamente nulla di Dio, di religione, di preghiera, di adorazione - un raggio improvviso illumina la sua mente, facendole capire in maniera chiara ciò di cui il suo cuore ha veramente bisogno. Sì, perché nel suo cuore, pur impantanato nel peccato, lei è alla ricerca del perché, del come, di cosa sia esattamente ciò che la rende così inquieta! Delle domande senza risposta appesantiscono da tanto tempo la sua anima. Ed ecco, incontrando Gesù, parlando con Lui, la sua mente si spalanca, e Lei scopre finalmente se stessa.
A questo punto si rende conto di essere alla presenza di un uomo eccezionale, perché solo un Profeta, un inviato da Dio, poteva rispondere alle domande più intime del suo cuore: domande che nessun altro, oltre lei, poteva conoscere. Quell’uomo si rivela al suo cuore per quello che Lui è veramente: il Soccorritore, il Salvatore, il Messia, che Dio ha mandato su questa terra in nostro aiuto.
Gesù con lei non fa il moralista: semplicemente la mette di fronte alla sua vita, alla sua verità; la costringe a dirsi tutta la verità, anche se è dura e difficile: “Non ho marito; ho avuto tanti uomini, ma nessuno mi ha mai soddisfatto “dentro”; non mi è mai bastato nessuno, perché nessuno è mai riuscito a placare la mia sete”.
Ecco il primo insegnamento per noi: incontrare il Signore significa dirsi la verità, tutta la verità; significa non mentirsi, non illudersi, non raccontarsi “frottole”.
Succede anche a noi, a volte, di capire che dietro alle nostre convinzioni, al nostro modo di pensare e di agire, c'è qualcosa che non va bene, che ha bisogno di essere esaminato, tirato fuori, portato a galla, per essere corretto, rivisto. In genere però noi non ci spingiamo oltre, perché “è meglio non farsi troppi problemi”. Ma così sopravviviamo; così sfuggiamo alla verità, all'incontro con noi stessi; così sfuggiamo al nostro cuore e a tutto ciò che c'è dentro.
Facendo così viviamo una vita falsa, mascherata, una vita non nostra: esibiamo all’esterno una verità costruita, illudendoci che sia invece quella autentica! Fuggiamo da noi stessi pur di avere una “bella facciata” da mostrare agli altri. Ma vivere una vita non nostra non può che portare inevitabilmente all'insoddisfazione e all'infelicità.
La verità, la sincerità, la retta intenzione, è invece l'unica strada che conduce a Dio; dirsi la verità significa infatti calarci nel profondo di noi stessi, dove Dio vive in noi, e metterci faccia a faccia con lui. Se la donna samaritana infatti non si fosse detta la verità (“sì ho avuto sei uomini ma in realtà sono ancora affamata d'amore”) non avrebbe mai potuto incontrare l'Amore vero, il Signore, colui che sfama ogni sete.
È chiaro che se noi siamo interessati solo al presente, se dobbiamo “difendere” ad ogni costo la nostra posizione sociale, allora è molto difficile, se non impossibile, dirci certe verità. Se la nostra famiglia “deve” essere perfetta, non possiamo ammettere che ci siano dei gravi problemi in casa nostra: e se ci sono, li sminuiamo, li nascondiamo, li seppelliamo. Se dobbiamo difendere la nostra immagine di “brav’uomini” non possiamo certo far capire che siamo in crisi, non possiamo chiedere aiuto, non possiamo ammettere di fare degli errori, non possiamo vederci e farci vedere imperfetti.
Purtroppo, nella vita, le relazioni umane sono sempre imperfette e parziali: noi chiediamo agli altri una comprensione, un’amicizia, un amore, “infiniti”, assoluti, perché abbiamo fame e desiderio di Dio, amore “infinito”; la nostra domanda è sì di “infinito”, ma la risposta che otteniamo è sempre “finita”, limitata, imperfetta. Ci illudiamo che l'altro ci riempia del “tutto”, ma il “poco” che riceviamo ci lascia sempre delusi, scontenti. Il rischio che corriamo, se non ci rivolgiamo al Signore per ottenere il dono dell'acqua viva, è quello di “morire di sete”; ma se egli ci concede questo dono, allora capiamo improvvisamente quanto sia sublime, quanto sia meraviglioso “morire d'amore” per lui. La storia della samaritana è quindi la storia dell’umanità: è la storia di ciascuno di noi. Nel cuore dell’uomo manca infatti un qualcosa che continuamente egli si affanna a cercare: ricordate Agostino? “Il nostro cuore è inquieto, fino a quando non riposa in Te, Signore”. Nel nostro cuore, anche se lontano da Dio, anche se dimentico di Lui, c’è sempre un vuoto a forma di Dio: un vuoto che solo Lui può colmare. Un Dio che ci aspetta pazientemente al nostro “pozzo”: che ci osserva durante il corso della nostra vita; pur essendo nel più alto dei cieli egli continua a guardarci, a seguirci, ad aspettarci. E noi, per quanto insensibili, per quanto distratti, per quanto “uomini duri”, ad un certo punto ci accorgeremo di Lui, capiremo che Lui, nonostante tutto, è sempre stato qui, al nostro fianco; Egli vuole incontrarci personalmente, vuole aiutarci, soccorrerci, dissetarci, perdonarci; è venuto insomma a salvarci.
Non facciamolo “stancare”. Non lasciamolo solo, assetato di noi, seduto ad aspettarci accanto al “pozzo”. Egli, Dio infinito amore, ancora una volta come sulla croce, non si vergogna di manifestarci la sua sete di noi, di chiederci da bere; non si vergogna di essere stanco a causa della nostra “arsura”; non si vergogna di chiederci un po' di sollievo d’amore.
E allora preghiamo: Signore Gesù, se non ti pensassimo, seduto accanto a quel pozzo, stanco per la fatica e per il caldo, forse non avremmo il coraggio di credere in te. Se tu fossi vissuto fra noi sempre fresco e pimpante come i personaggi della pubblicità, con un perenne sorriso “a trentadue denti” stampato sul volto, forse non avremmo il coraggio di accostarci a te, di credere in te. Perché anche noi siamo spesso stanchi: dello studio, del lavoro, degli amici e dei nemici, di chi si comporta male e di chi si comporta bene ma ce lo fa pesare; siamo stanchi di quelli che non sono mai stanchi e di quelli che sono sempre stanchi. Di quelli che ci devono ubbidire, e di quelli che ci comandano. Siamo stanchi, anche se non lo vogliamo ammettere. Per questo, Signore Gesù, noi spesso veniamo vicino a te, vicino a quel tuo “pozzo” e, stanchi, ci sediamo accanto a te sotto il sole di mezzogiorno. E ci sentiamo finalmente rinfrancati, tranquilli, amati.
Signore Gesù, non sappiamo imitarti quando sei in piena forma; ma vicino a quel pozzo, ci sentiamo come te: dacci da bere allora la tua acqua. Amen.
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