«Maestro, è bello per noi
essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc
9,28-36).
I
discepoli non possono assolutamente accettare le parole che Gesù, poco prima
del vangelo di oggi, aveva loro detto: “Amici miei, guardate che mi prenderanno
e mi uccideranno. E a farlo saranno proprio gli scribi, i sommi sacerdoti e gli
anziani. Ma non preoccupatevi perché io, poi, risorgerò”. Non possono
condividere una tale prospettiva, proprio perché le loro aspettative si concentrano
su un Gesù-Messia potente, trionfale, giusto, liberatore.Preannunciare la propria morte, significa per loro evocare lo spettro della fine di ogni aspettativa riposta in lui, decretare il fallimento totale del suo programma.
Di fronte a tanto smarrimento cosa fa Gesù? Prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta in un luogo appartato, su un alto monte. Gesù non è nuovo a tale esperienza: “appartato” in un monte alto, c'era già stato nell'episodio delle tentazioni di domenica scorsa: allora ad isolarlo era stato satana, per tentarlo; ora invece la tentazione gli viene direttamente dai discepoli, che non lo capiscono.
Gesù quindi, volendo smontare qualunque tipo di “tentazione”, approfitta appunto dell’intimità di un luogo solitario e impervio, per chiarire un po’ le idee a questi suoi collaboratori più stretti. E qui essi hanno una visione straordinaria: Gesù è in compagnia di Mosè ed Elia, le due personalità della Scrittura che ogni ebreo di allora considerava come figure di “riferimento” per il futuro Messia. E come se non bastasse, discorrendo familiarmente con Gesù, essi dimostrano di smontare questo loro convincimento, riconoscendo invece a lui importanza e superiorità.
I tre ovviamente rimangono colpiti, rapiti; al punto che Pietro esclama: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia”. Nella foga dell’entusiasmo, Pietro inconsciamente ribadisce il suo convincimento: egli infatti pone Mosè e non a Gesù al centro del trio, posizione riservata di diritto alla figura più importante. Egli rimane cioè della sua idea: “Gesù, tu devi essere come Mosè, è lui il grande riferimento”. Ma la voce di Dio scioglie ogni possibilità di dubbio. Gesù non è il Messia storico, quello tanto atteso da Israele. Gesù non è così: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”.
È Gesù che va ascoltato e non Mosè o Elia, grandi personaggi certo, ma niente in confronto a Lui. È Gesù il criterio di discernimento: Mosè, Elia, Legge e Profeti hanno un senso solo se passano attraverso Gesù. Tutto ciò che non è in sintonia con il messaggio del Cristo non ha alcun valore per la vita del credente.
Gesù in questo modo demolisce le aspettative dei discepoli e della gente: Lui non è come lo volevano; non è il Messia trionfale e forte; Gesù è sì il Messia, ma sofferente e debole. Egli non sterminerà gli operatori di iniquità, non ha vendette da sanare o conquiste da ristabilire; Gesù sarà solo se stesso, sarà Gesù e basta! Non ha paura di esser se stesso, anche se ne conosce bene il costo: l'impopolarità. Ma il beneficio che egli introduce con questo comportamento è la conquista di autenticità, l'essere felici di ciò che si è, la forza di vivere la propria missione dovunque porti, perché questa in definitiva è la nostra chiamata: è di essere noi stessi, di vivere noi stessi; perché è questo che ci dà una vitalità e una forza impagabili. È questo il nostro grande compito. Dobbiamo essere, come Gesù, noi stessi; dobbiamo semplicemente vivere come Lui la nostra parentesi terrena, la nostra vocazione, la nostra missione.
È questo l’unico criterio della nostra realizzazione personale: vivere la nostra “originalità”.
Sì, perché noi siamo unici. È per questo che esistiamo. Se non fosse così non saremmo a questo mondo, perché in tal caso il nostro esserci non avrebbe alcun senso. Le fotocopie umane non esistono; Dio fa nascere solo pezzi unici, il resto non serve.
Purtroppo però la maggior parte di noi tende a conformarsi agli altri, a fare e a pensare come tutti. Il pretesto è comprensibile anche se non condivisibile: “Solo se mi comporto come tutti gli altri sarò rispettato e accettato; in caso contrario sarò emarginato, estromesso dal gruppo”.
È il classico comportamento degli insicuri, dei bambini. Un bambino non può permettersi di essere cacciato dalla propria famiglia, dalla propria mamma: ne morirebbe. Quindi non gli rimane che adeguarsi. Ma noi, fratelli,non siamo più bambini. Siamo grandi, siamo adulti e siamo qui in questo mondo per vivere convintamente il nostro “mandato”, per compiere la nostra missione e far emergere la nostra originalità, la nostra unicità: sul modello di Gesù, che fu davvero unico, diverso da tutti, “fuori” da ogni schema umano: perché chi segue Dio, non segue nient’altro.
Gesù dunque, sul monte della trasfigurazione, prende ufficialmente coscienza di avere una missione grande: più grande di quelle di Mosè e di Elia. Gesù capisce di avere la forza di Mosè e l'ardore di Elia; sente di non essere come loro, pur avendo qualcosa in comune come loro.
I Vangeli pongono tutti la trasfigurazione tra il primo e il secondo annuncio della passione. Non è un caso. Chiediamoci allora: “Perché Gesù è andato comunque a Gerusalemme?”. Egli sapeva benissimo cosa lo aspettava lì; se rimaneva in Galilea, invece, non avrebbe rischiato nulla. Perché “ha dovuto” andare a Gerusalemme? La risposta è una soltanto: “Era la sua missione. Lui doveva andare a Gerusalemme perché doveva annunciare proprio lì, nel centro religioso del suo tempo, quel Dio diverso che Lui viveva dentro di sé”. Ha seguito la sua Voce, la sua “vocazione”, ed è andato lì dove doveva andare.
Ora, di fronte alla lettura e alla meditazione del vangelo di oggi, noi possiamo porci e reagire in tanti modi. Il primo: “Ma perché a me? Ma cos'ho fatto per trovarmi coinvolto in questa storia di scelta, di vocazione, di elezione, per cui devo trasfigurarmi mio malgrado? Mi rifiuto!”
Oppure: “Cosa devo imparare da questa pagina? Cosa vuol dirmi Dio, la Vita, attraverso la “trasfigurazione” di Gesù?”. Beh, questa volta andiamo meglio, È già una buona domanda quella che ci facciamo, perché nulla è privo di senso e di significato: tutto è un messaggio per noi.
Sicuramente però ci aiuta molto di più, chiederci: “Ma questa prova, questa sfida, questa trasfigurazione che devo affrontare, riferita alla mia persona, che scopo finale ha? Che cosa pretende Dio da me? per quale motivo devo scombussolare tanto la tranquillità della mia esistenza? Perché una cosa è chiara: Egli mi sta in qualche modo “allenando”, mi sta affinando; le prove della vita, gli ostacoli quotidiani da superare, non sono altro che “esercizi” che servono a plasmarmi, a rendermi “unico” davanti a Lui e rispondere in maniera “unica” alla sua chiamata». In quest’ottica, allora, la nostra vita, tutto ciò che in essa ci succede, non è più questione di fortuna o di sfortuna, ma è un modo amoroso con cui Egli cerca di aiutarmi, con cui mi allena a tirar fuori le mie capacità, la mia personalità, ciò che realmente sono.
Quando arriveremo a capire che tutto ciò che è capitato nella nostra vita ci riguarda in prima persona, che tutto doveva essere così, e che è bene sia stato così, e che non poteva essere altrimenti, allora la nostra vita diventerà luminosa, chiara, tutto verrà integrato, compreso; perché capiremo finalmente che tutto viene da Dio: il bene e il male.
Allora soffrire l'ingiustizia diventa un allenamento per sviluppare la verità. Soffrire l'oppressione diventa un allenamento per sviluppare la libertà. Soffrire la maldicenza e il giudizio spietato degli altri, diventa allenamento per sviluppare l'umiltà. Soffrire di solitudine diventa un allenamento per sviluppare la comunione e la condivisione. Soffrire infine di paura diventa un allenamento per sviluppare la fede in Dio, l'abbandono e la totale fiducia in Lui. Allora tutto ciò che ci succede acquista un suo significato, un senso per la nostra vita. Tutto ci riguarda, tutto serve per la nostra missione terrena, in vista della vera “trasfigurazione” finale, nella contemplazione di Dio faccia a faccia.
Dobbiamo allora smetterla di lamentarci, fratelli; dobbiamo invece ringraziare Dio per tutto quello che la sua Provvidenza ci riserva in questa Vita.
Molti di noi, poi, sono convinti che la felicità sia impossibile in questa vita; alcuni si sentono addirittura in colpa se capita talvolta di essere felici; altri invece, senza accorgersene, arrivano perfino a sabotare la propria vita pur di non essere felici: sono degli eterni scontenti, per definizione; devono trovare sempre e comunque qualcosa che non va bene, qualche motivo per dolersene. Sbagliano di grosso, fratelli: perché tutti abbiamo il diritto e il dovere di essere felici. Si tratta solo di scegliere quale tipologia di felicità. E la trasfigurazione ce lo insegna: in essa, cioè, Gesù ha la totale e immediata visione di sé: Gesù vede chiaramente dentro di sé, ha l’esatta percezione della propria missione. Ecco, la felicità è tutta qui: vedere dentro di noi, vedere la vera faccia di noi stessi, delle cose, del presente, del futuro; non fermarsi tanto all’involucro esteriore, all’apparenza, ma a quello che c’è all’interno, all'essenza. Trasfigurazione è quando riusciamo a percepiamo la presenza di Dio oltre i limiti e della nostra umana debolezza; quando capiamo finalmente chi siamo e in cosa consiste la nostra vita. È andare all'essenza, al centro delle cose; è la visione della realtà. Dobbiamo andare oltre la “nube”, ossia la quotidianità, la forma, la materia, che ci nascondono l’essenza della vita: dobbiamo insistere, perché prima o poi uno sprazzo di luce la penetra, e noi finalmente possiamo vederla.
Nella vita un fiore sbocciato, un tramonto sul mare, uno stormire di fronde, un battito d’ali, il sorriso di un bimbo, possono non dirci nulla di particolare: ma se noi guardiamo bene, entriamo dentro, allora possiamo veramente emozionarci per ciò che vediamo. Non siamo matti, né infantili o femminucce: è trasfigurazione. Così, se ci capita di piangere a dirotto, senza parole, perché qualcuno ci ha detto: “Ti amo!”, oppure: “Mi sposi?”, oppure: “Sono incinta, aspettiamo un figlio”, tranquilli, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di prendere in braccio nostro figlio appena nato e di guardarlo e di chiederci: “Ma viene proprio da me? L'ho fatto io?” e di essere incredulo e di non volerci staccare da lui, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di piangere solo perché eravamo felici e per nessun altro motivo, non meravigliamoci, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di innamorarci, di perdere la testa per qualcuno, di provare emozioni che ci fanno battere il cuore, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di appassionarci per la musica, per la poesia, per la verità, e vogliamo vivere solo per loro, forse il mondo ci dirà che siamo “matti, scemi, fuori di testa”, ma anche questa è trasfigurazione.
Se ci è capitato di essere in mezzo al caos più totale, di non poter far più nulla per qualcuno che sta morendo, ma di sentirci comunque sereni nelle mani di Dio e della Vita, questa è trasfigurazione, la felicità del cuore. Se ci è capitato un fatto che ci ha cambiato la vita, che ci ha salvato, al punto che anche volendolo, non riusciamo più ad essere quelli di prima, perché intimamente toccati, ebbene questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di essere attaccati e di soffrire per ciò che crediamo e per le nostre idee ma di non essere scesi a compromessi, di non aver patteggiato la nostra autenticità, questa è trasfigurazione, perché possiamo guardarci allo specchio con la dignità di un uomo e il coraggio di un guerriero.
Sul Tabor, il monte della Trasfigurazione, ci viene comunicato l'essenziale; che è: “L’uomo ha il diritto-dovere di essere felice”; di una felicità che non è avere, ma vivere la luce, vivere la missione, la vita, i carismi: tutte cose che sono già dentro di noi, ma che aspettano di essere “trasfigurate”. Dobbiamo essere sempre ottimisti; non dobbiamo fare come il pessimista che si ferma a guardare la storia che passa; noi dobbiamo “costruire” la storia; non dobbiamo vedere in ogni opportunità offerta, solo le difficoltà; al contrario dobbiamo vedere nuove opportunità in ogni difficoltà che incontriamo nella vita. Anche questa è trasfigurazione. Un giorno un ciliegio disse ad un mandorlo: “Parlami di Dio!”. E il mandorlo immediatamente fiorì! Dio è presente in tutti noi, fratelli; chiede solo di essere rivelato. Chiede insomma la nostra “trasfigurazione”. Amen.
Nessun commento:
Posta un commento