mercoledì 6 febbraio 2013

10 Febbraio 2013 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (Lc 5,1-11).
Dopo il disprezzo e la rabbia dimostrati con tanta cattiveria contro la sua persona, dai suoi stessi concittadini, Gesù non si scoraggia e continua la sua opera evangelizzatrice, predicando e guarendo. E un po' alla volta le persone che lo seguono, che lo appoggiano, che lo aiutano, che lo ospitano, aumentano a vista d’occhio. D'altronde è abbastanza ovvio: se Gesù avesse guarito un nostro figlio, come potremmo non essergli riconoscenti? Se fossimo noi i morti ai quali egli ha ridato la voglia di vivere: come potremmo non ringraziarlo per tutta la vita? Se fossimo noi i paralizzati che ha fatto camminare, come potremmo non seguirlo, lui che ci ha guariti? Se fossimo noi gli indemoniati che ha liberato, come potremmo non amare chi ci ha ridato la dignità di vivere?
Ad un certo punto però Gesù decide di fare una scelta: tra tanti, chiama in particolare un ristretto gruppo di persone, gli apostoli, i Dodici. Ciò che Gesù fa è qualcosa di nuovo. Egli vuole che questo piccolo gruppo lo segua, osservi, impari, per poi essere in grado di fare come Lui. Infatti un giorno dirà loro “Andate, predicate e guarite” (Mc 3,14; Lc 10,1-20).
E lo dice anche a noi. Ecco perché non possiamo rimanere sempre discepoli. Ad un certo punto dobbiamo diventare maestri, adulti, crescere. Non possiamo spendere tutta la vita a chiedere ogni cosa a Dio o al prossimo; non possiamo essere solamente passivi; non possiamo sempre aspettare; non possiamo vivere facendo finta di non avere doti e capacità; non possiamo rimanere sempre bambini. Un bel momento Dio ci manda fuori.
Il vangelo non è un cenacolo chiuso, esclusivo: il vangelo è andare nel mondo per cambiare il mondo. Il vangelo è missione, portare la vita; è passione, fuoco, luce, verità; cose che con Lui abbiamo sperimentato dentro e fuori di noi. È una conseguenza normale: se proviamo una grande gioia, come possiamo tenerla solo per noi? Se abbiamo trovato un tesoro meraviglioso, come facciamo a lasciarlo nascosto? Se abbiamo scoperto ciò che fa vivere, sicuramente vogliamo che tutti vivano, che tutti si appassionino e che si riempiano di questa “meraviglia”!
Il vangelo è come la scuola: si studia ingegneria non per studiare sempre, ma per diventare ingegneri, per lavorare! Andiamo alla scuola di Gesù per diventare degli altri Gesù, non per rimanere eterni bambini, dei piccoli egoisti che pretendono solo di ricevere e basta. Siamo stati anche noi “segnati”; rientriamo cioè anche noi tra i “dodici” della prima chiamata, che hanno costituito il “nuovo popolo”, il popolo di Gesù di allora e di oggi. Nostro compito è quello di assicurare nel tempo la presenza liberatrice e guaritrice di Gesù. Gesù infatti non vuole più riunire le dodici tribù di Israele, ma vuole riunire tutti i popoli della terra.
Luca, nel vangelo di oggi, ci riporta la chiamata dei primi quattro di quei dodici: i due fratelli Pietro e Andrea, pescatori, e i due fratelli Giacomo e Giovanni, anch'essi pescatori ma di un livello sociale più elevato (avevano, diciamo, una “impresa” di pesca).
Il vangelo in realtà si focalizza e si concentra sulla figura di Pietro. Siamo presso il lago di Genèsaret. Ora, nei vangeli, l’idea del “lago” oltre che essere strettamente legata a fenomeni di cambiamento improvviso, di tempesta, di rovesciamento di situazione, di scombussolamento, di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), con la sua superficie liscia, immobile, tranquilla, ci fa pensare anche alla condizione di vita di quei pescatori, prima dell’incontro con Gesù: monotona, ogni giorno sempre le stesse cose. La loro è una vita di superficie, piatta come le acque del lago.
Un po’ come la nostra vita spirituale. Non siamo cattivi, non siamo gente di malaffare, tant'è che permettiamo anche noi a Gesù di usare la nostra “barca”. Però siamo convinti che stiamo bene così, che la vita è tutta qui. Pensiamo che questo sia il solo modo di vivere. E invece, fratelli, neppure sappiamo come si vive “uscendo” con Lui! Sì, abbiamo provato, ma abbiamo combinato ben poco, anzi proprio nulla!
A questo punto domandiamoci: Siamo davvero felici? C'è fuoco, c'è passione nel nostro agire? C'è luce nei nostri occhi? C'è sole nel nostro viso? C'è profondità nelle nostre parole? “Maestro abbiamo pescato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. Come a dire: “Facciamo tante cose, corriamo tanto e sempre, ma dentro “non peschiamo nulla, non ci riempie niente”.
La realtà, fratelli, è che se continuiamo a vivere in superficie è difficile combinare qualcosa di buono: lì, a quel livello, è proprio impossibile!
Gli apostoli stanno lavando le reti, ma mentre le lavano, ascoltano Gesù. Sentono la vibrazione che li tocca dentro; sentono che quelle parole ridestano emozioni “morte”, emozioni che fanno vivere; sentono che Egli mostra loro “la vita vera”, che li spinge ad osare.
Allora che facciamo? Beh, prima o poi arriva il momento in cui dobbiamo deciderci: la nave è pronta, l'equipaggio c'è, il comandante c’è, e l'occorrente pure. Adesso dobbiamo sciogliere gli ormeggi e prendere il largo. O si va o si sta. Non ci sono vie di mezzo. O ci fidiamo di lui e andiamo, o rimaniamo lì fermi per sempre. Ad un certo punto dobbiamo rischiare, dobbiamo osare, dobbiamo andare. Significa semplicemente avere fede: ci fidiamo e andiamo. Non sappiamo dove ma ci fidiamo di te. “Che ne sarà di noi? Che succederà? Perderemo qualcuno? Soffriremo? E se poi ci sbagliamo?”: domande legittime, certo. Ma se ascoltiamo la paura non prenderemo mai il largo.
Gesù non fa mai tanti discorsi. Infatti seguirlo, non è questione di essere convinti su quanto ha detto, ma basta amore e fiducia. Non lo seguiamo perché ci ha convinti, ma perché ci siamo innamorati di Lui, di ciò che con Lui possiamo essere e vivere.
Le proposte di Gesù sono sempre incisive, ma di grande respiro, di larghe, profonde, ampie visioni: ci costringe cioè a scegliere, a metterci in gioco; ci fa andare là dove mai avremmo pensato di poter andare, e vivere in luoghi che neppure pensavamo esistessero. Per questo quelli che lo incontravano gli dicevano: “Tu sei la Vita”; perché Lui li faceva veramente vivere!
La chiamata si articola in due inviti, semplici, decisi e chiari. Il primo: “Prendi il largo”: non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: “inoltrati nell'ignoto, esci fuori dai tuoi soliti schemi, dai tuoi soliti modi di pensare, di fare, e inoltrati nella vita”. “Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”. “E se non riesco, se non funziona?”. “Possibile”. Domande lecite, fratelli: dubbi più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, decidere una buona volta; altrimenti continueremo a vivere così; però poi non lamentiamoci! Il treno della vita passa una volta sola: tocca a noi prenderlo. Nessuno può farlo al posto nostro. O noi, o nessun altro.
Molti dicono: “Non è per me; sarebbe bello ma non ne sono capace” e ne sono convinti. In realtà dovrebbero dire: “Ho paura; mi è più comodo così!”.
Fratelli miei, continuiamo a trastullarci con le solite compagnie, col solito giro di amici che non ci offre più nulla? “Prendi il largo!”. Frequentiamo colleghi o amici che parlano solo di donne, di sport, di soldi e lavoro? “Prendi il largo!”. Frequentiamo sempre quell’ambiente e ci sentiamo oppressi dai soliti giudizi velenosi, dagli sguardi di traverso, dalle invidie? “Prendi il largo!”. Abbiamo una sete terribile di verità, di ricerca, di scoprire, di capire; non ci accontentiamo delle risposte preconfezionate, classiche, ma vogliamo andare al centro della vita? “Prendi il largo!”.
L'altro invito è: “Cala le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai a fondo; vai nel mistero della Vita”. La Vita, Gesù, non si può vivere stando in superficie, fuori; bisogna immergersi. Non è un caso che “battesimo”, in greco, voglia dire proprio questo.
Siamo figli di Dio? Oh, certo che sì! Ma cosa vuol dire “si”? Perché è una risposta che non risolve nessuno dei nostri problemi e non ci cambia la vita; “Entra dentro, immergiti” e solo allora sentiremo su di noi tutta la forza, la potenza, la dignità di essere figli suoi.
Abbiamo una missione da compiere? Ma certo! Ma siamo noi che lo dobbiamo scoprire! Siamo noi che dobbiamo entrare in noi stessi (introire secum). E come si fa? Dobbiamo entrare dentro di noi: punto. Non c'è altra strada.
Quando Pietro si rende conto di come si può vivere con Gesù (la rete è piena, stracolma di pesci!), ha paura: “Allontanati da me, sono peccatore”. Cosa vuol dire con questo? Prima di tutto non si sente degno: “Non ce la faccio! Non ne sono capace! Non è possibile!”. La gente ha paura di essere felice. Poi si sente in colpa per aver sprecato tutto quel tempo. Una delle sensazioni più amare della vita è il giorno in cui a quarant'anni (o cinquanta o quello che è!) ci svegliamo, ci rendiamo conto di quanto sia inebriante e meraviglioso vivere con Lui, e diciamo: “Dio, quanta vita ho perso!”. E ci rendiamo conto di non aver mai vissuto finora; la chiamavamo “vita” ma era “vegetare”. Fa male scoprire quanto tempo abbiamo sprecato! Infine si rende conto del suo “peccato”: ha chiamato “vita” ciò che era superficie, vegetare, “tirare avanti”, vivacchiare. “Peccato”, in ebraico, significa “freccia che manca il bersaglio”: viviamo e crediamo che la nostra sia la vita vera; poi ci rendiamo conto che la vita è tutto un'altra cosa: non abbiamo fatto centro, non era vero: questo è il vero peccato. Gettandosi in ginocchio Pietro riconosce di aver chiamato “vita” ciò che era “morte”. Bisogna accettare di aver sbagliato se vogliamo trovare la strada giusta; perché se ci intestardiamo a proseguire per la strada sbagliata, non arriveremo mai là dove vogliamo arrivare.
Siamo umili, fratelli. Quando una cosa è sbagliata, quando non ci offre ciò che ci dovrebbe dare, diciamo semplicemente: “Ho sbagliato, non vale la pena andare avanti”. Abbandoniamo la vecchia strada e imbocchiamone una nuova.
Da pescato a pescatore: oggi Pietro ha toccato, sentito, sperimentato, cosa vuol dire incontrare il Signore. Capite ora perché lo ha seguito? Capite perché Andrea, Giacomo e Giovanni hanno fatto altrettanto? Cos'altro avrebbero potuto fare? Erano morti e sono stati pescati, riportati in vita; cos’altro avrebbero potuto fare se non i pescatori di Vita?
«Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Sono le parole che Gesù ha detto anche a noi, dopo che lo abbiamo incontrato. La nostra vita era vuota, come una rete senza pesci: Gesù l'ha riempita al punto da farla traboccare. Prima chiamavamo “vita” quello che era solo “vegetare”, sopravvivere: è Lui che ce l’ha fatto capire. Prima eravamo impauriti, ma Egli ci ha insegnato quanto sia bello prendere il largo e non rimanere fermi al porto. Prima ci accontentavamo, ma Lui ci ha insegnato a raggiungere il massimo che possiamo vivere. Prima parlavamo a vanvera; ora, soltanto ora, possiamo invece trasmettere agli altri ciò che Lui ci ha insegnato. Signore, “Tu hai parole di vita eterna”: l’ho capito, l’ho provato. Per questo voglio seguirti; voglio lasciare tutto, voglio mettermi a rischio, voglio osare, voglio vivere per Te. “Sulla tua parola, getterò le mie reti”. Amen.

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