«Credete che quei Galilei
fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi
dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-9).
Nel
vangelo di questa domenica Gesù, nella sua predicazione, fa riferimento a due fatti
di cronaca straordinari avvenuti in quel tempo: l’uccisione da parte di Pilato
di una moltitudine di giudei che si erano recati a Gerusalemme per offrire i
loro sacrifici nel tempio, e la morte accidentale di altre persone coinvolte
nel crollo della “torre di Siloe”. I commenti della gente a tali notizie
rivelano la mentalità predominante di allora, secondo cui le disgrazie, le
malattie, la morte, sarebbero la giusta punizione per delle colpe commesse o
direttamente dai malcapitati oppure dai loro antenati. Ebbene, Gesù sconfessa decisamente
queste convinzioni: “Quelli che sono
morti non erano assolutamente più colpevoli di quanto non lo siate voi!”. Come
a dire: “Non è vero che quei poveretti sono morti per espiare le loro colpe
personali, né tantomeno quelle dei loro antenati; voi, poi, che state bene e siete
illesi, non crediate di essere così fortunati solo perché pensate di essere più
giusti di loro”. In altre parole la sfortuna, le disgrazie, le malattie, i
lutti, insomma tutti gli eventi negativi che la vita ci riserva, non dipendono
in alcun modo dalla volontà di Dio, come castigo per la nostra condotta morale.
Non è questo che Dio vuole; Dio non ce l’ha in modo particolare con noi, non ci
ha preso di mira, non si comporta come se non ne potesse più di noi. Bestemmiamo
gravemente quando ci lasciamo andare ad esclamazioni del genere: “Ma che male
ho fatto io perché Dio mi castighi in questo modo?”. È una esclamazione sbagliata:
eppure, fratelli, quante volte ci siamo espressi e continuiamo ad esprimerci in
questo modo! Gesù
oggi ci ricorda che la vita ha una sua logica, una sua libertà, una sua verità. Non è
più un mistero, per esempio, che le stesse malattie sono legate in qualche modo
al genere di vita che conduciamo, ai nostri vissuti profondi, ai nostri schemi
mentali, ai nostri eccessi: cancro, leucemia, sclerosi, allergie, intolleranze,
malattie della pelle e tanto altro ancora, trovano terreno fertile proprio nel
modo in cui ci poniamo di fronte alla vita sia materiale che morale. Non sono mai
una punizione divina, non sono un “virus” che si prende a caso, un contagio che
“se siamo bravi” non ci tocca. Le disgrazie avvengono sempre per una somma di
concause, di cui il più delle volte siamo noi stessi l’origine scatenante. Non è Dio
quindi che condiziona la nostra vita. Siamo noi che ce la gestiamo come vogliamo.
Siamo noi che decidiamo liberamente di fare o non fare certe cose. Egli, nel
suo immenso amore, ci lascia completamente liberi nelle nostre scelte. Di
conseguenza ognuno riceverà, quando sarà ora, il premio o il castigo che ha
meritato. Ognuno è l’artefice della propria felicità o infelicità: in completa
libertà. Dio non sta dietro l’angolo con il pungolo del castigo, pronto ad
intervenire ad ogni nostra mossa negativa. Egli al contrario è il padre amoroso
che ci segue con amore, disponibile a darci una mano solo se noi glielo chiediamo. Per
cui dell’azione di Dio, ai nostri ragazzi, non dobbiamo inculcare soltanto l’aspetto
negativo “errore = castigo; colpa = punizione”, descrivendo Dio come un arcigno
giudice, attento e vigile per reprimere anche il più piccolo sgarro: dobbiamo
invece preoccuparci di inculcare loro la visione di un Dio che è soprattutto
Amore; perché Lui questo solo ci dimostra; Lui ci ama veramente, e chi ama non si
diverte a punire, a fare del male, a procurare dolori materiali o morali a quanti
ama. Il punto è proprio questo: che noi, al suo amore, dobbiamo rispondere con
altrettanto amore; e se noi ricambiamo veramente il suo amore, ci sarà
impossibile rinnegarlo, umiliarlo, mancargli di rispetto, addolorarlo conducendo
una vita dissoluta. Con le
parole di oggi Gesù, dunque, annulla definitivamente la visione di un Dio
vendicatore, sterminatore dei peccatori. “Pensate che quelli [i morti] fossero
più peccatori di voi? No vi dico”.
Immediatamente
dopo tale affermazione, però, Gesù sembra affermare il suo contrario: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo
stesso modo”. Cioè: “se non cambierete vita, farete tutti la stessa fine di
quei Giudei”. Cosa vuol dire Gesù con queste parole? Per caso si rimangia tutto
quello che aveva detto prima? È una frase intimidatoria? Vuol dire che Dio ci
punirà comunque? Assolutamente no: Dio non punisce mai di sua iniziativa. Vuol
semplicemente dire: “Fate attenzione, perché di tutto quello che fate, delle
scelte operate, siete solo voi i responsabili, e solo voi ne dovrete giustamente
sopportare le conseguenze, le ripercussioni; ricordatevi che se fate questo, in
cambio avrete quello! Se vivete nel male e non “cambiate vita”, accadrà anche a
voi una “morte” simile: non è una
condanna la sua; è semplicemente un avvertimento. Vuol ricordarci molto paternamente
che siamo noi gli unici responsabili di noi stessi. La vita è nelle nostre mani
e nelle nostre scelte. Pertanto, se tutto dipende da noi, dobbiamo stare molto
accorti, se abbiamo sbagliato, dobbiamo correre ai ripari. In altre parole
dobbiamo “convertirci”. “Convertirsi”,
come ho detto all’inizio della quaresima, vuol dire cambiare direzione (shub
in ebraico indica proprio un cambio radicale di rotta): cioè, se stiamo andando
in una direzione, e ci accorgiamo che è sbagliata, dobbiamo cambiare strada: dobbiamo
convertirci. Molti
dei nostri comportamenti ci portano decisamente a morire dentro... alla
superficialità... ad allontanarci sempre più dal nostro cuore e da noi stessi.
Il fatto grave è che non ce ne rendiamo conto; e quando poi succede il “colpaccio”,
quando il nostro comportamento ci si ritorce contro, ci meravigliamo, non
accettiamo la situazione: “Com'è possibile? Come mai è successo questo proprio
a me?”. Beh, fratelli, il motivo c’è; solo che noi non l’abbiamo visto o non abbiamo
voluto vederlo. Perché allora rimandare ancora? Convertiamoci finché siamo in
tempo: convertiamoci, svegliamoci, accorgiamoci, perché verrà il giorno in cui
sarà troppo tardi. Non sottovalutiamo i “segni”; non giustifichiamo sempre e
comunque i nostri comportamenti. Non perdiamo la nostra lucidità, non
offuschiamo la nostra sensibilità. Non
prendiamocela con Dio nei momenti di dolore e di sofferenza: come se Lui non
sapesse fare il suo mestiere di Dio! Convertiamoci piuttosto: perché “convertirsi”
vuol dire aprire gli occhi, smettere di dormire, accorgersi, farsi aiutare,
riconoscere, rendersi conto, vedere ciò che dobbiamo vedere; un atteggiamento che
all'inizio può riuscirci molto difficile. Ma solo se vediamo, se riconosciamo, se
evitiamo, riusciremo a troncare certe spirali che ci portano a morire dentro e
fuori. “Responsabilità” (da respondeo, rispondere, risposta) vuol dire che noi “rispondiamo” in
prima persona della nostra vita, che non deleghiamo, che non scarichiamo le
colpe della nostra vita sulla società, sugli altri, sul prossimo, sul mondo, che
è “cattivo” e ce l'ha con noi. “Responsabilità”
significa accettare che siamo noi al comando dell'auto della nostra vita; e che
essa va esattamente nella direzione che noi le diamo. Il
riferimento all’albero del fico infruttuoso,
infine, conferma e completa ciò che Gesù vuole insegnarci. Nei vigneti della
Palestina questi alberi da frutto sono molto comuni: si piantano, si lasciano crescere;
non hanno bisogno di cure particolari; dopo tre anni, iniziano a portare i
primi frutti. Ma l'albero della parabola, che ha già sei anni, non ha ancora portato
alcun frutto. Per questo il vignaiolo chiede al padrone di pazientare, di consentire
quei trattamenti “speciali” che normalmente non si fanno; tenta insomma
un'ultima possibilità. L’allusione
è chiara: quel fico della parabola siamo noi. Noi possiamo portare frutto; noi
possiamo vivere in maniera feconda, possiamo essere felici, possiamo svilupparci
e realizzarci. Noi possiamo farlo tranquillamente: come il fico possiamo crescere
e portare frutto. Ma al momento siamo una nullità. Nella parabola, il vignaiolo
si prende cura in maniera speciale di questo fico: in questo senso, la vita offre
anche a noi dei “trattamenti” speciali, delle occasioni particolari, ci fa incontrare
situazioni uniche che ci maturano e ci portano ad essere fertili. È la stessa
vita infatti che in modi diversi, e in certi momenti, offre a tutti la
possibilità di portare il loro frutto. Pensiamoci: tutti noi abbiamo avuto
degli incontri determinanti; tutti noi abbiamo incontrato persone che ci hanno
fatto respirare un'altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci
diceva: “Vieni qui; provaci; dai che ce la puoi fare!”. Tutti noi, ad esempio, abbiamo
vissuto esperienze - come la morte di un familiare, di una persona cara; un
momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc. - che
ci hanno ispirato a cambiare stile di vita. Ebbene: noi cos'abbiamo fatto in tali
situazioni? Le abbiamo accolte, oppure come al nostro solito le abbiamo accantonate,
disattese, rimandate? Una cosa, fratelli, dobbiamo una buona volta chiarire in
noi: che a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare,
di abbandonare, di evitare, arriveremo prima o poi al punto di “non ritorno”; verrà
cioè un giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”, non potremo fare più
nulla: il nostro albero verrà inesorabilmente tagliato, perché dentro è già morto,
arido, secco. È così, fratelli: se rifiutiamo qualunque “linfa”, qualunque proposta
di Vita, verrà un momento in cui saremo talmente vuoti, talmente interiormente rinsecchiti,
così morti nell'anima, così incapaci di guardarci dentro, che qualunque disperato
tentativo di rianimazione risulterà vano. Nessuna condanna, nessuna vendetta, nessun
castigo da parte di Dio: i responsabili siamo soltanto noi e le nostre scelte:
troppo lente, troppo tardive, assolutamente inefficaci. Che questa
nostra quaresima, allora, sia una quaresima straordinaria, fratelli miei: in
cui riscoprirci, in cui convertirci, da cui ripartire per raggiungere il Dio di
Gesù. Amen.
«Maestro, è bello per noi
essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc
9,28-36).
I
discepoli non possono assolutamente accettare le parole che Gesù, poco prima
del vangelo di oggi, aveva loro detto: “Amici miei, guardate che mi prenderanno
e mi uccideranno. E a farlo saranno proprio gli scribi, i sommi sacerdoti e gli
anziani. Ma non preoccupatevi perché io, poi, risorgerò”. Non possono
condividere una tale prospettiva, proprio perché le loro aspettative si concentrano
su un Gesù-Messia potente, trionfale, giusto, liberatore. Preannunciare
la propria morte, significa per loro evocare lo spettro della fine di ogni
aspettativa riposta in lui, decretare il fallimento totale del suo programma. Di
fronte a tanto smarrimento cosa fa Gesù? Prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li
porta in un luogo appartato, su un alto monte. Gesù non è nuovo a tale
esperienza: “appartato” in un monte alto, c'era già stato nell'episodio delle
tentazioni di domenica scorsa: allora ad isolarlo era stato satana, per tentarlo;
ora invece la tentazione gli viene direttamente dai discepoli, che non lo
capiscono. Gesù
quindi, volendo smontare qualunque tipo di “tentazione”, approfitta appunto dell’intimità
di un luogo solitario e impervio, per chiarire un po’ le idee a questi suoi
collaboratori più stretti. E qui essi hanno una visione straordinaria: Gesù è in
compagnia di Mosè ed Elia, le due personalità della Scrittura che ogni ebreo di
allora considerava come figure di “riferimento” per il futuro Messia. E come se
non bastasse, discorrendo familiarmente con Gesù, essi dimostrano di smontare
questo loro convincimento, riconoscendo invece a lui importanza e superiorità. I tre ovviamente
rimangono colpiti, rapiti; al punto che Pietro esclama: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre capanne, una per te,
una per Mosè, una per Elia”. Nella foga dell’entusiasmo, Pietro
inconsciamente ribadisce il suo convincimento: egli infatti pone Mosè e non a Gesù
al centro del trio, posizione riservata di diritto alla figura più importante. Egli
rimane cioè della sua idea: “Gesù, tu devi essere come Mosè, è lui il grande
riferimento”. Ma la voce di Dio scioglie ogni possibilità di dubbio. Gesù non è
il Messia storico, quello tanto atteso da Israele. Gesù non è così: “Questi è
il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. È Gesù
che va ascoltato e non Mosè o Elia, grandi personaggi certo, ma niente in confronto
a Lui. È Gesù il criterio di discernimento: Mosè, Elia, Legge e Profeti hanno un
senso solo se passano attraverso Gesù. Tutto ciò che non è in sintonia con il
messaggio del Cristo non ha alcun valore per la vita del credente. Gesù in
questo modo demolisce le aspettative dei discepoli e della gente: Lui non è
come lo volevano; non è il Messia trionfale e forte; Gesù è sì il Messia, ma sofferente
e debole. Egli non sterminerà gli operatori di iniquità, non ha vendette da
sanare o conquiste da ristabilire; Gesù sarà solo se stesso, sarà Gesù e basta!
Non ha paura di esser se stesso, anche se ne conosce bene il costo:
l'impopolarità. Ma il beneficio che egli introduce con questo comportamento è la
conquista di autenticità, l'essere felici di ciò che si è, la forza di vivere la
propria missione dovunque porti, perché questa in definitiva è la nostra
chiamata: è di essere noi stessi, di vivere noi stessi; perché è questo che ci
dà una vitalità e una forza impagabili. È questo il nostro grande compito. Dobbiamo
essere, come Gesù, noi stessi; dobbiamo semplicemente vivere come Lui la nostra
parentesi terrena, la nostra vocazione, la nostra missione. È
questo l’unico criterio della nostra realizzazione personale: vivere la nostra “originalità”.
Sì,
perché noi siamo unici. È per questo
che esistiamo. Se non fosse così non saremmo a questo mondo, perché in tal caso
il nostro esserci non avrebbe alcun senso. Le fotocopie umane non esistono; Dio
fa nascere solo pezzi unici, il resto non serve. Purtroppo
però la maggior parte di noi tende a conformarsi agli altri, a fare e a pensare
come tutti. Il pretesto è comprensibile anche se non condivisibile: “Solo se mi
comporto come tutti gli altri sarò rispettato e accettato; in caso contrario
sarò emarginato, estromesso dal gruppo”. È il
classico comportamento degli insicuri, dei bambini. Un bambino non può
permettersi di essere cacciato dalla propria famiglia, dalla propria mamma: ne morirebbe.
Quindi non gli rimane che adeguarsi. Ma noi, fratelli,non siamo più bambini. Siamo
grandi, siamo adulti e siamo qui in questo mondo per vivere convintamente il
nostro “mandato”, per compiere la nostra missione e far emergere la nostra
originalità, la nostra unicità: sul modello di Gesù, che fu davvero unico,
diverso da tutti, “fuori” da ogni
schema umano: perché chi segue Dio, non segue nient’altro. Gesù dunque,
sul monte della trasfigurazione, prende ufficialmente coscienza di avere una
missione grande: più grande di quelle di Mosè e di Elia. Gesù capisce di avere
la forza di Mosè e l'ardore di Elia; sente di non essere come loro, pur avendo qualcosa
in comune come loro. I
Vangeli pongono tutti la trasfigurazione tra il primo e il secondo annuncio
della passione. Non è un caso. Chiediamoci allora: “Perché Gesù è andato
comunque a Gerusalemme?”. Egli sapeva benissimo cosa lo aspettava lì; se
rimaneva in Galilea, invece, non avrebbe rischiato nulla. Perché “ha dovuto” andare a Gerusalemme? La
risposta è una soltanto: “Era la sua missione. Lui doveva andare a Gerusalemme
perché doveva annunciare proprio lì, nel centro religioso del suo tempo, quel
Dio diverso che Lui viveva dentro di
sé”. Ha seguito la sua Voce, la sua “vocazione”, ed è andato lì dove doveva
andare. Ora,
di fronte alla lettura e alla meditazione del vangelo di oggi, noi possiamo
porci e reagire in tanti modi. Il primo: “Ma perché a me? Ma cos'ho fatto per
trovarmi coinvolto in questa storia di scelta, di vocazione, di elezione, per
cui devo trasfigurarmi mio malgrado? Mi
rifiuto!” Oppure:
“Cosa devo imparare da questa pagina? Cosa vuol dirmi Dio, la Vita, attraverso
la “trasfigurazione” di Gesù?”. Beh, questa volta andiamo meglio, È già una
buona domanda quella che ci facciamo, perché nulla è privo di senso e di
significato: tutto è un messaggio per noi. Sicuramente
però ci aiuta molto di più, chiederci: “Ma questa prova, questa sfida, questa trasfigurazione che devo affrontare, riferita
alla mia persona, che scopo finale ha? Che cosa pretende Dio da me? per quale
motivo devo scombussolare tanto la tranquillità della mia esistenza? Perché una
cosa è chiara: Egli mi sta in qualche modo “allenando”,
mi sta affinando; le prove della
vita, gli ostacoli quotidiani da superare, non sono altro che “esercizi” che servono a plasmarmi, a
rendermi “unico” davanti a Lui e rispondere
in maniera “unica” alla sua chiamata».
In quest’ottica, allora, la nostra vita, tutto ciò che in essa ci succede, non
è più questione di fortuna o di sfortuna, ma è un modo amoroso con cui Egli cerca
di aiutarmi, con cui mi allena a
tirar fuori le mie capacità, la mia personalità, ciò che realmente sono. Quando
arriveremo a capire che tutto ciò che è capitato nella nostra vita ci riguarda
in prima persona, che tutto doveva
essere così, e che è bene sia stato
così, e che non poteva essere altrimenti,
allora la nostra vita diventerà luminosa, chiara, tutto verrà integrato, compreso;
perché capiremo finalmente che tutto viene
da Dio: il bene e il male. Allora
soffrire l'ingiustizia diventa un allenamento
per sviluppare la verità. Soffrire l'oppressione diventa un allenamento per sviluppare la libertà.
Soffrire la maldicenza e il giudizio spietato degli altri, diventa allenamento per sviluppare l'umiltà.
Soffrire di solitudine diventa un allenamento
per sviluppare la comunione e la condivisione. Soffrire infine di paura diventa
un allenamento per sviluppare la fede
in Dio, l'abbandono e la totale fiducia in Lui. Allora tutto ciò che ci succede
acquista un suo significato, un senso per la nostra vita. Tutto ci riguarda,
tutto serve per la nostra missione terrena, in vista della vera
“trasfigurazione” finale, nella contemplazione di Dio faccia a faccia. Dobbiamo
allora smetterla di lamentarci, fratelli; dobbiamo invece ringraziare Dio per
tutto quello che la sua Provvidenza ci riserva in questa Vita. Molti
di noi, poi, sono convinti che la felicità sia impossibile in questa vita; alcuni
si sentono addirittura in colpa se capita talvolta di essere felici; altri invece,
senza accorgersene, arrivano perfino a sabotare la propria vita pur di non essere
felici: sono degli eterni scontenti, per definizione; devono trovare sempre e
comunque qualcosa che non va bene, qualche motivo per dolersene. Sbagliano di
grosso, fratelli: perché tutti abbiamo il diritto e il dovere di essere felici.
Si tratta solo di scegliere quale tipologia di felicità. E la trasfigurazione ce
lo insegna: in essa, cioè, Gesù ha la totale e immediata visione di sé: Gesù
vede chiaramente dentro di sé, ha l’esatta percezione della propria missione. Ecco,
la felicità è tutta qui: vedere dentro di noi, vedere la vera faccia di noi
stessi, delle cose, del presente, del futuro; non fermarsi tanto all’involucro
esteriore, all’apparenza, ma a quello che c’è all’interno, all'essenza.
Trasfigurazione è quando riusciamo a percepiamo la presenza di Dio oltre i
limiti e della nostra umana debolezza; quando capiamo finalmente chi siamo e in
cosa consiste la nostra vita. È andare all'essenza, al centro delle cose; è la
visione della realtà. Dobbiamo andare oltre la “nube”, ossia la quotidianità, la forma, la materia, che ci nascondono
l’essenza della vita: dobbiamo insistere, perché prima o poi uno sprazzo di
luce la penetra, e noi finalmente possiamo vederla. Nella
vita un fiore sbocciato, un tramonto sul mare, uno stormire di fronde, un
battito d’ali, il sorriso di un bimbo, possono non dirci nulla di particolare:
ma se noi guardiamo bene, entriamo
dentro, allora possiamo veramente emozionarci
per ciò che vediamo. Non siamo matti, né infantili o femminucce: è
trasfigurazione. Così, se ci capita di piangere a dirotto, senza parole, perché
qualcuno ci ha detto: “Ti amo!”, oppure: “Mi sposi?”, oppure: “Sono incinta,
aspettiamo un figlio”, tranquilli, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato
di prendere in braccio nostro figlio appena nato e di guardarlo e di chiederci:
“Ma viene proprio da me? L'ho fatto io?” e di essere incredulo e di non volerci
staccare da lui, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di piangere solo
perché eravamo felici e per nessun altro motivo, non meravigliamoci, questa è
trasfigurazione. Se ci è capitato di innamorarci, di perdere la testa per
qualcuno, di provare emozioni che ci fanno battere il cuore, questa è
trasfigurazione. Se ci è capitato di appassionarci per la musica, per la
poesia, per la verità, e vogliamo vivere solo per loro, forse il mondo ci dirà
che siamo “matti, scemi, fuori di testa”, ma anche questa è trasfigurazione. Se ci
è capitato di essere in mezzo al caos più totale, di non poter far più nulla
per qualcuno che sta morendo, ma di sentirci comunque sereni nelle mani di Dio
e della Vita, questa è trasfigurazione, la felicità del cuore. Se ci è capitato
un fatto che ci ha cambiato la vita, che ci ha salvato, al punto che anche
volendolo, non riusciamo più ad essere quelli di prima, perché intimamente
toccati, ebbene questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di essere attaccati
e di soffrire per ciò che crediamo e per le nostre idee ma di non essere scesi
a compromessi, di non aver patteggiato la nostra autenticità, questa è
trasfigurazione, perché possiamo guardarci allo specchio con la dignità di un uomo
e il coraggio di un guerriero. Sul
Tabor, il monte della Trasfigurazione, ci viene comunicato l'essenziale; che è:
“L’uomo ha il diritto-dovere di essere felice”; di una felicità che non è avere, ma vivere la luce, vivere la missione, la vita, i carismi: tutte cose
che sono già dentro di noi, ma che aspettano di essere “trasfigurate”. Dobbiamo essere sempre ottimisti; non dobbiamo fare
come il pessimista che si ferma a guardare la storia che passa; noi dobbiamo “costruire”
la storia; non dobbiamo vedere in ogni opportunità offerta, solo le difficoltà;
al contrario dobbiamo vedere nuove opportunità in ogni difficoltà che incontriamo
nella vita. Anche questa è trasfigurazione. Un giorno un ciliegio disse ad un
mandorlo: “Parlami di Dio!”. E il mandorlo immediatamente fiorì! Dio è presente
in tutti noi, fratelli; chiede solo di essere rivelato. Chiede insomma la nostra “trasfigurazione”.
Amen.
«Gesù, pieno di Spirito Santo,
si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per
quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13).
Con
il mercoledì delle ceneri abbiamo iniziato il tempo di quaresima, i quaranta
giorni, cioè, che ci conducono alla Pasqua. Perché proprio quaranta giorni? Perché
questo è nella Scrittura il periodo di tempo necessario per il raggiungimento
di un obiettivo, di una trasformazione, di un passaggio da una situazione ad
un’altra. È chiaro allora che per noi cristiani la quaresima, più che i 40
giorni che precedono la Pasqua, deve essere un sistema, uno stile di vita;
per noi, “quaresima”, è quel tempo
che ci serve per rialzarci, per fortificarci di fronte ad una situazione spirituale
un po’ compromessa; è quel tempo in cui camminiamo, cresciamo, fatichiamo,
piangiamo, lavoriamo; è il tempo di “conversione”,
del ritornare sui nostri passi e del rimetterci nella giusta carreggiata
facendo una inversione di marcia; è quel tempo in cui dobbiamo riconoscerci deboli,
inadatti, insufficienti, non potendo prescindere da Dio. Noi spesso pecchiamo
di una autostima eccessiva, ci consideriamo immuni da ogni debolezza, tetragono
a qualunque tentazione: ma nel cammino della vita la verità è un’altra. Tutti
dobbiamo fare i conti con le nostre debolezze, con il nostro egoismo, con la
nostra superbia, tutti dobbiamo affrontare i nostri “mostri”; tutti insomma dobbiamo
fare il nostro percorso quaresimale, se vogliamo ricongiungerci a Cristo nostra
Pasqua. Ricordiamocelo, fratelli: chi non compie il proprio “esodo”, chi non oltrepassa
il suo Mar Rosso, non potrà neppure incamminarsi verso la libertà; chi non percorre
il deserto della propria quaresima non potrà mai raggiungere la Terra Promessa,
le acque sorgive e limpide della Pasqua. Anche
Gesù ha percorso il cammino della quaresima, del deserto. E il vangelo di oggi,
parlando appunto delle tentazioni da Lui subite, ce ne chiarisce le modalità,
le caratteristiche, la tempistica. Il maligno attacca proprio in quei momenti
in cui ci sentiamo più forti, più difesi, più “tranquilli”, come è successo a Gesù:
Egli infatti ha appena ricevuto il battesimo, è il momento in cui si sente più amato
dal Padre, in cui è “pieno di Spirito Santo”, e proprio allora arriva la
tentazione di Satana: subdolo, calcolatore, sempre all’erta, sempre pronto all’azione.
L’importante è non arrendersi mai, non aver paura; dobbiamo esorcizzarle queste
“tentazioni”, fratelli; dobbiamo guadarle in faccia, cercare di capirne il
contesto, le movenze. Se non possiamo evitarle, dobbiamo almeno combatterle a
fronte alta, senza tentennamenti o indolenze. La vita, il mondo in cui viviamo,
la società, è il nostro “deserto” naturale, il luogo della tentazione, la zona
operativa del “serpente tentatore”, il luogo in cui veniamo messi alla prova. “Ricordati di tutto il cammino che il
Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per
umiliarti e per metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore”
(Dt 8,2). Ecco questo è il punto: quaresima,
deserto, tentazioni, non fanno altro che metterci di fronte alla nostra
realtà, alla nostra coscienza, all’autentica nostra essenza. Nudi, senza
fronzoli, maschere, infrastrutture di comodo, abbellimenti ad uso esterno. In
greco “tentare” (peir€zein), significa infatti “provare”,
“verificare”. La tentazione ci verifica, ci illumina, fa luce, ci rivela
impietosamente la verità su di noi, su come siamo, su cosa abbiamo veramente
dentro il nostro cuore; ci dice, insomma, chi siamo noi di fronte a Dio e al
prossimo. Tutti
i grandi profeti e i grandi personaggi biblici sono stati tentati; come pure tutti
i santi di questo mondo: la tentazione non è quindi un incoraggiamento a fare del male, ma la verifica delle nostre forze, l’autenticazione della nostra vera identità,
della nostra personalità. Una certa
morale restrittiva del passato ci ordinava: “Attenzione, dovete evitare assolutamente
le tentazioni!”. E così la gente si sentiva in colpa anche solo se veniva
sfiorata dal pensare ad un'altra donna, se provava qualche naturale impulso cattivo
di odio o di rabbia. “Sono cose gravi che non si devono fare”, ci diceva, “e
guai a chi le fa!”. Ma le tentazioni, fratelli, non dipendono da noi, non le
possiamo evitare. L’importante è non aderirvi. Del resto tutta la vita è una
tentazione: è un banco di prova, un tester, che ci rivela impietosamente la
tenuta delle nostre convinzioni, la profondità delle nostre radici; ci segnala
i valori sui quali possiamo contare con sicurezza; ci documenta sulla sincerità
e autenticità della nostra fede. Le
tentazioni pertanto devono tenerci umili, devono fugare tutte quelle velleità
del nostro ego, basate sulla
eccessiva considerazione di noi stessi. Il vero male è la nostra innata
superbia, non le tentazioni. Assecondarle, criticando gli altri con supponenza,
sparando giudizi velenosi, facendo paragoni antipatici, significa assecondare
il nostro orgoglio, significa minare alla base non solo la nostra fede, ma
anche quella di chi ci sta vicino. Sono situazioni con cui dobbiamo
confrontarci quotidianamente. Ci sentiamo delusi dai nostri preti, dai nostri superiori,
in famiglia? Non ci sentiamo valorizzati, considerati, compresi? Immediatamente
una voce ci suggerisce: “A che serve credere, a che serve frequentare questa
comunità, a che serve darsi da fare, essere fedele, se poi chi ci dovrebbe insegnare,
chi dovrebbe guidarci con il buon esempio, chi dovrebbe aiutarci, confortarci,
capirci, si comporta così male con noi?” Oppure: “Quel prete non ci piace; inutile
andare in quella chiesa; non ci andiamo più e basta! Preferiamo, per un maggior
profitto spirituale, andare in quell’altra Chiesa, frequentare quell’altra
parrocchia; perché lì troviamo tanta pace, c’è un prete veramente in gamba!”. Eccola
la tentazione: è veramente il “profitto
spirituale” che ci fa muovere, o il nostro orgoglio “ferito”? Perché,
fratelli, a monte di tutto, c’è sempre il nostro “ego”: noi valiamo, siamo i più preparati, potremmo fare cose
eccelse, potremmo far resuscitare una comunità “moribonda”, solo se “qualcuno”
ci desse credito! e ci convinciamo, ci illudiamo, ci caschiamo dentro in pieno.
Vale la pena allora, nel nostro “deserto”,
domandarci sinceramente: “tutta qui la grande fede in Dio che mi pavoneggio di ostentare
davanti a tutti”? Inganno: è bastata una semplice contrarietà per farci scappare,
un piccolo disappunto per farci abbandonare tutto; è bastato che uno non ci
piacesse, che uno non facesse come noi avremmo voluto, per abbandonare la
nostra vocazione, la nostra missione, piantare tutto. Che fine hanno fatto la
preghiera, la sopportazione, la sofferenza, la carità? Un bagno di umiltà ci
aspetta, fratelli: percorriamo con grande compostezza e obiettività il nostro “deserto”
quaresimale! Dicevamo di avere una solida fede, ma poi si è rivelata una
montatura a beneficio degli altri: non fede profonda, convinta, ma orgoglio travestito
da religiosità. Ecco, fratelli; la “quaresima” della vita, con le sue prove,
con le sue tentazioni, deve farci capire cosa abbiamo veramente dentro di noi:
perché il tempo passa, lo scorrere vertiginoso dei giorni non si arresta: è necessario
quindi percorrere ancora una volta questo nostro cammino quaresimale. Non
possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo agire. Il
vangelo dice che Gesù fu spinto nel deserto e non mangiò in quei 40 giorni: Gesù
dunque è spinto dalla Spirito nel “deserto”. Perché? Perché nel deserto si è soli,
non c'è nessuno e niente altro. Nel deserto siamo solo noi, di fronte a noi
stessi, con la nostra coscienza, con ciò che siamo veramente. Ed è proprio lì
che dobbiamo riprendere la nostra vita in mano, è lì che dobbiamo fortificare la
nostra fede, le nostre decisioni. Come? “Digiunando”. Purtroppo
oggi non capiamo più il senso profondo del digiuno: per questo non lo
pratichiamo. Pensiamo che digiunare corrisponda solo a limitarci nel cibo. Ma il
digiuno, quello autentico, non consiste tanto nell’astenerci dal mangiare carne
o in alternativa nel sacrificarci per chissà quale iniziativa filantropica, o
nel privarci di qualche soddisfazione materiale. Certo, sono cose buone anche
quelle. Ma “digiunare” vuol dire “fare verità” su noi stessi. Vuol dire
scrutarci dentro, riesumare la nostra autenticità, specchiarci con serenità e
sincerità nella nostra anima, e individuare le vere tentazioni della vita. Noi
abbiamo paura di guardarci dentro: siamo pieni, zeppi di “anestetici” che smorzano
le nostre voci interiori. Come nella vita normale. Se non dormiamo prendiamo i
tranquillanti. Se andiamo facilmente in ansia, assumiamo “alcune gocce” per
calmarci. Se siamo “troppo eccitati”, con dei tranquillanti torniamo a poterci
gestire. Ci droghiamo o eccediamo nell’alcool per eliminare il disagio che proviamo
dentro, pensando in tal modo di calmare le nostre tensioni. Perché la cocaina è
così diffusa e in continuo aumento? Perché aumenta sempre più il numero di quelli
che cercano di dare una parvenza di felicità alla loro esistenza infelice,
disperata. Ci rimpinziamo di cibo per non percepire la fame d'amore che bussa
dentro di noi. Ci buttiamo nel lavoro per dare importanza e senso ad
un'esistenza che altrimenti non avrebbe senso. Abbiamo bisogno ogni giorno di
cambiamenti, di novità, di sesso, di provocazioni, per eccitare una vita
evidentemente sterile e piatta. Abbiamo bisogno di parlare sempre, siamo dei
parolai, dei logorroici, un fiume in piena, che cerca di affogare nelle parole le
urla disperate del nostro cuore. Cosa
succede quando dobbiamo “digiunare”, fare
silenzio, quando dobbiamo stare soli con noi stessi, senza chiasso, senza rumori,
senza radio né televisione? Succede che tutto quello che cerchiamo
di nascondere, improvvisamente esce fuori! Tutti i mostri che abbiamo dentro escono
allo scoperto e sembrano sbranarci. Ci vediamo finalmente nella nostra più
completa nudità. E questo non ci piace. Non vogliamo vederci così. Niente “deserto”, niente “digiuno”, niente “quaresima”.
Eppure,
fratelli miei, quella è la strada; di là dobbiamo andare; è là che dobbiamo necessariamente
fare i conti con noi stessi. È Dio che lo vuole. Se non affrontiamo i nostri
demoni interiori, continueremo ad essere sempre in loro balìa. È una questione
di libertà. È inutile che ci illudiamo pensando: “Io sono tranquillo! Non ho di
questi problemi; non ho rabbia dentro di me. Sono felice, soddisfatto delle mia
vita, in pace con me stesso”. No, amici miei; se pensiamo questo vuol dire che
non ci conosciamo! È Satana che si diverte a crearci queste illusioni; il suo
mestiere è quello di distoglierci dalla realtà, di farci evadere da noi stessi
e dalla nostra coscienza. Cerca di insinuarci il miraggio dell’essere “diversi”,
del non essere come tutti gli altri: ci fa vedere quello che non esiste, ciò che
è irrealizzabile. Ma a noi tutto questo piace, ci piace così tanto da crederlo
vero: siamo stregati da questa illusione, la ammiriamo, la inseguiamo, orientiamo
tutta la nostra vita nella sua direzione. E poi quando ci accorgiamo che è solo
una chimera diabolica, che non esiste nulla di ciò, che con tanto impegno abbiamo
vanamente inseguito, allora ci sentiamo falliti. Ecco: la
quaresima ci insegna ad evitare proprio questo. Il
vangelo si conclude infine con l'annotazione che “esaurita ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù
per tornare al tempo fissato”. Qual è questo “tempo fissato”? È l’oggi, ovviamente; è il tempo in cui viviamo; la
prova, la tentazione non si è fermata a Gesù; è ritornata, ritorna e ritornerà ancora,
continuamente, finché ci saranno uomini su questa terra. Sarebbe infatti troppo
bello dire: “Abbiamo superato la prova, ora finalmente siamo a posto”. Non lo siamo
proprio per niente: a livelli sempre diversi, con intensità e difficoltà
variabili, per tutta la vita saremo sempre messi alla prova. Ed è bene che sia
così; perché ogni prova, se superata, contribuisce a radicarci sempre più nell’amore
di Dio. La più
grande tentazione dell’uomo è quella di ignorare la “tentazione”; evita cioè di
misurarsi continuamente con le difficoltà e le avversità della vita, rincorrendo
l’effimero, il superficiale. Potrebbe sembrare una soluzione, ma non lo è. Purtroppo,
fratelli, il deserto è lì davanti a noi e non può essere evitato: dobbiamo attraversarlo,
combattendo e “digiunando” per tutto il tempo che serve. Un
pensiero deve però consolarci e darci fiducia: nessuna “tentazione” diabolica
in sé può farci male: potrà farci soffrire, questo sì, ma gli unici artefici
del nostro male siamo noi, quando acconsentiamo alle sue lusinghe. Ma “si nobiscum Deus, quis contra nos?” Se
Dio è con noi, chi potrà mai sopraffarci? Radichiamoci dunque nel mistero di
Dio, affidiamoci alla sua onnipotente bontà. E affrontiamo fiduciosi e convinti
la nostra “quaresima”. Amen.
«Quando ebbe finito di parlare,
disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone
rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla;
ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme
di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (Lc 5,1-11).
Dopo
il disprezzo e la rabbia dimostrati con tanta cattiveria contro la sua persona,
dai suoi stessi concittadini, Gesù non si scoraggia e continua la sua opera
evangelizzatrice, predicando e guarendo. E un po' alla volta le persone che lo
seguono, che lo appoggiano, che lo aiutano, che lo ospitano, aumentano a vista
d’occhio. D'altronde è abbastanza ovvio: se Gesù avesse guarito un nostro figlio,
come potremmo non essergli riconoscenti? Se fossimo noi i morti ai quali egli ha
ridato la voglia di vivere: come potremmo non ringraziarlo per tutta la vita? Se
fossimo noi i paralizzati che ha fatto camminare, come potremmo non seguirlo,
lui che ci ha guariti? Se fossimo noi gli indemoniati che ha liberato, come potremmo
non amare chi ci ha ridato la dignità di vivere? Ad un
certo punto però Gesù decide di fare una scelta: tra tanti, chiama in
particolare un ristretto gruppo di persone, gli apostoli, i Dodici. Ciò che
Gesù fa è qualcosa di nuovo. Egli vuole che questo piccolo gruppo lo segua, osservi,
impari, per poi essere in grado di fare come Lui. Infatti un giorno dirà loro “Andate, predicate e guarite” (Mc 3,14; Lc
10,1-20). E lo
dice anche a noi. Ecco perché non possiamo rimanere sempre discepoli. Ad un
certo punto dobbiamo diventare maestri, adulti, crescere. Non possiamo spendere
tutta la vita a chiedere ogni cosa a Dio o al prossimo; non possiamo essere
solamente passivi; non possiamo sempre aspettare; non possiamo vivere facendo
finta di non avere doti e capacità; non possiamo rimanere sempre bambini. Un
bel momento Dio ci manda fuori. Il
vangelo non è un cenacolo chiuso, esclusivo: il vangelo è andare nel mondo per
cambiare il mondo. Il vangelo è missione, portare la vita; è passione, fuoco,
luce, verità; cose che con Lui abbiamo sperimentato dentro e fuori di noi. È una
conseguenza normale: se proviamo una grande gioia, come possiamo tenerla solo
per noi? Se abbiamo trovato un tesoro meraviglioso, come facciamo a lasciarlo
nascosto? Se abbiamo scoperto ciò che fa vivere, sicuramente vogliamo che tutti
vivano, che tutti si appassionino e che si riempiano di questa “meraviglia”! Il
vangelo è come la scuola: si studia ingegneria non per studiare sempre, ma per diventare
ingegneri, per lavorare! Andiamo alla scuola di Gesù per diventare degli altri
Gesù, non per rimanere eterni bambini, dei piccoli egoisti che pretendono solo di
ricevere e basta. Siamo stati anche noi “segnati”; rientriamo cioè anche noi
tra i “dodici” della prima chiamata, che hanno costituito il “nuovo popolo”, il
popolo di Gesù di allora e di oggi. Nostro compito è quello di assicurare nel
tempo la presenza liberatrice e guaritrice di Gesù. Gesù infatti non vuole più
riunire le dodici tribù di Israele, ma vuole riunire tutti i popoli della terra.
Luca,
nel vangelo di oggi, ci riporta la chiamata dei primi quattro di quei dodici: i
due fratelli Pietro e Andrea, pescatori, e i due fratelli Giacomo e Giovanni,
anch'essi pescatori ma di un livello sociale più elevato (avevano, diciamo, una
“impresa” di pesca). Il
vangelo in realtà si focalizza e si concentra sulla figura di Pietro. Siamo
presso il lago di Genèsaret. Ora, nei
vangeli, l’idea del “lago” oltre che essere strettamente legata a fenomeni di
cambiamento improvviso, di tempesta, di rovesciamento di situazione, di scombussolamento,
di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), conla sua superficie liscia, immobile,
tranquilla, ci fa pensare anche alla condizione di vita di quei pescatori,
prima dell’incontro con Gesù: monotona, ogni giorno sempre le stesse cose. La
loro è una vita di superficie, piatta come le acque del lago. Un po’
come la nostra vita spirituale. Non siamo cattivi, non siamo gente di
malaffare, tant'è che permettiamo anche noi a Gesù di usare la nostra “barca”.
Però siamo convinti che stiamo bene così, che la vita è tutta qui. Pensiamo che
questo sia il solo modo di vivere. E invece, fratelli, neppure sappiamo come si
vive “uscendo” con Lui! Sì, abbiamo provato, ma abbiamo combinato ben poco,
anzi proprio nulla! A
questo punto domandiamoci: Siamo davvero felici? C'è fuoco, c'è passione nel nostro
agire? C'è luce nei nostri occhi? C'è sole nel nostro viso? C'è profondità
nelle nostre parole? “Maestro abbiamo pescato tutta la notte e non abbiamo
preso nulla”. Come a dire: “Facciamo tante cose, corriamo tanto e sempre, ma
dentro “non peschiamo nulla, non ci riempie niente”. La
realtà, fratelli, è che se continuiamo a vivere in superficie è difficile
combinare qualcosa di buono: lì, a quel livello, è proprio impossibile! Gli
apostoli stanno lavando le reti, ma mentre le lavano, ascoltano Gesù. Sentono
la vibrazione che li tocca dentro; sentono che quelle parole ridestano emozioni
“morte”, emozioni che fanno vivere; sentono che Egli mostra loro “la vita vera”,
che li spinge ad osare. Allora
che facciamo? Beh, prima o poi arriva il momento in cui dobbiamo deciderci: la
nave è pronta, l'equipaggio c'è, il comandante c’è, e l'occorrente pure. Adesso
dobbiamo sciogliere gli ormeggi e prendere il largo. O si va o si sta. Non ci
sono vie di mezzo. O ci fidiamo di lui e andiamo, o rimaniamo lì fermi per
sempre. Ad un certo punto dobbiamo rischiare, dobbiamo osare, dobbiamo andare.
Significa semplicemente avere fede: ci fidiamo e andiamo. Non sappiamo dove ma ci
fidiamo di te. “Che ne sarà di noi? Che succederà? Perderemo qualcuno? Soffriremo?
E se poi ci sbagliamo?”: domande legittime, certo. Ma se ascoltiamo la paura
non prenderemo mai il largo. Gesù
non fa mai tanti discorsi. Infatti seguirlo, non è questione di essere convinti
su quanto ha detto, ma basta amore e fiducia. Non lo seguiamo perché ci ha
convinti, ma perché ci siamo innamorati di Lui, di ciò che con Lui possiamo
essere e vivere. Le
proposte di Gesù sono sempre incisive, ma di grande respiro, di larghe,
profonde, ampie visioni: ci costringe cioè a scegliere, a metterci in gioco; ci
fa andare là dove mai avremmo pensato di poter andare, e vivere in luoghi che
neppure pensavamo esistessero. Per questo quelli che lo incontravano gli
dicevano: “Tu sei la Vita”; perché Lui li faceva veramente vivere! La
chiamata si articola in due inviti, semplici, decisi e chiari. Il primo: “Prendi il largo”: non ha bisogno di
molte spiegazioni. Vuol dire: “inoltrati nell'ignoto, esci fuori dai tuoi
soliti schemi, dai tuoi soliti modi di pensare, di fare, e inoltrati nella vita”.
“Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”.
“E se non riesco, se non funziona?”. “Possibile”. Domande lecite, fratelli: dubbi
più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, decidere una buona
volta; altrimenti continueremo a vivere così; però poi non lamentiamoci! Il
treno della vita passa una volta sola: tocca a noi prenderlo. Nessuno può farlo
al posto nostro. O noi, o nessun altro. Molti
dicono: “Non è per me; sarebbe bello ma non ne sono capace” e ne sono convinti.
In realtà dovrebbero dire: “Ho paura; mi è più comodo così!”. Fratelli
miei, continuiamo a trastullarci con le solite compagnie, col solito giro di
amici che non ci offre più nulla? “Prendi il largo!”. Frequentiamo colleghi o
amici che parlano solo di donne, di sport, di soldi e lavoro? “Prendi il largo!”.
Frequentiamo sempre quell’ambiente e ci sentiamo oppressi dai soliti giudizi
velenosi, dagli sguardi di traverso, dalle invidie? “Prendi il largo!”. Abbiamo
una sete terribile di verità, di ricerca, di scoprire, di capire; non ci
accontentiamo delle risposte preconfezionate, classiche, ma vogliamo andare al
centro della vita? “Prendi il largo!”. L'altro
invito è: “Cala le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai a fondo; vai nel mistero
della Vita”. La Vita, Gesù, non si può vivere stando in superficie, fuori; bisogna
immergersi. Non è un caso che “battesimo”, in greco, voglia dire proprio questo.
Siamo
figli di Dio? Oh, certo che sì! Ma cosa vuol dire “si”? Perché è una risposta che
non risolve nessuno dei nostri problemi e non ci cambia la vita; “Entra dentro,
immergiti” e solo allora sentiremo su di noi tutta la forza, la potenza, la
dignità di essere figli suoi. Abbiamo
una missione da compiere? Ma certo! Ma siamo noi che lo dobbiamo scoprire! Siamo
noi che dobbiamo entrare in noi stessi (introire
secum). E come si fa? Dobbiamo entrare dentro
di noi: punto. Non c'è altra strada. Quando
Pietro si rende conto di come si può vivere con Gesù (la rete è piena,
stracolma di pesci!), ha paura: “Allontanati da me, sono peccatore”. Cosa vuol
dire con questo? Prima di tutto non si sente degno: “Non ce la faccio! Non ne
sono capace! Non è possibile!”. La gente ha paura di essere felice. Poi si
sente in colpa per aver sprecato tutto quel tempo. Una delle sensazioni più
amare della vita è il giorno in cui a quarant'anni (o cinquanta o quello che
è!) ci svegliamo, ci rendiamo conto di quanto sia inebriante e meraviglioso
vivere con Lui, e diciamo: “Dio, quanta vita ho perso!”. E ci rendiamo conto di
non aver mai vissuto finora; la chiamavamo “vita” ma era “vegetare”. Fa male
scoprire quanto tempo abbiamo sprecato! Infine si rende conto del suo “peccato”:
ha chiamato “vita” ciò che era superficie, vegetare, “tirare avanti”,
vivacchiare. “Peccato”, in ebraico, significa “freccia che manca il bersaglio”:
viviamo e crediamo che la nostra sia la vita vera; poi ci rendiamo conto che la
vita è tutto un'altra cosa: non abbiamo fatto centro, non era vero: questo è il
vero peccato. Gettandosi in ginocchio Pietro riconosce di aver chiamato “vita”
ciò che era “morte”. Bisogna accettare di aver sbagliato se vogliamo trovare la
strada giusta; perché se ci intestardiamo a proseguire per la strada sbagliata,
non arriveremo mai là dove vogliamo arrivare. Siamo
umili, fratelli. Quando una cosa è sbagliata, quando non ci offre ciò che ci
dovrebbe dare, diciamo semplicemente: “Ho sbagliato, non vale la pena andare
avanti”. Abbandoniamo la vecchia strada e imbocchiamone una nuova. Da
pescato a pescatore: oggi Pietro ha toccato, sentito, sperimentato, cosa vuol
dire incontrare il Signore. Capite ora perché lo ha seguito? Capite perché
Andrea, Giacomo e Giovanni hanno fatto altrettanto? Cos'altro avrebbero potuto
fare? Erano morti e sono stati pescati, riportati in vita; cos’altro avrebbero
potuto fare se non i pescatori di Vita? «Non temere; d’ora in poi sarai
pescatore di uomini».
Sono le parole che Gesù ha detto anche a noi, dopo che lo abbiamo incontrato. La
nostra vita era vuota, come una rete senza pesci: Gesù l'ha riempita al punto da
farla traboccare. Prima chiamavamo “vita” quello che era solo “vegetare”,
sopravvivere: è Lui che ce l’ha fatto capire. Prima eravamo impauriti, ma Egli
ci ha insegnato quanto sia bello prendere il largo e non rimanere fermi al
porto. Prima ci accontentavamo, ma Lui ci ha insegnato a raggiungere il massimo
che possiamo vivere. Prima parlavamo a vanvera; ora, soltanto ora, possiamo invece
trasmettere agli altri ciò che Lui ci ha insegnato. Signore, “Tu hai parole di
vita eterna”: l’ho capito, l’ho provato. Per questo voglio seguirti; voglio lasciare
tutto, voglio mettermi a rischio, voglio osare, voglio vivere per Te. “Sulla
tua parola, getterò le mie reti”. Amen.