giovedì 14 gennaio 2021

17 Gennaio 2021 – II Domenica del Tempo Ordinario

“In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: Ecco l'agnello di Dio!” (Gv 1,35-42).

 Il Vangelo di oggi ci descrive la “vocazione” dei primi discepoli di Gesù. Del primo conosciamo il nome: è Andrea, fratello di Pietro; il secondo dovrebbe essere proprio colui che descrive i particolari dell’incontro, Giovanni l’evangelista. Essi sono entrambi discepoli del Battista: ed è sufficiente che quest’ultimo, vedendo passare Gesù, dica: “Ecco l’agnello di Dio”, che i due, senza dire una parola, quasi attratti magneticamente dalla sua personalità, abbandonino il loro maestro e si mettano silenziosamente al seguito di Gesù, felici in cuor loro di poterlo seguire.

Andrea corre poi dal fratello Simone e cerca di coinvolgerlo nel suo entusiasmo: “Abbiamo trovato il Messia!”, ma deve fare i conti con la diffidenza di quest’ultimo: Simone infatti segue il fratello senza dimostrare al momento alcuna eccitazione, alcun interesse o curiosità. Non per nulla Gesù, vistolo arrivare, gli cambia subito il nome in “Cefa”, ossia “Testa dura, testa di pietra”; uno insomma che nonostante sulle prime sia rimasto un po’ sospettoso, diffidente, superato il momento, si entusiasma come e più degli altri, raggiungendo col tempo vette di pensiero, di amore e di intuizione, inarrivabili da tutti gli altri.

Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù bisogna appassionarsi, lasciarsi entusiasmare, lasciarsi andare. La sua chiamata riguarda il cuore non la mente. Rispondere alla sua chiamata, significa seguirlo senza fare calcoli, senza compromessi, spinti solo dalla forza del cuore, dai sentimenti, dalle emozioni.

È successo e succede così anche per noi? Siamo veramente gente appassionata? Gente entusiasta? Siamo felici di essere “Chiesa”? Viviamo con trasporto e partecipazione le liturgie di lode? Ci emozioniamo? Beh, dobbiamo riconoscere che a volte è piuttosto difficile scorgere nei nostri volti energia, interesse, emozione, vitalità, entusiasmo: è più facile vedere persone che ogni tanto sbirciano l’orologio…

Dobbiamo capire invece l’importanza del lasciarsi appassionare da Gesù: perché solo se siamo entusiasti, convinti, gioiosi, potremo a nostra volta coinvolgere altri a seguirlo, come hanno fatto i primi discepoli del vangelo: il Battista con Andrea e l'altro discepolo, Andrea con suo fratello Simon Pietro, Filippo con Natanaele, e così via.

Del resto è una cosa naturale: se incontriamo qualcuno o qualcosa che ci rende felici, che ci fa vivere bene, soddisfatti, ne parliamo subito volentieri con gli altri, desideriamo che anch’essi facciano la nostra stessa esperienza.

L’evangelizzazione, la missione, il proselitismo, avvengono soprattutto per contagio: “Sapessi chi ho incontrato, cosa ho visto! Dai, vieni anche tu!”. E noi li seguiamo non per chissà quale motivo, ma perché vediamo in loro grande entusiasmo, gioia, energia: sentiamo cioè che quella esperienza ha procurato loro un gran bene: rimaniamo quindi colpiti dalla loro “testimonianza”, e ci diciamo: “Perché non fidarci? Perché non proviamo anche noi?”.

A volte preferiamo rispondere: “No, grazie, non mi interessa, non fa per me!” e lasciamo cadere la cosa. Ma se non abbiamo neppure provato! Infatti non è vero che non fa per noi: è che siamo sospettosi, abbiamo paura, non vogliamo metterci in gioco. Ciò significa purtroppo che dentro di noi, nel nostro cuore, siamo già morti!

“Che cosa cercate?”, chiede Gesù ai due discepoli: una domanda che continua a ripetere anche a ciascuno di noi.

Attenzione alle parole: Gesù non chiede “chi” cercate, ma “cosa” cercate. Sembra irrilevante, ma la differenza è fondamentale: perché sono le “cose” che cerchiamo, che desideriamo, quelle che stabiliscono se, alla fine, siamo degni del “chi” vogliamo incontrare.

Il desiderio, infatti, se da un lato è la nostra spinta, la nostra carica iniziale, dall’altro costituisce anche il nostro limite massimo raggiungibile.

Se infatti il nostro desiderio è la ricchezza, una volta raggiunta, il nostro cercare si ferma, non va oltre; se il nostro desiderio è di mangiare e bere, una volta sazi, ci fermeremo lì.

Certo, i desideri dell’uomo in genere non vanno oltre le “cose” concrete: l'auto nuova, oggetti di tendenza, un buon lavoro, vacanze e divertimenti, un cospicuo conto in banca, una casa signorile.

Ma sappiamo che queste cose non placano il desiderio dell’uomo: sembra, ma non lo fanno! Una volta raggiunto l’obiettivo, infatti, egli verrà nuovamente assalito dall’insaziabile voglia di “altro”, continuerà a trascinarsi nella insoddisfazione, alla ricerca angosciante di “cose” sempre nuove.

C’è però un “desiderio” innato, vero, originale, inscritto nell’anima, che è di origine soprannaturale, celestiale (desiderio, da “de-sidera”; letteralmente: “che riguarda le stelle, di natura celeste, divina”); un desiderio veramente speciale, senza limiti, che ci appassiona, che crea una tensione continua verso il divino, verso Dio, al quale il nostro cuore anela inquieto fin dalla nascita, come ci spiega sant’Agostino: “inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”, “il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te (Confessioni, 1,1,1)

Questo ci spiega dunque la domanda di Gesù: “Cosa cercate?”, una richiesta che, detta con altre parole, significa: “Se cercate, se desiderate la vera vita, la sua pienezza immortale, la libertà assoluta, la completa felicità, allora seguitemi, perché questo è quanto Io vi offro. Se invece cercate o desiderate altro, se volete solo “cose” di questo mondo, caduche, instabili, transitorie, cercatele altrove!”.

A questa domanda esplicita, invece di una risposta, i due discepoli pongono a Gesù un’altra domanda: “Maestro, dove dimori?”. Una domanda peraltro che, vangelo alla mano, per noi lettori contemporanei, contiene già una chiara risposta: è il testo greco, più pertinente, che ce la suggerisce: “Pù mèneis? dove rimani?”, non “dove dimori o dove abiti” della traduzione italiana.

Il significato profondo del verbo mèno (rimanere) - usato quasi con ostinazione da Giovanni per ben 10 volte in soli 7 versetti del capitolo 15 del suo vangelo - ci rivela apertamente dove Gesù “rimane”. Egli dice: “Rimanete in me” (mèinate en emòi) “Chi rimane in me ed io in lui” (o ménon en emòi kai egò en autò)” ... “Rimanete nel mio amore” (menèite en tè agàpe mou) e via dicendo (Gv 15,4-10).

Gesù in pratica ci invita a “rimanere” in Lui; è questo il luogo in cui dobbiamo raggiungerlo, perché è lì, nel suo amore, nel suo e nostro cuore che egli “rimane” (abita, dimora): non un luogo fisico, raggiungibile materialmente, ma uno stile di vita ad imitazione della sua. Dobbiamo cioè vivere, agire in un certo modo, per seguirlo “dentro” di lui, “dentro” di noi, nel suo amore, perché è lì che Gesù “rimane”.

Ecco, questo è il grande, unico percorso che i discepoli devono fare nella loro vita: “rimanere” nel cuore, nell’amore di Dio, smettere di cercare “fuori”, Colui che va cercato “dentro”.

Perché la felicità non sta nell’avere, nell’ottenere cose, ma nell’essere, nel rimanere con l’Amore. E ciò non dipende da Dio, ma solo ed esclusivamente da noi!

Per questo Gesù risponde: “Venite e vedrete” “Erchésthe kai ocsèsthe” (Gv 1,39). Non dà alcuna indicazione precisa ma: “Vuoi sapere dove abito? Vieni e vedi! Vuoi conoscermi meglio? Vieni e vedi. Sei tu che ti devi muovere: Vieni e seguimi! Lo devi scoprire tu da solo: Vieni e seguimi!”.

“Venire”, “seguire” sono verbi di movimento, sono dinamici: Gesù non invita nessuno a starsene seduto a pensare, aspettando che passi il tempo: il suo è un invito perentorio a muoverci, ad uscire dalle nostre posizioni, dalle nostre idee, dalle nostre convinzioni!

Purtroppo però, la nostra sequela è spesso un “vorrei, ma non ce la faccio”: una risposta nebulosa, di comodo, ad un invito che al contrario è chiaro e tassativo: “Vieni e vedi!”.

Egli vuole da noi un preciso cambiamento di vita: dobbiamo cioè evolvere, spostarci, progredire; ci vuole lontani dalle nostre posizioni di partenza.

Il motivo per cui Dio ci fa paura è sicuramente perché ci vuole protagonisti. La sua chiamata non si può ignorare, è un fuoco che ci brucia dentro: non sono ammesse mezze misure, compromessi, non sono tollerati i “distinguo” o le astuzie mentali: con Lui deve essere sempre “tutto”, non è ammesso il poco o niente. Con lui dobbiamo tendere sempre al massimo, perché chi si accontenta del poco, rischia di non avere neppure quello.

Dobbiamo tutti “andare e vedere”; dobbiamo fare piena esperienza di Lui, dobbiamo calcare esattamente le sue orme, dobbiamo renderci conto di persona di come ci vuole: non è ammesso fermarsi ai “mi pare” ai “si dice”; ciascuno deve “andare e verificare”, deve guardare con i propri occhi. Ricordate l’esclamazione di Giobbe? “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio; ma ora i miei occhi ti vedono!” (Gb 42,5).

Sapere tutto sull'amore è sicuramente una cosa buona; ma provare l’Amore, vivere l'Amore è tutt'altra cosa. Conoscere interi trattati di teologia non ci autorizza a dire di conoscere Dio. Ma solo quando abbiamo superato cristianamente le prove e i dolori della vita, solo quando abbiamo provato la cruda sofferenza per la perdita di un figlio, di un genitore o di una persona cara, possiamo dire cosa significhi rifugiarsi nell’amore di Dio, cosa voglia dire fare esperienza del suo amore.

Quante volte invece ci permettiamo di parlare, di giudicare cose o persone che non conosciamo, che non abbiamo “sperimentato”. Se non sappiamo, tacciamo; se vogliamo sapere, informiamoci, andiamo a vedere, controlliamo personalmente.

Per vivere il vangelo ci vuole coraggio, determinazione. Il vangelo non è rassicurante da questo punto di vista; non ci dirà mai: “Andrà tutto bene, tutto filerà liscio come l'olio”. Non è così.

Dio è rassicurante, perché ci dice: “Non aver paura, io sono con te!”; lo sarebbe meno se ci dicesse: “Vivi tranquillo, non avrai mai problemi!”.

Quando infatti Gesù vide i discepoli sbigottiti di fronte alle difficoltà da superare per raggiungere la perfezione, li rincuorò dicendo: “Se ciò non è possibile presso gli uomini, con Dio tutto è possibile” (Mt 19,26). E a San Paolo, indebolito dalle prove di Satana dirà: “Sufficit tibi gratia mea, Ti basta la mia grazia; poiché la mia presenza, la mia potenza, si manifesta soprattutto nella debolezza” (2Cor 12,9). Amen.

 

  

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