venerdì 25 settembre 2020

27 Settembre 2020 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

 “Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò!” (Mt 21, 28-32).

 Non dobbiamo stupirci se Gesù oggi insiste nel proseguire la lezione di domenica scorsa, impartendoci un ulteriore insegnamento, altrettanto provocatorio, altrettanto indigeribile, ma altrettanto essenziale.

Il nostro Dio, cioè, non gradisce l’esteriorità, il manierismo, i giochetti politici; non ama il doppio gioco, il nostro far vedere una cosa e pensarne un’altra, esibire in chiesa una grande devozione, come espressione di una fede profonda, e poi, appena fuori, far finta di nulla e rivestirci disinvoltamente di tutte le nostre misere furbizie: sono cose che conosciamo già molto bene. Ma conoscerle non basta!

Perché se c’è una cosa, una soltanto in particolare, che manda su tutte le furie il nostro Padre misericordioso, una cosa che lo irrita profondamente, non è tanto il peccato, il mancargli di rispetto, ma l’ipocrisia sistematica: cioè quel continuo volergli presentare per buone, sincere e convinte le nostre intenzioni, le nostre azioni, la nostra vita, quando invece, noi per primi, sappiamo bene che non lo sono. Diversità

Potremmo dire che la parabola di oggi stabilisce la fondamentale differenza tra il “dire” e il “fare”: è in pratica il racconto di due figli che di fronte all’ordine del padre di andare a lavorare nella vigna, rispondono in maniera opposta: il primo dice “sì” ma “non ci va”, l’altro dice “no” ma poi, ripensandoci, obbedisce all’ordine del padre. Ebbene: è esattamente questa inaffidabilità, questo comportamento irrispettoso, inconcludente, menefreghista, che Gesù stigmatizza.

Entrambi i figli reagiscono negativamente: tuttavia Gesù dimostra di preferire tra i due il ribelle, il contestatore, quello che impulsivamente dice “no”, quello che ha il coraggio di esprimere con franchezza il proprio pensiero, senza temere di esporsi, di mettersi in discussione; quello che poi, ragionando con calma in cuor suo, decide di obbedire al padre e va a lavorare; per Gesù questi è decisamente più rispettabile dell’altro che, preoccupato di mantenere la sua immagine di figlio educato, rispettoso, perfetto, gli risponde “sì”, ma in realtà non muove un dito.  

In altre parole, Gesù fa qui capire di non gradire da parte dei suoi figli, della sua Chiesa, una risposta inconcludente, una religiosità di facciata, epidermica, senza senso, che si ferma superficialmente al rito, all’esibizione canora, all’omelia reboante, ad una fede ostentata, infruttuosa: espressioni indicative di una religiosità deformata, arida, asservita all’umano, assolutamente inefficace per poter vivere fedelmente in Lui, per approfondire, amare e diffondere nel mondo la sua Parola.

Purtroppo oggi, nella progressiva scristianizzazione della società, sono sempre più numerose le persone che irridono il Figlio di Dio, alla stregua dei pagani del Suo tempo, vivendo nel disinteresse e nell’ignoranza religiosa! Persone che si comportano in totale contraddizione con quel che professano di credere; cristiani che hanno adottato uno stile di vita accomodante, in contrasto con quel “Credo” che a voce alta professano ogni domenica davanti alla comunità; cristiani che esternamente rispondono sempre con un “sì”, che poi puntualmente nella realtà si rivela un “no”! Persone sorde alla chiamata di Dio, insensibili alle vibrazioni spirituali dell’anima, indifferenti alla passione e all’amore divino che infiamma i cuori.

Sono tante, tantissime, troppe.

Purtroppo siamo tutti assimilabili un po’ a quel pagliaccio di figlio che risponde “si” senza concludere nulla, deludente icona della nostra cristianità parolaia!

Succede però talvolta di immedesimarci anche con l’altro figlio: quando infatti Dio ci affida un compito, reagiamo con un rifiuto: “No, non lo faccio, non ci vado!”. E perché mai? Semplice: non capiamo, nella nostra ottusa umanità, quello che Dio vuole da noi; siamo diffidenti; siamo convinti che ciò che ci propone sia qualcosa di impossibile, richieda una costante volontà, una seria applicazione, tantissimo sacrificio. No, meglio evitare; ci riduciamo a starcene immobili dietro la nostra facciata, bloccati dalle paure, dagli scrupoli, dall’egoismo, dalla vergogna di apparire “troppo credenti” di fronte agli altri: insomma non vogliamo correre rischi.

Per fortuna poi, rientrati dentro di noi, riusciamo a capire l’enorme importanza di essere stati scelti da Dio, di essere delle creature speciali, personalmente “amate” da Lui; capiamo finalmente che dobbiamo andare, che dobbiamo reagire, scuoterci dal nostro inutile immobilismo, dirgli di “sì” con ritrovata sincerità, con il cuore aperto, anche se tutto ciò continua a sembrarci innaturale, pazzesco, folle.

Evitiamo allora di fare troppi calcoli, dobbiamo deciderci: dobbiamo semplicemente andare, dobbiamo fidarci, buttarci; non possiamo aspettare oltre, non possiamo perdere altro tempo. Appena intuiamo quello che Dio vuole da noi, non possiamo continuare a tergiversare, far finta di nulla, rifiutare di uscire dal nostro guscio, dalle nostre false sicurezze: le Sue preziose chiamate rimarrebbero tutte, unicamente per colpa nostra, delle occasioni mancate, incompiute, mai fiorite, mai sbocciate. Un vero peccato!

Forse qualche volta abbiamo anche detto subito di “sì”, trascinati dall’emozione di udire la Sua voce dentro di noi; ma passato il momento magico della chiamata - di qualunque genere essa sia: religiosa, sacerdotale, matrimoniale - il nostro “sì” si è bloccato, si è fermato, non l’abbiamo più curato, approfondito, non ha messo radici, non ha trovato consistenza e terreno fecondo nel nostro cuore. Nel tempo è diventato un “no”: la nostra entusiastica adesione iniziale si è totalmente spenta. Per la nostra aridità.

Ebbene, è tempo allora di riprendere in mano la nostra vita. Abbiamo bisogno di grande onestà, è vero: dobbiamo armarci di grande rispetto per la volontà di Dio; un profondo rispetto morale, umile, sincero, risolutivo. Lasciamo che siano le canne al vento a fare chiasso. Noi, lavoriamo sodo nel silenzio.

Guardiamo Gesù, guardiamo l’uomo che Lui è stato: vero, trasparente, coraggioso fino in fondo, senza le nostre piccole e grandi bugie, senza le nostre meschinità: seguiamo le sue orme, cerchiamo di essere anche noi uomini “del sì” come Lui.

Essere veri, sinceri, trasparenti, non ci garantisce certamente una vita tranquilla, lo sappiamo; ma ci farà sentire uomini e donne completi, realizzati, soddisfatti. Non ci farà guadagnare tanti soldi e forse neppure tante amicizie, ma ci riconoscerà una dignità che nessuno potrà mai offrirci: quella di sentirci cristiani, autentici di figli di Dio.

Ecco, questa in sintesi, è la correttezza che Gesù pretende dalle nostre risposte, l’onestà della nostra vita.

Evitiamo allora di indossare davanti a Dio il nostro vestito bello, del perfetto devoto, del perfetto cristiano evoluto; indossiamo invece quello modesto del sincero cercatore di Dio, del discepolo che con la propria esistenza cerca di rispondere positivamente alla sua chiamata. Senza questa integrità, senza questa consapevole adesione, finiremo col perdere la strada, col tradire la fiducia che Egli ha riposto in noi; finiremo col costruirci un altro Dio da adorare, uno che ci assomiglia troppo; una religione fine a sé stessa, che si esaurisce nella esteriorità della preghiera e del culto, nella menzogna e nel disinteresse! Non celebriamo il Dio della vita con azioni di morte! Siamo autentici con Lui. Non lo blandiamo: soprattutto non temiamo di presentarci a Lui nella imbarazzante nudità dell’essere come siamo: figli umili, fragili, peccatori ma, consapevoli del suo aiuto e del suo amore, armati di tanta buona volontà. Amen.

 

 

giovedì 17 settembre 2020

20 Settembre 2020 – XXV Domenica del Tempo Ordinario


“Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna.” (Mt 20, 1-16).


 La parabola di oggi potrebbe sembrare a molti un tentativo di difesa dell’autonomia del datore di lavoro nello stabilire la retribuzione ai suoi operai.

Un padrone, dunque, esce di primo mattino per cercare degli operai a giornata da mandare nella sua vigna: trovatili, si accorda con loro per “un denaro”, che era il giusto corrispettivo di quei tempi per un giorno lavorativo. Preoccupato però per l’urgenza della vendemmia, esce ancora, in ore diverse del mattino e del pomeriggio, e continua ad assumere chi trova, mandando tutti a lavorare nella sua vigna per la stessa paga. Alla fine della giornata, gli operai si presentano dal padrone per ricevere ciascuno la sua paga: per primi vengono chiamati quelli che hanno lavorato un’ora soltanto e ad essi il padrone consegna un denaro ciascuno. A questo punto gli altri, con più ore di lavoro, pensano di ricevere una paga maggiore, proporzionale alle ore di effettivo lavoro. E invece no: tutti, indistintamente, sia chi ha lavorato un’ora, sia chi tre ore, sia chi l’intera giornata, ricevono un denaro a testa. È normale quindi che qualcuno ritenesse ingiusto un simile trattamento. In genere la paga è proporzionale alle ore lavorate. Quindi, se chi aveva lavorato per un’ora sola aveva ricevuto un denaro, chi ne aveva lavorato molte di più o per l’intera giornata si aspettava giustamente di incassare una somma maggiore.

Ma Dio non ragiona come noi; Egli si comporta diversamente. Dio non dà secondo i nostri “diritti”, Dio non usa i parametri sindacali: la giustizia di Dio non è legata ad alcuna legge economica del tipo: “Hai lavorato tot, eccoti tot”. Egli non pensa come tanti ricchi della nostra società industrializzata: “Se non lavori e non guadagni tanto da poterti sfamare, è un problema tuo, non mio”. No, questa non è la giustizia di Dio: la sua è la giustizia dell’amore, del cuore. Dio vuole che tutti vivano, che tutti abbiano il necessario, che tutti possano avere le stesse possibilità per realizzarsi.

La chiave della parabola sta quindi altrove: ossia nel denunciare e nel condannare il comportamento molto comune di confrontarci con gli altri. Lo scontento, il malessere, la convinzione di subire ingiustizie, sentimenti che spesso ci affliggono, provengono quindi non dall’esterno, dagli altri, ma esclusivamente dal nostro interno, dalla gelosia che scaturisce dal nostro continuo confrontarci egoisticamente con quanto succede agli altri: una serpe velenosa, l’invidia, si insinua nei nostri cuori, obnubila la nostra mente, e ci destabilizza da ogni logico raziocinio: “lui sì, io no! Lui tanto, io poco!”.

La molla che fa scatenare il malcontento degli operai della prima ora, a ben vedere, non è tanto il comportamento del padrone nei loro confronti: essi sono infatti consapevoli di aver ricevuto esattamente quanto avevano concordato: chiuso; la causa del loro malumore sta invece nel constatare che anche chi aveva lavorato un’ora soltanto hanno percepito la stessa somma: e questa, in una parola, si chiama “invidia”. A nessuno di essi interessa più l’essere stato trattato con giustizia dal padrone; quello che ora li manda in bestia è che gli altri hanno avuto la stessa paga lavorando di meno.

È su questo che dobbiamo meditare: chi di noi, infatti, non ha mai ceduto all’invidia? Tutti, chi più chi meno, in certe situazioni pecchiamo di incoerenza, non siamo onesti, obiettivi. I nostri rapporti “fraterni” perdono di lucidità, di autenticità.

Per questo non dobbiamo mai dimenticare le parole che il padrone del vangelo, in simili circostanze, potrebbe dire anche a noi: “Io e te abbiamo concordato una giornata di lavoro per un denaro: tu eri contento così e lo hai accettato; perché ora sei tanto arrabbiato? Perché vuoi impedirmi di essere generoso, buono e grande d’animo con gli altri? Ti ho forse tolto qualcosa? Ti ho defraudato di qualcosa? E allora perché ti lamenti?”.

Se fossero stati presenti soltanto gli operai della prima ora, non ci sarebbe stato alcun problema. Sarebbero stati tutti felici: avevano lavorato, avevano guadagnato il pattuito, e tutti se ne sarebbero tornati a casa soddisfatti. Cos’è allora che ha rovinato la loro festa, la loro gioia? Il confronto. L’aver constatato che gli altri hanno ottenuto un trattamento migliore del loro: e non vanno più a casa felici per il loro giusto guadagno, ma tristi e infuriati per quello migliore avuto degli altri.

Purtroppo è il nostro peso quotidiano: l’invidia, il confronto malevolo, ci toglie ogni valore personale: non consideriamo più ciò che abbiamo, non lo gustiamo, non lo viviamo più, non guardiamo più a noi stessi; non valorizziamo più ciò che siamo, ciò che abbiamo, ma abbiamo lo sguardo fisso sugli altri. E il confronto ci distrugge, ci rovina la vita, ci porta ad odiarli.

Purtroppo, questo continuo, maniacale, confronto con gli altri, è una competizione che evidenzierà sempre la nostra inferiorità: perché nella vita ci sarà sempre qualcuno che è più di noi, che ha più di noi, che sa più di noi, che è più bravo, più apprezzato, più bello di noi. Per cui se questa ossessione non ci permette una vita felice e serena, la causa non dipende dagli altri, ma da noi stessi: il vero e unico nostro problema siamo noi!

Gesù, con questa parabola, condanna la nostra logica del merito, secondo cui Dio ci amerebbe e ci premierebbe solo in proporzione dei nostri meriti, del nostro valore, del nostro lavoro, del nostro impegno personale, della nostra buona condotta.

Così la pensavano i devoti del suo tempo. E così la pensa purtroppo anche molta gente di oggi. Ma Gesù rigetta qui questa logica umana, la distrugge: una logica che svilisce i rapporti di Dio con le sue creature condizionandoli al principio opportunistico del “do ut des”; subordinando cioè l’infinita e gratuita misericordia di Dio ad un'arida contabilità di “dare e avere”. Quello che al contrario Gesù vuol farci capire è che molto più importanti del merito, del guadagno, della “giusta” ricompensa, ci sono delle “gratuità” dal valore incalcolabile, come la grazia, il dono, l’amore.

Non dobbiamo allora cadere nell’errore degli operai della prima ora, che non hanno capito con quale padrone speciale avevano a che fare, e hanno ridotto la loro fede, il loro credo, a “lavoro, sudore, ricompensa”. Peggio: hanno guardato con sospetto gli altri lavoratori, quasi fossero dei disonesti pretendenti ai loro privilegi contrattuali, concordati in esclusiva col padrone.

Noi dobbiamo evitare questa lettura del Vangelo: dobbiamo rinunciare a questa assurda pretesa di essere i più meritevoli, i più degni, i più osservanti, i più impegnati nei servizi ecclesiali. Non sragioniamo; cerchiamo piuttosto, con dignità e umiltà, di essere semplicemente noi stessi! Accettiamo gli altri per quello che realmente sono: “fratelli”, figli dello stesso Padre, che lavorano nella medesima vigna paterna, obbedendo anch’essi alla Sua chiamata.

A che prò voler interferire con la volontà di Dio screditando il loro valore? Che senso ha? Siamo tutti sue creature, amate e stimate da Lui, tutti allo stesso modo.

Non perdiamo tempo, allora, in meschinità: ringraziamolo invece, e gioiamo per il dono che ci ha concesso di poter lavorare nella sua vigna, pur non disponendo di alcuna “specializzazione”, di alcun attestato di “merito”; e gioiamo parimenti per la possibilità offerta agli altri “operai” anche a quelli dell’ultima ora di poter accogliere la stessa grazia trasformante che per amore Lui sta elargendo a noi.

La bontà di Dio ci faccia così uscire dalle ristrettezze di una fede “sindacalizzata”, e trasformi questa nostra breve “giornata lavorativa”, in una anticipazione, ancorché pallida, di quella gioia, di quell’immenso fuoco d'amore e di bontà che Egli riverserà un giorno nei cuori dei suoi fedeli lavoratori. Amen.

  

giovedì 10 settembre 2020

13 Settembre 2020 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario


“Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” (Mt 18, 21-359).

 Il Vangelo di oggi continua a proporci insegnamenti per la nostra vita di “comunità”. Domenica scorsa ci ha dimostrato quanto sia importante ascoltare le ragioni del proprio fratello, rapportarsi con lui; quanto sia importante aprirgli il nostro cuore e accogliere il suo. Oggi ci offre un ulteriore approfondimento: “il perdono è uno dei modi più efficaci per esprimere l'amore”.

A Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. “Quante volte devo perdonare? Fino a sette volte?”. Era il limite imposto dalla legge antica. E Gesù: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.

Il che significa, caro Pietro, che non hai scampo: devi perdonare sempre! Perché? Semplicemente perché il “tuo” perdono non deve provenire dalla tua buona predisposizione caratteriale, ma deve essere la logica e consapevole conseguenza del fatto che Dio perdona te in ogni occasione, sempre, di continuo. Chi si guarda un po’ dentro, infatti, e vede quanto male gli è stato perdonato, non può esimersi dal perdonare a sua volta.

L’unica misura del perdono è quindi perdonare sempre: senza misura, senza calcoli; perché è quanto Dio fa con noi.

La nuova giustizia che Gesù introduce nel Regno, dunque, non è quella che si basa sulla regola del “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la giustizia propria di chi ama senza limiti; Egli sostituisce cioè la giustizia della legge “che uccide”, con la sua, la legge dello Spirito che “dona vita”.

Perdono incondizionato: questo deve essere il nostro riferimento. Ma in cosa consiste il perdono? Come viverlo? Come si giustifica? Sono le domande che ci nascono spontanee.

Ecco allora che Gesù, con la parabola del servo “graziato”, ci porta a fare le dovute considerazioni pratiche: questo servo doveva al suo re una somma esorbitante, “diecimila talenti”, una cifra enorme, incalcolabile, poiché per raggiungerla avrebbe richiesto l’intero salario giornaliero di duecentomila anni di lavoro. Un’assurdità. Consapevole di questo, il servo tenta il tutto per tutto: va dal suo creditore, si getta ai suoi piedi e lo supplica tra le lacrime. E il re prova compassione per lui; si immedesima talmente nella sua angoscia, nella sua disperazione, da condonargli, in uno slancio di misericordia, l’intero debito. Un condono tombale, senza alcuna penalità.

Bene: quel servo, ottenuta la grazia per il suo mostruoso debito, uscito dalla residenza reale, incontra un suo pari che gli doveva poche monete; da notare la precisazione di Matteo: “appena uscito”, non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un'ora dopo, ma “appena uscito!”: e, nonostante fosse ancora nel pieno dell’emozione e della gioia per la cancellazione del suo debito, in preda ad una collera improvvisa, assale quel poveretto e lo strangola gridando “rendimi ciò che mi devi!”: una inezia rispetto ai miliardi che gli erano stati appena graziati! E senza pietà alcuna, sordo alla richiesta di pazientare del meschino, lo fa gettare in prigione.

Certo, di fronte alla legge egli avrà agito anche correttamente, ma ha comunque dimostrato di essere un uomo spregevole, senza pietà, senza il minimo senso di giustizia. Non ha saputo riconoscere al compagno, che gli doveva una somma irrisoria, quella stessa misericordia che poco prima il re gli aveva accordato condonandogli un debito smisurato, incalcolabile.

Capita molto spesso anche a noi, malauguratamente, di reagire d’impulso contro insignificanti inadempienze ricevute e, come quel servo, rivendichiamo con cattiveria i nostri diritti, esigendo l’immediato risarcimento dei danni, ancorché irrilevanti.

Ma questa è una scelta che non paga mai, che non risolve in alcun modo i nostri problemi, poiché introduce un meccanismo perverso con cui il male richiama altro male, la violenza genera altra violenza, chiamando in causa famiglie intere, moltiplicando all’infinito odio e avversione: la sete di vendetta infatti corrode l’anima, fa vivere nel tormento, porta l'inferno nel cuore.

Nondimeno, non è raro imbattersi quotidianamente in situazioni del genere: vicini di casa che litigano per un nonnulla e lasciano passare anni, decenni, senza riprendere un dialogo, una parola, un saluto; genitori e figli che interrompono drasticamente qualunque rapporto per motivi puerili, banali, distruggendo in tal modo l’armonia familiare; persone di chiesa, cristiani convinti, che dilaniandosi l’anima per immaginarie ingiustizie o critiche subite da altri fedeli o dai preti di turno, abbandonano sdegnosamente la loro comunità ecclesiale; religiosi laici e consacrati che, in intimo contrasto tra loro, pur assistendo quotidianamente all’Eucaristia, incuranti dell’invito di Gesù di praticare amore e misericordia, insistono nel vivere schiavi del loro rancore. Sono tutte persone che preferiscono rimanere orgogliosamente arroccate sulle loro posizioni, pur sapendo che il perdono è l'unica strada che consente di vivere un’esistenza feconda, autentica, serena e felice.

Certo, si tratta di una strada difficile da percorrere, questo sì. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con il Suo aiuto.

L’impegno inderogabile per noi cristiani, ci dice dunque Gesù, è quello di perdonare, sempre e comunque, proprio perché sappiamo che Dio lo fa continuamente con noi. Dobbiamo cioè perdonare perché siamo dei “perdonati privilegiati”: siamo noi per primi che, continuamente e gratuitamente, senza merito alcuno, sperimentiamo il perdono divino.

Può succedere anche che talvolta il nostro perdonare come Gesù ci ha insegnato, rischi di essere ridicolizzato dalla gente, ci venga rinfacciato come segno di debolezza, di meschinità. Poco importa: chi ha incontrato sulla propria strada il grande perdono di Dio, non può più astenersi dal trattare comunque tutti come fratelli, con sincerità, con amore, con la massima indulgenza.

Allora possiamo dire che una comunità è “osservante”, “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti, immacolati, non sbagliano mai e non si permettono di offendere gli altri; ma perché si sentono dei “perdonati” e in quanto tali amano e perdonano i fratelli. Il male reciproco che, nella loro debolezza, inevitabilmente fanno, non costituisce quindi un elemento dirompente, ma nel reciproco perdono diventa il collante che li unisce saldamente tutti in Cristo, santificandoli.

Davanti a Dio siamo tutti peccatori, debitori insolvibili, perché mai, in tutta la nostra vita, potremmo restituirgli l’amore che Egli, con la sua infinita misericordia, ci dona continuamente: quell’amore che, dal canto nostro, disinvoltamente, calpestiamo continuamente con le nostre intemperanze. Sì, perché anche noi, come il servo del vangelo, spesso e con facilità siamo “giusti” ma spietati, “corretti” ma cattivi; siamo persone magari rispettose del diritto e della giustizia umana, ma molto meno inclini alla carità, alla pietà e alla misericordia. 

Dobbiamo quindi capire, una volta per tutte, che il perdono guarisce, ripaga, matura e fortifica chi lo esercita, non chi lo riceve; e che quindi, perdonando, facciamo prima di tutto i nostri interessi! Amen.

 

 

giovedì 3 settembre 2020

6 Settembre 2020 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario


“Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello…” (Mt 18,15-20).

 Il Vangelo di oggi ci rivela un Matteo preoccupato di veicolare gli insegnamenti di Gesù alla comunità del suo tempo. Il suo è un tentativo di “tradurre” lo spirito di Gesù in comportamenti e regole, destinati ai suoi contemporanei, a uomini che hanno vissuto più di duemila anni fa, in un ambiente e in una cultura molto diversa dalla nostra.

Le sue sono regole destinate a mutare nel tempo, in quanto legate ad una particolare cultura. Quello che deve interessare a noi, e che rimane immutato nei secoli, è invece il messaggio di Gesù, quello che scaturisce dal suo insegnamento e dalla sua vita.

Ecco allora che il senso profondo del Vangelo di oggi ci deve impegnare tutti, perché nella sua semplicità, comporta uno sforzo costante, per nulla scontato: dobbiamo usare cioè, nei nostri rapporti interpersonali, umiltà, sollecitudine, discrezione e amore.

Se siamo convinti discepoli di Gesù, se Dio abita realmente nel nostro cuore, lo dimostriamo non attraverso la quantità di preghiere o mediante la frequenza nell’invocare il suo nome, ma da “come” ci comportiamo con le persone che ci stanno vicino, dalla “qualità” dei nostri rapporti, da come insomma “ci poniamo” con gli altri.

“Nella tua vita, qualunque cosa fai, falla sempre con amore”: è questa la massima basilare che dobbiamo seguire sempre con fedeltà. Anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto, non dobbiamo mai dimenticare che l’altro è nostro fratello e che dobbiamo amarlo.

Può sembrare una battuta ma non lo è; perché nella vita può succedere che anche quando non litighiamo mai con nessuno, quando siamo sempre ossequiosi con tutti, il nostro cuore è indifferente, non prova particolari sentimenti, tanto meno amore; al contrario possiamo anche litigare continuamente con i fratelli, ma nello stesso tempo amarli sinceramente, di vero cuore. Possibile? Certo: a condizione che il “litigio” nasca per buoni e corretti motivi, che il “robusto” scambio di opinioni (chiamiamolo così!) poggi su una reale onestà mentale, fondata nella carità, nell’amore fraterno: in questo modo ogni “scontro” lascerà ricchezza di vita, verità da imparare, apertura verso gli altri, e non una totale chiusura nelle proprie posizioni, in un astio irrazionale, come spesso avviene. Ci sono persone infatti che per anni litigano testardamente sempre per lo stesso identico motivo: è evidente che non vogliono capire, non vogliono imparare; non capiscono che litigare non serve assolutamente a nulla, che è inutile e fa solo male: perché se per principio non si vuole imparare, nella vita non si crescerà mai, non si maturerà mai.

L’insegnamento di oggi va anche oltre: ci suggerisce cioè quali atteggiamenti dobbiamo tenere in una eventuale controversia: e sono due in particolare. Il primo è di evitare il coinvolgimento di altre persone, allo scopo di ottenere consenso e ammirazione per come gestiamo la cosa; il secondo è che sempre e comunque dobbiamo riservare alla controparte la nostra comprensione, la nostra carità, cercando di ascoltare e capire con amore fraterno le rispettive motivazioni personali. “Se c’è una questione irrisolta fra te e tuo fratello, va di persona, da solo”; un comportamento che si pone peraltro in aperto contrasto con quanto imponeva la legge antica: “Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui” (Lv 19,17). A quel tempo era infatti normale denunciare apertamente l’operato di una persona: “se sai una cosa dilla a tutti”. Gesù, invece, propone una condotta del tutto nuova, rivoluzionaria, decisamente contro la legge e l’usanza del tempo.

In pratica dunque: “C’è qualcosa che non va, hai subito un torto da parte di qualcuno? Va da lui e chiarisciti privatamente con lui. Solo così conoscerai personalmente il suo punto di vista: perché forse le cose non stanno come tu pensi, e così potrai ricrederti”.

In ogni caso, mai basare il nostro giudizio sulle chiacchiere, sul sentito dire, su quello che dice la gente. Succede spesso, invece, che in casi del genere, piuttosto che chiarire con il fratello, noi corriamo dai nostri “confidenti” per sparlare, per malignare su di lui, per denigrarlo; “confidenti”, che poi a loro volta si sentono immediatamente in dovere di commentare il fatto con i loro “confidenti”, innescando così una reazione a catena di maldicenze inopportune, senza alcun fondamento, il più delle volte crudeli, ipocrite, ingiuste. È il classico comportamento da immaturi! Ma siamo adulti, ragioniamo allora da adulti!

La prima comunità cristiana non era certamente perfetta: anche in essa c’erano senz’altro delle discussioni, dei conflitti, delle liti: da qui l’incalzante ripetizione di Matteo (per ben 4 volte!) del verbo “ascoltare”, nel senso di capire, sentire tutte le ragioni, immedesimarsi in esse, perdonare: e ciò da entrambe le parti. Perché è questo che ci impone la carità cristiana: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”. Punto.

Ciò succedeva ai tempi di Matteo: ma, fin dalle origini, non esiste convivenza umana in cui tensioni, lotte interne, scontri reciproci siano assenti: e le nostre comunità moderne non sono certo da meno. È una situazione inevitabile, dovuta alla naturale conflittualità umana, alla diversa mentalità di ogni singolo individuo. Tuttavia, ci dice oggi il vangelo, anche in queste circostanze non va in alcun modo esclusa la convenienza dell’amore; litigare è facile, è inevitabile, ma ciò non comporta l’esclusione, per partito preso, del colloquio, del chiarimento, della carità, dell’amore fraterno.

Un problema serio si propone invece quando, contrariamente alla normalità, due persone non litigano mai, si dimostrano sempre perfettamente concordi e in tutto: perché nel migliore dei casi vuol dire che una delle due ha rinunciato a servirsi del proprio raziocinio, è intellettualmente “piatta”, “amorfa”, preferendo “conformarsi” in tutto agli altri: un atteggiamento “innaturale”, anomalo, che esclude a priori conquiste e meriti personali: un atteggiamento che non ha nulla a vedere con l’amore fraterno, non è parte in causa; perché la carità, l’amore vero, si esplicano, in particolare, proprio nella risoluzione delle abituali conflittualità, nel chiarimento di problematiche controverse.

Ecco perché è determinante il modo con cui affrontiamo gli altri, perché è dalla qualità del nostro approccio che dipendono armonie o separazioni, unioni o rotture, involuzioni o crescite.

Non c’è cosa peggiore del pensare che tutto vada sempre bene, del voler vedere sempre e tutto in rosa, anche quando il nero è evidente! La politica del nascondere la testa sotto la sabbia, come fa lo struzzo, non è mai positiva e soddisfacente. Purtroppo, per imparare bene tutto questo, non c’è un manuale “ad hoc”, non c’è una scuola specifica che ci insegni a “con-vivere”, a vivere bene insieme. Solo la vita può farlo, ma deve essere una vita rispettosa degli insegnamenti di Gesù, assistita dal Suo Amore e alimentata dall’ascolto della Sua Parola. Amen.