giovedì 23 febbraio 2017

26 Febbraio 2017 – VIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro…» (Mt 6,24-34)

Siamo sempre nel grande “Discorso della montagna”, considerato dagli studiosi come il “manifesto” di Gesù. Il brano che la liturgia ci propone in questa domenica, si apre con una esortazione programmatica: “siate voi stessi; nella vita perseguite un solo ideale; scegliete bene la vostra strada e siate costanti nel percorrerla, non cercate ovunque la soluzione dei vostri problemi, non ne verrete mai a capo”. Giusto, diciamo noi: ma come riusciamo a coniugare la decisione di “servire un solo padrone” con i mille problemi di sopravvivenza con i quali dobbiamo fare quotidianamente i conti?”. Si può e si deve, dice il vangelo: l’essenziale è fare le proprie scelte alla luce della fede, perché è con la fede che si può contare in ogni occasione sulla provvidenza di Dio.
E andiamo ai particolari del testo:
Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”.
Parole note, sentite migliaia di volte, che tuttavia non abbiamo mai preso in seria considerazione. Anche perché, ripeto, ci sembrano illogiche, fuori dalla realtà, impraticabili.
Come la mettiamo per esempio con i doppi, i tripli “servizi”, e anche di più, con i quali spesso ci misuriamo nell’arco della “giornata”? E poi, è proprio vero che se si ama un padrone automaticamente dobbiamo disprezzare l’altro? È proprio vero che se preferiamo uno dobbiamo detestare l’altro? Nossignori, non è vero: tant’è che a noi capita spesso di sperimentare amore e apprezzamenti per l’uno e per l’altro “padrone”. Ma come al solito non è come pensiamo noi! Il Vangelo non si esprime in questo senso.
Qui i verbi “amare e odiare” non si riferiscono alle emozioni umane, agli stati d’animo, che un dipendente deve nutrire nei confronti del padrone; essi piuttosto intendono “qualificare” in senso positivo (amare) o negativo (odiare) gli effetti di una nostra scelta; non importa quale essa sia, l’essenziale è che deve essere una sola tra due alternative. È impossibile infatti cavalcare contemporaneamente due cavalli; come non possiamo stare nello stesso momento in due località diverse. Non possiamo insomma, nel corso della nostra breve vita, seguire contemporaneamente due stili di vita, opposti e incompatibili tra loro: o amiamo l’uno e odiamo l’altro, o viceversa.
“Nessuno può servire due padroni”: il senso letterale ci apparirà più chiaro se lo retrodatiamo ai tempi di Gesù: allora il servo, lo schiavo, aveva sempre, per definizione, un unico padrone. Per cui, dice il vangelo, se ha un padrone, non può averne un secondo; quindi, è impossibile anche per voi essere contemporaneamente servi di due padroni, non potete cioè “servire”, essere “schiavi”, di Dio e di mammona. Ma chi è questo “Mammona”? Cosa vuol dire essere schiavi di mammona?
Con “Mammona” (in ebraico “ma’amùn”, con la stessa radice di “emunà” = fede) gli antichi intendevano qualcosa che “dava fiducia”, un qualcosa su cui si poteva contare, fare affidamento: per cui “mammona” erano quei beni, quelle sostanze, che assicuravano una dignitosa sopravvivenza per il domani. Un termine quindi privo di qualunque connotazione negativa. Solo secoli più tardi esso ha assunto il valore di ricchezza disonesta, di beni conquistati iniquamente, con l’inganno, con egoismo vorace, senza scrupoli; in tal senso “mammona” è diventata sinonimo di “immorale, di iniquità, di male in assoluto”, di qualcosa insomma decisamente negativa. Per Gesù quindi questo termine è decisamente “negativo”: per cui è proibito dedicare a “mammona” ogni nostra iniziativa, proibito trasformarla in un assillo esclusivo, proibito “sceglierla” e rincorrerla come stile di vita, proibito insomma sottostare alle sue imposizioni, diventare suoi “servitori”, suoi schiavi.
Nella nostra vita si impongono pertanto, quotidianamente, delle “scelte oculate”. Ma in che cosa consiste esattamente questo nostro “scegliere”? Ebbene: “scegliere” vuol dire optare per “questo” e non per “quello”; vuol dire dirigere le nostre risorse, il nostro amore, tutto il nostro potenziale, in un’unica direzione, su di un’unica direzione, perché tutto e il contrario di tutto non possono simultaneamente coesistere. Scegliere vuol dire “plasmare” la nostra vita, darle valore: trasformarla, con le nostre scelte, in una vita onesta, dignitosa, corretta. Attenzione però: perché anche con le nostre “non scelte” sono già una scelta; una scelta peraltro improponibile per gente come noi che abbiamo scelto di camminare al seguito di Gesù.
Ogni scelta, insomma è un “sì” a qualcosa e un “no” a qualcos’altro: qui, la nostra scelta deve avvenire tra Dio e Mammona: non tanto tra un bene e un male ma, come ho detto, tra due diversi e incompatibili stili di vita. Gesù infatti, poco prima, ci aveva già messo in guardia:
“Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21).
I tesori della terra, “mammona”, sono precari, sono soltanto cibo per il corpo: non sono cattivi, ma sono limitati, distolgono l’attenzione da cose più importanti e indispensabili, danno solo una “parvenza” di sicurezza, nient’altro. I tesori del cielo, Dio, sono invece definitivi, sono cibo per l’anima: la riempiono, la fanno sentire davvero viva, vitale, felice.
La scelta spetta solo a noi: tocca a noi scegliere a che livello vivere, se con Dio o Mammona, se con la sicurezza o la caducità; facciamolo subito e bene! Se poi, attratti dalle lusinghe di questo mondo, la nostra vita non è come pensavamo, non lamentiamoci: perché gli unici responsabili delle nostre scelte siamo noi.
Se pensiamo che l’Eucaristia domenicale, gli incontri di “Ascolto della Parola”, di meditazione, di preghiera solitaria, siano “inutili”, tempo perso, e preferiamo vivere nello sconforto, nella frustrazione, nessun problema, nessun dramma: dipende solo da noi, siamo noi che scegliamo di vivere così!
Se non frequentiamo mai alcun corso di approfondimento religioso in cui imparare a crescere, a conoscere meglio la nostra fede, a metterci in gioco, a conoscerci nel profondo, a “convertire” la nostra vita, e ci sentiamo insoddisfatti, irrealizzati, privi di serenità, non lamentiamoci: siamo sempre noi che scegliamo di vivere a questo livello. Se il nostro unico pensiero, la nostra idea fissa, è quella di aumentare sempre più i nostri soldi; se siamo ossessionati dalla paura di essere criticati, giudicati male, inferiori agli altri; se le nostre preoccupazioni sono soltanto quelle di dove andare in vacanza, di quale vestito comprare, di quale moda da seguire, non lamentiamoci: siamo ancora noi che scegliamo cosa mettere al primo posto nella nostra vita.
Noi che ci riteniamo intelligenti, ottimi conoscitori di come vanno le cose del mondo, cerchiamo furbescamente di convivere con Dio e Mammona, saltellando un po’ dall’uno e un po’ dall’altra. Attenzione però: perché Dio può anche tollerare di essere ignorato, ma mai di essere messo al secondo posto. Non sarebbe Dio. Quindi facciamo le persone serie e decidiamoci: o l’Uno o l’altra; decidiamoci cioè se seguire Dio, Amore eterno, o gli idoli appariscenti destinati al nulla. Se essere figli del Dio vivente, nello splendore della Luce e dell’Amore vitale, o diventare delle maschere fredde, senza vita, buie, ombre funeree di noi stessi. Dipende solo da noi. Dipende dalla passione e dalla serietà con cui scegliamo, dalla fedeltà e decisione con cui poi difendiamo la scelta fatta: per essa dobbiamo insistere, faticare, lottare.
A questo punto facciamoci una domanda: cosa riteniamo essenziale per la nostra vita? Cosa abbiamo messo al primo posto? C’è un modo per saperlo? Certamente: perché nel nostro cuore occupa il primo posto ciò a cui pensiamo di più, ciò che condiziona continuamente la nostra attenzione, le nostre preoccupazioni, i nostri interessi! Per cui se pensiamo continuamente a goderci la vita, vuol dire che al primo posto ci sono i soldi. Se il nostro assillo è la disonestà della gente, perché fa di tutto per imbrogliare, per farsi solo i fatti suoi, allora al primo posto c’è la diffidenza. Se pensiamo sempre di essere delle vittime, di essere ingiustamente il bersaglio della cattiveria altrui, allora al primo posto c’è la rabbia. Se la nostra preoccupazione principale è quella di vestirci sempre all’ultima moda, di esibire continuamente il nostro fisico atletico, vuol dire che al primo posto c’è la vanità, l’ammirazione da parte degli altri. Se temiamo sempre di sbagliare, che ogni cosa che facciamo, se sia giusta o sbagliata, allora al primo posto c’è l’insicurezza, l’indecisione, la sfiducia, la paura di decidere.
Ma se vediamo sempre il lato bello, il lato positivo delle cose, allora al primo posto c’è la fiducia, c’è l’amore. Se vediamo sempre che le contrarietà della vita “non sono poi così gravi”, vuol dire che al primo posto c’è l’ottimismo. Se siamo convinti che nell’intimo dei nostri fratelli ci sia sempre un lato buono, ci sia del bene, che se fanno “certe” scelte le fanno più per paura, per necessità, che per cattiveria, allora in loro vediamo sicuramente Dio.
Cosa c’è dunque di più importante nella nostra vita? A cosa pensiamo sempre? Perché tutti noi siamo “servi” di qualcuno o di qualcosa. Tutti noi “dipendiamo” da colui o da ciò che, nella nostra scala delle priorità, occupa il primo posto: quello è il nostro Dio; quello è il Dio o l’idolo che serviamo, il Dio o l’idolo a cui abbiamo votato la nostra fedeltà.
“Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,31-33). Sono versetti altrettanto noti. Parole che sgorgano dal cuore, che sono un’autentica poesia, un’ode, un inno, un canto di Gesù in onore del Padre. Cerchiamo di capirle meglio.
Prima di tutto il “Non preoccupatevi”: cosa intende qui Gesù con “preoccupazione”? Questo termine (dal greco merimnao che significa “preoccuparsi, affannarsi, darsi preoccupazione, angustiarsi”) ricorre in questo testo per ben quattro volte: e sempre con un significato decisamente diverso dal nostro. La preoccupazione per noi è un sentimento passeggero, circoscritto, riguarda un aspetto particolare della nostra vita. Noi, per esempio, ci preoccupiamo se una persona cara ritarda notevolmente ad un appuntamento: ma poi appena arriva, la nostra preoccupazione scompare. Così pure ci preoccupiamo per un esame, per cosa servire a tavola agli invitati, per come comportarci per fare sempre bella figura con tutti, ecc. Uno stato d’animo occasionale, contingente, temporale, accessorio.
Al contrario quando il vangelo parla di “preoccupazione” non intende un sentimento passeggero, destinato a cessare, ma un fenomeno persistente che coinvolge la totalità della nostra mente. Preoccupazione è allora un qualcosa che si impone continuamente alla nostra attenzione, che assorbe ogni nostro pensiero, che fa passare in seconda linea tutto il resto.
In ogni caso, per accettare il contenuto di questi versetti dobbiamo ricorrere alla fede: senza il filtro della fede, gli esempi portati da Gesù non sono reali, condivisibili. Infatti, è proprio vero che gli uccelli del cielo sono nutriti dal padre celeste? No, perché anche loro devono faticare e volare per trovare di che nutrirsi. È proprio vero che i gigli del campo non lavorano? No, perché dentro la pianta c’è un lavorio enorme. È proprio vero che mangiare e bere ci viene dato in aggiunta? No, perché il cibo e l’acqua sono essenziali e non ci cadono dal cielo.
Pertanto, da un punto di vista materiale, tutto dipende da noi, non da Dio: se non ci diamo noi da fare, non mangiamo e non beviamo. Ma se guardiamo le cose dal punto di vista spirituale, se guardiamo con gli occhi della fede, allora tutto effettivamente dipende da Dio. Gli uccelli sono nutriti dal padre celeste? Certo. E i gigli vestiti meglio di Salomone? Certo! Se guardiamo nostro figlio appena nato, è naturale che lo consideriamo una creatura “nostra”. Ma se lo guardiamo con altri occhi, come possiamo dire che è opera nostra? È un miracolo, è un dono: non siamo noi che l’abbiamo creato, che gli abbiamo infuso l’anima, lo spirito. È stato Qualcun altro. Quando guardiamo un tramonto meraviglioso, le stelle o la luna, il volgere puntuale delle stagioni, sappiamo certamente la spiegazione dal punto di vista scientifico; ma con altri occhi non possiamo non riconoscere che tutto è mosso da Lui. Quando siamo felici, quando siamo traboccanti d’amore, quando ci viene da dire: “Potrei anche morire da quanto sono felice”, questa felicità, questo amore, viene realmente da noi? Siamo noi gli autori di queste sensazioni? Se guardiamo umanamente la nostra vita realizzata, felice, pensiamo giustamente di essere noi gli autori di tutto, ma con gli occhi più profondi del cuore non possiamo non convenire che qualche angelo ci ha sempre protetti e indirizzati.
“Fede” allora vuol dire che la vita è più di quello che vediamo. Per cui Gesù qui voleva dire: “Guarda oltre gli uccelli del cielo; oltre i gigli del campo! Guarda “oltre”, e troverai qualcos’altro, troverai Qualcun altro”. Allora, quando guardiamo una cosa, guardiamo oltre; quando guardiamo una persona, guardiamo dentro di lei. Omettere ciò significa essere “superficiali, significa fermarsi alla superficie delle cose: in tal caso la montagna è un ammasso di detriti, sassi, alberi e terra; la persona, un insieme ordinato di muscoli, tessuti, nervi, cellule, ecc.; la vita, un susseguirsi incalzante di avvenimenti scanditi dal tempo. Ma è tutto qui? Assolutamente no: guardare con gli occhi della fede non equivale ad essere ciechi, a non vedere cosa c’è attorno o vicino a noi, essere cioè fuori dalla realtà. Fede, ripeto, è vedere “oltre”, vedere “dentro” le cose, dentro le persone, dentro gli avvenimenti; è vedere la vera realtà, la vera essenza di ogni cosa, è andare oltre la crosta, l’aspetto esteriore.
Le parole di Gesù, insomma, non sono un invito alla pigrizia, non sono un insulto a quei poveri che lo seguono, per i quali non preoccuparsi del cibo oggi, significa non mangiare domani. Le sue non sono parole che introducono una filosofia di vita apatica, stoicista o meglio atarassica!
Niente di tutto ciò. Non facciamo confusione!
Questo vangelo, al contrario, deve farci riflettere, deve interrogarci su alcune cose fondamentali. Prima di tutto, ci fa sapere che per le nostre scelte vitali, per la scelta della via buona, è indispensabile la luce dalla fede. È la fede che deve essere “lampada per i nostri passi”. Per questo dobbiamo sempre parlare il linguaggio della fede; quella stessa fede che siamo chiamati a trasmettere ai nostri fratelli.
Una fede che non consiste nelle parole, nei discorsi, ma nel mistero. “Mistero”, che viene dal greco “miein”, vuol dire “rimanere senza parole, a bocca aperta”. È la sensazione che proviamo di fronte a qualcosa di troppo grande, di talmente forte, intenso, bello, enorme, che nessuna parola può in realtà contenere. Il linguaggio della fede, allora, è musica, è danza, è stupore, meraviglia, entusiasmo (in greco entusiasmo vuol dire avere un Dio dentro); è commozione, pianto, vulnerabilità, tenerezza, compassione; è passione (da pathos che vuol dire percepire, sentire, patire). La fede insomma è la percezione del Mistero di Dio che ci abita.
Riusciamo noi a percepirlo? Sappiamo piangere? Sappiamo emozionarci? Sappiamo mostrarci nella nostra vulnerabilità? Sappiamo chiedere scusa? Sappiamo gioire? Sappiamo innamorarci? Sappiamo commuoverci? Sappiamo entusiasmarci? Se la nostra risposta è “sì”, allora vuol dire che “sentiamo” la voce di Dio nel nostro cuore; una voce che renderà il nostro cammino più sicuro, più deciso, più coraggioso. Non per niente la fede elimina la paura. Un esegeta ha calcolato che l’espressione “non temere” ricorre 365 volte nella Bibbia, tante quanti sono i giorni dell’anno. Allora ogni mattina facciamo tesoro di questa esortazione divina: alziamoci con la certezza che nel momento del bisogno, Dio sicuramente ci fornirà tutte le risorse necessarie, le capacità, le forze sufficienti per affrontare e superare qualunque disagio della vita. O per accettarlo con cristiana rassegnazione. Non sappiamo esattamente come, ma questa è la nostra fede.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso”.
Gesù sa bene come è fatto l’uomo. Conosce molto bene le nostre debolezze, la nostra voglia di rincorrere l’effimero, i lustrini del mondo, di affannarci, di agitarci per qualunque bene tarocco, a costo anche di rinunciare alla vera bellezza della vita, all’autenticità dell’amore.
Lui sa che noi vorremmo essere sempre al sicuro, avere tutte le certezze: degli affetti, del tempo, delle cose, di tutto insomma. Che noi vorremmo avere tutto e subito: oggi, per essere tranquilli domani. Ma il futuro non offre garanzie: il domani è nelle mani di Dio: e nel momento stesso in cui pensiamo di averlo toccato, di goderlo, ci sfugge inesorabilmente di mano. Per questo ci insegna di affidare il nostro domani alla provvidenza del Padre, accogliendo con semplicità e riconoscenza quell'oggi che Egli ci concede di vivere.
Allora, nella serenità di chi si sente affrancato da ogni “preoccupazione” terrena, accogliamo con gioia il messaggio del Vangelo.
Chi sceglie di seguire Gesù è veramente felice, perché libero. È libero di darsi ai fratelli con cuore lieto e generoso; è libero di appassionarsi alla propria vita, sapendo che essa è un dono di Dio. Un dono immeritato e sovrabbondante. È libero di cercare quel Regno di Dio, promesso ai servi fedeli. Ed è proprio in questo cercare umile, orante, continuo, settimana dopo settimana, vangelo dopo vangelo, che noi riusciremo a raggiungere il vero senso della vita. Senza peraltro mai “possederla”: perché possedendola, torneremmo inesorabilmente ad essere schiavi delle preoccupazioni, degli affanni, degli accumuli, dei piaceri smodati, delle ipocrisie di questo mondo.
Cercare tuttavia non è garanzia di comprendere tutto; ci offre però la possibilità di imparare. Di vivere. Di amare. Le cose belle della vita non sono lontane da noi: le troviamo nelle pieghe del nostro vivere quotidiano. Usciamo allora di casa ogni mattina, ammiriamo le bellezze della natura, del creato, capolavoro di Dio; spalanchiamo gli occhi e il cuore. Abbandoniamoci in Lui. E potremo tuffarci in un oceano di bellezze, in un universo di meraviglie. E finalmente capiremo. Capiremo sul serio che Gesù è fedele, è di parola. Capiremo che la vita è un suo dono preziosissimo, un tesoro incalcolabile, oro puro. Amen.



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