giovedì 30 aprile 2015

3 Maggio 2015 – V Domenica di Pasqua

«Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,1-8).
Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, manifestando loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: egli parla di sé, di loro, di ciò che lo preoccupa, di ciò che li aspetterà in futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. E per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vigna.
Tale simbolismo era molto conosciuto ai tempi di Gesù. Nell’Antico Testamento, per esempio, Israele, il popolo eletto, era la vigna di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nella vigna, ritenuta per antonomasia il luogo dell’amore, dell’estasi, della felicità, della gioia sessuale.
Il vino, prodotto nella vigna, era quindi per gli antichi il simbolo dell’appagamento, dell’ebbrezza, dell’intensità, del piacere della vita. Quando a Cana manca il vino, la festa sembra finire; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando vino a volontà per tutti, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo. Un particolare che vuol sottolineare come la gioia, l’allegria, il benessere dipenda dal vino, ossia da quella vitalità, da quell’entusiasmo, da quella linfa vitale che scorre dentro di noi. Se questo vino viene a mancare, in altre parole, se perdiamo il contatto con il nostro intimo, con la profondità delle nostre radici, con la nostra Vigna, nessuna gioia è più possibile.
Il rapporto che gli apostoli e i primi cristiani intrattengono con Gesù è infatti questo: Lui è la vigna, loro sono i tralci. Il tralcio è indipendente, è diverso dalla vigna. Il tralcio non è la vigna. Ma il tralcio è unito alla vigna, è la sua propaggine: e solo se rimane unito alla vigna può portare frutto; altrimenti, se reciso, se staccato da lei, si seccherà e verrà bruciato. La vigna è la forza per il tralcio, è il suo nutrimento, la sua vita, il suo tutto. Vigna e tralcio sono un tutt’uno, sono indivisibili. Il tralcio, pur essendo tralcio, è a tutti gli effetti vigna anche lui.
Tutte queste caratteristiche costituiscono anche i presupposti di ogni convivenza umana: Stati, famiglie, parrocchie, comunità religiose. Tutti sono uniti (un’unica vigna), ma ciascuno dei componenti (i tralci), nella loro grande diversità di ruoli, producono frutti diversi.
Così ad esempio in famiglia: ognuno dei componenti è diverso per ruolo e per unicità.
Il ruolo del padre è quello di affrancare, di assicurare, di spingere cioè i figli ad osare, ad uscire da casa, a vivere, a progettarsi, a realizzarsi. È il punto di riferimento. Il ruolo della madre invece è quello di fare semplicemente la madre: nel senso che lei c’è, rappresenta il nido presso cui tutti possono sempre tornare, è il simbolo dell’affetto, della tenerezza, dell’ascolto. I figli infine devono fare i figli: devono cioè imparare a vivere, a crescere, sperimentando e sperimentandosi tra errori e successi, tra percorsi interrotti e traguardi raggiunti. Questo è l’unico loro ruolo. Ed è importante che non ci siano confusioni. Perché, se il padre gioca a fare il figlio, è cioè insicuro, inaffidabile, infantile, immaturo, da chi può imparare il figlio la sicurezza e la fiducia in sé? E se la madre fa la “figlia”, cioè se è lei stessa ad avere bisogno dei figli per colmare i suoi buchi emotivi, i figli dove possono trovare quell’amore che solo lei è in grado di poter fornire?
Se padre e madre non svolgono il loro ruolo di genitori, i figli a loro volta non potranno svolgere quello di figli, ma dovranno fare il padre e la madre di loro stessi. Ma così facendo si saltano dei passaggi fondamentali della vita; è come costruire un palazzo partendo dal secondo piano, il che è impossibile!
In una comunità, dunque, ognuno ha un suo ruolo ben preciso: diverso nella sua unicità, in quanto ciascuno è un unicum irripetibile: c’è chi è amante dell’arte, chi del disegno, chi della musica, chi della pittura, chi dello studio, chi del lavoro manuale. Chi non ama lo studio non è certamente inferiore di colui che ama la ricerca scientifica: si tratta solo di ruoli diversi.
Spesso però noi pretendiamo che gli altri si uniformino in tutto alla nostra volontà; devono essere esattamente come noi li vogliamo: e ci arrabbiamo se non ci riusciamo. Non accettiamo la diversità degli altri. Non accettiamo che nella vita ciascuno viva esprimendo al massimo le proprie potenzialità, si realizzi per la sua strada, diventi cioè quel “tralcio” che solo lui può diventare.
Ciò che unisce una famiglia, una comunità non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti uguali; ma è la circolazione della linfa, è l’amore, è il dialogo, la condivisione, la singolarità nella pluralità, è quell’unione profonda che si viene a creare e che fa vivere.
Molte famiglie, molti gruppi parrocchiali, pensano di essere uniti solo perché si riuniscono insieme molto spesso. Ma non è il semplice incontrarsi che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è un’altra cosa; significa condividere nell’anima, nello spirito, gli stessi sentimenti, i medesimi ideali; percepire cioè che gli altri condividono il nostro io, la nostra anima, e che noi facciamo altrettanto con loro. L’unità è data dalla vicinanza profonda (mai dalla fusione!) di due spiriti liberi, non dalla vicinanza fisica di corpi: è possibile infatti solo se c’è intimità interiore, di anime, una reciproca convivenza di sentimenti.
Noi che siamo i “tralci”, pertanto, non stacchiamoci mai dalla vigna, che rappresenta l’unica nostra possibilità di sopravvivenza; non stacchiamoci mai dal nostro “interiore”, dalla nostra anima, da ciò che abbiamo dentro; perché nell’esatto momento che ciò avverrà, ci perderemo, ci seccheremo, periremo. Se perdiamo il contatto vitale con la nostra anima, siamo automaticamente morti: è la legge della vita; il tralcio, staccato dalla vite, muore. Non c’è alternativa.
Quando Gesù dice di essere Lui la vite vera, in pratica dice: “Io, solo Io, sono il gusto, il piacere, l’elisir, l’ebbrezza della vita”. Per cui ogni volta che nell’Eucaristia ripetiamo le sue parole: “Questo è il mio calice versato per voi”, sottolineiamo che il sangue versato significa sì sofferenza, l’aspetto difficile del vivere, il suo lato duro, ostico, doloroso, (qui nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma proclamiamo anche che quel sangue di Gesù, è il sapore, il gusto della nostra vita, l’unico elemento che ci dà forza, vitalità. La vita ripiena di Dio è gusto, piacere, delizia. Vivere in questo modo è bello, gustoso, appassionante; al contrario, vivere vuoti di Dio, è un peso insopportabile. Dice Gesù: “Dovete gioire di essere al mondo, di essere voi stessi. Godetevi le cose, il creato, le creature, le persone. Io stesso amo la vita, perché sono la Vita”. Non disprezziamo, non sottovalutiamo mai la gioia che Lui ci concede: perché è in questi momenti gioiosi che noi sperimentiamo la bontà di Dio, il gusto, il sapore del suo amore.
Molte persone parlano tanto dell’amore di Dio, ma la loro vita rivela solo tristezza, amarezza, rinuncia. Dio ha creato il mondo, il sole, il vento, le stelle, i fiori, i colori, l’amore, esclusivamente per noi; perché li gustassimo, li assaggiassimo, li assaporassimo, ci riempissimo il cuore e l’anima di essi. Non temiamo di essere felici. Il Talmud dice: “Saremo giudicati su tutti i piaceri legittimi a cui abbiamo rinunciato”. Unica limitazione: dobbiamo evitare di assolutizzare il piacere: non dobbiamo cioè diventare dipendenti, succubi, schiavi del piacere: perché questo ci porterebbe inesorabilmente al disordine, al male.
Tutto ciò che esiste, esiste solo per noi. Non è lì per essere conquistato, nascosto, posseduto in maniera esclusiva, ma per essere goduto apertamente con gli altri, per essere generosamente condiviso.
La natura umana purtroppo è egoista; vorremmo sempre essere solo noi i padroni, i fruitori unici di tutto. Avete presente quando ci troviamo di fronte ad un bel paesaggio? Anche allora inconsciamente ci preoccupiamo subito di fotografarlo, di “metterlo via”, più che di ammirarlo sul posto, di viverlo in quel momento, assaporandone in silenzio ogni particolare, ogni sfumatura. Vogliamo quasi catturarlo, possederlo, tenerlo sempre in esclusiva per noi.
Gioiamo invece perché le cose esistono, perché ci sono. Lasciamole vibrare dentro di noi, assaporiamole, ma lasciamole libere; non pretendiamo di possederle, non sono nostre.
Amiamole così come sono, perché se riusciremo ad averle, non saremo più in grado di goderle, perché il possesso le “fagocita”, le conquista, le afferra, le fa nostre; ma così le oltraggiamo. L’amore è libertà, gioia, felicità; il possesso schiavitù, voracità, insaziabilità.
Concludo: l’immagine della vigna e dei tralci, ci ricorda la legge fondamentale della vita: se ci stacchiamo dalla linfa, moriamo. Punto. Gesù dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo rimanere in Lui c’è tutto il segreto della nostra vita; se ci stacchiamo da Lui, dal profondo della nostra anima, per noi è la fine.
I ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono: “Sei connesso?”. Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima, sono sempre connessi tra loro e con Lui? Guai a chiudere questo contatto; guai a staccare la spina: poiché è l’unico canale attraverso cui riceviamo linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.

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