mercoledì 30 dicembre 2015

3 Gennaio 2016 – II Domenica dopo Natale

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1-18).

Il vangelo che la Liturgia ci propone questa Domenica, è il brano più profondo e difficile di tutti i Vangeli. Alcuni studiosi hanno passato la loro vita a studiarlo; S. Giovanni Crisostomo o anche Sant’Agostino hanno detto che è un vangelo che va al di là della comprensione umana.
In principio c’era il Verbo: in greco Logos, un termine che ha due significati: Progetto e Parola. Per cui potremmo anche dire: “All’inizio c’era un Progetto”. Un’affermazione meravigliosa con cui Giovanni afferma che Dio, prima di creare ogni cosa, aveva già nella sua mente un progetto, un’idea. Questo significa che noi non siamo qui per caso; siamo qui perché Dio aveva ed ha un progetto su di noi; pensate: noi, creature insignificanti, facciamo parte del Progetto di Dio. Se così non fosse, noi neppure esisteremmo. Ma ci siamo, e siamo qui per un motivo ben preciso... e visto che Dio ci ha creati, il motivo deve essere davvero importante. In altre parole Dio ha bisogno di noi. Magari i nostri genitori neppure ci volevano... magari la gente ci rifiuta e ci respinge... magari noi stessi non ci vogliamo, non ci piacciamo, ci facciamo schifo... ma Dio ci ha voluto, e continua a volerci, perché gli serviamo per attuare il suo Progetto. Che aspettiamo allora a dargli una mano?
Dio ci ha fatto un dono: la vita. Il dono che noi facciamo a Dio è quello di vivere. Lui vuole questo da noi. “Io sono venuto, perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza”. In pratica dobbiamo vivere, rischiare, metterci in gioco: chi espone le proprie idee, rischia di mostrare a tutti i propri sentimenti, il proprio io intimo; chi ama, corre il rischio di non essere corrisposto; chi vive corre il rischio di morire; chi spera, corre il rischio della disperazione, chi tenta corre il rischio di fallire. Ma bisogna correre i rischi, perché il rischio più grande nella vita è quello di non rischiare nulla. Colui che non rischia nulla, è un nulla e non diventerà mai che un nulla. Può evitare la sofferenza e l’angoscia, ma non può imparare a sentire, a cambiare, a progredire, ad amare, a vivere. Incatenato alle sue certezze, è uno schiavo. Ha rinunciato alla libertà. Solo colui che rischia è veramente libero. La vita, come ho detto, è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta è il nostro dono a Lui: una vita sprecata è il più grande peccato. Cosa aspettiamo allora a vivere? Non diamo anni alla vita, ma diamo vita ai nostri anni, perché solo così saremo luce che risplende nelle tenebre. L’uomo che vive, cioè colui che ha accolto il messaggio di Dio, è vita, è luce; non dice luce che lotta, ma semplicemente luce che splende, luce cioè che brilla, libera, senza subire costrizioni e senza costringere nessuno.
Ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5). Naturalmente le tenebre odiano la luce, non la vogliono: qui Giovanni allude alle autorità religiose. Infatti esse “sono dei morti” che vivono, inflessibili, freddi, autoritari, senza un cuore caldo. Avrebbero dovuto portare la luce e invece...
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 19,9). La luce vera, Gesù, il verbo incarnato, è venuto nel mondo. “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita”.
Gesù-Vita è quindi la vera luce che illumina ogni uomo: facciamo però attenzione a non prendere abbagli, perché il potere (orgoglio, superiorità, mancanza d’amore, rigidità, ecc) non può conoscere Dio.
Anche coloro che si lasciano incantare da altre luci, diverse dalla Luce vera, sono comunque “divini”, sono cioè fatti, impregnati di Dio; ma poi si sono, come dire, dimenticati di chi sono veramente, si sono dimenticati che hanno l’impronta di Dio nel loro cuore e vivono non riconoscendolo e non riconoscendosi più. Che tristezza: essere dei re e vivere come degli schiavi!
“A quanti però l’hanno accolto, ha dato la possibilità di diventare figli di Dio”.
Ecco, questo è il progetto originario di Dio per ognuno di noi: che noi diventassimo suoi figli.
Noi abbiamo imparato che l’uomo è fatto per servire Dio, che Dio è sopra e l’uomo è sotto, è il suo servitore, che è meglio ubbidirgli perché Dio è potente e se non stiamo attenti ci punisce con l’inferno o con qualche castigo.
In realtà non è così: noi non siamo i servi di Dio ma siamo i serviti da Dio. Vi ricordate la lavanda dei piedi (Gv 13,1-20)? È Dio che serve l’uomo e non l’uomo che serve Dio. Dio non ci chiede preghiere, servizi, sacrifici per lui: è Lui che è venuto a portare il suo servizio e l’amore a noi. La fede non è più quello che noi facciamo per Lui, ma quello che Lui fa per noi.
Noi non siamo figli di Dio per nascita, ma lo dobbiamo diventare. Come? Amando gli altri. “L’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8). I figli di Dio sono pertanto quelli che sono stati generati nell’amore e vivono nell’amore. Non con preghiere, digiuni o sacrifici, lo ripeto, ma con l’amore. Amore: questo, e questo solo, Lui ci chiede.
Questa di Giovanni è una teologia “trasgressiva”: Dio non è più nelle chiese, in un posto prestabilito, ma “in mezzo” al suo popolo, alla sua “Chiesa”. Dio non è più fermo, fisso in un luogo, come lo era nel Tempio, ma in cammino, in un continuo cammino insieme alla gente. Dio non è più un luogo (tempio), ma un tempo (kairòs): perché nell’istante stesso in cui c’è l’amore, lì c’è Dio.
“E noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). “Nessun uomo può vedere Dio!”, era la convinzione degli antichi israeliti; a Mosè, che ad un certo punto chiede al Signore: “Mostrami la tua Gloria”, Dio gli risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,18-20). Ma con Gesù questo non è più vero: Dio non è invisibile; Gesù stesso dirà: “Dio si vede... Chi vede me vede il Padre (Gv 14,9)”. Dio non è lontano da noi; Dio è qui.
Sulla vetta di un’alta montagna delle Dolomiti, ricordo un cartello che diceva: “Non cercare Dio, ci sei immerso”. Lui infatti era lì... bastava guardarsi attorno!
In Gesù, “unigenito del Padre”, c’è tutto quello che si può vedere di Dio. Quindi non è Gesù che è come Dio, ma è Dio che è come Gesù. E allora, se vogliamo sapere chi è Dio, guardiamo, imitiamo, diventiamo, come Gesù. Tutto ciò che Gesù non è, non viene da Dio. La caratteristica di Dio, invece, è quella di essere “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): una forma che si può tradurre con “pieno di amore e di verità” oppure con “pieno di amore vero”. Perché Dio è così: Egli ama di un amore fedele, di un amore che non tradisce, che non si vendica, che rimane sempre: anche se noi ce ne andiamo o lo tradiamo.
Ancora oggi molte persone temono di aver perso l’amore di Dio, di aver fatto qualcosa di irreparabile per Dio, di essere indegni di Lui...: ma Lui non è così! Lui rimane, Lui è fedele, sempre! “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Ricordiamolo in questo giubileo della Misericordia: l’amore di Dio non tradisce mai, non viene mai meno, neppure di fronte alle nostre più oscure cadute. Amen.



giovedì 24 dicembre 2015

27 Dicembre 2015 – Santa Famiglia

«Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,41-52).

Luca, nel vangelo di oggi, ci presenta la prima e unica volta in cui Maria parla a Gesù. Egli, tra l’altro, è l’evangelista che più esalta Maria: ebbene, l’unica volta in cui Maria parla a Gesù si deve sorbire un duro rimprovero.
La Liturgia ci presenta questo vangelo a modello della festa della Santa Famiglia, ma a dire il vero più che una santa famiglia sembra una famiglia un po’ scombinata. È un episodio in cui nessuno ci fa una bella figura.
Non ci fanno bella figura i genitori che perdono il figlio e non se ne accorgono! Se ne accorgono dopo una giornata di cammino: ma come si fa!
Non fa una bella figura Gesù: “Volevi rimanere a Gerusalemme? Potevi almeno avvisarci!”, gli dicono giustamente Maria e Giuseppe. E quando i genitori lo trovano dopo tre giorni gli dicono: “Eravamo angosciati, ti cercavamo! Perché ci hai fatto questo?”, Gesù sembra non capire, e li rimprovera: “Perché mi cercavate?”. Poi li tratta da impreparati: “Non sapevate che devo fare le cose del Padre mio?”.
Non fa una bella figura Giuseppe che non vede rispettata la sua autorità di padre né da parte di Gesù (“Cosa vuoi da me!”) ma neppure da sua moglie visto che è lei che interviene, togliendogli la parola (era solo il padre che aveva l’autorità per parlare).
Inoltre, l’unico che ha un nome è Gesù: si parlerà di padre e di madre, di genitori ma non saranno mai nominati né Giuseppe né Maria. Egli ha dodici anni: non è quindi ancora adulto (lo si diventava a tredici anni), ma era usanza far partecipare a quel pellegrinaggio al Tempio anche i ragazzi dodicenni per abituarli al compimento del precetto che l’anno seguente sarebbe diventato obbligatorio.
Luca dice poi che “i suoi genitori, tutti gli anni si recavano a Gerusalemme per la festa di Pasqua”. Quindi, quella di Gesù, è una famiglia religiosa, una che segue scrupolosamente le tradizioni dei padri. Ma qui Luca più che dei fatti storici vuole sottolinearci un pensiero teologico: che a Gesù, cioè, non interessa tanto la tradizione dei padri, quanto di seguire la volontà del “Padre”. E questo è e sarà sconcertante non solo per la sua famiglia ma per tutto il popolo. Perché tutti si aspettavano il Messia in un certo modo e invece Gesù sarà completamente diverso.
Maria e Giuseppe lo sanno già, ma non l’hanno ancora capito. Pensano infatti che Gesù li segua, che segua la tradizione d’Israele. Non capiscono invece che saranno loro a dover seguire Gesù.
“Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme”. E lo trovano nel Tempio, “seduto in mezzo ai maestri”: lo stare in mezzo è l’immagine con cui la Bibbia presenta la sapienza di Dio: Gesù quindi viene presentato come la sapienza divina che “ascolta” ma che soprattutto “interroga”. E quelli che lo udivano “erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Lc 2,47).
Più che stupiti, i dottori della Legge sono “indispettiti”, poiché non accettano le risposte di Gesù; non accettano per principio che qualcuno venga a fare il maestro in casa loro! Tant’è che la volta successiva in cui Gesù entrerà nel tempio, essi cercheranno di ucciderlo.
Oltretutto che fa questo ragazzo? Parla di Dio in una maniera completamente nuova, completamente diversa da quella che essi conoscono e che impongono al popolo: una maniera che solo Lui, come Figlio di Dio, conosce e può sperimentare.
“Al vederlo restarono stupiti” (Lc 2,48). I suoi genitori rimangono sbigottiti, esterrefatti, per ciò che vedono: no, questo figlio non segue la tradizione; non si comporta come loro.
E qui Maria commette il primo errore: lo chiama “figlio” (Lc 2,48) e usa il termine teknon che significa “quello che io ho partorito”: include cioè una connotazione di dipendenza, di legame fisico, che Gesù non accetta. Mai nel Nuovo Testamento questo termine riapparirà applicato a Gesù. In questo caso, per Maria, per la madre, il figlio è qualcuno sul quale lei ha dei diritti, e il figlio è qualcuno che ha dei doveri nei suoi confronti. Potremo tradurlo in italiano “bambino mio” (non “figlio”, che in greco è “uios” non “teknon”) tu sei “quello che io ho partorito”, ossia “quello che mi appartiene”.
E subito dopo viene il secondo errore della madre: “Ecco, tuo padre e io angosciati ti cercavamo” (Lc 2,48). E Gesù: “Perché mi cercavate?”. Una risposta, secondo il nostro modo di pensare, assolutamente assurda! Ma non lo è, se seguiamo il ragionamento di Gesù. Anzi la sua è una risposta perfetta, una risposta teologica: Egli praticamente sta prendendo le distanze dalla tradizione di Israele: “Perché mi cercavate nella carovana della tradizione? Lo sapete che io non sono lì! Perché mi cercate lì?”. E conclude con il : “Non sapevate...?” (Lc 2,49). Ebbene, cos’è che dovevano sapere? La madre ha commesso l’errore di dire “tuo padre e io”. “No, attenta Maria; ricordati che mio Padre non è Giuseppe. Il Padre mio è qualcun altro. Tu Maria, lo devi sapere molto bene! Ti ricordi le parole dell’angelo? O te le sei dimenticate?”.
Gesù quindi è estremamente chiaro: io non devo occuparmi di Giuseppe o delle tradizioni ma, letteralmente, è necessario che io sia “en tòis tù patròs mù”: devo cioè essere “nelle cose del Padre mio” (Lc 2,49). In altre parole: “Mio padre non sei tu, Giuseppe, ma Dio”.
Ed ecco il finale: “Ma essi non compresero le sue parole” (Lc 2.50). E possiamo anche capirli!
E questo sarà il motivo conduttore di tutto il vangelo: Gesù nessuno lo capisce: né i suoi genitori, né sua madre, né le autorità religiose, né le istituzioni. Gli unici a capirlo sono quelli lontani da Dio.
Il testo poi prosegue dicendo subito dopo (ma non compare nel vangelo di oggi): “Maria serbava tutte queste cose nel suo cuore”. Ecco, questa è la grandezza di Maria: non capisce ancora il vero senso delle cose, ma rimane aperta. Maria accoglie questi semi, anche se per lei sono sconosciuti o assurdi: un giorno fioriranno.
E concludo: cosa può dire a noi questo vangelo? Che noi nasciamo da nostro padre e nostra madre, è vero: loro ci hanno dato la vita, ma non sono la nostra vita. Li ringraziamo, li onoriamo per un dono che non potremo mai ricambiare ma noi abbiamo un compito e una missione.
Quando un genitore fa di suo figlio la sua unica ragione di vita, vuol dire che questo genitore ha perso la sua vera ragione di vita. Perché dimostra di essere una persona senz’anima, senza prospettive soprannaturali, senza nessun’altra missione, come conseguenza, che quella di ridurre il figlio una sua esclusiva proprietà, uno a suo completo servizio (visto che gli ha dato la vita!).
Noi abbiamo delegato la vocazione divina ad alcune persone (preti, suore, ecc.), come se solo loro avessero una chiamata da Dio. In questo modo ci siamo sì, messi a posto la coscienza, ma non certamente il cuore. Ci siamo mai chiesti perché in certi momenti siamo così tristi? Perché tutti abbiamo un’anima: e la nostra anima, in questa vita, ha una missione, uno scopo ben preciso. Tutti infatti siamo dei “chiamati”. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma nessuno di noi è qui per caso. Possiamo far finta di nulla: nella vita possiamo dedicarci a tutt’altre cose, ma la nostra anima continuerà a desiderare di essere, di fare, di vivere, ciò per cui è stata creata.
La felicità vera è scoprire appunto ciò per cui esistiamo: e siamo infelici quando pensiamo di essere qui per caso, senza uno scopo. Ci sentiamo sperduti perché non sappiamo dove andare (una vocazione è un riferimento chiaro). Siamo annoiati, vuoti, perché scegliamo a casaccio, perché non sappiamo cosa ci serve per davvero, non sappiamo ciò che scegliamo. Siamo pieni di paura perché non abbiamo la forza di seguire la nostra vocazione (tutto è possibile per chi sa dove andare). Le persone fanno tante cose nella vita, ma vivere la propria vocazione, è un’altra cosa! Gesù stesso ha detto: “Io devo occuparmi delle cose del Padre mio”. Anche noi abbiamo una vocazione, non dimentichiamocelo mai! Amen.


25 Dicembre 2015 – Natale del Signore


GLI AUGURI PIU' CORDIALI A TUTTI






venerdì 18 dicembre 2015

20 Dicembre 2015 – IV Domenica di Avvento

«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39-45).

Siamo alla quarta domenica del tempo di Avvento, la domenica prima del Natale.
Il vangelo di oggi ci presenta l’incontro tra Maria ed Elisabetta, tra queste due donne che sono “parenti” non tanto di sangue, ma soprattutto per quanto sta loro capitando e che le accomuna entrambe: l’una e l’altra cioè hanno gravidanze impossibili; l’una e l’altra hanno mariti scettici; l’una e l’altra hanno figli “particolari”; l’una e l’altra sono madri di una novità che non conoscono e che le supera.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Maria quindi, dal nord della Galilea, si mette in viaggio, in fretta, verso il sud della Giudea.
Facciamo mente locale per un attimo: Maria intraprende da sola un viaggio di molti giorni; una donna a quel tempo, se da sola (!), era esposta a pericoli di ogni genere! Inoltre, per scendere dalla Galilea alla Giudea, era necessario allungare di molto il viaggio, almeno di tre o quattro giorni, per evitare di passare attraverso la Samaria, secolare nemica dei Giudei. Insomma, una impresa impensabile.
Ma lei è decisa: si alza e parte! A volte noi immaginiamo Maria come modello di umiltà, di silenzio, di riservatezza: una donna dimessa che ubbidisce sempre e se ne sta zitta, nella sua stanzetta, una madre tutta casa e preghiera. Ma dai vangeli non appare affatto così: è una donna risoluta, forte, coraggiosa, intraprendente.
Del resto c'era voluto un bel coraggio per dire “sì” ad una maternità come la sua, per affrontare il giudizio di Giuseppe, dei famigliari, della gente, per acclamare apertamente, nella sua condizione femminile di quel tempo: “Dio rovescia i potenti... rimanda i ricchi a mani vuote... disperde i superbi...”. Poteva essere vista come sovversiva, e andare incontro a gravi conseguenze!
Il vangelo ci dice dunque che Maria ha fretta, ma non dice il perché. Dice però che arrivata da Elisabetta, entra “nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. Ha cioè così tanta fretta da dimenticarsi di salutare Zaccaria, il padrone di casa? Forse che durante il viaggio è diventata improvvisamente scortese, maleducata? Oppure c’è dell’altro, un qualcosa successo proprio in quella casa? Zaccaria in effetti era rimasto muto (e sordo!) perché era stato refrattario all’annuncio di Dio: egli, sacerdote e religioso, aveva rifiutato lo Spirito Santo, aveva rifiutato l’annuncio di Dio.
Maria ed Elisabetta, invece, lo Spirito Santo lo hanno accolto. E questo Spirito le ha riempite non solo di un figlio ma di una gioia, di una sensibilità, di una profondità che Zaccaria non può avere.
In pratica Luca vuol dirci: solo chi è vivo può capire la vita; solo chi è innamorato può capire l’amore; solo chi ha la gioia può capire certi gesti. Zaccaria non può capire; Zaccaria non può vibrare; non sa entusiasmarsi, non sa stupirsi, non sa meravigliarsi, non sa piangere, non sa rallegrarsi, non ha quel cuore che queste donne hanno. Il suo è un cuore morto. Soltanto chi ha il cuore vivo, pieno d’amore, chi ha il cuore grande, può capire l’annuncio di Dio, ed ha fretta, come Maria, di condividerlo. Gli altri non possono capire perché sono legati alle logiche della mente umana, alle logiche economiche, alle logiche finanziarie, della paura.
Osserviamo poi cosa dice il vangelo in proposito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò in grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo” (1,41). Il Battista, già dal ventre di Elisabetta riconosce Gesù nel ventre di Maria. Non per niente il Battista dirà di Gesù: “Costui vi battezzerà in Spirito Santo” (Lc 3,16). In pratica il Battista riconoscerà l’attività di Gesù come quella di colui che immerge le persone non più nell’acqua, come lui, ma nello Spirito. Luca qui sta facendo teologia e non storia: vuol dirci cioè che il Battista riconosce fin dall’inizio l’opera e l’operato di Gesù: riconosce cioè in Lui proprio Colui che deve venire.
Inoltre, il saluto di Maria, che è piena di Spirito Santo, trasmette ad Elisabetta lo stesso Spirito. Maria passa ad Elisabetta ciò che vive, ciò che possiede, ciò che ha. Maria è piena di Spirito e passa lo Spirito. Ognuno passa quello che ha, quello che è. Il loro saluto cioè è uno scambio, una comunicazione di percezioni, di energie vitali, di vibrazioni dell’anima. È quell’incontro in cui, al di là dei discorsi, i cuori e le anime si sfiorano e si toccano.
Le loro parole sono piene di significato, sono “pesanti”, profonde. Noi, invece, parliamo tanto, proprio perché comunichiamo poco. Riempiamo con le parole il vuoto di senso del nostro parlare.
“Elisabetta fu piena di Spirito Santo”: lo Spirito non possiede il sacerdote (Zaccaria) ma soltanto chi accoglie Dio (Elisabetta). Maria è quindi la prima profetessa; Elisabetta la seconda.
Poi Elisabetta dice: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?”. Lo Spirito che è in lei, le fa cambiare anche il modo di vedere: ora Maria non è più tanto una sua “parente”, ma la “madre del suo Signore”, cioè la Madre del Messia atteso. Per chi ha fede i legami dell’anima sono più importanti dei legami di sangue. E conclude: “beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”
La lode a Maria è una evidente disapprovazione nei confronti di Zaccaria suo marito. Egli, che doveva essere profeta, è muto; Maria, invece, che non era nessuno, è piena di Spirito; Maria è beata, ossia “graziata”, perché ha creduto alla parola del Signore; Zaccaria è “disgraziato” (=senza grazia) perché non ha creduto. Maria ha creduto a qualcosa che non era mai accaduto nella storia di Israele e si è fidata. Zaccaria invece, il sacerdote, non ha creduto a qualcosa che era successo e capitato tante altre volte (la nascita di figli da donne sterili, come Sara o Rebecca). È la prima beatitudine del vangelo:“Beata colei che ha creduto”; una beatitudine che esalta non tanto la maternità di Maria ma la sua fede. Maria per il vangelo è grande non tanto per la maternità ma per la fede che ha avuto: ha creduto dove nessun altro lo ha fatto.
Questo vangelo ci dice appunto una cosa molto importante: ciò in cui noi crediamo davvero, con tutto il cuore, ci trasforma completamente, e passa da noi agli altri trasformando anche loro.
Maria crede fermamente che suo figlio è “divino”: e suo figlio sarà il Messia, il Figlio di Dio. Elisabetta crede che suo figlio è “divino”: e suo figlio diventerà l’Annunciatore di Dio. Maria ed Elisabetta credono alla grandezza dei loro figli ancor prima che nascessero; e i bambini, appena concepiti, già percepiscono questa fede, questa fiducia, questa grandezza, questo valore, nel pensiero delle loro madri: e poi realizzeranno in pieno, quel valore che esse avevano da subito accreditato loro.

E noi? Ci pensiamo come esseri divini? Abbiamo nei confronti nostri e di chi ci sta vicino quello stesso atteggiamento che Maria ed Elisabetta hanno avuto per i loro figli: stima, consapevolezza, meraviglia, fiducia, amore? Tutti noi siamo destinati ad essere “divini”: ma solo se avremo una grande fede, come la loro, saremo convinti e potremo diventarlo veramente. Se invece, come Zaccaria, ci lasciamo vincere dalla paura, rimarremo degli essere incompiuti, infelici, incompleti; non aprendo il nostro cuore alla fede, perderemo la grande possibilità di diventare Amore nell’Amore. Infatti, solo credendo profondamente ci convinceremo della nostra “divinità”, e faremo di tutto per tornare ad essere come siamo stati pensati. Amen.



giovedì 10 dicembre 2015

13 Dicembre 2015 – III Domenica di Avvento

«Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,10-18).

Giovanni Battista fu il più grande profeta del suo tempo. La sua predicazione era esigente e dura, senza compromessi, e in sostanza affermava: “Dio sta per venire, state attenti!. Se non fate frutti di conversione, se non vi pentite, se non cambiate, non avete scampo”. Il Dio del Battista era pertanto un Dio severo, un Dio che incuteva timore: “Se non siete a posto, sarete condannati”. Parole che imponevano un esame profondo della propria vita e un conseguente cambiamento di rotta, una sincera conversione mediante il battesimo nelle acque del Giordano.
Ebbene: il vangelo di oggi ci presenta un piccolo spaccato dell'ambiente: di quello che succedeva intorno al Battista, di quello che la gente voleva sapere da lui, delle domande più frequenti che gli venivano rivolte; domande che lasciavano trasparire la volontà di cambiare vita: “Che cosa debbo fare?”. È la prima domanda spontanea che uno in difficoltà pone a colui che ritiene in grado di potergli dare una risposta valida e pertinente. E Giovanni lo era in tutti i sensi.
Troppo spesso però, soprattutto ai nostri giorni, la stessa domanda viene posta a personaggi di tutt'altro genere, personaggi scadenti che si auto propongono falsamente come “ispirati”, personaggi che in realtà sono dei ciarlatani, degli approfittatori: “Cosa devo fare?”. È gente che cerca una soluzione al loro problema; che chiede di entrare a far parte magari di un certo rinomato gruppo di spiritualità, pensando di trovare l'aiuto di cui ha bisogno; gente che cerca nella loro vita una nuova via da percorrere, un nuovo metodo, magari di meditazione, di silenzio, di preghiera, per poter risolvere ciò che non va in loro, che sciolga i loro legami col male.
Ovviamente le soluzioni prospettate da questi venditori di fumo - spesso appartenenti purtroppo anche al clero e alla gerarchia ecclesiastica, nullità camuffate in ascetici e pii predicatori, preoccupati però solo di promuovere il loro apparire sui media - si rivelano inadatte a risolvere gli scompensi individuali e profondi dell’animo umano.
Eppure, cosa non si inventa oggi la gente per cercare, per trovare, per correre da simili personaggi! Del resto è una legge del mercato: la domanda intensifica l’offerta; per cui in giro oggi ne abbiamo per tutti i gusti: personaggi che si dicono inviati direttamente da Dio, che si credono dotati di poteri divini, extrasensoriali, paranormali o speciali. E poiché la pressione della sofferenza è molto intensa, e il desiderio di sollievo è altrettanto forte, ognuno può liberamente accedere alla cura più congeniale.
Oggi, abbiamo la “pillola” miracolosa per tutto: per dimagrire, per far bene l’amore, per essere felici, per non essere tristi. 
Ci illudiamo che sia sufficiente una semplice pillola per star bene, per essere sereni, per stare in pace con la propria anima; ci illudiamo di poter comprare facilmente, a basso costo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno: felicità, amore, comprensione, fiducia. 
Ci illudiamo cioè che in commercio ci sia un qualcosa di magico che risolva i nostri problemi... ma è solo illusione, cruda e sterile illusione.
Attorno a noi prospera purtroppo un florido commercio religioso: un supermercato del sacro in grado di esaudire qualunque fantasia: c’è il sito internet in cui possiamo prenotare (ovviamente con offerta a pagamento) la messa, il rosario, le preghiere per le nostre necessità, per tutte le “nostre intenzioni”; c'è il tour operator che organizza, ovviamente a pagamento, pellegrinaggi con incontri personalizzati con i santoni del momento, c'è il guru di turno pronto a soddisfare ogni nostra curiosità sulla vita da noi vissuta prima di questa attuale; c’è il mago infallibile che ci mette in contatto con i nostri “morti”; c’è poi il santone, in contatto diretto con Padre Pio, che guarisce a distanza qualunque nostra malattia, sia spirituale che fisica, tramite versamento di un'offerta a mezzo “bollettino postale”; c'è il gruppo carismatico pseudo religioso che ci accoglie a braccia aperte, promettendoci felicità e benessere spirituale, effettuando donazioni alla loro chiesa; c’è infine la folla oceanica di indovini, fattucchieri,  che vendono i numeri vincenti del lotto, che ci predicono il futuro, che ci fanno incontrare l'anima gemella, l’amore della nostra vita, e via dicendo. 
In realtà, se viviamo dando retta all’imbonitore di turno, rischiamo veramente grosso; e non ci vuole molto a capirlo, basta guardare al nostro stile alienante di vita, alle quotidiane tragedie familiari, alle notizie drammatiche dei telegiornali !
Purtroppo persone confuse, disorientate, deboli, fragili ce se sono ancora troppe nella nostra società del benessere e dell’autogestione; persone che continuano sinceramente a chiedere a destra e a sinistra: “Che cosa devo fare?”
Beh, a tutti piacerebbe che ci fosse una pillola che risolve magicamente le nostre depressioni, ma non c’è. A tutti piacerebbe che ci fosse una sola breve preghiera, universale e potente, per ottenere l'illuminazione della nostra mente ogni volta che ne abbiamo bisogno! Ma non c’è. I ritrovati magici appartengono solo a quelle persone che credono di aver le risposte giuste per tutti e tutto! Ma ciò è impossibile!
Giovanni Battista, infatti, non offre soluzioni. Le sue sono risposte pratiche, sono cose concrete da fare, che poi in definitiva hanno tutte un comune denominatore: Giovanni non dice: “Fai questo o fai quello”; ma: “Guarda dentro alla tua vita. È lì che devi trovare ciò che è bene per te, ciò di cui hai bisogno”.

“Cosa dobbiamo dunque fare?”: nulla di sovrumano. Tutto dipende da chi siamo noi, da cosa abbiamo dentro, da cosa viviamo nel nostro cuore, nella nostra anima. Dobbiamo fare cioè quello che realmente è bene per la nostra vita; dobbiamo agire sulla nostra vita, umilmente e in silenzio: non c’è bisogno di compiere azioni sensazionali, straordinarie, davanti a tutti. Dobbiamo solo cercare di cambiare praticamente la nostra vita, di diventare migliori, più profondi, più capaci di fede, di dare fiducia e di esserne degni, più capaci cioè d’amare, più capaci d’ascolto e di vita: non dobbiamo fare necessariamente la nostra “buona azione quotidiana”: non serve a nulla.
Guardiamo seriamente nel profondo della nostra anima. Parliamo con noi stessi e con Dio. Facciamo trenta minuti di silenzio assoluto davanti al Tabernacolo. Soprattutto siamo onesti nel nostro esame personale; accorgiamoci della nostra invidia, della nostra superbia, del nostro egoismo, e riconosciamoli; tiriamo fuori gli scheletri nascosti dentro di noi, ecc.
Alla gente in pratica Giovanni diceva: “Ti accorgi che nel tuo fratello, nel tuo amico, nel tuo famigliare qualcosa non va? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere diventato scontroso, irritabile, intrattabile con i tuoi cari, in famiglia, al lavoro? È qui che devi agire. Non dai più il meglio di te stesso perché ti senti insoddisfatto, perché pensi di essere discriminato, sottovalutato, di non essere considerato come vorresti? È qui che devi agire”. Dobbiamo cioè lavorare e agire dove c’è il problema, non altrove!
Vanno infatti da Giovanni i pubblicani, gente che trafficava con i soldi, che poteva rubare, intascare molto e bene: “Che dobbiamo fare? Dobbiamo fare un’offerta particolare? Dobbiamo ritirarci e diventare monaci?”. “No; visto però che voi trafficate con i soldi, siate leali, siate onesti; non fate gli strozzini e gli usurai. Non vendete per i soldi la vostra anima, i vostri cari, le vostre amicizie, i vostri rapporti o ciò che avete di più caro. È dentro la vostra vita che dovete cambiare, è qui che dovete agire”.
Vanno i militari, gente senza scrupoli, gente che con la forza otteneva ciò che voleva: “E noi che dobbiamo fare?”. E Giovanni: “Non abusate del vostro potere, della vostra forza e del vostro ruolo. Non estorcete a nessuno, non cercate di ottenere mai niente con la violenza”.
Purtroppo invece quanti di noi si comportano come dei "militari": genitori che impongono ai figli un regime severo, rigoroso, senza gioia né giocosità; mariti che si comportano militarmente con le loro mogli: le controllano, le vogliono sempre disponibili, ai loro comandi, ubbidienti, sottomesse; preti che sembrano dei dittatori; sono dispotici, severi e onnipotenti. Non apprezzano alcuna collaborazione.
Purtroppo nelle nostre case, nei luoghi pubblici e privati, addirittura nelle parrocchie, esistono spesso violenza psicologica, mobbing, pressioni di ogni tipo, ricatti. È ancora qui che dobbiamo agire. 
È chiaro che è molto più semplice, per Natale, fare il presepio e andare alla messa di mezzanotte. È chiaro che è molto più semplice fare dei buoni pensieri sulla pace nel mondo, desiderare che tutti siano felici, ma non è questo il Natale che dobbiamo preparare. Natale è fare ciò che dobbiamo fare e non dell’altro.
Il contadino che nel cortile separa il frumento dalla pula (che verrà bruciata) è un’immagine che incute ansia, paura e timore. Noi non dobbiamo avere paura di Dio. Ma dobbiamo sapere, però, che siamo noi stessi a tirare le conseguenze delle nostre azioni. Dio non ci punisce mai; siamo noi che ci creiamo i nostri inferni, come conseguenza di ciò che facciamo. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli con certi modi di vivere.
Il Battista battezzava con acqua: era il desiderio della gente di cambiare vita. Il vero battesimo, però, è quello di fuoco. Il vero battesimo, quello del Cristo, della Vita vera, non è altro che conquistare la propria anima, la propria parte divina, spirituale. È un battesimo di fuoco perché riscalda la vita, le dà passione, energia; è la forza per andare avanti. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore; ci fa vedere e ci fa capire. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni che ci siamo costruito, perché ci fa vedere ciò che siamo realmente: cioè niente!.
Il nostro battesimo di fuoco, allora, è portare alla luce, far nascere, la forza che ci abita dentro, la vita grande e piena che ci scorre nelle vene, il Dio che dorme e che aspetta di essere risvegliato per diventare il Signore della nostra vita.
Nell’acqua siamo nati ma è solo nel fuoco che cresceremo. E questo, per il vangelo, è rinascereAmen.


mercoledì 2 dicembre 2015

6 Dicembre 2015 – II Domenica di Avvento

«La parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,1-6).

La parola di Dio scese su Giovanni. È un incontro vivo, che lo trasforma, che lo fa fiorire e genera il suo frutto. Dopo questa discesa il Battista se ne va per tutta la regione a predicare.
Quando la parola di Dio all’inizio della storia scende sulla creazione nasce il mondo e ogni essere vivente. Quando la parola di Dio attraverso l’angelo scende su Maria, nasce Gesù. La parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa profetizzare. Dio quando scende, quando viene, produce una creazione, una nascita, un rinnovamento.
Allora: l’incontro con Dio è un incontro che ci crea, ci cambia e ci invia, produce cioè un movimento. Noi eravamo qualcosa ma dopo aver ascoltato la Parola, nel senso di “mangiata, assimilata, gustata, fatta penetrare”, noi non siamo più gli stessi: perché quella produce un movimento, un cambiamento, un’apertura dentro di noi.
Noi durante una giornata ascoltiamo tantissime parole! Ma la parola di Dio non è così. Nella nostra vita abbiamo detto una miriade di parole religiose. Ma la parola di Dio non è così. Quante volte abbiamo ascoltato il vangelo in chiesa! Ma la parola di Dio non è così. La parola di Dio è quella parola che ci penetra nelle profondità, ci scuote, è sempre destabilizzante, ci tocca, ci colpisce nell’intimo. È quella parola che ci viene sempre in mente, anche se non sappiamo il perché, che ci risuona, che ci vibra, che sentiamo che ci richiama e che ci riguarda. È quella parola che non ci lascia indifferenti. È quella parola che fa succedere qualcosa.
Il Battista predica nel deserto.
Deserto (in ebraico midebar) vuol dire “ciò che viene dal Verbo”. Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa vegetazione, poco abitata, sede di pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto).
Ma nella Bibbia il deserto è un luogo per cui si deve passare. Non si può giungere da nessuna parte, in nessuna terra promessa se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il proprio deserto.
È stato un passaggio necessario dopo la liberazione dall’Egitto (Es 5,1; 13, 17-21), per quella babilonese (Is 40,3); è stato un luogo necessario per Mosè (Es 3), per Elia (1Re 19), per Paolo (Gal 1,17), per Gesù (Lc 4,1-13).
Il deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Viene, cioè, un momento in cui bisogna smettere di sfuggire a se stessi, smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di imbottirci di idee, filosofie e pensieri vari, e guardarci per davvero in faccia senza mentirci. Nel deserto non c’è nessuno: ci siamo noi, completamente soli.
Molte persone hanno il terrore di stare da soli con loro stessi. Molte persone cercano il “tempo per sé”: si riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno, insomma, quello che di solito non fanno mai. Bene! Ma “stare con sé” è un’altra cosa.
Nel deserto il Battista predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati
Predicare: kerysso, vuol dire urlare, dire ad alta voce. La radice ker indica il cuore. Giovanni non fa catechesi, lunghi discorsi o omelie; i suoi sono messaggi semplici che partono dal cuore e che arrivano al cuore: messaggi brevi, appassionati, diretti e incisivi. Anche Gesù parlava così. Il messaggio non ci deve convincere: dobbiamo solo accettarlo perché ci tocca l’anima.
Il battesimo è di conversione per il perdono dei peccati.
Conversione è meta-noeo (“tornare indietro”) e indica il cambiamento di pensiero. Perdono (afiemi) indica il “lasciar andare, il liberare, il mandare via, il rimettere”. Peccato in ebraico è una freccia che non giunge al bersaglio.
Battesimo (in greco baptizein, immergersi) indica l’immersione nelle acque.
È la legge della vita: per conoscere Dio, la Vita, bisogna immergersi nelle acque che contengono la luce e la non luce (le tenebre). Bisogna confrontarsi con tutti i mostri interiori, che noi chiamiamo male, che tendiamo ad isolare, ad eliminare, a mettere in disparte e a non confrontarci.
Tutta la storia della salvezza è il tentativo di entrare dentro queste acque buie, tenebrose, di peccato, per confrontarsi con esse e uscirne, con l’aiuto di Dio, vittoriosi.
Il mondo non è un Eden meraviglioso ma un territorio dove dobbiamo accettare la nostra luce e la nostra non-luce, i nostri lati di splendore e i nostri lati oscuri, quelli di gloria e quelli di tenebra.
Anche gli Ebrei dovettero immergersi nelle acque del Mar Rosso, fare un lungo cammino, confrontarsi con tutta una serie di nemici per uscirne, con la presenza di Dio, vittoriosi.
Il cammino degli ebrei fu un cammino con grandi fedeltà, grandi luci, ma anche con grandi infedeltà e idolatrie, un cammino d’ombra. E dovettero percorrerlo fino in fondo, tutto, per arrivare alla Terra Promessa.
Anche Gesù si immerge nel Giordano. Anche Gesù è dovuto discendere in questo mondo di luce e di buio, di già e di non-ancora. Anche lui ha dovuto confrontarsi con il buio personale (le tentazioni), le tenebre del mondo e del male che lo ostacolavano, e che alla fine lo uccisero.
Anche noi il giorno del nostro battesimo usciamo dalle acque del fonte: da lì inizia il nostro cammino di confronto con la luce e il buio che vive dentro ciascuno di noi.
Siamo già figli di Dio, ma solo immergendoci, incontrando il non-ancora che ci fa paura, che respingiamo, che a volte demonizziamo, ma che ci appartiene, potremo diventarlo veramente.
Siamo un seme che può diventare pianta. L’opera è semplice e complessa: dobbiamo raddrizzare i nostri sentieri.
Non è forse vero che siamo aggressivi, crudeli? Non è forse vero che dentro di noi coviamo tanta rabbia, tanta superbia, tanto egoismo? Non è forse vero che dietro al nostro bel volto sorridente, dietro a tanto “Dio”, a volte c’è tutto questo?
E tutto questo “storto”, questo irrisolto, dove andrà a finire? Come agirà se lo lasceremo libero dentro di noi?
Come possiamo essere protagonisti della nostra vita con tutte queste scelte non fatte, con tutte queste vie non raddrizzate? Come possiamo essere figli della luce con tutto questo nascosto e questo buio dentro?
Ebbene, se accettiamo che la sua Parola scenda nel nostro cuore, se la facciamo crescere dentro di noi, se la facciamo diventare robusta, se la mettiamo in condizione di produrre fiori e frutta, allora vedremo la Salvezza. Allora vedremo emergere da noi il Figlio dell’uomo, ciò che siamo veramente, la nostra immagine originale, nella nostra bellezza pura, naturale, divina: perché quello che siamo ora non le assomiglia neppure lontanamente. Allora potremo ammirare faccia a faccia il Figlio di Dio. Allora tutto ci sarà chiaro: non avremo più dubbi o domande, perché quando si vede, quando c’è la luce, tutto appare luminoso! Allora nulla ci farà più paura, perché finalmente potremo vedere con i nostri occhi come stanno le cose: ci renderemo conto cioè che tutti (uomini, mondo, universo, bene e male) siamo nelle Sue mani, avvolti e riscaldati dal Suo dolce sguardo. E mentre noi siamo ancora occupati a perder tempo per conquistare chissà chi e chissà cosa, Lui sorride e ci protegge. 
Amen.


mercoledì 25 novembre 2015

29 Novembre 2015 – I Domenica di Avvento – Anno C


«Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo»( Lc 21,25-28.34-36).

Inizia il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale.
Sul piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. Non è un dato rituale, cronologico, tradizionale. E’ un fatto: Dio continua a nascere; Dio, dove c’è spazio e disponibilità, certamente verrà. Ecco allora che l’avvento non è tanto un periodo dell’anno ma una dimensione della vita, è la certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi: Dio, con la sua venuta in noi, vuole sorprenderci, meravigliarci; vuole portarci lontano, molto lontano dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche qui egli verrà in maniera apocalittica, da fine del mondo. Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo?”.
Il termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele (7,13-14). Per “Figlio dell’uomo” si intende un uomo comune che, partendo da condizioni umili, è chiamato a vivere qualcosa di grande, ha una missione importantissima, è in intimo contatto con Dio l’Altissimo.
Un particolare che ci deve rincuorare: perché anche noi non siamo certo molto “importanti”. Anche noi, tutto sommato, siamo dei perfetti “nessuno”. Eppure possiamo essere “Figli dell’uomo”. Anche per noi cioè c’è qualcosa di grande! Anche noi siamo grandi! Anche la nostra vita ha un senso profondo per noi e per il mondo. Certo il Figlio dell’uomo non nasce senza sconvolgimenti, senza “angoscia” e sconvolgimenti. Tutto ciò che è grande, vero e potente, ha un costo. E diventare noi stessi ha il costo più grande.
Se guardiamo all’investimento dal punto di vista di coinvolgimento, pericolo, esposizione, difficoltà, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se guardiamo a ciò che possiamo essere, allora ne vale proprio la pena; anzi di più: ne vale assolutamente la pena! Perché questa è la nostra vera libertà: diventare ciò che possiamo essere.
Poi il vangelo parla di vegliare, di non dormire (21,36), di non farci prendere dal sonno.
Gesù lo diceva in continuazione: “Tenete gli occhi aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi”. Perché se dormiamo, ad un risveglio improvviso, tutto ciò che ci succede intorno, sembra un tranello, un imprevisto: ma non è così.
Quante persone dicono di star male, di soffrire, di essere insoddisfatte. Ma cosa fanno per uscire dalla loro situazione? Alcuni dicono che “non hanno tempo; che è difficile, che è troppo impegnativo”: e continuano a dormire!
Altre persone, invece, dicono di voler cambiare. E si buttano a capofitto: frequentano tutti i corsi di catechesi, sono presenti a tutti gli incontri di spiritualità, in qualunque iniziativa sono sempre entusiasticamente in prima fila: ma poi, se si guardano dentro, sono sempre allo stesso punto, non fanno un passo in avanti. È come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, anche i cammini spirituali possono diventare una droga: ne facciamo tanti, a volte troppi, pensando che questo basti a renderci migliori. Talvolta succede anche, paradossalmente, che questi percorsi individuali di spiritualità, frequentati al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo miglioramento di noi stessi, diventino al contrario una fuga dalle nostre responsabilità, diventino un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle nostre parrocchie: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di perfezionamento in quell’altra parrocchia, in quel Centro di spiritualità; non posso mancare! Del resto quello che succede qui, è ben poco istruttivo, non mi attira, non vedo spiccare “carismi”, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli più impegnativi, più avanzati! Io sento di incontrare Dio solo in quelle specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella parrocchia, dove Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le nostre ispirazioni, non vuol dire che siamo svegli e nella giusta attesa della sua venuta.
Per questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).
A pensarci bene, allora, una grande forma di preghiera è il non prendere sonno, non dormire.
Il verbo “pregate”, infatti, (“deomai”), vuol dire anche “aver bisogno, necessitare, desiderare”. Quindi noi, “abbiamo bisogno di non prendere sonno”, di non alienarci, di non vivere in un mondo che non è il nostro, di non ubriacarci di chimere.
Non permettiamo che il nostro cuore prenda sonno e non provi più la gioia per le cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per il luogo dove Dio ci ha chiamati: non corriamo il pericolo che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire la Sua voce proprio in casa nostra, dove Lui ci ha chiamati e dove ci aspetta pazientemente.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, nella nostra normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, nella nostra Parrocchia, tra i nostri fratelli più vicini.
Perché quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro, non ci chiederà quanto conosciamo di lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto lo abbiamo cercato di qua o di là, in ogni angolo della terra; ma più semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in casa nostra, nella nostra comunità, per i nostri fratelli; su quanto siamo stati attivi nel farlo conoscere, amare, servire, insieme a noi, in quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha posto.
Amen.


mercoledì 18 novembre 2015

22 Novembre 2015 – Solennità di Gesù Cristo Re dell’universo

«Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,33-37).

Oggi la chiesa celebra la festa di Cristo Re. Il vangelo di Giovanni ci propone una scena del processo di Gesù: dopo il suo arresto e la consegna da parte del sommo sacerdote Caifa alle autorità romane, Gesù risponde ad una serie di domande che gli vengono poste da Pilato.
Interessante è qui sottolineare un particolare: Gesù è legato, ma in effetti è l’unico libero: tutti quelli che lo giudicano, apparentemente “liberi”, non legati, sono invece imprigionati tutti dalle loro paure.
Le autorità religiose sono infatti legate dalla paura di perdere i loro privilegi, la loro posizione. Anna e Caifa, le autorità religiose, sono terrorizzati dal potere di Gesù e dalla sua libertà. Gesù è un uomo pericolosissimo perché fa ragionare perfino le guardie che vanno da lui per arrestarlo. Un uomo che fa ragionare le persone, un uomo libero, è pericoloso perché non è controllabile da niente e da nessuno. Ogni potere si fonda infatti sul fatto che chi sta sotto deve credere a chi sta sopra; e quando questo non succede più, il potere di chi sta sopra crolla. Perché se chi sta sotto inizia a ragionare, a pensare diversamente, a vedere le cose da un altro punto di vista, questo mina il potere di chi sta sopra. Per questo Gesù è da eliminare.
La massima vittoria del potere è smettere di far pensare autonomamente quelli che stanno sotto. Quando chi sta sotto è ubbidiente, un semplice esecutore di ordini, un burattino, allora chi sta sopra può fare tutto.
Anche Pietro, che seguiva Gesù da lontano, è legato dalla paura di scegliere, ha paura di schierarsi, di prender una posizione chiara, di stare dalla parte “di Gesù”. E in certe situazioni il non schierarsi è condannare la verità.
Pilato stesso è legato dalla paura dell’opinione altrui: i capi religiosi portano Gesù nel pretorio, la sede di Pilato, ma non entrano per non contaminarsi, dovendo mangiare la Pasqua (Gv 18,28). Pilato è un pagano e loro, da bravi credenti, non entrano in luogo pagano.
Giovanni mette in luce l’ipocrisia di questa gente: “Stanno per condannare Gesù ma non entrano nel pretorio per non contaminarsi!”. Sembra dirci: “Attenti a quelli troppo devoti, troppo pii, a quelli che hanno troppa fede!”: esibire troppa bontà, spesso rivela il contrario: l’assenza, la carenza totale di bontà.
Quando gli portano Gesù, Pilato dice loro: “Che accusa portate contro questo uomo?”. E loro si sentono subito offesi: “Se non fosse un malfattore non te l’avremmo consegnato” (Gv 18,30).
Le persone super-religiose non si sentono mai in discussione: gli altri sbagliano, gli altri fanno male, gli altri sono cattivi, ma loro mai. Questi infatti vanno da Pilato e gli fanno capire a chiare lettere: “Noi l’abbiamo già condannato!”. Loro non possono sbagliare, loro sanno.
C’è un modo di ragionare talvolta così arrogante, come in questo caso, che invece di contribuire a farci cambiare opinione, a farci rivedere il nostro parere, a farci evolvere, a farci ricredere, in una parola invece di aiutare a “convertirci”, contribuisce solo a rinforzare in noi la presunzione di stare nel giusto.
Allora Pilato dice loro: “Prendetelo e giudicatelo secondo la vostra legge(Gv 18,31). Pilato ricorda a questa gente che non si può accusare qualcuno senza prima averlo ascoltato. E questi gli rispondono: “A noi non è consentito di mettere a morte nessuno” (Gv 18,31-32). Eccoli qua! Non portano Gesù da lui per processarlo ma per ammazzarlo. “A noi non è permesso mettere a morte nessuno!”. Per ottenere da Pilato il verdetto di morte, lo ricattano minacciandolo di inadempienza nell’esercizio della giustizia. Una falsa accusa che, se riferita a Cesare, poteva compromettere la sua posizione: e questo lo induce ad accogliere la loro richiesta.
Prima però, e da questo punto inizia il vangelo di oggi, Pilato entra nel pretorio, chiama Gesù e gli dice: “Tu sei il re dei Giudei?” (Gv 18,33). Pilato sa già che i capi religiosi accusano Gesù di essere un rivoluzionario.
Ma Gesù ama tutti, anche Pilato: per questo gli chiede di ragionare con la sua testa: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Cioè : “Sei tu che lo pensi o sono gli altri che pensano in te? Ti fai influenzare dagli altri?”. E Pilato di contro: “Sono forse io Giudeo!”. Cioè: “Non sono giudeo! Io non penso come la tua gente”. Ed è vero: non pensa come loro ma si lascerà condizionare dal loro giudizio. Pilato può liberare Gesù, ma ha paura di quello che potrà pensare e fare la gente.
L’unico uomo che ha realmente potere, Pilato, è l’uomo più legato e imprigionato.
E qui c’è una frase tremenda: “La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me: che cosa hai fatto?” (Gv 18,35). Gesù portava un Dio diverso, un Dio nuovo. Per questo era pericoloso. Il vangelo, la buona novella, non è stata rifiutata perché era buona ma perché era nuova. Le persone preferivano credere al vecchio (anche se era disumano) piuttosto che accettare il nuovo cambiamento e la nuova immagine di Dio.
Allora Gesù chiarisce le cose: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36).
Cosa gli dice Gesù? “Il mio regno non ha nulla a che vedere con i regni di quaggiù. I regni di quaggiù hanno soldati, servitori e armi; e i potenti si fanno servire. Ma nel mio regno più uno è potente, grande, e più lui si mette a servire, non a farsi servire”. Nel regno umano la gente chiede: “Cosa fai tu per me?”. In quello divino: “Cosa posso fare io per te?”.
Nel regno umano: “Mi ami? Mi vuoi bene? Perché non me lo dici mai?”. In quello divino: “Io ti amo; ti voglio bene; io ci sarò sempre per te; e tu potrai venire sempre da me!”.
Nel regno umano: “Mi aiuti? Perché non mi aiuti?”. In quello divino: “In cosa ti posso essere di aiuto?”. Nel regno umano: “Non ci sei mai! Mi trascuri!”. In quello divino: “Esci con me? Mi piacerebbe invitarti a mangiare con me. Ti va?”. Nel regno umano: “Tu non mi hai mai dato nulla”. In quello divino: “Sento quanto mi ami; riconosco il tuo aiuto; grazie per tutto quello che hai fatto per me; ti sarò sempre riconoscente”.
Nel regno umano la gente chiede, pretende, vuole e si aspetta dagli altri. Nel regno divino, invece, la gente si propone, si offre e si mette a servizio.
Allora Pilato gli dice: “Dunque tu sei re?” (Gv 18,37). E Gesù: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Gesù è il re della verità, ma di quale verità? La verità di Dio.
Gesù manifesta la verità di Dio: Dio non è colui che chiede, che vuole, che s’indigna o s’arrabbia, ma colui che si mette in ginocchio davanti agli uomini e lava loro i piedi. Dio non chiede, Dio dona. Dio non vuole l’amore, Egli viene a portare il suo.
Questo era inaccettabile per i religiosi del tempo: se l’uomo è amato da Dio, loro, i sacerdoti e le autorità del Tempio, a cosa servono? Se l’uomo ha libero accesso all’amore di Dio, perché andare al Tempio per il perdono dei peccati? Se Dio ti ama al di là di tutto, perché rispettare tutte le 613 regole religiose? Se è Dio che ama, a che serve il culto?
Tutto questo non poteva essere accettato dalle autorità religiose del tempo perché scardinava alla base le loro strutture, perché in questo modo loro perdevano di senso. Per questo Gesù deve essere ucciso.
Gesù dice: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Noi avremmo detto il contrario: “chi ascolta la voce di Gesù è nella verità”. Cosa vuol dire esattamente Gesù? Verità (aletheia) vuol dire “togliere il velo”. La verità è quella cosa che ognuno deve scoprire da solo: deve tirare su il velo e vedere cosa nasconde sotto. Magari non è come lui pensava, magari non è come voleva, magari lo costringe a cambiare vita, magari lo sconvolge, magari è difficile da accettare, magari è dolorosa. Ma è la verità.
Per ascoltare Gesù, bisogna avere questa capacità, essere disponibili a non mettere “filtri”, a non anteporre continuamente le nostre vedute alla verità.
Per ascoltare Gesù, portatore di verità, dobbiamo avere il coraggio di affrontare la verità, di essere pronti cioè a scoprire, a vedere, ad affrontare ciò che si cela dietro la nostra facciata di perbenismo, qualunque cosa essa nasconda. Altrimenti di Gesù accetteremo solo ciò che vorremo accettare, solo ciò che ci piacerà o ciò che è conforme alle nostre idee.
E Pilato chiede: “Che cos’è la verità?” (Gv 18,38). A lui non interessa nulla della verità: cerca solo di menar il can per l’aia. E se ne lava le mani. Pilato non accetta la verità; egli agisce seguendo il suo credo: delle verità giudee, a lui non interessa proprio nulla. Per due volte dice: “Io non trovo in lui nessuna colpa” (Gv 18,38; 19,6) e cerca di liberarlo (Gv 19,12). Un paradosso: Lui, che non vuole sapere, che non vuole “aprirsi”, Lui conosce perfettamente la verità: Gesù è innocente. Ma la sua cecità, la sua ignavia, il suo tornaconto, avranno il sopravvento su di lui: si arrenderà, se ne fregherà della verità, e lo consegnerà in mano ai Giudei.
Ebbene: cosa ci dice oggi questo vangelo? Che Gesù fu un uomo libero: e che se vogliamo essere felici, dobbiamo essere “liberi” anche noi.
Per molte persone, banalmente, la libertà consiste nel fare ciò che vogliono, nel seguire i propri istinti, nell’ignorare la volontà degli altri; è “libero” chi mostra i muscoli, chi esibisce la sua forza, chi è franco e dice le cose in faccia: ma tutto questo, scusate, non vuol dire essere “liberi”; vuol dire semplicemente essere aggressivi. Questa gente non è libera: ma giustifica il proprio comportamento, la propria forza, la propria “pseudo sincerità”, la propria franchezza, solo per legittimarsi, per essere cioè “liberi” di ferire il prossimo, di comportarsi come meglio crede: ma questa non è libertà, è sopraffazione!
Per il vangelo, libertà è vivere nella verità: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Ciò significa che noi diventeremo liberi solo se scopriremo chi siamo realmente, solo facendo verità su di noi stessi. La libertà è un cammino, è un processo dinamico. E più diventeremo liberi, più diventeremo sovrani, re, padroni della nostra vita. Ogni verità, che scopriremo dentro di noi, ci renderà sempre più liberi; e ogni libertà ci renderà sempre più felici.
Amen.

mercoledì 11 novembre 2015

15 Novembre 2015 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,24-32).

Il vangelo di oggi è uno di quei testi che viene preso come l’annuncio della fine del mondo. Ci sono dei gruppi, come i testimoni di Geova o i gruppi religiosi apocalittici, che parlano moltissimo di “prepararsi”, di “vegliare”, di “essere pronti”, di “fine del mondo”, vedendo segnali premonitori in ogni dove.
Ma questo passo del vangelo, come tanti altri dello stesso tenore, non alludono affatto alla fine del mondo. Parlano della fine di “un mondo”, è vero;  ma non della fine “del mondo”.
Penso che il bisogno di attaccarsi alla “fine del mondo” risponda soltanto ad una loro esigenza interiore, inascoltata, di far finire un loro mondo, a cui sono molto attaccati e da cui non riescono a staccarsi. Sperano che accada dal di fuori , e dall’alto, ciò che loro non riescono a fare personalmente nel loro intimo.
Bene: il testo di oggi inizia dunque col v. 24 del capitolo 13 di Marco. C’è un antefatto: al primo versetto dello stesso capitolo un discepolo, uscendo con Gesù dal tempio, gli dice: “Maestro guarda che pietre e che costruzioni” (Mc 13,1): di fronte a tanta bellezza, a tanta maestosità e potenza del tempio di Jahweh, il poveretto rimane rapito. Non per nulla tutti erano convinti che se Gerusalemme si fosse trovata in difficoltà, Dio sarebbe intervenuto in prima persona proprio lì, nel tempio, per salvarla.
Ma Gesù gli risponde: “Vedi queste grosse costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non venga distrutta” (Mc 13,2). E più avanti, ribadendo il concetto, dice: “Ciò sarà il principio dei dolori” (Mc 13,8): in realtà il testo greco dice: “sarà il principio delle doglie”; cioè: sarà doloroso, come il partorire, ma che Gerusalemme venga distrutta, è un bene, è un fatto positivo, poiché questo tempio impedisce la comunione tra Dio e gli uomini.
Già dall’inizio del capitolo 13 si parla quindi di cadute di elementi ritenuti simboli di certezze, elementi indistruttibili. “Infatti sorgeranno falsi cristi e falsi profeti i quali daranno segni e prodigi per sedurre, se possibile, gli stessi eletti (Mc 13,22). È un avvertimento.
Ma vediamo cosa segue subito dopo. Gesù (siamo al vangelo di oggi), prosegue:
“In quei giorni, dopo quella tribolazione (cioè la distruzione del tempio) il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,24).
Cosa vuol dire qui Marco? Egli utilizza semplicemente delle espressioni dell’Antico Testamento, in cui il sole, la luna, gli astri erano oggetti di culto, venivano adorati dalla gente.
Noi, quando parliamo di religione ebraica, pensiamo subito ad una religione rigidamente monoteista, una religione cioè che adorava un unico Dio. Ma se andiamo a vedere non è stato sempre così: all’inizio anch’essi credevano nel sole, nella luna e in tante altre divinità; soltanto con il tempo sono arrivati a credere in un solo Dio. C’è stato, cioè, nel corso dei secoli un lungo processo di purificazione, anche se in certi periodi la religione politeista cananea riprendeva il sopravvento.
Allora cosa sono questi “astri” che cadranno dal cielo? Qui, lo ripeto, la fine del mondo non c’entra niente: nessuna calamità, nessun giudizio, nessun sconvolgimento cosmico. Lo sconvolgimento e la catastrofe riguardano solo le entità celesti (gli dei) che abitano nei cieli, non la terra.
In altre parole, tutte queste divinità pagane sono destinate a cadere giù definitivamente: un certo tipo di religione pagana finisce, perde il suo splendore e l’idolatria entra in crisi. Ma prima è necessario che “il vangelo sia proclamato a tutte le genti” (Mc 13,10). Cioè: quando il vangelo sarà accolto da tutti, queste divinità pagane finiranno, perché di fronte al vangelo tutta questa religiosità scompare.
Ecco perché “gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,25: il verbo indica un cadere continuo): non è una pioggia di asteroidi, di stelle, di pianeti, ma semplicemente la caduta progressiva e inarrestabile delle divinità celesti di quel tempo; inoltre anche i potenti, i principi, i re, cioè tutte quelle persone che si ritenevano “divine”, di fronte all’annuncio e all’espansione del vangelo, subiranno la stessa tragica fine .
Per capire ancora meglio dobbiamo riferirci al profeta Isaia: “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli?” (Is 14,12).
Questo “astro del mattino” (identificato con Lucifero, precipitato dall’alto dei cieli) altri non era che il re di Babilonia, che si arrogava il rango divino, era “salito in cielo” diventando, oggi diremmo, una vera “star”, era cioè convinto di essere Dio, una divinità. E cosa dice Isaia di lui?
“Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio, innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi (=sotto terra), nelle profondità dell’abisso” (Is 14,13-14); il potente re di Babilonia, che si credeva un Dio, è finito anch’egli in una tomba (lett. nell’Ade/Sheol, nel regno dei morti)! Così sulla tomba di Alessandro Magno hanno scritto: “Basta questa terra (un metro per due!) all’uomo a cui non bastava il mondo”. Ecco dov’è finita tutta la sua potenza!
Dunque: “le potenze nei cieli saranno sconvolte” (Mc 13,25). Sono tutte queste pseudo divinità (potenti, governanti, false divinità, ecc.) che finiranno saranno sconvolte!
“Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26). “Venire sulle nubi”: le nubi non sono il mezzo di trasporto di Dio, ma indicano la realtà di Dio, come avviene nella trasfigurazione in cui nella nube la voce dice:  (cfr. la nube della trasfigurazione e la voce: “Questi è il figlio mio prediletto” (Mc 9,7). Cioè: gli “astri” cadono, mentre il Figlio dell’uomo “sale”.
Qui c’è una regola valida in ogni tempo: ogni volta che cade un regime ingiusto, un potere disumano, la dignità, l’Uomo, si afferma (il Figlio dell’uomo = la vera umanità). Ogni caduta di un sistema oppressore o di un’idea iniqua, qualunque esso od essa sia, è una liberazione per l’uomo.
Allora non c’è una venuta fisica del Figlio dell’uomo: ma è il risplendere di Dio in noi, nella nostra cultura, nella nostra società, nelle nostre relazioni, nel nostro vivere personale e sociale.
“Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino alle estremità del cielo” (Mc 13,27).
“Manderà gli angeli”: chi sono questi angeli? Per Marco è addirittura una persona, il Battista: “Ecco, io mando il mio “ànghelon”, il mio messaggero, davanti a te” (Mc 1,2). Per cui gli angeli sono quelle persone che diventano “messaggeri” di pienezza di vita; sono i messaggeri umani di Dio. L’angelo non trasmette una dottrina ma un’esperienza: questi angeli non sono quindi nient’altro che le persone che hanno già conosciuto, che hanno già sperimentato Dio.
Saranno essi che “riuniranno gli eletti” (Mc 13,27), riuniranno cioè tutti coloro che hanno vissuto per il bene dell’uomo. Cioè: mentre le potenze dei cieli (gli oppressori), coloro che hanno combattuto contro la Vita, cadranno, tutti quelli che hanno combattuto per la Vita verranno fuori e vivranno.
Concludo: cosa può dire a noi questo vangelo?
Dobbiamo saper valorizzare ciò che ci succede, sia esso un dramma, una tragedia oppure un’occasione da non perdere, altrimenti in nessun altro modo avremmo potuto fare ciò che non volevamo o temevamo di fare.
Cadono il sole, la luna, gli astri: crollano cioè tutti i nostri punti di riferimento; può sembrare la fine, ma al contrario può essere la venuta del Figlio dell’uomo in noi, cioè la nascita di una parte di noi molto più vera, una parte di noi che altrimenti, in nessun altro modo avrebbe potuto nascere.
Noi tentiamo di controllare tutto: decidiamo, pianifichiamo, progettiamo, facciamo delle previsioni, dei sogni, cerchiamo di raggiungere sempre ciò che ci proponiamo, per i nostri sogni impieghiamo tutte le nostre energie, ecc. Bene: ma in tutto questo, dove mettiamo Dio? Dov’è il suo spazio di azione? Se decidiamo tutto noi, Lui come può agire?
Proprio per questo Dio si trova nell’imprevisto, in ciò che non ci aspettiamo, nelle sorprese. Perché questo è l’unico spazio che gli rimane per agire, visto che noi decidiamo e pianifichiamo sempre tutto. E se Dio volesse farci capire qualcosa che non vogliamo capire, in quale altro modo potrebbe farlo, se non sorprendendoci, se non dandoci qualche sberla per farci pensare?

Allora, quando tutto ci va bene, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando tutto crolla, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è l’amore, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è il rifiuto, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è la vita, viviamola e ringraziamo Dio. Quando la morte ci tocca da vicino, viviamola e ringraziamo comunque Dio. Viviamo insomma ogni istante della nostra vita, ringraziando Dio per quell’istante. Amen.