giovedì 14 febbraio 2013

17 Febbraio 2013 – I Domenica di Quaresima

«Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13).
Con il mercoledì delle ceneri abbiamo iniziato il tempo di quaresima, i quaranta giorni, cioè, che ci conducono alla Pasqua. Perché proprio quaranta giorni? Perché questo è nella Scrittura il periodo di tempo necessario per il raggiungimento di un obiettivo, di una trasformazione, di un passaggio da una situazione ad un’altra. È chiaro allora che per noi cristiani la quaresima, più che i 40 giorni che precedono la Pasqua, deve essere un sistema, uno stile di vita; per noi, “quaresima”, è quel tempo che ci serve per rialzarci, per fortificarci di fronte ad una situazione spirituale un po’ compromessa; è quel tempo in cui camminiamo, cresciamo, fatichiamo, piangiamo, lavoriamo; è il tempo di “conversione”, del ritornare sui nostri passi e del rimetterci nella giusta carreggiata facendo una inversione di marcia; è quel tempo in cui dobbiamo riconoscerci deboli, inadatti, insufficienti, non potendo prescindere da Dio. Noi spesso pecchiamo di una autostima eccessiva, ci consideriamo immuni da ogni debolezza, tetragono a qualunque tentazione: ma nel cammino della vita la verità è un’altra. Tutti dobbiamo fare i conti con le nostre debolezze, con il nostro egoismo, con la nostra superbia, tutti dobbiamo affrontare i nostri “mostri”; tutti insomma dobbiamo fare il nostro percorso quaresimale, se vogliamo ricongiungerci a Cristo nostra Pasqua. Ricordiamocelo, fratelli: chi non compie il proprio “esodo”, chi non oltrepassa il suo Mar Rosso, non potrà neppure incamminarsi verso la libertà; chi non percorre il deserto della propria quaresima non potrà mai raggiungere la Terra Promessa, le acque sorgive e limpide della Pasqua.
Anche Gesù ha percorso il cammino della quaresima, del deserto. E il vangelo di oggi, parlando appunto delle tentazioni da Lui subite, ce ne chiarisce le modalità, le caratteristiche, la tempistica. Il maligno attacca proprio in quei momenti in cui ci sentiamo più forti, più difesi, più “tranquilli”, come è successo a Gesù: Egli infatti ha appena ricevuto il battesimo, è il momento in cui si sente più amato dal Padre, in cui è “pieno di Spirito Santo”, e proprio allora arriva la tentazione di Satana: subdolo, calcolatore, sempre all’erta, sempre pronto all’azione. L’importante è non arrendersi mai, non aver paura; dobbiamo esorcizzarle queste “tentazioni”, fratelli; dobbiamo guadarle in faccia, cercare di capirne il contesto, le movenze. Se non possiamo evitarle, dobbiamo almeno combatterle a fronte alta, senza tentennamenti o indolenze. La vita, il mondo in cui viviamo, la società, è il nostro “deserto” naturale, il luogo della tentazione, la zona operativa del “serpente tentatore”, il luogo in cui veniamo messi alla prova. “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e per metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore” (Dt 8,2). Ecco questo è il punto: quaresima, deserto, tentazioni, non fanno altro che metterci di fronte alla nostra realtà, alla nostra coscienza, all’autentica nostra essenza. Nudi, senza fronzoli, maschere, infrastrutture di comodo, abbellimenti ad uso esterno.
In greco “tentare” (peirzein), significa infatti “provare”, “verificare”. La tentazione ci verifica, ci illumina, fa luce, ci rivela impietosamente la verità su di noi, su come siamo, su cosa abbiamo veramente dentro il nostro cuore; ci dice, insomma, chi siamo noi di fronte a Dio e al prossimo.
Tutti i grandi profeti e i grandi personaggi biblici sono stati tentati; come pure tutti i santi di questo mondo: la tentazione non è quindi un incoraggiamento a fare del male, ma la verifica delle nostre forze, l’autenticazione della nostra vera identità, della nostra personalità.
Una certa morale restrittiva del passato ci ordinava: “Attenzione, dovete evitare assolutamente le tentazioni!”. E così la gente si sentiva in colpa anche solo se veniva sfiorata dal pensare ad un'altra donna, se provava qualche naturale impulso cattivo di odio o di rabbia. “Sono cose gravi che non si devono fare”, ci diceva, “e guai a chi le fa!”. Ma le tentazioni, fratelli, non dipendono da noi, non le possiamo evitare. L’importante è non aderirvi. Del resto tutta la vita è una tentazione: è un banco di prova, un tester, che ci rivela impietosamente la tenuta delle nostre convinzioni, la profondità delle nostre radici; ci segnala i valori sui quali possiamo contare con sicurezza; ci documenta sulla sincerità e autenticità della nostra fede.
Le tentazioni pertanto devono tenerci umili, devono fugare tutte quelle velleità del nostro ego, basate sulla eccessiva considerazione di noi stessi. Il vero male è la nostra innata superbia, non le tentazioni. Assecondarle, criticando gli altri con supponenza, sparando giudizi velenosi, facendo paragoni antipatici, significa assecondare il nostro orgoglio, significa minare alla base non solo la nostra fede, ma anche quella di chi ci sta vicino. Sono situazioni con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente. Ci sentiamo delusi dai nostri preti, dai nostri superiori, in famiglia? Non ci sentiamo valorizzati, considerati, compresi? Immediatamente una voce ci suggerisce: “A che serve credere, a che serve frequentare questa comunità, a che serve darsi da fare, essere fedele, se poi chi ci dovrebbe insegnare, chi dovrebbe guidarci con il buon esempio, chi dovrebbe aiutarci, confortarci, capirci, si comporta così male con noi?” Oppure: “Quel prete non ci piace; inutile andare in quella chiesa; non ci andiamo più e basta! Preferiamo, per un maggior profitto spirituale, andare in quell’altra Chiesa, frequentare quell’altra parrocchia; perché lì troviamo tanta pace, c’è un prete veramente in gamba!”. Eccola la tentazione: è veramente il “profitto spirituale” che ci fa muovere, o il nostro orgoglio “ferito”? Perché, fratelli, a monte di tutto, c’è sempre il nostro “ego”: noi valiamo, siamo i più preparati, potremmo fare cose eccelse, potremmo far resuscitare una comunità “moribonda”, solo se “qualcuno” ci desse credito! e ci convinciamo, ci illudiamo, ci caschiamo dentro in pieno. Vale la pena allora, nel nostro “deserto”, domandarci sinceramente: “tutta qui la grande fede in Dio che mi pavoneggio di ostentare davanti a tutti”? Inganno: è bastata una semplice contrarietà per farci scappare, un piccolo disappunto per farci abbandonare tutto; è bastato che uno non ci piacesse, che uno non facesse come noi avremmo voluto, per abbandonare la nostra vocazione, la nostra missione, piantare tutto. Che fine hanno fatto la preghiera, la sopportazione, la sofferenza, la carità? Un bagno di umiltà ci aspetta, fratelli: percorriamo con grande compostezza e obiettività il nostro “deserto” quaresimale! Dicevamo di avere una solida fede, ma poi si è rivelata una montatura a beneficio degli altri: non fede profonda, convinta, ma orgoglio travestito da religiosità. Ecco, fratelli; la “quaresima” della vita, con le sue prove, con le sue tentazioni, deve farci capire cosa abbiamo veramente dentro di noi: perché il tempo passa, lo scorrere vertiginoso dei giorni non si arresta: è necessario quindi percorrere ancora una volta questo nostro cammino quaresimale. Non possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo agire.
Il vangelo dice che Gesù fu spinto nel deserto e non mangiò in quei 40 giorni: Gesù dunque è spinto dalla Spirito nel “deserto”. Perché? Perché nel deserto si è soli, non c'è nessuno e niente altro. Nel deserto siamo solo noi, di fronte a noi stessi, con la nostra coscienza, con ciò che siamo veramente. Ed è proprio lì che dobbiamo riprendere la nostra vita in mano, è lì che dobbiamo fortificare la nostra fede, le nostre decisioni. Come? “Digiunando”.
Purtroppo oggi non capiamo più il senso profondo del digiuno: per questo non lo pratichiamo. Pensiamo che digiunare corrisponda solo a limitarci nel cibo. Ma il digiuno, quello autentico, non consiste tanto nell’astenerci dal mangiare carne o in alternativa nel sacrificarci per chissà quale iniziativa filantropica, o nel privarci di qualche soddisfazione materiale. Certo, sono cose buone anche quelle. Ma “digiunare” vuol dire “fare verità” su noi stessi. Vuol dire scrutarci dentro, riesumare la nostra autenticità, specchiarci con serenità e sincerità nella nostra anima, e individuare le vere tentazioni della vita. Noi abbiamo paura di guardarci dentro: siamo pieni, zeppi di “anestetici” che smorzano le nostre voci interiori. Come nella vita normale. Se non dormiamo prendiamo i tranquillanti. Se andiamo facilmente in ansia, assumiamo “alcune gocce” per calmarci. Se siamo “troppo eccitati”, con dei tranquillanti torniamo a poterci gestire. Ci droghiamo o eccediamo nell’alcool per eliminare il disagio che proviamo dentro, pensando in tal modo di calmare le nostre tensioni. Perché la cocaina è così diffusa e in continuo aumento? Perché aumenta sempre più il numero di quelli che cercano di dare una parvenza di felicità alla loro esistenza infelice, disperata. Ci rimpinziamo di cibo per non percepire la fame d'amore che bussa dentro di noi. Ci buttiamo nel lavoro per dare importanza e senso ad un'esistenza che altrimenti non avrebbe senso. Abbiamo bisogno ogni giorno di cambiamenti, di novità, di sesso, di provocazioni, per eccitare una vita evidentemente sterile e piatta. Abbiamo bisogno di parlare sempre, siamo dei parolai, dei logorroici, un fiume in piena, che cerca di affogare nelle parole le urla disperate del nostro cuore.
Cosa succede quando dobbiamo “digiunare”, fare silenzio, quando dobbiamo stare soli con noi stessi, senza chiasso, senza rumori, senza radio né televisione? Succede che tutto quello che cerchiamo di nascondere, improvvisamente esce fuori! Tutti i mostri che abbiamo dentro escono allo scoperto e sembrano sbranarci. Ci vediamo finalmente nella nostra più completa nudità. E questo non ci piace. Non vogliamo vederci così. Niente “deserto”, niente “digiuno”, niente “quaresima”.
Eppure, fratelli miei, quella è la strada; di là dobbiamo andare; è là che dobbiamo necessariamente fare i conti con noi stessi. È Dio che lo vuole. Se non affrontiamo i nostri demoni interiori, continueremo ad essere sempre in loro balìa. È una questione di libertà. È inutile che ci illudiamo pensando: “Io sono tranquillo! Non ho di questi problemi; non ho rabbia dentro di me. Sono felice, soddisfatto delle mia vita, in pace con me stesso”. No, amici miei; se pensiamo questo vuol dire che non ci conosciamo! È Satana che si diverte a crearci queste illusioni; il suo mestiere è quello di distoglierci dalla realtà, di farci evadere da noi stessi e dalla nostra coscienza. Cerca di insinuarci il miraggio dell’essere “diversi”, del non essere come tutti gli altri: ci fa vedere quello che non esiste, ciò che è irrealizzabile. Ma a noi tutto questo piace, ci piace così tanto da crederlo vero: siamo stregati da questa illusione, la ammiriamo, la inseguiamo, orientiamo tutta la nostra vita nella sua direzione. E poi quando ci accorgiamo che è solo una chimera diabolica, che non esiste nulla di ciò, che con tanto impegno abbiamo vanamente inseguito, allora ci sentiamo falliti.
Ecco: la quaresima ci insegna ad evitare proprio questo.
Il vangelo si conclude infine con l'annotazione che “esaurita ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù per tornare al tempo fissato”. Qual è questo “tempo fissato”? È l’oggi, ovviamente; è il tempo in cui viviamo; la prova, la tentazione non si è fermata a Gesù; è ritornata, ritorna e ritornerà ancora, continuamente, finché ci saranno uomini su questa terra. Sarebbe infatti troppo bello dire: “Abbiamo superato la prova, ora finalmente siamo a posto”. Non lo siamo proprio per niente: a livelli sempre diversi, con intensità e difficoltà variabili, per tutta la vita saremo sempre messi alla prova. Ed è bene che sia così; perché ogni prova, se superata, contribuisce a radicarci sempre più nell’amore di Dio.
La più grande tentazione dell’uomo è quella di ignorare la “tentazione”; evita cioè di misurarsi continuamente con le difficoltà e le avversità della vita, rincorrendo l’effimero, il superficiale. Potrebbe sembrare una soluzione, ma non lo è. Purtroppo, fratelli, il deserto è lì davanti a noi e non può essere evitato: dobbiamo attraversarlo, combattendo e “digiunando” per tutto il tempo che serve.
Un pensiero deve però consolarci e darci fiducia: nessuna “tentazione” diabolica in sé può farci male: potrà farci soffrire, questo sì, ma gli unici artefici del nostro male siamo noi, quando acconsentiamo alle sue lusinghe. Ma “si nobiscum Deus, quis contra nos?” Se Dio è con noi, chi potrà mai sopraffarci? Radichiamoci dunque nel mistero di Dio, affidiamoci alla sua onnipotente bontà. E affrontiamo fiduciosi e convinti la nostra “quaresima”. Amen.
 

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